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Prove tecniche di regime.

Doppio arzigolo carpiato con avvitamento a destra per la privatizzazione del Pnrr.

“Se qualcuno dice ‘vuoi togliere il controllo concomitante sulle amministrazioni pubbliche?’ la risposta è fermamente no, ma se mi dici ‘sul Pnrr ritieni che la disciplina dei controlli possa essere rivista, assegnando una primazia ai controlli comunitari rispetto ai controlli nazionali, la risposta è sì, ma non perché non vogliamo controlli ma perché vogliamo che i controlli siano i controlli comunitari che consentano, loro sì, una omogeneità di visione perché vengono fatti a consuntivo e non in corso d’opera.

Anche perché talune difficoltà legate al Regis (la piattaforma dove le pubbliche amministrazioni inseriscono i dati sui progetti del Pnrr) possono aver indotto determinate relazioni di controllo a uscire con dati non sempre correttissimi, o magari non aggiornati all’ultimo minuto. Poi magari la polemica mediatica fa tutto il resto”.

Chi parla è tale Federico Freni della Lega, sottosegretario al Mef che, come tutti i componenti del governo, è impegnato a mettere fuori controllo i piani di attuazione del Pnrr, invece che fare di tutto per stare nei tempi per accedere regolarmente alle nuove rate di finanziamento.

Una vera e propria vergogna politica e istituzionale, un capovolgimento dei veri motivi delle inadempienze verso gli obblighi previsti per la gestione dei fondi comunitari.

Cercano il colpevole della loro inettitudine nella magistratura contabile, per creare le condizioni che favoriscano la gestione dei fondi da parte di privati e senza controlli.

Vogliono solo “privatizzare” il Pnrr, trasformandolo in un veicolo di consenso verso i soliti potentati, invece che di crescita per uscire dalle strettoie economiche post pandemiche.

Come sempre, alla borghesia italica importa solo il tornaconto immediato, piuttosto che le strategie di crescita; compra privilegi come buoni contro termine; preferisce privilegi oligarchici e corporativi in cambio della sovranità delle regole costituzionali, della correttezza istituzionale.

Ai liberali, intrisi di liberismo, non dispiace l’autoritarismo, se supporta il capitalismo, togliendo di mezzo ogni intermediazione delle istituzioni democratiche. Compresa la Corte dei Conti.

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Attualità Leggi e diritto Movimenti politici e sociali

“Siamo tutti sullo stesso autobus”.

In cinque domande, il perché dello sciopero del 5 dicembre, che il Prefetto di Roma ha differito ad altra data.

Roberto Cortese guida gli autobus a Roma, è impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori del trasporto pubblico, è un dirigente dell’Usb, il sindacato di base che a Roma è capace di avere altissimi livelli di adesione agli scioperi.

Roberto Cortese ha 58 anni, 29 dei quali spesi in Atac, l’azienda municipalizzata del trasporto pubblico del Comune di Roma (“Quando sono entrato in Atac il sindaco era Giubilo, di lì a poco scoppiò “Tangentopoli” e Roma fu commissariata”).
È sposato, ha due figlie di 29 e 22 anni. La famiglia Cortese vive a Castel Madama, un comune di 7.500 abitanti lungo la valle dell’Aniene. Per andare a lavorare al deposito dell’Atac dove è in forza, Roberto Cortese prende tre mezzi pubblici: una corriera, la metropolitana e un autobus che infine lo porta al suo luogo di lavoro, il Deposito di Portonaccio, sulla Tiburtina. Da lì ogni giorno prende servizio su un autobus come autista. A fine turno, percorso inverso: autobus, metro, corriera. E’ un uomo gentile, sorridente, con un delizioso accento regionale. E’ come se il cognome gli si addicesse alla perfezione. Cortese è a tutti gli effetti un dipendente e contemporaneamente un passeggero di mezzi pubblici.

D. Cortese, lo sciopero del 5 dicembre è stato precettato. Cioè, il Prefetto di Roma, la dottoressa Basilone, ne ha ordinato il differimento ad altra data. Un sindacato che riesce a organizzare scioperi con alto consenso nella categoria viene indicato all’opinione pubblica come un pericolo per i cittadini. Come mai?
R. La precettazione è solo propaganda. La situazione politica generale del Paese esprime sempre più spesso l’idea che lo sciopero sia uno strumento di comodo per fannulloni, un pericolo per il servizio ai cittadini, addirittura un sabotaggio contro le amministrazioni comunali. Siamo di fronte a un attacco frontale a un diritto dei lavoratori: lo sciopero è uno strumento di difesa legittimo, costituzionalmente garantito. Nel trasporto pubblico, inoltre, gli scioperi vanno al vaglio di un organismo di garanzia che ne certifica la legittimità. Con la precettazione, un organo pubblico contraddice un’altra istituzione. Queste misure sembrano le fermate a richiesta: qualcuno suona e lo sciopero si deve fermare. I lavoratori non stanno giocando. Personalmente, ogni sciopero mi costa 80 euro. E vi assicuro che chi guida un autobus a Roma non naviga certo nell’oro.

D. Però gli scioperi sono tanti. Non sono troppi?
R. Il problema è che sono pochi i mezzi pubblici, hanno una pessima manutenzione, il trasporto pubblico è stato di anno in anno finanziato sempre meno, in parte dato ai privati. L’unica cosa che è aumentata è il disagio dei dipendenti e degli utenti. Invece che innalzare la qualità del servizio pubblico, sono aumentati i biglietti. Sono le aziende che ignorano le rivendicazioni dei lavoratori. Questo i sindaci non dovrebbero permetterlo. La precettazione è una toppa che non copre il buco. Appare anche un atto di intromissione autoritaria nelle vertenze sindacali. È grave non sentire neanche una parola da CGIL, CISL e UIL, per esempio.

D. I cittadini se la prendono con voi: siete scortesi, menefreghisti, trasportate persone come fossero cose da sballottare. E poi fate pure sciopero.
R. Ogni servizio al pubblico che non funziona come dovrebbe attira le giuste ire di chi avrebbe invece il sacrosanto diritto di muoversi in città comodamente.
Noi al volante siamo la rappresentazione fisica del pessimo servizio. Siamo facili obiettivi di giuste rimostranze. Il fatto è che siamo vittime della pessima gestione aziendale e contemporaneamente nel mirino del risentimento del pubblico. Mi piacerebbe si capisse che su quei mezzi noi ci passiamo ore, la nostra giornata lavorativa, tra passeggeri incazzati, traffico impazzito e mezzi vecchi, pieni di guasti, che addirittura s’incendiano. Siamo tutti sullo stesso autobus. Sarebbe come se un operaio, un impiegato, uno studente lavorassero o studiassero in un ambiente fatiscente, con tutti intorno che lo incolpano. Noi lottiamo per un buon servizio pubblico perché siamo cittadini come chi sale a bordo. Ma anche perché abbiamo il diritto di lavorare in condizioni professionali adeguate alle nostre responsabilità.

D. Ma sembra che le cose non migliorino affatto. Che scioperate a fare?
R. Se invece che criminalizzare i lavoratori, come si cerca di fare con la precettazione, si avesse come obiettivo la qualità della vita delle città, si metterebbero al centro i cittadini, i loro bisogni, la loro stessa dignità umana: come si può ogni giorno essere accalcati come bestie su mezzi di trasporto fatiscenti, che non rispettano gli orari? Con noi costretti a dare un servizio scadente, del quale siamo addirittura additati come colpevoli? Le aziende del trasporto pubblico promettono un servizio che non sono in grado di svolgere. Questo è il vero e grave problema, che accomuna dipendenti e passeggeri. Bisogna che la battaglia per un trasporto pubblico veda uniti dipendenti e passeggeri. Bisogna investire nel trasporto pubblico. Bisogna smettere di svendere ai privati, che spesso non pagano neanche regolarmente gli stipendi.

D. Cortese, ma voi che fate per dialogare coi passeggeri?
R. Noi di Usb ci stiamo organizzando per aprire un canale diretto con i cittadini. Anche perché spesso le nostre iniziative vengono tenute nascoste: o non si dice niente e quindi molti vengono presi alla sprovvista o si lanciano allarmi di paralisi del mezzi pubblici. Mai, dico mai, informando del perché organizziamo gli scioperi. La leggenda metropolitana, la “fake news” come si dice oggi, che facciamo sciopero per rubacchiare un ponte nel fine settimana è la prova provata di come si vogliano mettere i lavoratori che usano i mezzi pubblici contro i lavoratori che li guidano. Bisogna rompere questo circolo vizioso. Su questo dobbiamo fare di più. E posso garantire che lo faremo. Sono convinto che passeggeri e dipendenti insieme siano imbattibili.

La qualità e l’efficienza del trasporto pubblico sono risorse insostituibili per la città, per i suoi abitanti, per i suoi visitatori. Sono tra gli indicatori della qualità della vita. Dicono chiaro se una città è tenuta bene o se è in declino. Perché un’azienda funzioni è necessario che si rispettino le esigenze dei passeggeri e i diritti dei suoi dipendenti. Che è quello che non succede da troppi anni. Le agitazioni sindacali sono effetti, non le cause. Le cause sono più che note: è tempo si affrontino, senza indulgere a trucchi propagandistici, capaci solo di esasperare gli animi e tirare la volata all’ingordigia di soggetti privati.

Il caso Roma è più che chiaro: il 20% delle linee sono gestite da privati. Ma nulla è migliorato. Sono anzi peggiorati sia il servizio che le condizioni di lavoro. Ce n’è abbastanza per dire basta. Le precettazioni sono una pantomima, per non dire un’invasione di campo. Prima di prendersela con chi sciopera c’è da puntare il dito verso chi governa l’azienda. A cominciare dall’azionista principale: il Comune.

(Marco Ferri)

Roma, 1 dicembre 2017

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Quello che Papa Francesco non ha mai detto sull’Argentina.

16 metri quadri, romanzo. Dall’orlo di un cratere erotico al ventre del vulcano nell’inferno argentino

di Riccardo Tavani

Il protagonista maschile di questo ultimo sconvolgente romanzo di Gianni Perrelli si chiama SergioTarantini. Nato a Buenos Aires è stato allevato fin da bambino a Roma.
Senza madre – da solo con il padre Atilio –, dalle sponde del Rio de La
Plata si è ritrovato su quelle del Tevere.

Sul Tevere affacciano i 16metri quadri del titolo nei quali Sergio si è murato vivo per cercare di dare una forma comprensibile al magma interiore che lo devasta. Sergio, infatti, ha camminato sull’orlo di un cratere ed è precipitato poi dentro il magma ribollente nel suo ventre.

Il personaggio femminile si chiama Carlotta. Anche lei nata a Buenos Aires ma lì cresciuta, in una famiglia agiata e in una casa molto
confortevole. Anche lei allevata quasi soltanto dalla figura del
padre, poiché con quella della donna-madre-padrona è arrivata presto
a incarcerare ogni moto d’affetto. Viene a Roma perché ha il
progetto di realizzare un documentario. Qualcuno la indirizza verso
Sergio.

Eccolo, dunque, Sergio, già semi bendato, sull’orlo del cratere
inquieto. Carlotta è quell’orlo. L’orlo di un erotismo
vertiginoso. All’esterno, lo spettacolo di una bellezza femminile,
giovanile che Sergio non ricordava di aver mai visto in Italia, ma che
forse doveva portarsi sepolto dentro dai suoi pochi anni in Argentina.
All’interno, un buio caratteriale, psicologico, ma tutt’altro
che un vuoto, poiché si ode un movimento, un salire e scendere di un
magma buio ma denso di gas, potenza, temperatura proibitiva.

Carlotta è anche La fuggitiva, proprio nel senso che Proust
dà alla sua Albertine scomparsa. La gelosia immaginativa di Sergio
offre squarci improvvisi della gelosia febbrile di Marcel, ma nello
sfondo più lacerato, nel brusio insensato, nella lingua anch’essa
più fuggitiva delle capitali odierne.

A ogni nuova fuga di Carlotta e – soprattutto – a ogni sua nuova
riapparizione aumenta la condizione di accecamento sull’orlo del
cratere di Sergio, fino al buio totale. Carlotta fugge alla stazione
Termini. Lui la insegue, la raggiunge qualche minuto prima del
fischio del capostazione. “Me ne vado per sempre”, gli dice.
“Perché?”, domanda Sergio. “È così, sono una persona
libera, sono incinta”. Sergio rimane da solo sulla banchina.
Dentro il treno che parte c’è Carlotta. Ma il figlio dentro di lei
di chi è? È il buio più totale, è la caduta, il volo dall’orlo del
cratere verso il fondo del suo magma oscuro.

Il ventre nero, ribollente del vulcano è Buenos Aires. Sergio vi torna,
dopo tanti anni, consciamente alla ricerca della fuggitiva e di quel
figlio suo. “Suo” di chi? Solo di lei? O anche di lui? Ma sa
che inconsciamente sta cercando di svelare un altro mistero, ancora
più originario: il suo di passato, la sua di origine, le tracce della
sua di madre. Inghiottita un giorno nei gironi infernali del sistema
di sequestro, tortura ed eliminazione messo in piedi dalla dittatura
militare, di quella donna nessuno ha saputo più niente.
Di Alicia Domenech, architetta rinomata, grande donna di azione e di pensiero, da tutti ammirata e apprezzata per il suo alto lignaggio umano e morale, non resta più neanche la più vacua ombra di memoria. Solo tre vecchie foto, portate via dal marito Atilio nella fuga precipitosa verso l’Italia, per salvare il loro bambino, Sergio.

Qui Perrelli, attraverso il suo personaggio, entra davvero nel
ventre buio di un inferno e ricostruisce una grande agghiacciante pagina di storia,
restituendole, fin nei dettagli, tutta la dimensione d’immane
tragedia consumata, attraverso i crimini più spietati, dalla follia
del potere costituito contro l’umanità. Sequestro, sparizione e reclusione dentro i
tunnel di tortura della Escuela Mecanica de la Marina (ESMA) o dei
vari Garage Olimpo diffusi per il paese; trasbordo collettivo su aerei
Electra o Skyvan PA-51; apertura del portellone posteriore o ventrale;
rovesciamento istantaneo del carico umano, semi-tramortito e denudato, in
alto Oceano Atlantico. I famigerati “vuelos de la muerte”.

A tutto questo deve aggiungersi l’ultimo orrido tassello, il
picco di follia concepito è consumato da tale sistemico ingranaggio.
Lo strappare i neonati alle puerpere, prima di scaraventarle in
mare, per donarli come prede da adottare alle famiglie del vertice degli
aguzzini che gli avevano scannato le madri e anche i padri.

Perrelli ci guida passo passo dentro questo claustrofobico
strazio, facendocelo sentire come un micidiale pugno che ci arriva
direttamente “dentro” lo stomaco.

E la consistenza inconsistente di un fantasma incancellabile assume ora per Sergio la figura di sua madre Aicia Domenech. Piegata a strisciare sulla soglia tra l’umano e il subumano – come John in Non avrai altro dio – lei mantiene elevato il suo lignaggio umano nel precipizio di quel sotterraneo di segregazione e tortura.

16 metri quardri, di Gianni Perrelli.
16 metri quardri, di Gianni Perrelli.

Non gli sarà stato sufficiente, però, essere scivolato dall’orlo erotico del cratere al magma ribollente nel suo ventre. Un altro assordante, allucinato giro di vite – per dirla con Henry James – lo attende.

Proprio come Marcel Proust nelle ultime righe del Tempo Ritrovato, così anche Sergio Tarantini, alla fine di tutto, potrà affermare la sua capacità di scrivere quel romanzo folle che è stato la sua vita. Il romanzo scritto nella clausura forzata di 16 metri quadri: vero e proprio confessionale e camera di tortura.

E la fine è un salto dentro l’abisso racchiuso in un semplice click. (Beh, buona giornata.)

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Italia 2014, la guerra civile tra i poveri.

Cronaca in diretta di un testimone della sparatoria e dei fatti avvenuti il 13-14 luglio a Castel Volturno

di Gian-Luca S. Castaldi-3dnews.it

A Castel Volturno, nel quartiere di Pescopagano, la sera del 13 luglio 2014 (ore 20:00) due ragazzi originari della Costa d’Avorio sono stati feriti con un’arma da fuoco, a seguito di una lite con due italiani. I nomi dei due ragazzi sono YUSSIF BAMBA (35 anni) e NICOLAS GYAN (37 anni). La ragione della lite è stata molto superficiale. Yussif stava trasportando una bombola di gas ed è stato fermato da due italiani, Pasquale Cipriano (padre) e Cesare Cipriano (figlio), proprietari di un’agenzia di vigilanza privata. Questa agenzia, tra l’altro, non è neanche registrata: legalmente non esiste. I due sono scesi dalla macchina ed hanno cominciato a minacciare Yussif chiedendo dove avesse preso quella bombola. Infatti i due Cipriano, oltre a gestire un controllo privato ed abusivo della zona, vendono bombole del gas, e pensavano che il ragazzo avesse rubato la bombola, dato che non l’aveva comprata da loro. Il ragazzo ha insistito a ripetere che la bombola non l’aveva rubata a loro, ma che era sua, e allora Cesare Cipriano (figlio) lo ha aggredito. Nicolas, connazionale di Yussif, è intervenuto per aiutare l’amico, finché i due aggressori non sono scappati con la macchina. Una volta che la macchina si è allontanata, Nicolas ha chiesto a Yussif cosa fosse successo, e mentre quest’ultimo raccontava, la macchina è tornata. Dentro c’era solo Cesare Cipriano, che ha aperto il fuoco ed ha sparato ad entrambi ferendoli alle gambe.

Sul luogo, a quasi trecento metri, c’eravamo noi come Caritas Caserta. Infatti, io e Osman (mediatore culturale della Caritas) eravamo lì per le attività del Progetto Presidio di Caritas Italiana. Entrambi siamo intervenuti in tempo, l’ambulanza è giunta in pochi minuti. Tuttavia è stata questione di pochi minuti anche prima che si creasse un buon numero di immigrati africani che si è messo prima ad urlare e poi a gettare l’immondizia che stava ai bordi delle strade per creare la prima barricata. C’erano frigoriferi dismessi e mobili rotti, e quindi è stato veramente un attimo. La sede dell’agenzia di vigilanza privata, infatti, si trova a meno di 200 metri dal luogo dove è avvenuto il tutto: gli immigrati volevano impedire l’arrivo delle forze dell’ordine per poter correre all’agenzia e farsi vendetta da soli. Dopo altri pochi minuti, la seconda barricata è stata tirata su proprio oltre la sede dell’agenzia privata, chiudendo la strada da entrambi i lati.

L’arrivo dei carabinieri è stato, mi suole dirlo, tanto lento quanto inutile. Avevano paura ad avvicinarsi e non riuscivano a comunicare con nessuno. Io e Osman abbiamo cominciato a mediare, calmando i migranti. Alla fine siamo riusciti ad ottenere che una delle due barricare si aprisse per far passare le ambulanze e i carabinieri. Una volta portati via i ragazzi feriti, tuttavia, il clima si è fatto sempre più caldo, e il numero dei migranti scesi in piazza era aumentato notevolmente, saranno stati già un 150. Abbiamo continuato a mediare, spiegando ai migranti che dovevano calmarsi e lasciare che i carabinieri arrestassero i due italiani. Ma non ci siamo riusciti, perché ormai i migranti avevano deciso di bruciare le macchine dell’agenzia e l’ufficio.

Pochi minuti dopo la macchina che si trovava di fronte all’ufficio era già in fiamme, e poi i migranti hanno cominciato a sfondare la saracinesca e la porta di entrata dello stabile. Sono entrati ed hanno dato fuoco a tutto. Il problema si è aggravato quando ci siamo accorti che al piano di sopra c’erano delle persone, tra cui una ragazzina, e che nel cortile di dietro, tutto in fiamme, macchine, un furgone e soprattutto molte bombole del gas. Io e Osman ci siamo messi ad allontanare i migranti, per evitare la tragedia e lasciare che chi fosse al piano di sopra potesse scappare. Ci siamo riusciti, anche se nel trascinare fuori i migranti inferociti, uno non mi ha riconosciuto e mi ha prima colpito alla testa da dietro facendomi cadere a terra e poi preso a calci mentre tentavo di rialzarmi. Osman, nel frattempo aveva chiamato di nuovo l’ambulanza, perché un ragazzo era rimasto ferito e perdeva molto sangue. Non è riuscito a convincere i migranti a fare aprire di nuovo la barricata, e quindi ha trascinato il ragazzo ferito fino all’altra parte, in modo che l’ambulanza potesse portarlo via. L’esplosione del gas è avvenuta, per fortuna, che eravamo riusciti a far uscire ed allontanare tutti.

Mentre tutto questo avveniva, è arrivata anche la Squadra Mobile della Polizia. Io e Osman cercavamo di mediare e di mantenere calmi gli animi, per evitare che il tutto degenerasse ulteriormente. Tuttavia tra di loro non trovavo nessuno con cui interloquire autorevolmente e quindi ho provveduto a chiamare il dott. Vola Mario, della Squadra Mobile. Lui ci conosce da anni ed è il nostro punto di riferimento per la lotta allo sfruttamento lavorativo. Mi ha assicurato che avrebbe informato l’ispettore capo addetto della mia presenza e che mi avrebbe fatto trovare. Così è avvenuto. Dopo pochi minuti mi ha telefonato l’ispettore capo Alessandro Tocco, chiedendomi della situazione e suggerimenti sul da farsi. Mi disse che stava mandando qualche decina di agenti, in tenuta anti-sommossa, e allora io l’ho sconsigliato. Gli ho detto che sarebbe stato l’inizio della fine, che uno spiegamento di forze avrebbe solo fatto peggiorare ulteriormente la situazione, aumentando sia il numero dei migranti che la loro rabbia. Gli ho detto apertamente: meglio lasciare che bruci una casa che rischiare una città intera in fiamme. Mi ha dato ascolto e non ha mandato gli agenti che aveva preparato. Come avevo previsto, infatti, bruciata la casa e fatto esplodere il tutto, la rabbia ha cominciato a scemare, e la mediazione è diventata più facile, anche perché alcuni migranti si erano resi conto che se non li avessimo fatti uscire in tempo l’esplosione avrebbe certamente ferito molti di loro se non peggio. Insomma, ora ci ascoltavano un po’ di più.

Nel frattempo ci ha richiamati l’ispettore capo Tocco e ci ha riferito che Pasquale e Cesare Cipriano erano stati entrambi arrestati ed ora si trovavano in Questura a Caserta. Io ed Osman abbiamo subito comunicato la notizia ai migranti, sapendo che questo avrebbe aiutato ulteriormente a calmare gli animi. Nell’occasione, ho ringraziato l’ispettore di aver seguito il mio consiglio e di non aver inviato gli agenti anti-sommossa: la situazione si stava scemando, come gli avevo garantito che sarebbe successo sin dall’inizio. Nel giro di un paio d’ore siamo poi riusciti a disperdere i migranti, che però minacciavano rappresaglie per il giorno successivo.

A questo punto, la prima cosa che io ed Osman abbiamo fatto è stato avvertire un po’ tutte le realtà associative che lavorano sul territorio: il centro sociale “Ex-Canapificio”, Emergency, R.E.S. ed altri. Infatti, siccome il tutto è avvenuto in una domenica sera, nessuno era in giro, e il risultato è stato che io ed Osman ci eravamo trovati completamente soli a gestire una situazione al limite della follia. In secondo luogo, abbiamo subito convocato alcuni dei leader del Movimento dei Migranti e Rifugiato, che è molto forte ed organizzato sul territorio, chiedendogli una buona presenza per il servizio d’ordine il giorno successivo. Infine, l’ispettore capo Tocco ci aveva chiesto di non lasciare Castel Volturno ma di rimanere in giro, assicurandoci la presenza di volanti il giorno successivo, e dunque io ed Osman abbiamo passato la notte a convincere i migranti a non fare follie il giorno successivo,a calmare gli animi e a rassicurare.

La mattina del 14 luglio, alle 8 del mattino, la situazione era calma. Il Movimento dei Migranti e Rifugiati si era ben organizzato ed era presente in un buon numero per garantire supporto logistico e servizio d’ordine. Quindi, io e uno dei loro leader, Doe Prosper, ci siamo recati al pronto soccorso di Castel Volturno per assicurarci sullo stato di salute dei due ragazzi feriti. Entrambi stavano abbastanza bene. Avevano estratto le pallottole e non vi erano complicazioni cliniche. E’ stato parlando con loro che abbiamo capito bene la dinamica della lite e tutto il resto. Siamo dunque tornati nel quartiere di Pescopagano, dove ci aspettava già l’ispettore capo Tocco. La situazione era tranquilla, e dunque ci ha chiesto di accompagnarlo al pronto soccorso per prendere la deposizione dei ragazzi e tradurre. Così abbiamo fatto.

Tornati nuovamente a Pescopagano, ci siamo accorti che erano arrivati un buon numero di giornalisti. Ci siamo attivati a spiegare la situazione e a evitare nuovi allarmismi sul territorio. Tuttavia, l’arrivo dei giornalisti ha infastidito la popolazione locale italiana, che si è radunata in un centinaio di manifestanti che hanno bloccato la Domiziana. Volevano che i giornalisti prendessero anche la loro versione. E la retorica è sempre quella: non ce la fanno più, troppi stranieri, lo stato non c’è eccetera eccetera…

Questa manifestazione d’italiani residenti, tuttavia, è stata una provocazione per la popolazione straniera, che ha cominciato di nuovo a scaldarsi. Alcuni migranti hanno rialzato una barricata, a cui gli italiani hanno risposto con un’altra barricata. La strada principale di Pescopagano, la vena che divide la città in due e l’attraversa da un capo all’altro era divisa in due, barricata degli italiani e barricata degli africani. Forze dell’ordine nel mezzo. La tensione era altissima. Tra gli italiani si cominciava a dire che bisognava iniziare da noi, da quelli delle associazioni, della Caritas, da quelli che “difendono i negri” eccetera eccetera. Quindi abbiamo deciso di esporci un po’ di meno, e di levarci i gilet con i loghi del Progetto Presidio – Caritas Italiana, ed hanno fatto lo stesso anche quelli di Emergency ed altre associazioni.

Per fortuna siamo riusciti a fare in modo che i migranti non aumentassero troppo di numero e a quindi a calmarli. Ci sono volute ore, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Dopotutto, a differenza della sera prima, eravamo molti di più a controllare la situazione e a mediare.

Nel frattempo, l’ispettore capo Tocco mi ha confermato che solo il figlio, Cesare Cipriano, era tornato indietro con la macchina a sparare. Lo ha confermato anche Yussif in ospedale. E quindi il padre, Pasquale Cipriano, pregiudicato, che era stato arrestato in questa occasione per concorso in tentato omicidio, verrà rilasciato al più presto. Io ho comunque fatto notare che quasi tre mesi fa accompagnammo un altro immigrato ghanese, Martin Kwadwo, a denunciare un aggressione d’arma da fuoco. Anche a lui spararono alla gamba. In quella occasione, dopo l’aggressione, gli stessi padre e figlio Cipriano andarono da un altro immigrato, Hassan, a minacciarlo dicendoli letteralmente che dovevano stare tutti attenti, perché se no sarebbero finiti tutti come quel ragazzo “a cui è stato sparato”. Nella denuncia noi avevamo specificato tutto. Non so se questo avrà un ruolo nelle indagini e nel processo che ne seguirà. Oggi è il 15 luglio. Non so cosa può succedere, ma spero che il picco di tensione sia ormai passato. (Beh, buona giornata).

Ancora scontri a Castel Volturno tra migranti africani, braccianti stagionali e cittadini italiani che mal sopportano la loro presenza in città.
Ancora scontri a Castel Volturno tra migranti africani, braccianti stagionali e cittadini italiani che mal sopportano la loro presenza in città.

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Silvio, Nightmare e l’ipotesi Montecristo.

di Giulio Gargia -www.3dnews.it

Avete visto la serie horror Nightmare, quella con Freddy Kruger che ogni volta viene distrutto e ogni volta rinasce dal sogno delle sue vittime ? La stessa cosa potrebbe accadere ora a B. dopo la condanna.

Siccome in questi anni siamo stati abituati a considerarlo ogni volta finito e poi ogni volta siamo stati smentiti, allora meglio fare l’ipotesi peggiore, così, un po’ anche a titolo di scaramanzia.

Cosa può fare l’ex Cav ormai pregiudicato ? ( ex perché viene automaticamente revocato il titolo onorifico a un condannato in via definitiva ). Il primo scenario è quello già descritto da Moretti nel film “ Il Caimano “. Proteste di piazza, atteggiamento eversivo, incitamento alla protesta.

Il secondo scenario è quello che possiamo definire come “ ipotesi Montecristo ” , cioè l’epopea di un innocente ingiustamente perseguitato. Perciò, Silvio subisce una sentenza che definisce ingiusta e fa il martire. Investe la figlia Marina della sua missione politica e lui si fa assegnare ai servizi sociali.

Ecco, se B. ora andasse ai servizi sociali l’incubo potrebbe ricominciare. Immaginatelo che offre da mangiare ai vecchietti della Caritas con venti telecamere attorno. Da quella posizione ogni giorno quello che dice avrebbe un effetto emotivo moltiplicato, e dopo qualche tempo di questa situazione con il governo in attività ( che lui, responsabilmente, avrebbe contribuito a tenere in piedi ) lo redimerebbe di ogni eventuale peccato agli occhi dell’opinione pubblica.

Intanto, riforma della giustizia e poi amnistia, come evoca il comunicato di Napolitano. E così la sua uscita di scena fisica sarebbe la sua vittoria politica e consacrerebbe il ritorno di Forza Italia sull’onda di un voto popolare.

Insomma, il nuovo capitolo dell’epopea del vecchio Freddy Kruger potrebbe così vedere l’arrivo di un nuovo personaggio: la “ periplaneta americana ”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Movimenti politici e sociali Politica Potere

Attenti al voto futile.

Tra poche ore si vota. Si vota prima della scadenza, perché il partito di Berlusconi ha tolto la fiducia parlamentare al governo Monti. Berlusconi, che era stato costretto alle dimissioni per manifesta incapacità di governare un paese in crisi, ha scatenato una campagna elettorale furibonda, a colpi di promesse irrealizzabili, come la presunta restituzione della tassa Imu sulla prima casa, invadendo i media, come in nessun altro paese del mondo gli sarebbe stato permesso.

Non solo, Berlusconi ha trascinato il paese alle elezioni politiche anticipate con una legge elettorale truffaldina, detta, appunto, “porcellum”. Berlusconi va punito per sempre perché ha fatto di tutto per non cambiare questa legge. Vanno puniti con lui tutte le forze politiche e sociali che lo hanno sostenuto anche in questa ultima sciagurata avventura: la Lega Nord, la Destra, Grande Sud e tutta quella “corte dei miracoli” al seguito, composta da partitini, formati da piccole personalità di grande appetiti di potere, sparse in tutt’Italia. Vanno puniti i candidati nelle liste del Pdl, liste piene di inquisiti dalla magistratura, liste di mezze figure, sia dal punto di vista politico che etico.

L’attuale “offerta” politica che si offre domani agli elettori italiani è apparentemente ricca di scelte. Dico apparentemente, perché in realtà l’unica possibilità di fermare Berlusconi e i suoi accoliti è una vittoria al Senato del centrosinistra.

Infatti, quello che è consigliabile è tenere ben presente che, proprio per colpa di Berlusconi, andremo a votare con due sistemi elettorali, uno alla Camera e uno al Senato. Alla Camera i sondaggi, finché sono stati pubblici, non segnalavano grandi chances per il partito di Berlusconi. Qui votare chi ognuno pensa possa svolgere un ruolo migliore non troverebbe ostacoli.

Il pericolo viene dal Senato: se in alcune regioni, per esempio come la Lombardia, la legge elettorale dovesse premiare il partito di Berlusconi, ecco che egli riuscirebbe a mettere un’ipoteca sulla formazione del nuovo governo. Sono convinto che chi vota Grillo o Monti o Giannino o Ingroia certo non vorrebbe succedesse un Berlusconi ancora in sella.

Si è parlato del ricatto del voto utile. Io direi, piuttosto, del pericolo del voto futile: chi è conservatore come Monti, di sinistra come Ingroia, barricadero come Grillo, o moderato come Giannino (al netto dei titoli di laurea) non è giusto che non abbia la possibilità di esprimere il proprio voto. Ma è proprio quello su cui contano Berlusconi e accoliti: sfruttare i vantaggi del “porcellum” e fregare ancora una volta la democrazia, i cittadini, gli elettori, grazie al differente meccanismo elettorale.

Dunque, perché il voto non sia una esercitazione futile, è necessario prendere seriamente in considerazione il “voto disgiunto” tra Camera e Senato. Per sicurezza, consiglierei di fare lo stesso anche per le Regionali in Lombardia e nel Lazio. Maroni e Storace, sodali di Berlusconi
devono perdere sonoramente. Solo così, sconfitto su tutti i fronti, Berlusconi uscirà dalla cronaca politica e per entrare, senza più ostacoli in quella giudiziaria. Beh, buona giornata.

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Perch

di John Pilger-www.johnpilger.com

La minaccia del governo britannico di irrompere nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e trascinare via Julian Assange assume un significato storico. David Cameron, già uomo di pubbliche relazioni per un truffatore dell’industria televisiva e venditore di armi ad emirati, è sul punto di disonorare le convenzioni internazionali che hanno protetto i cittadini britannici nelle zone calde del pianeta. Proprio come l’invasione dell’Iraq da parte di Tony Blair ha portato direttamente agli atti di terrorismo registrati a Londra il 7 luglio 2005, così Cameron e il Ministro degli Esteri William Hague hanno compromesso la sicurezza dei cittadini britannici in tutto il mondo.

Minacciando di abusare di una legge progettata per espellere assassini da ambasciate straniere, e al contempo diffamando un innocente come “presunto criminale”, Hague ha reso la Gran Bretagna lo zimbello di tutto il mondo, ma questo è in gran parte occultato nel paese anglosassone. Gli stessi “coraggiosi” giornali e le emittenti che hanno appoggiato la parte giocata dalla Gran Bretagna in epici crimini di sangue, dal genocidio in Indonesia alle invasioni di Iraq e Afghanistan, adesso danno addosso alla “situazione dei diritti umani” in Ecuador, il cui vero crimine è quello di contrastare i bulli di Londra e Washington.

È come se i festosi applausi delle Olimpiadi fossero stati rimpiazzati di punto in bianco da una rivelatrice folata di teppismo coloniale. Vedi Mark Urban, l’ufficiale dell’esercito trasformato in reporter della BBC “intervistare” un ragliante Sir Christopher Meyer, ex apologeta di Blair a Washington, davanti all’ambasciata ecuadoregna. La coppia procede a sfogarsi con patriottico sdegno e comico nazionalismo sul fatto che il non classificabile Assange e l’indomito Rafael Correa, mostrino al mondo il rapace sistema di potere occidentale. Un simile attacco irrompe dalle pagine del Guardian, che consiglia ad Hague di “essere paziente” e che un assalto all’ambasciata causerebbe “più problemi di quanto vale”. Assange non è un rifugiato politico, ha dichiarato il Guardian, e “in ogni caso, né la Svezia, né il Regno Unito deporterebbero qualcuno che potrebbe rischiare la tortura o la pena di morte”.

L’irresponsabilità di questa affermazione corrisponde perfettamente al ruolo perfido del Guardian in tutta la vicenda Assange. Il giornale sa benissimo che i documenti rilasciati da Wikileaks dimostrano come la Svezia sia costantemente sottoposta alle pressioni degli Stati Uniti in materia di diritti civili. Nel dicembre del 2001, il governo svedese aveva bruscamente revocato lo status di rifugiati politici a due egiziani, Ahmed Agiza e Mohammedel-Zari, che furono poi consegnati a una squadra-sequestri della CIA all’aeroporto di Stoccolma e “resi” all’Egitto, dove vennero torturati. Un’indagine del difensore civico svedese per la giustizia rilevò che il governo aveva “gravemente violato” i diritti umani dei due uomini. Nel 2009 un cablogramma dell’ambasciata USA ottenuto da Wikileaks, dal titolo “Wikileaks getta la neutralità nella pattumiera della storia”, la tanto decantata reputazione dell’élite svedese per la neutralità è mostrata come una farsa. Un altro cablogramma USA rivela che “la portata della cooperazione [militare e di intelligenza della Svezia] [con la Nato] non è molto conosciuta”, e se non fosse tenuta segreta “avrebbe esposto il governo a critiche interne”.

Il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, ha svolto un ruolo di primo piano nel famigerato Comitato per la Liberazione dell’Iraq di George W. Bush, e mantiene stretti legami con l’estrema destra del Partito Repubblicano. Secondo l’ex direttore del pubblico ministero svedese Sven-Erik Alhem, la decisione della Svezia di chiedere l’estradizione di Assange sui presunti casi di comportamento sessuale riprovevole è “irragionevole e poco professionale, oltre che ingiusta ed esagerata”. Dopo aver offerto se stesso per un interrogatorio, ad Assange è stato dato il permesso di lasciare la Svezia per Londra, dove, ancora una volta, si è reso disponibile ad essere interrogato. Nel mese di maggio, in un’ultima sentenza d’appello sull’estradizione, la Corte Suprema della Gran Bretagna ha aggiunto farsa a farsa facendo riferimento ad “accuse” inesistenti.

Abbinata a tutto ciò c’è stata un’infamante campagna personale contro Assange. Gran parte di questa è opera del Guardian, che, come un amante respinto, si è rivoltato contro la sua stessa fonte, dopo aver enormemente beneficiato delle rivelazioni di Wikileaks. Senza che un centesimo andasse ad Assange e a Wikileaks, un libro del Guardian ha portato ad un redditizio accordo cinematografico con Hollywood. Gli autori, David Leigh e Luke Harding, insultano arbitrariamente Assange come essere dalla “personalità danneggiata” e “insensibile”. Rivelano perfino la password segreta che lui, fidandosi, aveva dato al giornale, e che proteggeva un file digitale contenente i cablogrammi dell’ambasciata degli Stati Uniti. Il 20 agosto, Harding era davanti all’ambasciata ecuadoregna, gongolando sul suo blog che “Scotland Yard potrebbe avere l’ultima risata”. È ironico, pur essendo completamente calzante, che un editoriale del Guardian che affonda il coltello in Assange assomigli sorprendentemente alla prevedibile ipocrisia della stampa di Murdoch accanita sullo stesso argomento. Come la gloria di Leveson, Hackgate e l’onorato giornalismo indipendente svaniscono come un puntino nel nulla.

I suoi stessi aguzzini valutano la persecuzione di Assange. Accusato di nessun crimine, non è un latitante. Documenti svedesi del caso, tra cui i messaggi di testo delle donne coinvolte, dimostrano chiaramente l’assurdità delle accuse sessuali – accuse quasi interamente ed immediatamente respinte dal procuratore di Stoccolma, Eva Finne, prima dell’intervento di un politico, Claes Borgstrom. Al processo preliminare di Bradley Manning, un investigatore dell’esercito degli Stati Uniti ha confermato che l’FBI stava segretamente prendendo di mira i “fondatori, proprietari o gestori di Wikileaks” per spionaggio.

Quattro anni fa, un documento del Pentagono, a malapena notato, e fatto trapelare da Wikileaks, descriveva come Wikileaks e Assange sarebbero stati distrutti con una campagna diffamatoria che avrebbe portato a “procedimenti penali”. Il 18 agosto, il Sydney Morning Herald, avvalendosi della Libertà di Rilasciare Informazioni, ha reso noto che il governo australiano era stato più volte informato che gli Stati Uniti stavano conducendo una caccia “senza precedenti” ad Assange, ma non ha sollevato obiezioni. Tra le ragioni dell’Ecuador per la concessione dell’asilo politico c’è l’abbandono di Assange “da parte dello Stato di cui è cittadino”. Nel 2010, un’inchiesta della polizia federale australiana ha rilevato che Assange e Wikileaks non hanno commesso alcun crimine.

La loro persecuzione è una violenza a tutti noi e alla libertà.

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Lavoro Leggi e diritto

Ecco le nuove norme per il licenziamento (se approvate dal Parlamento).

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La lotta di classe dei ricchi contro i poveri.

Intervista a Luciano Gallino di Matteo Pucciarelli-micromega

Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all’improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.

Ecco, la lettura dell’ultimo lavoro di Luciano Gallino “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto.

Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell’idea, anzi dell’ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all’infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.

Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica.

Era un’ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.

Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l’attacco all’articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?

«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».

Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco… Ci fu la riforma Treu nel ’96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l’impianto ad essere sbagliato…

«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».

La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello sociale. C’è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?

«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica».

Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta….

«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente sconfessate dalla realtà»

È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l’internazionalismo, cioè la capacità di fare “gioco di squadra” a livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una Viagra 100mg visione alternativa della società?

«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente strumentale».

Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.

«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»

Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan “Lavorare meno, lavorare tutti”. A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto…». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di classe? L’egoismo, l’interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È questa l’ennesima vittoria del pensiero dominante?

«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».

Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com’è possibile che il Pd lo sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.

«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo elettorale».

Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?

«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».

L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il “Manifesto per un soggetto politico nuovo”, e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l’ha redatto e firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?

«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».

Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?

«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe dirigente». (Beh, buona giornata).

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Lega rubona.

di Stefano Galieni-rifondazione.it

Roberto Biorcio è forse uno dei migliori conoscitori della Lega Nord in Italia, numerose sono state le sue pubblicazioni e interviene volentieri per parlare delle ultime vicende che hanno colpito il partito di Bossi.

Il partito è oggi più che in passato al centro di inchieste di forte rilevanza, ma non si tratta in fondo di novità
«Si sullo stesso tesoriere Belsito erano già emersi numerosi elementi problematici. È stato al centro di alcune spregiudicatezze finanziarie, erano emersi legami fra politica e n’drangheta. La novità è che quanto accade oggi lambisce direttamente la famiglia Bossi. Poi quando a beneficiarne sono anche i singoli il fatto è nuovo e diviene ancora più grave. Nel passato recente c’è stato il caso di Boni, alla Regione Lombardia che è stato difeso compattamente nonostante si parli di tangenti. Questa volta la reazione di Maroni e di quelli a lui più vicini è stata diversa. Ha cavalcato l’indignazione leghista, ha chiesto e ottenuto non solo le dimissioni di Belsito ma una pulizia generale nel gruppo dirigente. Bossi si è imbestialito, nel suo gruppo c’è stato un lungo silenzio e solo alla fine ha parlato di un attacco mirato alla Lega. In altri tempi non avrebbe fatto così.
Questo segna un cambiamento nelle competizioni interne alla Lega che non si era mai raggiunto. Se la vicenda di Belsito sarà forte come quella di Lusi si arriverà ad una crescita del potere di Maroni come interprete di una serie di istanze della base».

Ma secondo lei si è aperta la lotta alla successione di Bossi?
«Più che altro si è accentuata. Bossi ha anche provocatoriamente offerto le proprie dimissioni ma non è quello che vogliono i leghisti. Non vedo uno scontro frontale ma un processo in cui si capirà fino a che punto avanza il potere di Maroni. Ora ci saranno i congressi regionali e vedremo chi la spunterà già nella formazione dei nuovi organismi dirigenti. Un altro elemento importante saranno le amministrative, vero banco di prova. La lega gode di posizioni di vantaggio, è forza di opposizione al governo Monti e raccoglie tutto quel dissenso che non Cialis Online si riversa su Di Pietro o la sinistra fuori e dentro il parlamento. Contemporaneamente alle persecuzioni in via Bellerio dalla Padania si annunciava la raccolta firme per opporsi alla revisione dell’Art 18. Quindi si intende investire in questo spazio politico rimasto vuoto. Al di là delle divisioni interne potenziali la Lega dovrebbe ottenere risultati immediati, anche gli altri partiti non risultano molto attrattivi e la sola alternativa per molti leghisti è l’astensionismo».

Certo pare di vedere un attacco generalizzato verso i partiti tutti.
«Io non credo che ci sia un complotto ma un indebolimento dei partiti. Come ai tempi di tangentopoli c’è maggiore possibilità di perseguire reati che prima incontravano forte opposizione. I partiti hanno perso credibilità, non hanno autorità morale e politica e in questo quadro le procure possono colpire anche dirigenti più elevati. Sulla vicenda della lega c’è da dire che ci si è mossi su denuncia di un leghista, sintomo di una lotta interna che coinvolge diverse componenti della lega che non vogliono certo distruggere il movimento. Non a caso Maroni vuole dare la caccia ai trasgressori e dichiara di auspicare pulizia».

Che futuro si prospetta secondo lei per questo partito pensando agli umori del popolo leghista?
«Dipende da come evolve il confronto. Se aumenta il potere di Maroni e diminuisce gradualmente quello di Bossi ci sarà una trasformazione quasi indolore, gestendo l’opposizione a Monti. Pochi scossoni e nessuna scissione verticale. Anzi il consenso si potrebbe consolidare con il passaggio di voti dal Pdl alla Lega grazie agli effetti negativi di Monti. Se invece lo scontro interno aumentasse e per esempio Bossi riprovasse ad imporre i propri uomini nei congressi regionali il rischio è di ripercussioni pesantissime che il movimento vorrebbe evitare. Bossi non è più quello di 10 anni fa e anche se nessuno vuole fare a meno di lui non è in grado di riprovare ad estromettere Maroni. Se ci prova potrebbe palesarsi il rischio di una scissione che pagherebbero tutti. Quindi la prospettiva più plausibile è quella di una limitazione dei conflitti verso una lenta trasformazione della Lega».(Beh, buona giornata)

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L’articolo 18 e le manie compulsive degli economisti neo-liberisti.

Il capitalismo in balia dei neo-liberisti.
La scacchiera di Adam Smith, di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

OLTRE un decennio è passato, e ancora in Italia si inveisce contro un articolo dello Statuto dei lavoratori che incendia gli animi come se possedesse vizi ferali, da cui deriverebbero tutti i mali.

Possibile che in piena recessione, con la disoccupazione giovanile salita al 32 per cento, l’infelicità e il malessere dipendano in modo così totale dalla tutela giuridica del lavoratore allontanato per falsi motivi economici, contemplata nell’articolo 18?

Possibile che i pochi casi di reintegrazione dei licenziati (un migliaio in 10 anni) siano a tal punto distruttivi della ripresa, della stabilità economica, della reputazione esterna, dell’interesse di investitori stranieri? Neppure la Confindustria pare crederci, tanto che il nuovo presidente, Squinzi, considera la burocrazia ben più devastante dell’articolo 18 (“Non è l’articolo a fermare lo sviluppo”).

Né si può abusare dell’Europa: la lettera della Bce non parla nei dettagli dell’articolo, ma di una “revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento (…), stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro”. Le autorità europee sono “indifferenti alle classi” (class-indifferent), ha detto un economista greco, Yanis Varoufakis: fissano obiettivi, non come raggiungerli.

Se i detrattori dell’articolo 18 sono così rigidi vuol dire che dietro la loro battaglia c’è un’ideologia forte, restia alle confutazioni. C’era in Berlusconi, ma c’è anche in quello che Ezio Mauro chiama “integralismo accademico”. Una norma dello Statuto diventa sineddoche, cioè la parte che spiega il tutto: come quando si dice vela e s’intende nave. Si dice articolo 18 ma s’intende la filosofia, la genealogia, la storia dell’incandescente articolo. Con questa filosofia e questa storia si regolano i conti, e più precisamente con alcuni principi base della socialdemocrazia: lo Statuto dei lavoratori del ’70, e la concertazione praticata nei primi ’90 tra governi, imprenditori, sindacati.

Ambedue sono la riposta che la nostra classe dirigente seppe dare al ribellismo sociale, nonché al terrorismo. Ambedue generarono un Patto sociale permanente che in Italia era inconsueto, che consentì ai sindacati di preferire le riforme alla rivoluzione o ai particolarismi rivendicativi. Che li spinse a unirsi, a rendersi autonomi dai partiti. Che diede loro un’inedita padronanza di sé, del destino nazionale (Amartya Sen parla di empowerment, di potere su di sé dato agli emarginati, perché diventino cittadini responsabili).

Tutto questo è socialdemocrazia, non comunismo o consociativismo: anche se da noi il nome era altro. Chi se la prende con tale patrimonio trucca un po’ le carte. La crisi del 2007-2008 non sembra passata da queste parti, intaccando vecchi dogmi e anatemi: per molti resta una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che prodigiosamente colpevolizza non i mercati poco imbrigliati, ma le riforme socialdemocratiche e la carta d’identità dell’Europa postbellica che è stata la creazione (non a caso concepita durante la guerra) del Welfare.

È così che alcune parole decadono, annerite: la concertazione, il consenso o dialogo sociale. Perfino dialettica è parola invisa a chi, certo d’avere scienza infusa, non vede che il conflitto di idee e progetti è sale della democrazia.

Vale dunque la pena ripensare gli anni ’70-’90, che produssero la variante socialdemocratica italiana che è il patto sociale permanente. Lo Statuto dei lavoratori, divenuto legge nel ’70, viene approvato dal Senato il giorno dopo Piazza Fontana. La concertazione e la politica dei redditi furono perfezionate da Amato e Ciampi nel ’92 e ’93, quando un sistema politico infettato dalla corruzione e tanto più vulnerabile al terrorismo venne messo in riga da Mani Pulite.

Salvaguardare la coesione sociale d’un Paese così provato era prioritario, e per Buy Cialis ottenerla fu inventata non una democrazia più autoritaria ma più plurale, che del conflitto sapesse far tesoro “coinvolgendo (sono parole di Gino Giugni, ministro del lavoro di Ciampi) una platea di soggetti assai più ampia di quella uscita dal voto”.

Sin dal ’94 Berlusconi mise in questione tale eredità. La concertazione divenne il nemico, come testimonia il Libro Bianco sul lavoro presentato nel 2001 dal ministro del Welfare Maroni: la codecisione doveva finire, soppiantata da mere consultazioni. Che il bersaglio non fosse il comunismo ma la socialdemocrazia è attestato dalla biografia di Giugni: è nel partito socialdemocratico di Saragat che il padre della concertazione si fece le ossa.

In un libro-intervista del 2003, Giugni disse che con lo Statuto dei lavoratori “la Costituzione entrò in fabbrica”, e che la concertazione rese la democrazia più plurale, efficace: “Perché ci sia intesa bisogna partire dalla diversità”, scrisse, aggiungendo che la critica della concertazione in nome delle prerogative sovrane del Parlamento era infondata, anche quando veniva da economisti illustri come Mario Monti (Giugni, La lunga marcia della concertazione, Mulino).

Gino Giugni fu gambizzato nell’83 dalle Br. Altri economisti a lui vicini, riformatori del diritto del lavoro, furono assassinati (Tarantelli, D’Antona, Biagi). Tutti erano fautori della concertazione. Ricordiamo quel che disse D’Antona, sull’articolo 18 e la reintegrazione dell’operaio licenziato per fittizi motivi economici: “Il superamento delle forme più rigide di garantismo può portare a rivedere in cosa consiste un licenziamento legittimo, ma non a sottoporre a revisione i rimedi che si offrono nei confronti dei licenziamenti non rispondenti a tale requisito”. Il regolamento dei conti non è finito, con un’epoca che vide congiungersi concertazione, lotta alla corruzione, antimafia. Noi commemoriamo Falcone e Borsellino, e Tarantelli, D’Antona, Biagi. Ma volentieri ne dimentichiamo i metodi e le fedi.

Dicono che l’articolo 18 non ha da essere tabù, e certo i difetti non mancano: i processi sterminati sono fonte d’incertezza. Ma i tabù sono materia combustibile, non si spengono senza pericolo. Ci deve essere una ragione per cui all’articolo s’aggrappa anche chi – precario, disoccupato – non ne usufruisce. Anche chi, col tristo nome di esodato, non ha più lavoro e non ancora pensione. Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive. I tabù non sono idoli, feticci. È colma di tabù, l’Europa uscita da guerre e dittature che fecero strame di antichi divieti (non ucciderai, non negherai giustizia alla vedova e all’orfano, ai deboli e diversi). Per Hitler era tabù intollerabile anche il Decalogo.

Gli economisti neo-liberali che denunciano mercati troppo regolati hanno forse in mente una società perfetta, che funziona senza lentezze né dubbi. Si dicono ispirati da Adam Smith. Ma Smith teorizzò la mano invisibile che in un libero mercato trasforma l’interesse egoista in pubblica virtù, restando il filosofo morale che era. In quanto tale se la prese con gli ideologi, chiamati “uomini animati da spirito di sistema”.

L’uomo di sistema, scrive nella Teoria dei sentimenti morali, “tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera.(…) Nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli”.

Forse vale la pena rileggere Smith il moralizzatore, oltre che l’economista: l’avversario di tutti coloro che “inebriati dalla bellezza immaginaria di sistemi ideali” si lasciano ingannare dai loro stessi sofismi, e alla società chiedono troppo, non ottenendo nulla. (Beh, buona giornata).

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Mutanda Day contro la tassa sui permessi di soggiorno.

Le mutande tornano a essere strumenti di protesta.
COMUNICATO STAMPA ricevuto da Unione Sindacale di Base.

“Mentre il governo Monti continua nella sua “riflessione e valutazione” sul che fare della legge che dal 30 gennaio porta a 200 euro la tassa sui permessi di soggiorno, noi diamo appuntamento a tutti i migranti e le loro famiglie venerdì 3 febbraio al “MUTANDA DAY”.

Aboubakar Soumahoro Responsabile nazionale USB Immigrazione denuncia: “poiché a pagare siamo sempre noi, mentre il Governo incassa i soldi, consegneremo Mutande alle prefetture se questo può servire a salvare la nave Italia, sulla quale ci siamo anche noi migranti, che la crisi sta affondando. L’importante è che si cancelli questa norma razzista della tassa sui permessi di soggiorno”.

“Invitiamo i cittadini immigrati e le loro famiglie a portare tante Mutande, perché migliaia sono i migranti che hanno perso il lavoro con la crisi che sta divorando il paese” conclude Soumahoro.
I primi appuntamenti già in programma per venerdì 3 febbraio per la MUTANDA DAY sono le Prefetture di Torino in Piazza Castello dalle ore 12,00 Napoli in Piazza del plebiscito dalle ore 10.00 e Vicenza in Via Contra’ Gazzolle,6 dalle ore 11.00. (Beh, buona giornata).

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3DNews/Il naufragio dei simboli.

di MARCO FERRI

Quella nave abbandonata come la testa della Statua della Libertà in “Il pianeta delle scimmie”, simbolo della disfatta del genere umano: la Costa Concordia passerà alla storia perché, invece che di passeggeri” è sembrata piena di simboli.
A cominciare dal nome (Concordia), per proseguire dal motivo (l’inchino, cioè il saluto ravvicinato alla costa), dalla causa (lo scoglio di cemento), eccola la dozzinale rappresentazione dell’eterna lotta del bene contro il male: De Falco versus Schettino, cioè il senso del dovere contro la condotta irresponsabile.

Eppoi la riscoperta del radiodramma: la telefonata tra i due, un pezzo di altissima recitazione, come non se ne sente più da un pezzo via radio. Infine, non poteva mancare il paese natale di Schettino che si stringe attorno al suo concittadino, sbattuto in prima pagina come il mostro, già condannato dal tribunale speciale dei media, come sempre affamati di tragedie, di colpevoli, di vittime e di eroi.

Ci mancherebbe solo Vespa, che magari, invece di un plastico, sguazza dentro un acquario. E non è detto che non succeda pure questo.

Una nave da crociera piena di simboli, evocati da ogni parte: il mito del coraggio contro la codardia, come panacea per uscire dalla crisi politico-economica che attanaglia sempre più profondamente l’Italia. E quei disgraziati morti affogati, come fossero semplicemente i cadaveri di un episodio trasmesso da Fox Crime. No, non erano persone, ma consumatori di un centro commerciale galleggiante: le loro storie non interessano ai media. Potrebbero rovinare il marketing delle vacanze in crociera? Molto meglio, allora, continuare a ricamare sul codardo sbugiardato dagli eroi. Nuovi ammutinati del Bounty, novelli Capitani coraggiosi, in odor di Master&Commander.

Eppure, il fascino perverso dell’immagine della nave piegata su un fianco, alla deriva sugli scogli dell’isola del Giglio è contagioso proprio per via dei simboli che con lei sono naufragati e che sono poi stati soccorsi dai commentatori: dalle acque basse vengono, così, ripescati stereotipi dell’italico spirito nazionale. Reduci dalle celebrazioni del 150 esimo dell’Unità d’Italia, i soccorritori vengono descritti come personaggi di un nuova stesura del Libro Cuore.
Non ci sarebbe niente di male. Magari se la meritano un poco di attenzione, quegli uomini e donne che di mestiere salvano la vita agli altri. Soprattutto se lo meritano gli uomini di mare, a cui si voleva, non più tari di qualche mese fa, addirittura vietare di soccorrere le barche fradice di migranti alla deriva.

Se non fosse, invece, che la realtà di quanto è successo è molto più banale, dunque più tragica: un uomo commette un terribile errore, che costa vite umane, e per questo perde la testa, e continua a fare errori, primo fra tutti l’abbandono delle sue responsabilità. Banale e tragico, ma umanissimo.

Sarebbe meglio pensare a questo, prima di emettere giudizi capitali che spetterebbero all’inchiesta e a chi delle indagini prima e della sentenza poi è incaricato. E invece che facili riletture di Cuore, potrebbe essere utile interrogarsi sull’essere umano e disumano degli uomini. E spegnendo la tv, chiudendo il giornale e arrestando il sistema del pc, aprire e rileggere, per esempio, “Uomini e no” di Vittorini. Beh, buona giornata.

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Europa: il debito da sovrano sta diventando tiranno.

di MARIO DEAGLIO-La Stampa.

Visto l’esito della caotica riunione di Bruxelles, non è proprio il caso che il normale cittadino stappi una bottiglia, anche se le Borse hanno brindato a quella che considerano, nel loro orizzonte di brevissimo termine, come la fine di un periodo di incertezza. Dopo una confusa nottata di contrasti e recriminazioni, l’Europa si ritrova pesantemente ridimensionata dal rifiuto inglese.

Un no a un accordo che avrebbe comportato la perdita di autonomia dalla politica economica, alla quale i governi di Londra hanno sempre tenuto moltissimo, in favore di rigide regole generali di stampo tedesco. La mancata stretta di mano tra il presidente Sarkozy e il primo ministro inglese Cameron è quasi il simbolo di questa nuova situazione. Non c’è da illudersi: il Canale della Manica è diventato più largo con un possibile grave svantaggio sia per gli inglesi sia per gli altri europei.
Per l’Europa, la perdita della Gran Bretagna – che a questo punto potrebbe anche uscire completamente dall’Unione Europea, limitandosi a mantenere un accordo doganale – non deriva tanto dalla cospicua sottrazione dal totale europeo del prodotto lordo inglese quanto dall’impoverimento qualitativo di un’Europa così divisa. La Gran Bretagna ha avuto, nell’ultimo secolo, il ruolo storico di controbilanciare, insieme alla Francia, il potere tedesco e di fornire un’alternativa, peraltro ridotta negli ultimi decenni, ai modelli culturali tedeschi. Questo ruolo pare ormai abbandonato mentre Londra si rifugia in un isolamento che non appare tanto splendido e ci si può attendere che rafforzi i suoi legami con gli Stati Uniti; Parigi, dal canto suo, con le elezioni ormai vicine, sembra aver perso l’iniziativa e aver consentito debolmente alle posizioni tedesche. Nel frattempo, le agenzie di rating hanno continuato a declassare allegramente le banche europee.

Tutti avevano sperato che la signora Merkel avrebbe alla fine abbandonato la sua posizione rigida e accettato di fornire qualche facilitazione ai Paesi «meridionali»; invece non è stato così. Grazie anche alle pesantissime pressioni americane, che hanno visto gli interventi coordinati del presidente Obama, del segretario di Stato Clinton e del segretario al Tesoro Geithner, è prevalsa una soluzione che si può definire di tipo «tedesco», che limita la possibilità futura di deficit pubblici nazionali. Le istanze di tipo «francese» e «italiano» per una maggiore flessibilità con l’emissione di titoli sovrani europei (eurobonds), per sviluppi istituzionali che conferiscano a Bruxelles un effettivo potere di governo europeo, con il trasferimento a livello europeo di alcune competenze e di una parte delle imposte nazionali. La Banca centrale potrebbe finanziare questo governo, ma l’intera questione è stata diplomaticamente rinviata a una futura riunione.

Per fortuna, le porte non sono definitivamente chiuse a questa visione europeista. Il «fondo salva Stati», però, continua ad apparire piuttosto esiguo, anche nella sua nuova versione, per far fronte a veri attacchi ai titoli pubblici di qualsiasi paese dell’Unione e il coinvolgimento del Fondo monetario risulta più limitato di quanto fosse inizialmente previsto. I Paesi europei hanno accettato una vera e propria camicia di forza per le loro finanze: il comunicato finale dice chiaramente che i bilanci degli stati membri dovranno essere in pareggio (con un deficit massimo dello 0,5 per cento del prodotto interno) e che questo principio dovrà essere inserito nelle costituzioni dei singoli Stati. Lodevole proposito in una situazione normale, ma nuova complicazione in una situazione di crisi. A un simile risultato si arriverà lentamente ma, se il deficit pubblico supererà il 3 per cento del prodotto interno, scatteranno sanzioni quasi automatiche contro il Paese che non si adegua. È questo il succo della cosiddetta «unione fiscale» che, se gestita in maniera maldestra, rischia di trasformarsi in un abbraccio soffocante.

Tutti i Paesi dell’area euro, Germania compresa, saranno infatti impegnati a seguire politiche pubbliche prevalentemente restrittive anziché politiche più accomodanti. Siccome la congiuntura ha già svoltato verso il basso in molti di questi, ogni vero discorso di ripresa europea appare rinviato; nella stessa, fortissima Germania, è comparso il segno meno nella produzione industriale mentre è vano attendersi forti stimoli extraeuropei, dal momento che la stessa Cina presenta vistosi sintomi di rallentamento. Il 2012 non si prefigura quindi per nessuno come un anno di vacche grasse. E un’Europa in recessione e percorsa da inquietudini sociali potrebbe facilmente trasformarsi nel ventre molle di un’economia globale che sta rapidamente perdendo il sorriso.

A questo punto, l’interrogativo diventa politico: è socialmente sostenibile una simile situazione, oppure i governi europei rischiano di essere travolti da una protesta sociale tanto più grave quanto più disordinata e priva di larghi orizzonti? Quanto dirompente potrebbe essere una simile protesta? Non sarebbe stato preferibile adottare un sentiero più flessibile, consentendo maggiore liquidità al sistema produttivo e bancario e impedendo che tutto sia condizionato da giudizi istantanei di Borse capricciose? Il tempo, senza dubbio, dirà se i leader europei hanno fatto complessivamente una scommessa giusta. I rischi, per l’Europa e l’economia mondiale, non sembrano, in ogni caso, essere stati sensibilmente ridotti ma soltanto trasferiti dall’economia e dalla finanza alla politica e alla società. (Beh, buona giornata).

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3DNews/D-JAIL, LA MUSICA DIETRO LE SBARRE.

di Giulio Gargia

Rompere le gabbie dell’isolamento del carcere con la musica. Ci hanno provato con D- Jail , ovvero l’incisione di 8 brani musicali nati dai testi dei detenuti delle Case Circondariali della Provincia di Roma.

Alessandro B, Salvatore C, Roberto D, Giuseppe D, Odobo J, Francesco M, Bruno P, Nicola D, Giuseppe R, sono i reclusi che hanno scritto i brani, Federico Carra e Maurizio Catania hanno composto le musiche eseguite poi dal Collettivo del Ponte.

Il risultato ? Un po’ Negramaro, un po’ i 99 Posse degli inizi. Se si dovessero attribuire delle influenze o dei modelli musicali a questa originale e più che necessaria iniziativa de Il Ponte Magico, sarebbero questi. Gli otto brani con i testi dei reclusi raccontano la difficile condizione carceraria, le parole chiave sono rabbia e amore, sogno e dolore.

I brani la evocano tutti, questa realtà, a partire dai titoli : “ Il sole ci scalderà “ , “ La tana “ , “ Le ali ”, “ Ritrovo l’universo”. Versi che svelano emozioni, angosce, speranze che compongono la quotidianità dietro le sbarre.

Ci sono precedenti confortanti per questa idea, primo fra tutte l’esperienza dei Presi per Caso, il gruppo musicale nato a Rebibbia che ora va in giro in tutta Europa, e molto prima il pionieristico lavoro con i reclusi del carcere di Volterra fatto da Armando Punzo, che ha fondato una compagnia teatrale interamente composta da detenuti e più di 10 anni li porta anche in tourneè nei festival teatrali più importanti d’ Italia.

D- Jail è stato presentato a Roma, mercoledì 30 novembre, presso Città dell’Altra Economia , in largo Dino Frisullo.
Nel corso dell’incontro, moderato da Antonio Lauritano e aperto da Giuseppina Maturani (presidente del Consiglio Provinciale di Roma) insieme a Federico Carra, sono stati eseguiti i brani del disco, alternando gli interventi musicali alla lettura dei testi del progetto da parte degli attori ex detenuti Riccardo Pizzini, Antonio Polidori, Roberto Tarantino, Loreto Zaccardelli e ai contributi sulla realtà carceraria di Mauro Mariani (direttore di Regina Coeli), Donata Iannantuono e Giuseppe Makovech
(rispettivamente direttore ed ex direttore della Casa Circondariale di Velletri),
Nadia Fontana (direttore Istituto penitenziario di Latina), Antonella Barone (relazioni esterne Dipartimento amministrazione penitenziaria – Ministero della Giustizia), Enrico Fontana (direttore Nuovo Paese Sera), Angiolo Marroni (Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio), Angiolino Lonardi (vice direttore TV pubblica), Michelangelo Ricci (regista e drammaturgo). Ha partecipato inoltre Filiberto Zaratti (consigliere regionale) e Aldo Papa (direttore canali radio pubblica utilità).

D- Jail si inserisce nell’ambito di intervento dell’Associazione Il Ponte Magico, riguardante la re-inclusione sociale degli ex detenuti, attraverso la realizzazione di un “ponte” tra l’interno degli istituti penitenziari e il mondo esterno, per accogliere con più coscienza il detenuto che ha scontato la pena e, allo stesso tempo, per conoscere una realtà complessa e troppo spesso marginalizzata.

Il CD non sarà messo in commercio: verrà distribuito gratuitamente ad associazioni, enti, produzioni, emittenti radiotelevisive e a tutti gli organismi che possano e vogliano contribuire a propagare quest’onda sonora oltre i confini carcerari. I brani sono inoltre liberamente disponibili per tutti in streaming su YouTube ( www.youtube.com/user/ilpontemagico ) e in download sul sito dell’Associazione il Ponte Magico ( www.ilpontemagico.it

D-Jail
).

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Censis: Italia debole che si sente ostaggio della grande finanza e soprattutto vuole tornare a credere in se stessa e recuperare credibilità.

l 45° Rapporto disegna un’Italia debole che si sente ostaggio della grande finanza e soprattutto vuole tornare a credere in se stessa e recuperare credibilità. Gli obiettivi: tornare “al nostro scheletro contadino”, riscoprendo l’economia reale al posto dei giochi finanziari, e l’onestà: l’81% condanna l’evasione fiscale, il 59% chiede a chi governa comportamenti specchiati in pubblico e nel privato
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

E’ stato più di un anno orribile: la cifra di quanto l’Italia sia ormai un Paese fragile, isolato, privo della solida reputazione che ha avuto per secoli, prima ancora di giocare un ruolo politico nello scacchiere internazionale, l’ha data forse quello sguardo di scherno passato dal presidente francese Sarkozy alla cancelliera tedesca Merkel, in conferenza stampa a Bruxelles. Senza la sua “good reputation”, all’Italia, osserva il 45esimo rapporto Censis, presentato stamane a Roma, non rimane che essere “eterodiretta”, in balia della grande finanza e soprattutto delle istituzioni europee che ci dettano l’agenda, “quasi a imporci il compitino”. Una situazione “che ci fa sentire confinati per l’eternità a mediocri destini”.

E’ colpa soprattutto nostra, certo: abbiamo accumulato per decenni “un abnorme debito pubblico”, ci siamo fatti trovare “politicamente impreparati a un attacco speculativo che vedeva nella finanza pubblica italiana l’anello debole dell’incompiuto sistema europeo”, abbiamo dimostrato “per mesi e mesi confusione e impotenza nelle mosse di governo volte alla difesa e al rilancio della nostra economia”.

Tornare all’economia reale. Possiamo venirne fuori? Il Censis indica una strada che va ben oltre il risanamento, la messa a posto dei conti imposta “dalla regolazione finanziaria di vertice”, che “può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita”. E’ illusorio, sottolinea il Censis, “pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà”. Premesso che “sarà faticoso, anche per chi si avvia a governare nel prossimo futuro, diffondere impegni di responsabile autodirezione e di rinnovata autostima”, bisognerà tornare all’economia reale, e a una cultura che metta al centro la correttezza, e l’onestà.

Riscoprire l’onestà. Sembra lontana la logica della furbizia, del vince chi frega gli altri. E’ evidente che ci ha portati sull’orlo del baratro. Alla classe dirigente la maggioranza degli italiani (59%) chiede adesso “specchiata onestà sia in pubblico che in privato”, preparazione (43%), “saggezza e consapevolezza (42,5%). Ma gli italiani sono pronti anche a prendere sulle proprie spalle la responsabilità di cambiare il Paese: il 57,3% si dichiara disponibile a sacrificare in tutto o in parte il proprio tornaconto personale per l’interesse generale (però poi il 46% restringe la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile, il 38% pensa che chi non paga le tasse arreca un danno ai cittadini onesti. Onestà, dunque.

E il nostro “scheletro contadino”. In fondo, osserva il Censis, si tratta di tornare al solido “scheletro contadino”, inteso come “metafora della nostra cultura di continuo adattamento”, ma anche dell’economia reale, che dà ricchezza vera, mentre il dominio dell’economia finanziaria ci ha portati alla crisi. “Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia”.

La nostra reputazione è migliore di quello che pensiamo. Per ripartire però bisogna anche liberarsi da quell’eccesso di “declinismo” che si è ormai abbattuto sugli italiani. All’estero non ci vedono poi così male: in una recente classifica internazionale risultiamo al quattordicesimo posto, due posizioni più in basso rispetto al 2009 (ma Spagna, Irlanda e Grecia hanno perso molto più terreno). Dell’Italia gli stranieri apprezzano lo stile di vita, l’ambiente, la capacità di intessere relazioni, il cibo. Caratteristiche che hanno anche una solida base economica: l’Italia è l’ottavo Paese esportatore del mondo, con circa il 3% dell’export mondiale e una crescita del 10,1% tra il 2009 e il 2010. Vanta un primato sui prodotti Dop e Igp, che hanno tenuto a livello di fatturato anche tra il 2008 e il 2009, quanto tutto arretrava. E del resto l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità in Europa: ne abbiamo 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario. Ma gli italiani non riescono più a vedersi obiettivamente, si giudicano male, decisamente molto peggio di quanto li giudichino gli stranieri: una classifica analoga, nella quale si chiede invece agli italiani quello che pensano dei vari Paesi, ci vede invece al 34esimo posto su 37 Paesi.

L’identità perduta. Gli italiani fanno persino fatica a sentirsi tali. Solo il 46% dei cittadini si dichiara “italiano” (con differenze territoriali: il 44,7% al Nord-Ovest, il 37,9% al Nord-Est, il 54,4% al Centro, il 46,8% al Sud e nelle Isole), mentre il 31,3% si riconosce piuttosto cittadino del proprio Comune, o della propria Regione; il 15,4% si sente “cittadino del mondo”, il 7,3% si riconosce solo in se stesso. Anche se prevalgono ormai modelli familiari molto diversi da quello tradizionale, il senso della famiglia rimane il valore aggregante per il 65,4% degli italiani (con un picco del 75,2% al Sud e nelle isole), seguito a molta distanza dal gusto per la qualità della vita (25%) e dalla tradizione religiosa (21,5%).

Valorizzare i punti di forza. L’Italia ha ancora dei notevoli punti di forza. Le esportazioni, innanzitutto, che il Censis indica come possibile volano di crescita, soprattutto se le imprese italiane continuano con determinazione a raggiungere nuovi mercati, cogliendo le nuove opportunità offerte da Paesi come il Messico, il Perù, la Corea del Sud e la Malesia. Ma può giocare un ruolo importante per la ripresa anche la valorizzazione della ricchezza delle famiglie, che è ancora cospicua nonostante l’erosione dovuta alla crisi: è cresciuta del 22% infatti in termini reali nel decennio 1999-2009, raggiungendo il picco nel 2007. E’ cresciuta molto più del reddito: il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile era pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte dieci anni dopo. Da valorizzare, ancora, le nostre eccellenze nell’industria manifatturiera e agroalimentare, e l’apporto sempre più indispensabile degli immigrati.

Rilanciare la produttività. Il punto debole del nostro sistema al momento è soprattutto la produttività bassa. Il Pil non cresce anche perché la produttività non cresce. E infatti mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil italiano è cresciuto solo del 4%, contro il 9,7% della Germania e l’11,9% della Francia, che hanno registrato incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e del 5,1%. La produttività oraria ha avuto un vero e proprio crollo in Italia dal 2000 a oggi: siamo partiti in fatti da un valore pari a 117 (fatto 100 il valore medio europeo), arrivando nel 2010 ad appena 101, contro 133 della Francia, 124 della Germania, 108 della Spagna e 107 del Regno Unito. Inoltre il mercato non assorbe praticamente più lavoratori qualificati: gli imprenditori e i dirigenti sono diminuiti dell’11,5%, dei 309.000 nuovi posti dell’ultimo quinquennio 297.000 erano per addetti alla vendita. Non solo è calata la produzione industriale, ma anche il valore aggiunto dei servizi è cresciuto pochissimo (+1,3%), che sono invece cresciuti ovunque in Europa.

Promuovere la formazione. Alle carenze del nostro sistema produttivo corrispondono carenze forse anche più gravi di quello scolastico-formativo. Moltissimi si iscrivono alla scuola superiore, ma si diploma solo il 75% dei diciannovenni. Il 65% dei diplomati tenta la carriera universitaria, ma poi il 20% abbandona. E del resto il tasso di occupazione dei laureati è fermo al 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei e ben al di sotto della media (82,3%). I laureati che lavorano sono per metà sottoinquadrati al primo impiego (49,2%), ma lo sono anche il 46,5% dei diplomati.

Basta con i tagli lineari. Il fatto è che la scuola e l’università, come il welfare, come i trasporti, sono stremati da tre anni di “tagli lineari”, che hanno prodotto gravi segnali di deterioramento dei servizi. Nel triennio 2008-2011 l’organico scolastico è diminuito di 57.000 posti, a fronte di un incremento di 76.000 unità degli alunni. Il comparto sicurezza ha subito tagli per 1,65 miliardi di euro. I trasporti locali sono al collasso, e ancor più lo sono le politiche sociali: il relativo Fondo Nazionale tra il 2009 e il 2011 è stato ridotto del 65,6%, mentre il Fondo nazionale per le non autosufficienze è stato azzerato.

Bisogno di piazza. Ma non basta riavviare l’economia, e neanche credere nuovamente in noi, e in valori come l’onestà e la correttezza. Bisogna potenziare le relazioni sociali, delle quali gli italiani sentono forte bisogno. E infatti hanno riscoperto le reti di prossimità, quello che una volta banalmente si definiva il vicinato, le attività di volontariato (svolte dal 26% della popolazione), gli incontri conviviali, dalle sagre alle feste (se ne tengono 11.700 ogni anno in Italia), i social network (che coinvolgono il 31% degli italiani). Il “bisogno di piazza” si esprime in termini molto più semplici: è proprio la piazza il luogo dove ancora oggi si incontra il 27,5% degli anziani, seguito dal bar (27,1%).

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I casi di Grecia e Italia hanno fatto scuola: la Ue è autorizzata a scavalcare le sovranità nazionali.

Arriva la tutela dell’Eurozona. Ispettori Ue per Paesi in difficoltà
Il ‘six pack’ approvato dall’Unione prevede la nascita a livello nazionale di un ‘Consiglio indipendente di bilancio’ autonomo e con il compito di monitorare l’applicazione delle regole di bilancio. La Commissione europea deciderà se inviare ispettori che raccomanderanno gli aiuti finanziari

Un Paese dell’Eurozona con problemi di stabilità potrà essere sottoposto alla “vigilanza rafforzata” della Commissione Ue che poi invierà regolarmente ispettori che verificheranno l’operato e proporranno al Consiglio di ‘raccomandare’ aiuti finanziari. Secondo due regolamenti che saranno varati mercoledì, rappresentanti dei Paesi sotto tutela potranno essere invitati a riferire al Parlamento Ue, così come esponenti della Commissione potranno andare a spiegare la situazione ai Parlamenti nazionali.

Il nuovo giro di vite sul controllo dei conti pubblici nazionali e sui piani destinati ad assicurare la loro sostenibilità, si spiega nei due provvedimenti, deriva dalla necessità di applicare in concreto e in dettaglio la riforma della governance economica sancita nel cosiddetto ‘six pack’ da poco approvato dall’Ue. Oltre a prevedere la nascita a livello nazionale di un ‘Consiglio indipendente di bilancio’ – totalmente autonomo dalle autorità preposte e con il compito di monitorare l’applicazione delle regole di bilancio – i provvedimenti in arrivo fissano il calendario delle politiche fiscali.

Entro il 15 aprile dovrà essere presentato il programma di bilancio a medio termine, per il 15 ottobre dovrà arrivare la bozza della legge finanziaria, la Commissione potrà presentare le sue osservazioni entro il 30 novembre e per il 31 dicembre la legge di bilancio dovrà essere approvata. Se un Paese soggetto a un programma di aggiustamento dei sui conti dimostrerà un’insufficiente capacità amministrativa e altri problemi nell’applicazione del programma stesso – si legge ancora nei testi dei provvedimenti – “dovrà chiedere” assistenza tecnica alla Commissione.

La Commissione potrà anche proporre al Consiglio che deciderà a maggioranza qualificata di dichiarare “inadempiente” un Paese che non ha saputo mantenere gli impegni presi. Esponendolo così, si ricorda nella proposta di regolamento, al rischio di sospensione del versamento dei fondi strutturali, sociali, di coesione, per lo sviluppo rurale e per le politiche marittime.
(Beh, buona giornata).

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Comincia la deberlusconizzazione: il discorso intergale di Monti al Senato.

Mario Monti al Senato della Repubblica, 17.11.11:

Signor Presidente, onorevoli senatrici, onorevoli senatori, è con grande emozione che mi rivolgo a voi come primo atto del percorso rivolto ad ottenere la fiducia del Parlamento al Governo ieri costituito.

L’emozione è accresciuta dal fatto che prendo oggi la parola per la prima volta in questa Aula nella quale mi avete riservato qualche giorno fa un’accoglienza che mi ha commosso. Sono onorato di entrare a far parte del Senato della Repubblica. Desidero rivolgere un saluto deferente al Capo dello Stato, presidente Napolitano che con grande saggezza, perizia e senso dello Stato ha saputo risolvere una situazione difficile in tempi ristrettissimi nell’interesse del Paese e di tutti i cittadini.

APPLAUSI

Vorrei anche rinnovargli la mia gratitudine per la fiducia accordata alla mia persona, per il sostegno e la partecipazione che mi ha costantemente assicurato nei miei sforzi per comporre un Governo che potesse soddisfare le richieste delle forze politiche e, al contempo, dare risposte efficaci alle gravi sfide che il nostro Paese ha di fronte a sé.

Rivolgo il mio saluto ai Presidenti emeriti della Repubblica, ai senatori a vita e a tutti i senatori. Mi auguro di poter stabilire con ciascuno di voi anche un rapporto personale come vostro collega, sia pure l’ultimo arrivato.

APPLAUSI

Il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di Governo, lo snodo decisivo per il rilancio e il riscatto della vita democratica. Al Parlamento vanno riconosciute e rafforzate attraverso l’azione quotidiana di ciascuno di noi dignità, credibilità e autorevolezza.
Da parte mia, da parte nostra, vi sarà sempre una chiara difesa del ruolo di entrambe le Camere quali protagoniste del pubblico dibattito.
Un ringraziamento specifico e molto sentito desidero, infine, esprimere al vostro, al nostro, Presidente. Il presidente Schifani (APPLAUSI)

ha voluto accogliermi, fin dal primo istante di questa mia missione – come potete immaginare, non semplicissima – svoltasi, in gran parte, a Palazzo Giustiniani, con una generosità e una cordialità che non potrò dimenticare.

APPLAUSI

Rivolgo, infine, un pensiero rispettoso e cordiale al presidente, onorevole dottor Silvio Berlusconi (APPLAUSI) mio predecessore, del quale mi fa piacere riconoscere l’impegno nel facilitare in questi giorni la mia successione nell’incarico.

Il Governo riconosce di essere nato per affrontare in spirito costruttivo e unitario una situazione di seria emergenza. Vorrei usare questa espressione: Governo di impegno nazionale. Governo di impegno nazionale significa assumere su di sé il compito di rinsaldare le relazioni civili e istituzionali, fondandole sul senso dello Stato. È il senso dello Stato, è la forza delle istituzioni, che evitano la degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell’appartenenza alla comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo. Ed io ho inteso fin dal primo momento il mio servizio allo Stato non certo con la supponenza di chi, considerato tecnico, venga per dimostrare un’asserita superiorità della tecnica rispetto alla politica. Al contrario, spero che il mio Governo ed io potremo, nel periodo che ci è messo a disposizione, contribuire in modo rispettoso e con umiltà a riconciliare maggiormente – permettetemi di usare questa espressione – i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica.

APPLAUSI

Io vorrei, noi vorremmo, aiutarvi tutti a superare una fase di dibattito, che fa parte naturalmente della vita democratica, molto, molto, accesa, e consentirci di prendere insieme, senza alcuna confusione delle responsabilità, provvedimenti all’altezza della situazione difficile che il Paese attraversa, ma con la fiducia che la politica che voi rappresentate sia sempre più riconosciuta, e di nuovo riconosciuta, come il motore del progresso del Paese.

Le difficoltà del momento attuale. L’Europa sta vivendo i giorni più difficili dagli anni del secondo dopoguerra. Il progetto che dobbiamo alla lungimiranza di grandi uomini politici, quali furono Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e – sottolineo in modo particolare – Alcide De Gasperi (APPLAUSI) e che per sessant’anni abbiamo perseguito, passo dopo passo, dal Trattato di Roma – non a caso di Roma – all’atto unico, ai Trattati di Maastricht e di Lisbona, è sottoposto alla prova più grave dalla sua fondazione.

Un fallimento non sarebbe solo deleterio per noi europei. Farebbe venire meno la prospettiva di un mondo più equilibrato in cui l’Europa possa meglio trasmettere i suoi valori ed esercitare il ruolo che ad essa compete, in un mondo sempre più bisognoso di una governance multilaterale efficace.

Non illudiamoci, onorevoli senatori, che il progetto europeo possa sopravvivere se dovesse fallire l’Unione Monetaria. La fine dell’euro disgregherebbe il mercato unico, le sue regole, le sue istituzioni. Ci riporterebbe là dove l’Europa era negli anni cinquanta.

La gestione della crisi ha risentito di un difetto di governance e, in prospettiva, dovrà essere superata con azioni a livello europeo. Ma solo se riusciremo ad evitare che qualcuno, con maggiore o minore fondamento, ci consideri l’anello debole dell’Europa, potremo ricominciare a contribuire a pieno titolo all’elaborazione di queste riforme europee. Altrimenti ci ritroveremo soci di un progetto che non avremo contribuito ad elaborare, ideato da Paesi che, pur avendo a cuore il futuro dell’Europa, hanno a cuore anche i lori interessi nazionali, tra i quali non c’è necessariamente una Italia forte.

Il futuro dell’euro dipende anche da ciò che farà l’Italia nelle prossime settimane, anche e non solo, ma anche. Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico. Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale ma durevole del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Quel rapporto è oggi al medesimo livello al quale era vent’anni fa ed è il terzo più elevato tra i Paesi dell’OCSE. Per raggiungere questo obiettivo intendiamo far leva su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità.

Nel ventennio trascorso l’Italia ha fatto molto per riportare in equilibrio i conti pubblici, sebbene alzando l’imposizione fiscale su lavoratori dipendenti e imprese, più che riducendo in modo permanente la spesa pubblica corrente. Tuttavia, quegli sforzi sono stati frustrati dalla mancanza di crescita. L’assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti. Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio, sulla discesa del rapporto tra debito e PIL. Ma non saremo credibili, neppure nel perseguimento e nel mantenimento di questi obiettivi, se non ricominceremo a crescere.

Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee. Non c’è nessuna originalità europea nell’aver individuato ciò che l’Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene fosse necessario per la nostra crescita.

Non vediamo i vincoli europei come imposizioni. Anzitutto permettetemi di dire, e me lo sentirete affermare spesso, che non c’è un loro e un noi. L’Europa siamo noi.

APPLAUSI

Quelli che poi ci vengono in un turbinio di messaggi, di lettere e di deliberazioni dalle istituzioni europee sono per lo più provvedimenti rivolti a rendere meno ingessata l’economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita, migliorare l’efficienza dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese.

APPLAUSI

L’obiezione che spesso si oppone a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per la crescita. È un’obiezione dietro la quale spesso si maschera – riconosciamolo – chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla crescita nel breve periodo (che è vero che non hanno), ma perché si teme che queste misure ledano gli interessi di qualcuno. Ma, evidentemente, più tardi si comincia, più tardi arriveranno i benefìci delle riforme. Ma, soprattutto, le scelte degli investitori che acquistano i nostri titoli pubblici sono guidate sì da convenienze finanziarie immediate, ma – mettiamocelo in testa – sono guidate anche dalle loro aspettative su come sarà l’Italia fra dieci o vent’anni, quando scadranno i titoli che acquistano oggi.

Quindi, non c’è iato la tra le cose che dobbiamo o fare oggi o avviare oggi, anche se avranno effetti lontani, perché anche gli investitori, che ci premiano o ci puniscono, agiscono oggi, ma guardano anche agli effetti lontani.

Riforme che hanno effetti anche graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze positive sulla crescita stessa. I sacrifici necessari per ridurre il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà l’equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia – mi auguro – sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l’effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della popolazione, a condizioni ben più dure.

La crisi che stiamo vivendo è internazionale; questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad evitare demonizzazioni. È internazionale, lo sto dicendo a tutti. Ma l’Italia ne ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine del prossimo anno il prodotto interno lordo dell’Italia sarebbe ancora quattro punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la stessa data, l’area dell’euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il traguardo di riportarsi al livello precrisi nell’anno in corso. La relativa debolezza della nostra economia precede l’avvio della crisi.

Tra il 2001 e il 2007 il prodotto italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell’area dell’euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona euro. La crisi ha colpito più duramente i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l’Unione europea fino al 2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età 15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali, in Italia di 7,6 punti percentuali.

Il nostro Paese rimane caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità.

APPLAUSI

I problemi nel Mezzogiorno vanno affrontati non nella logica del chiedere di più, ma di una razionale modulazione delle risorse.

Esiste anche una questione settentrionale: costo della vita, delocalizzazione, nuove povertà, bassa natalità.

Il riequilibrio di bilancio, le riforme strutturali e la coesione territoriale richiedono piena e leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali.

Occorre riconoscere il valore costituzionale delle autonomie speciali, nel duplice binario della responsabilità e della reciprocità.

In quest’ottica, per rispondere alla richiesta formulata dalle istituzioni territoriali che, devo dire, ho ascoltato con molta attenzione…

Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate, non applaudite!

APPLAUSI

Non ripeterò l’importanza del valore costituzionale delle autonomie speciali, perché altrimenti arrivano di nuovo applausi; l’ho già detto e lo avete ascoltato.

In quest’ottica – come stavo dicendo – perrispondere alla richiesta formulata dalle istituzioni territoriali nel corso delle consultazioni, ho deciso di assumere direttamente in questa prima fase le competenze relative agli affari regionali. Spero in questo modo di manifestare una consapevolezza condivisa circa il fatto che il lavoro comune con le autonomie territoriali debba proseguire e rafforzarsi, nonostante le difficoltà dell’agenda economica. In tale prospettiva si dovrà operare senza indugio per un uso efficace dei fondi strutturali dell’Unione europea.
Sono consapevole che sarebbe un’ambizione eccessiva da parte mia e da parte nostra pretendere di risolvere in un arco di tempo limitato, qual è quello che ci separa dalla fine di questa legislatura, problemi che hanno origini profonde e che sono radicati in consuetudini e comportamenti consolidati. Ciò che si prefiggiamo di fare è impostare il lavoro, mettere a punto gli strumenti che permettano ai Governi che ci succederanno di proseguire un processo di cambiamento duraturo.

Per questo il programma che vi sottopongo oggi si compone di due parti, che hanno obiettivi ed orizzonti temporali diversi. Da un lato, vi è una serie di provvedimenti per affrontare l’emergenza, assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, restituire fiducia nelle capacità del nostro Paese di reagire e sostenere una crescita duratura ed equilibrata. Dall’altro lato, si tratta di delineare con iniziative concrete un progetto per modernizzare le strutture economiche e sociali, in modo da ampliare le opportunità per le imprese, i giovani, le donne e tutti i cittadini, in un quadro di ritrovata coesione sociale e territoriale.

In considerazione dell’urgenza con la quale abbiamo dovuto operare per la formazione di questo Governo – ed in questo senso voglio ringraziare le diverse forze politiche che, nei miei confronti, figura estranea al vostro mondo, si sono gentilmente e con sollecitudine apprestate all’ascolto e all’offerta di contributi dei quali ho cercato di tenere conto – quello che intendo fare oggi è semplicemente presentarvi gli aspetti essenziali dell’azione che intendiamo svolgere. Se otterremo la fiducia del Parlamento, ciascun Ministro esporrà alle Commissioni parlamentari competenti le politiche attraverso le quali, nei singoli settori, queste azioni verranno avviate.

È in discussione in Parlamento una proposta di legge costituzionale per introdurre un vincolo di bilancio in pareggio per le amministrazioni pubbliche, in coerenza con gli impegni presi nell’ambito dell’Eurogruppo.
L’adozione di una regola di questo tipo può contribuire a mantenere nel tempo il pareggio di bilancio programmato per il 2013, evitando che i risultati conseguiti con intense azioni di risanamento vengano erosi negli anni successivi, come è accaduto in passato. Affinché il vincolo sia efficace, dovranno essere chiarite le responsabilità dei singoli livelli di Governo.

A questo proposito ed anche in considerazione della complessità della regola, ad esempio l’aggiustamento per il ciclo, sarà opportuno studiare l’esperienza di alcuni Paesi europei che hanno affidato ad autorità indipendenti la valutazione del rispetto sostanziale della regola, dato che in questa materia la credibilità nei confronti di noi stessi e del mondo è un requisito essenziale. Sarà anche necessario attuare rapidamente l’armonizzazione dei bilanci delle amministrazioni pubbliche. Opportunamente la proposta di legge in discussione in Parlamento già prevede l’assegnazione allo Stato della potestà legislativa esclusiva in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici. Nell’immediato daremo piena attuazione alle manovre varate nel corso dell’estate, completandole attraverso interventi in linea con la lettera di intenti inviata alle autorità europee.

Nel corso delle prossime settimane valuteremo la necessità di ulteriori correttivi. Una parte significativa della correzione dei saldi programmata durante l’estate è attesa dall’attuazione della riforma dei sistemi fiscale ed assistenziale. Dovremmo pervenire al più presto ad una definizione di tale riforma e ad una valutazione prudenziale dei suoi effetti. Dovranno inoltre essere identificati gli interventi, volti a colmare l’eventuale divario rispetto a quelli indicati nella manovra di bilancio.

Di fronte ai sacrifici che sono stati e che dovranno essere richiesti ai cittadini sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi. I soggetti che ricoprono cariche elettive, i dirigenti designati politicamente nelle società di diritto privato, finanziate con risorse pubbliche, più in generale quanti rappresentano le istituzioni ad ogni livello politico ed amministrativo, dovranno agire con sobrietà ed attenzione al contenimento dei costi, dando un segnale concreto ed immediato. Si dovranno rafforzare gli interventi effettuati con le ultime manovre di finanza pubblica, con l’obiettivo di allinearci rapidamente alle best practices europee.

Per quanto di mia diretta competenza, avvierò immediatamente una spending review del Fondo unico della Presidenza del Consiglio. Ritengo inoltre necessario ridurre le sovrapposizioni tra i livelli decisionali e favorire la gestione integrata dei servizi per gli Enti locali di minori dimensioni. Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria. La prevista specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo, consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l’Europa.

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Per garantire la natura strutturale della riduzione delle spese dei Ministeri, decisa con la legge di stabilità, andrà definito rapidamente il programma per la riorganizzazione della spesa, previsto dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in particolare per quanto riguarda l’integrazione operativa delle agenzie fiscali, la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell’amministrazione dello Stato, il coordinamento delle attività delle forze dell’ordine, l’accorpamento degli enti della previdenza pubblica, la razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria.

Gli interventi saranno coordinati con la spending review in corso, che intendo rafforzare e rendere particolarmente incisiva con la precisa individuazione di tempi e responsabilità. Negli scorsi anni la normativa previdenziale è stata oggetto di ripetuti interventi, che hanno reso a regime il sistema pensionistico italiano tra i più sostenibili in Europa e tra i più capaci di assorbire eventuali shock negativi. Già adesso l’età di pensionamento, nel caso di vecchiaia, tenendo conto delle cosiddette finestre, è superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi.

Il nostro sistema pensionistico rimane però caratterizzato da ampie disparità di trattamento tra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio.

Il rispetto delle regole e delle istituzioni e la lotta all’illegalità riceveranno attenzione prioritaria da questo Governo. Per riacquistare fiducia nel futuro dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni che caratterizzano uno Stato di diritto, quindi si procederà alla lotta all’evasione fiscale e all’illegalità, non solo per aumentare il gettito (il che non guasta), ma anche per abbattere le aliquote: questo può essere fatto con efficacia prestando particolare attenzione al monitoraggio della ricchezza accumulata (ho detto monitoraggio della ricchezza accumulata) e non solo ai redditi prodotti.

L’evasione fiscale continua a essere un fenomeno rilevante: il valore aggiunto sommerso è quantificato nelle statistiche ufficiali in quasi un quinto del prodotto. Interventi incisivi in questo campo possono ridurre il peso dell’aggiustamento sui contribuenti che rispettano le norme. Occorre ulteriormente abbassare la soglia per l’uso del contante, favorire un maggior uso della moneta elettronica, accelerare la condivisione delle informazioni tra le diverse amministrazioni, potenziare e rendere operativi gli strumenti di misurazione induttiva del reddito e migliorare la qualità degli accertamenti.

Il decreto legislativo n. 23 del 14 marzo 2011 prevede per il 2014 l’entrata in vigore dell’imposta municipale che assorbirà l’attuale ICI, escludendo tuttavia la prima casa e l’IRPEF sui redditi fondiari da immobili non locati, comprese le relative addizionali. In questa cornice intendiamo riesaminare il peso del prelievo sulla ricchezza immobiliare: tra i principali Paesi europei, l’Italia è caratterizzata da un’imposizione sulla proprietà immobiliare che risulta al confronto particolarmente bassa. L’esenzione dall’ICI delle abitazioni principali costituisce, sempre nel confronto internazionale, una peculiarità – se non vogliamo chiamarla anomalia – del nostro ordinamento tributario.

Il primo elenco di cespiti immobiliari da avviare a dismissione sarà definito nei tempi previsti dalla legge di stabilità, cioè entro il 30 aprile 2012. La lettera d’intenti inviata alla Commissione europea prevede proventi di almeno 5 miliardi all’anno nel prossimo triennio. A tale scopo verrà definito un calendario puntuale per i successivi passi del piano di dismissioni e di valorizzazione del patrimonio pubblico. Tuttavia, è necessario volgere tutte le politiche pubbliche, a livello macroeconomico e microeconomico, a sostegno della crescita, sia pure nei limiti determinati dal vincolo di bilancio.

La pressione fiscale in Italia è elevata nel confronto storico e in quello internazionale (nel testo scritto che avrete a disposizione si danno ulteriori elementi). Nel tempo e via via che si manifesteranno gli effetti della spending review sarà possibile programmare una graduale riduzione della pressione fiscale; tuttavia anche prima, a parità di gettito, la composizione del prelievo fiscale può essere modificata in modo da renderla più favorevole alla crescita. Coerentemente con il disegno della delega fiscale e della clausola di salvaguardia che la accompagna, una riduzione del peso delle imposte e dei contributi che gravano sul lavoro e sull’attività produttiva, finanziata da un aumento del prelievo sui consumi e sulla proprietà, sosterrebbe la crescita senza incidere sul bilancio pubblico.

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Dal lato della spesa, un impulso all’attività economica potrà derivare da un aumento del coinvolgimento dei capitali privati nella realizzazione di infrastrutture. Gli incentivi fiscali stabiliti con legge di stabilità sono un primo passo, ma è anche necessario intervenire sulla regolamentazione del project financing, in modo da ridurre il rischio associato alle procedure amministrative. Occorre inoltre operare per raggiungere gli obiettivi fissati in sede europea con l’agenda digitale. Ho quasi concluso.

Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione.

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Le riforme in questo campo dovranno avere il duplice scopo di rendere più equo il nostro sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale e anche di facilitare la crescita della produttività, tenendo conto dell’eterogeneità che contraddistingue in particolare l’economia italiana. In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere.

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Intendiamo perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, come ci viene chiesto dalle autorità europee e come già le parti sociali hanno iniziato a fare, che va accompagnato da una disciplina coerente del sostegno alle persone senza impiego volta a facilitare la mobilità e il reinserimento nel mercato del lavoro, superando l’attuale segmentazione. Più mobilità tra impresa e settori è condizione essenziale per assecondare la trasformazione dell’economia italiana e sospingerne la crescita.

È necessario colmare il fossato che si è creato tra le garanzie e i vantaggi offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi. Tenendo conto dei vincoli di bilancio occorre avviare una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali, volta a garantire a ogni lavoratore che non sarà privo di copertura rispetto ai rischi di perdita temporanea del posto di lavoro. Abbiamo da affrontare una crisi, abbiamo da affrontare delle trasformazioni strutturali, ma è nostro dovere cercare di evitare le angosce che accompagnano questi processi.

APPLAUSI

È necessario, infine, mantenere una pressione costante nell’azione di contrasto e di prevenzione del lavoro sommerso. Uno dei fattori che distinguono l’Italia nel contesto europeo è la maggiore difficoltà di inserimento o di permanenza in condizioni di occupazione delle donne. Assicurare la piena inclusione delle donne in ogni ambito della vita lavorativa ma anche sociale e civile del Paese è una questione indifferibile.

È necessario affrontare le questioni che riguardano la conciliazione della vita familiare con il lavoro, la promozione della natalità e la condivisione delle responsabilità legate alla maternità da parte di entrambi i genitori, nonché studiare l’opportunità di una tassazione preferenziale per le donne.

C’è poi un problema legato all’invecchiamento della popolazione che si traduce in oneri crescenti per le famiglie; andrà quindi prestata attenzioni ai servizi di cura agli anziani, oggi una preoccupazione sempre più urgente nelle famiglie in un momento in cui affrontano difficoltà crescenti.

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Infine un’attenzione particolare andrà assicurata alle prospettive per i giovani; dico “infine” nel senso di finalità di tutta la nostra azione. Questa sarà una delle priorità di azione di questo Governo, nella convinzione che ciò che restringe le opportunità per i giovani si traduce poi in minori opportunità di crescita e di mobilità sociale per l’intero Paese. Dobbiamo porci l’obiettivo di eliminare tutti quei vincoli che oggi impediscono ai giovani di strutturare le proprie potenzialità in base al merito individuale indipendentemente dalla situazione sociale di partenza. Per questo ritengo importante inserire nell’azione di Governo misure che valorizzino le capacità individuali e eliminino ogni forma di cooptazione. L’Italia ha bisogno di investire sui suoi talenti; deve essere lei orgogliosa dei suoi talenti e non trasformarsi in un’entità di cui i suoi talenti non sempre sono orgogliosi. Per questo la mobilità è la nostra migliore alleata, mobilità sociale ma anche geografica, non solo all’interno del nostro Paese ma anche e soprattutto nel più ampio orizzonte del mercato del lavoro europeo e globale.

L’ultimo punto che desidero brevemente presentarvi – ed è una caratteristica spero distintiva del nostro Esecutivo, se consentirete al nostro, o vostro, Governo di nascere, è quella delle politiche micro-economiche per la crescita.

Un ritorno credibile a più alti tassi di crescita deve basarsi su misure volte a innalzare il capitale umano e fisico e la produttività dei fattori. La valorizzazione del capitale umano deve essere un aspetto centrale: sarà necessario mirare all’accrescimento dei livelli d’istruzione della forza lavoro, che sono ancora oggi nettamente inferiori alla media europea, anche tra i più giovani. Vi contribuiranno interventi mirati sulle scuole e sulle aree in ritardo, identificando i fabbisogni, anche mediante i test elaborati dall’INVALSI, e la revisione del sistema di selezione, allocazione e valorizzazione degli insegnanti. Nell’università, varati i decreti attuativi della legge di riforma approvata lo scorso anno, è ora necessario dare rapida e rigorosa attuazione ai meccanismi d’incentivazione basati sulla valutazione, previsti dalla riforma. Gli investimenti in infrastrutture, di cui tante volte e giustamente abbiamo parlato e si è parlato negli corso degli anni, sono fattori rilevanti per accrescere la produttività totale dell’economia.

A questo scopo, abbiamo per la prima volta valorizzato in modo organico nella struttura del Governo la politica, anzi, le politiche di sviluppo dell’economia reale, con l’attribuzione ad un unico Ministro delle competenze sullo sviluppo economico e sulle infrastrutture ed i trasporti. Questo vuole indicare quasi visivamente e in termini di organigramma del Governo che pari attenzione e centralità vanno attribuite a ciò che mantiene il Paese stabile, la disciplina finanziaria, e a ciò che ad esso consente di crescere e, quindi, di restare stabile a lungo termine, cioè appunto la crescita.

Occorre anche rimuovere gli ostacoli strutturali alla crescita, affrontando resistenze e chiusure corporative. In tal senso, è necessario un disegno organico, volto a ridurre gli oneri ed il rischio associato alle procedure amministrative, nonché a stimolare la concorrenza, con particolare riferimento al riordino della disciplina delle professioni regolamentate, anche dando attuazione a quanto previsto nella legge di stabilità in materia di tariffe minime.

Intendiamo anche rafforzare gli strumenti d’intervento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in caso di disposizioni legislative o amministrative, statali o locali, che abbiano effetti distorsivi della concorrenza, accrescere la qualità dei servizi pubblici, nel quadro di un’azione volta a ridurre il deficit di concorrenza a livello locale, ridurre i tempi della giustizia civile, in modo tale da colmare il divario con gli altri Paesi, anche attraverso la riduzione delle sedi giudiziarie, e rimuovere gli ostacoli alla crescita delle dimensioni delle imprese, anche attraverso la delega fiscale.

Un innalzamento significativo del tasso di crescita è condizione essenziale non solo del riequilibrio finanziario, ma anche del progresso civile e sociale. In tal senso, una strategia di rilancio della crescita non può prescindere da un’azione determinata ed efficace di contrasto alla criminalità organizzata e a tutte le mafie, che vada a colpire gli interessi economici delle organizzazioni e le loro infiltrazioni nell’economia legale.

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Il risanamento della finanza pubblica ed il rilancio della crescita contribuiranno a rafforzare la posizione dell’Italia in Europa e, più in generale, la nostra politica estera: vocazione europeistica, solidarietà atlantica, rapporti con i nostri partners strategici, apertura dei mercati, sicurezza nazionale ed internazionale rimarranno i cardini di tale politica. Voglio qui ricordare i nostri militari impegnati in missioni all’estero, le Forze Armate ed i rappresentanti delle forze dell’ordine, che sono in prima linea nella difesa dei nostri valori e della democrazia.

APPLAUSI

L’Italia ha bisogno di una politica estera coerente con i nostri impegni e di una ripresa d’iniziativa nelle aree dove vi siano significativi interessi nazionali.

Dimenticavo di dirvi, a proposito di militari impegnati in missioni all’estero, che se non vedete ancora in questi banchi il nostro collega Ministro della difesa, è perché l’altra sera l’ho svegliato alle tre di notte in Afghanistan, pensando che fosse a Bruxelles dove si trova la sua sede ordinaria di lavoro. Ho notato prima una certa esitazione e poi grande entusiasmo nell’accettazione della proposta. (Applausi dai Gruppi PdL e PD). Ecco un esempio di militare impegnato all’estero che sta facendo i salti mortali per arrivare a giurare nelle mani del Capo dello Stato nelle prossime ore. Scusate quindi la sua assenza.

La gravità della situazione attuale richiede una risposta pronta e decisa nella creazione di condizioni favorevoli alla crescita nel perseguimento del pareggio di bilancio, con interventi strutturali e con un’equa distribuzione dei sacrifici.

Il tentativo che ci proponiamo di compiere, onorevoli senatori, e che vi chiedo di sostenere è difficilissimo; altrimenti ho il sospetto che non mi troverei qui oggi. I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale. Se sapremo cogliere insieme questa opportunità per avviare un confronto costruttivo su scelte e obiettivi di fondo avremo occasione di riscattare il Paese e potremo ristabilire la fiducia nelle sue istituzioni. Vi ringrazio.

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

Telecom toglie la pubblicità al Comune di Roma: troppa illegalità.

Roma è invasa dai cartelloni pubblicitari, che spesso vengono posizionati senza alcun rispetto del decoro e dell’importanza storica e archeologica della città. Per questo Franco Bernabé, presidente di Telecom Italia, ha annunciato dalle pagine di Repubblica alcuni giorni fa che l’azienda si impegna a non pianificare più pubblicità sugli impianti che si trovano sulle strade, per stimolare una maggiore presa di coscienza sulla questione che porti a una più efficace regolamentazione.

“Sto riorganizzando il settore e avvierò un’azione di moral suasion anche con altre aziende – ha dichiarato Bernabè al quotidiano – . Sono in gioco la sicurezza urbana e stradale oltre che il decoro”.

D’accordo anche Flavio Biondi, presidente di IGPDecaux, importante multinazionale che opera proprio nel settore della comunicazione esterna e che ha vinto l’appalto per le affissioni pubblicitarie nella metropolitana, sugli autobus e sui tram della capitale. Il manager, in un’intervista pubblicata il 10 novembre, da Repubblica, dichiara che IGPDecaux è pronta a togliere i suoi 300 impianti stradali pur di incentivare un più alto livello di legalità.

La deregolamentazione vigente, che porta a un sovraffollamento di impianti, danneggia non solo le aziende di publicità esterna ma, come dichiara Biondi al quotidiano, anche gli investitori, “perchè non sanno se la loro pubblicità andrà a finire su un impianto regolare o no”.

Primo respossabile di questa deregolamentazione è il Comune, che ha istituito un sistema “in base al quale qualsiasi ditta che ha installato dei cartelloni paga un canone in cambio del quale ottiene l’inserimento in una banca dati”. Il risultato? Pur di raccogliere fondi, vengono autorizzati anche gli impianti abusivi e la città si trasforma in una giungla selvaggia di cartelloni pubblicitari, che sorgono in ogni dove, senza il minimo controllo.

E’l’ennesima inefficenza da ascrivere alla giunta presieduta da Alemanno, con il relativo danno economico alle casse del comune. Senza contare il danno alla reputazione della città, se l’esempio dovesse essere seguito da altri importanti marchi italiani e stranieri. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Leggi e diritto

La legge-bavaglio torna in frigorifero.

E’ Fabrizio Cicchitto ad annunciare il ritiro del disegno di legge: “E’ certo che ora si rinvia l’esame del ddl intercettazioni”, dice il capogruppo del Pdl alla Camera, subito dopo che il governo è andato sotto sul Bilancio. Beh, buona giornata.

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