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3DNews/La musica dei listini, esorcismo in note contro il default.

A Romaeuropa, martedì prossimo, “Nasdaq Match”, un concerto per pianoforte e dati finanziari

“ Orchestra valori”, Uri Caine e Fabio Cifariello Ciardi suonano duettando con le fluttuazioni azionarie

Il secondo appuntamento dedicato da Romaeuropa a musica e tecnologia vedrà come protagonisti Uri Caine e Fabio Cifariello Ciardi, ma assieme a loro anche il mercato azionario mondiale. Con Nasdaq Match 0.2 infatti i due musicisti si propongono di duettare con le SpA, le società per azioni di tutto il mondo, riunite in una immaginifica orchestra che suona in un altrettanto immaginifico auditorium, la borsa valori.

L’impaginato si apre con una esibizione di Uri Caine al pianoforte, un modo per questo musicista di esprimere il suo talento eclettico e indisciplinato, che attraversa gli stili classico, jazz, soul e pop con un gusto e un divertimento per l’improvvisazione tutto particolare. Autore del progetto “Nasdaq Match” è Cifariello Ciardi, compositore che dopo aver studiato con Franco Donatoni, Tristan Murrail e Philippe Manoury, ha sviluppato un peculiare approccio musicale da lui stesso definito «ecologico, politico». E, aggiungiamo, anche ironico come in questo caso: infatti, convoglia i dati provenienti dal mercato azionario in un computer che attraverso un algoritmo li trasforma in suoni digitali in tempo reale.

La borsa come la musica è soggetta a continue variazioni, che incalzano di secondo in secondo, quindi per duettare con questa “orchestra valori “ serviva un musicista di grande flessibilità in grado di improvvisare in linguaggi diversi. E Uri Caine, eclettico quant’altri mai, si è dimostrato entusiasta del progetto, diventando così il solista di Nasdaq Match 0.2. Per creare le condizioni ideali, grazie a un programma
dal nome sMax toolkit Cifariello Ciardi interviene in tempo reale anche dividendo la borsa in sezioni come una vera orchestra, partendo proprio dalla tipologia delle azioni: quella dei fiati sarà formata dai titoli finanziari, energetici, dell’educazione e risorse umane, affidati rispettivamente al suono dei sassofoni, dei fagotti, dei clarinetti, e così via.

Ecco allora che l’economia, le cui leggi «a stento comprendiamo ma che dobbiamo ogni giorno subire», viene imbrigliata in una performance funzionale a creare un tessuto sonoro, modellato e trasformato da Cifariello Ciardi e a cui Caine, attraverso i suoi interventi pianistici, avrà modo di dare un senso musicale. E chissà che la stessa economia, che gli esperti ci descrivono da qualche tempo depressa,attraverso la musica non si rianimi anche lei.

edizioni Rai Trade -Uri Caine, pianoforte Fabio Cifariello Ciardi, sMax toolkit Angelo Benedetti,

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Media e tecnologia Pubblicità e mass media Teatro

La rivincita del fumetto d’autore: menzione speciale al Premio Giancarlo Siani.

La giuria del Premio Giancarlo Siani – edizione 2011 – ha assegnato una menzione speciale per il fumetto “Il mistero del pescatore” al settimanale 3DNews, inserto culturale del quotidiano Terra.
3DNews, ideato e diretto da Giulio Gargia, ha riscoperto il fumetto come strumento giornalistico di indagine e approfondimento dei fatti di cronaca.

Da circa due anni a questa parte, 3DNews approfondisce tematiche legate alla comunicazione, ai mass media, al cinema e al teatro. Va dato merito alla giuria del premio Siani di aver individuato una innovazione nel panorama della carta stampata.

Un’innovazione che reca i nomi di Giulio Gargia, Paco Desiato, Tommaso Vitiello, Nico Piro. La cerimonia di premiazione sinterrà il prossimo 22 settembre alle ore 11,30 presso la sala Siani del quotidiano “Il Mattino”, a Napoli. Beh, buona giornata.

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Attualità Cinema Teatro

Il Valle Occupato denuncia: la costruzione del Palazzo del Cinema di Venezia? Un cinema.

(fonte: lavoratori e lavoratrici del Teatro Valle Occupato-teatrovalleoccupato.it)

CEMENTO SUL CINEMA
BUROCRATI CORROTTI, APPALTI MISTERIOSI, SPECULAZIONE, INTRIGHI BIPARTISAN TRA CULTURA E AFFARI: STORIE (STRA)ORDINARIE DI CRIMINALITA’ AMMINISTRATA.

Non è la Venezia che visse due volte, non è un romanzo di Raymond Chandler, non è una patologia. Uno strano fenomeno. A prima vista potrebbe sembrare un’avanzata forma di schizofrenia da parte del potere. Da una parte si taglia per risparmiare, dall’altra si finanziano grandi opere e grandi eventi che producono voragini economiche. E la Vertigo inizia. Se questa non servisse a fare profitti sarebbe incomprensibile. Ma è una strategia tutt’altro che miope e inefficace. È il sistema cinico che ragiona e agisce.

C’ERA UNA VOLTA UN TEATRO – Era l’inizio del secolo scorso quando, per allietare le malinconiche serate dei ricoverati, il dottor Marinoni donò un teatro all’Ospedale al Mare. Sul soffitto dell’edificio in perfetto stile liberty, un Nettuno attorniato da amorini anima un’allegra scena marina. Ma niente ha potuto sulle spietate logiche della speculazione. Svenduto dal Comune con l’intera area dell’ex-Ospedale, senza tener in alcun conto il suo valore storico-artistico, l’unico teatro del Lido ancor prima di essere demolito è scomparso dalle mappe.

UNA STORIA ESEMPLARE: PUBBLICI SPRECHI E PROFITTI PRIVATI – E questo è solo l’inizio. Tutto nasce da un progetto della prima giunta Cacciari per un nuovo Palazzo del Cinema che avrebbe dovuto rilanciare sul piano internazionale la Mostra di Venezia, sempre più smunta e opaca. Per finanziare la costruzione dello spettacolare edificio dal costo iniziale di 98 milioni di euro è stata concepita una complessa operazione immobiliare. Dismissione del vecchio ospedale, nomina di un commissario governativo dai poteri sempre più illimitati e appalti vinti dalle aziende che già costruiscono le dighe del Mose. L’obbiettivo è la cementificazione dell’intera isola del Lido. Senza che sia costruito alcun Palazzo del Cinema. Il connubio tra cultura e affari si dispiega a Venezia in tutto il suo potenziale distruttivo: il progetto di valore culturale costituisce la testa d’ariete per pura speculazione immobiliare. Villette, alberghi, parcheggi, porti turistici e servizi di lusso: con la cultura si mangia eccome. E il pranzo è lautamente bipartisan.

Ecco com’è andata…

«SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE» (Schmitt, Teologia politica)

Nel settembre 2005 viene bandito un concorso internazionale di progettazione per il nuovo Palazzo del Cinema, vinto dallo studio 5+1AA&Ricciotti, gruppo genovese di architetti associati. Uno spettacolare manufatto a forma di conchiglia che si affaccia sul mare, sala principale da 2400 posti, altre tre sale d’appoggio e una vetrata ad ala di libellula in omaggio ai mastri vetrai di Murano.

Solo dopo che il concorso è stato bandito, inizia la ricerca della copertura finanziaria. Il Sindaco Cacciari, il presidente della Regione Galan e il direttore dell’Azienda Sanitaria Padoan firmano un protocollo d’intesa: le risorse proverranno dalla vendita delle aree dell’ex Ospedale a Mare. Si mobilitano i Comitati dei cittadini: l’ex Ospedale è patrimonio di enti pubblici, non può essere svenduto e i proventi non possono giuridicamente essere impiegati per fini diversi da quelli della pubblica sanità. Ma la svendita non si ferma.

Per rendere tutto più scorrevole, nel luglio 2007 con un decreto del governo Prodi il progetto viene commissariato. Motivazione: disposizioni urgenti per favorire l’occupazione. Un’anomalia. Che c’entrano poteri straordinari con un Palazzo del Cinema?

Qualche mese dopo, per assicurare la necessaria copertura finanziaria, il ministro Rutelli inserisce la costruzione del Palacinema tra le opere straordinarie per le celebrazioni legate al 150° anniversario dell’unità d’italia. È il Grande Evento: il palazzo dovrà essere completato entro giugno del 2011, e consulente d’eccezione viene nominato Angelo Balducci, massima autorità istituzionale per appalti e opere pubbliche, poi arrestato nell’indagine sulla Protezione Civile.

Con queste premesse venne fatto l’appalto per la costruzione del Palazzo del Cinema: a dicembre del 2007 la cordata Sacaim e Gemmo vince la gara d’appalto. La Sacaim ha già incrociato i corrotti destini degli uomini della protezione civile nella ricostruzione della Fenice.

Cambio governo. Il 28 agosto 2008 viene finalmente posata la prima pietra del futuribile Palazzo. Foto ricordo a futura memoria: il sindaco Cacciari, il governatore Galan, il ministro dei Beni culturali fresco di nomina Sandro Bondi e il presidente della Biennale Paolo Baratta. Ma il Comune deve trovare i fondi. Per la vendita delle aree dell’ex-Ospedale vengono indette due gare d’appalto: la prima va deserta, la seconda – indetta con tempi brevissimi in modo da rendere pressoché impossibile la partecipazione di grandi gruppi – se l’aggiudica per 81 milioni la società Est Capital. Giusto per capire l’intreccio tra incarichi pubblici e profitti privati: fondatore e presidente di Est Capital è Gianfranco Mossetto, che fu assessore alla cultura e al turismo della prima giunta Cacciari (1993-1997) e ne sono azionisti le imprese Mantovani e Condotte, impegnate nella costruzione delle dighe del Mose dopo aver acquistato l’Excelsioer e il Des Bains, il lungomare che li collega e il Forte di Malamocco. Del prezzo di vendita, 49 milioni sarebbero andati al Comune, necessari per la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema. Ad oggi il Comune ne ha incassati solo 16.

I SUPER POTERI DI UN COMMISSARIO SPAZIANTE – Finalmente il Comune prende l’iniziativa: a febbraio 2009 si procede speditamente all’abbattimento della pineta. Provvedimento non previsto nel progetto iniziale: 105 alberi, in perfetta salute, sotto la cui ombra gli abitanti del Lido sono soliti passeggiare dall’inizio del secolo.

Berlusconi, di nuovo presidente del Consiglio, nomina Commissario Straordinario Vincenzo Spaziante, alto funzionario della Protezione civile, braccio destro di Bertolaso, poi indagato per falso dalla Procura calabrese di Vibo Valentia e sotto inchiesta per malasanità ai tempi dell’incarico come assessore della Regione Calabria. Un commissario che non deve rendere conto a nessuno, né al sindaco di Venezia né tantomeno al Presidente della Regione Veneto. Con successive ordinanze, i poteri di Spaziante si estendono progressivamente dal Palazzo del Cinema a tutta l’area dell’ex-Ospedale, fino all’intero progetto di riqualificazione del Lido, diventando di fatto il raìss del territorio.

I lavori ricominciano e ai primi scavi si scoprono due depositi di amianto. L’Imperterrito Spaziante dichiara che il Palazzo del Cinema si farà ugualmente, troppi soldi in campo per ammettere l’errore commesso. Intanto le lastre di amianto arrivate dai tetti degli stabilimenti balneari del Des Bains iniziano avventurosi giri per la penisola in diverse discariche abusive. E davanti al Casinò il cratere degli scavi diventa sempre più grande e inquietante.

Serve un capo per la commissione dei collaudatori: viene nominato un nome noto al mondo dello spettacolo, “l’uomo del FUS”, Salvatore Nastasi, 37 anni, capo di Gabinetto del Ministro per i Beni Culturali, con formazione universitaria da avvocato. Senza alcun concorso interno si aggiudica un incarico destinato per competenza ad un ingegnere. Il compenso dei collaudatori è ben retribuito ed ammonta a 700.000 euro annui. La domanda sorge spontanea: quanti soldi, allora, sono stati spesi per il palazzo del cinema?

Il Camaleontico Spaziante risolve il problema tagliando il finanziamento per il Palazzo e riducendo il progetto. La nuova mecca del cinema si trasforma in una modesta sala di provincia da 2.200 posti, che poi diventeranno due salette d’appoggio. Nel frattempo, davanti al Lido, a fianco alla sala grande proprio al centro della Mostra continua ad imperare un cratere senza nessuna sala buia.

Il 13 settembre 2010 finisce l’67° Festival del cinema. I cinefili se vanno, le scenografie illusorie del festival vengono smontate – arrotolati i tappeti rossi, il Lido torna tranquilla residenza per i suoi cittadini. L’Infaticabile Spaziante dà il via alla ripresa dei lavori: firmando un’ulteriore ordinanza di bonifica dell’amianto, l’investimento per il Palazzo viene riportato a 96 milioni.

Ad oggi, non è possibile sapere quanto amianto sia stato effettivamente smaltito dal cratere. Ma questa è un’altra storia.

SETTEMBRE 2011 – SI APRE LA 68° FESTA DEL CINEMA – Da settembre 2010 ad oggi, non è comparsa neanche l’ombra d’un mattone che lasci immaginare un Palazzo del cinema. Nessun lavoro, nessun Palazzo. Di Straordinario c’è solo il giro di appalti, speculazione e affari.

Il valore culturale del progetto è servito ad aprire le porte ad un’operazione immobiliare ben più grande: l’edificabilità di tutta l’area dell’ex-Ospedale, compresa l’area verde del Parco della Favorita, la privatizzazione di una della poche spiagge libere, il porto turistico, la dismissione e l’abbattimento del Monoblocco. Dei 96 milioni di copertura finanziaria ne sono arrivati solo 36, dei quali 30 sono stati spesi nell’unica grande opera attualmente visibile: il grande cratere scavato per l’amianto, che grigi paraventi di cemento nascondono agli sguardi mondani del Festival.

Ma Baratta dichiara: il Lido sarà bellissimo. Via le consunte poltrone beige, ecco quelle nuove in velluto di lino marrone, “il colore scuro si addice ai cinefili, annulla i riverberi, addio alla moquette su cui poco potevano i potenti aspirapolvere”, rinnovati i tendaggi, il percorso delle star verso il red carpet, e soprattutto il Lion’s Bar, tornato all’antico splendore. Al modico costo di 3 milioni e 800 mila euro, il balzo nel tempo è immediato. Finalmente, come piace a Baratta, si torna al glorioso spirito del 1937.

A colpi di dichiarazioni si ritocca la realtà – un make up retorico più pesante di quello di un film horror. (Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media Teatro

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia Popoli e politiche Teatro

Cresce il dibattito al Teatro Valle occupato. Ecco l’intervento di BIFO.

Far saltare il dispositivo Maastricht e poi? di Franco Berardi (BIFO)-teatrovalleoccupato.it

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.

Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono gli ipocriti occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di una stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa e della privatizzazione economica e della corruzione. L’inizio di una rivolta destinata a convergere con quella europea.

Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.

La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.

Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.

Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?

Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.

L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.

L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.

In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.

Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:

Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.

Naturalmente quegli stessi obiettivi si potrebbero perseguire adottando strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.

L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.

Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima, maggioritaria della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.

Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, mentre pure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.

Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.

Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè un prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana come un automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetersi. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.

Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.

A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.

La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.

Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.

L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, armarla. Essa si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
(Beh, buona giornata).

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Le ragioni del Teatro Valle sono a monte.

Succede di aver talmente ragione da capitombolare dalla parte del torto. E’ successo a Goffredo Fofi che sulle pagine de l’Unità ha accusato gli occupanti del teatro Valle di Roma di essere nostalgici dell’assistenzialismo culturale. A quelli non è andata giù, e a ragione.

Perché i motivi dell’occupazione del teatro sono più grandi delle clientele, mafiette e greppie che hanno caratterizzato la produzione cinematografica e teatrale italiana, col risultato di dare vita a sprechi di danaro pubblico e a insulse e dimenticabili opere artistiche. Sono anche più grandi del conformismo di sempre della sinistra parlamentare, ma anche del suo rinato attivismo di questi giorni, tutto imperniato a far sopravvivere il teatro Valle, col coinvolgimento finanziario degli enti locali. Guardano l’albero, ma non vedono la foresta.

Il fatto è che i tagli alla cultura operati nell’ultima manovra finanziaria del governo altro non sono che tagli della parte residua dei tagli precedenti. Il che autorizza a pensare e dunque a dire con chiarezza che chiudere i rubinetti alla cultura italiana è una strategia, prima ancora che una necessità di bilancio. La qual cosa è straordinariamente in sincronia con i tagli di bilancio al finanziamento della scuola, dell’università e della ricerca.

Questa strategia è stata annunciata dal ministro dell’Economia, l’uomo delle forbici, circa un anno fa. “Certi diritti non possiamo più permetterceli”, ebbe a dire Tremonti, molto prima dell’emergenza speculativa internazionale che si è abbattuta sul Paese, proprio grazie alle politiche del governo Berlusconi, cosa, sia detto per inciso, che non è una tesi del dibattito, ma è un fatto accertato e certificato dai mercati internazionali.

Sostenere che l’attuale governo non si può permettere di finanziare certi diritti è la confessione sincera di colpevolezza, al di la di ogni ragionevole dubbio. Perché i diritti non sono merci che a un certo punto esauriscono sullo scaffale del supermarket. La Costituzione non è un menù sul quale un asterisco ci avverte che questo o quel diritto potrebbe essere congelato.

Da questo punto di vista, contrariamente a quanto dice Fofi, si ha l’impressione che gli occupanti del Valle abbiamo le idee chiare. Tanto che la risonanza che sta avendo l’occupazione è un motore mentale che è in grado di produrre idee nuove , quelle stesse di cui Fofi lamenta la mancanza. La verità è che la lotta è una eccellente palestra di ingegni, e il Valle sembra un piccola, ma incandescente fucina. Fosse solo per questo, l’occupazione del Valle andrebbe difesa, propagandata, aiutata con tutti i mezzi.

La piattaforma di lotta non è così chiara come la vorrebbe qualcuno? Sempre succede che chi comincia ha ragioni che le parole ancora non sanno spiegare. Cionondimeno, dall’occupazione del Valle di Roma arriva, sottoforma di metalinguaggio, forte e chiaro un bel messaggio: l’Italia non solo bisogno di una alternativa di governo, l’Italia ha forte consapevolezza di un’alternativa politica, economica, sociale e culturale. L’occupazione del teatro Valle, nella sua specificità, che sembrerebbe riguardare attori, autori, registi e maestranze è in realtà un tassello di un mosaico che rappresenta il cambiamento in atto, tassello che va a collocarsi accanto alle novità espresse dalle amministrative di Milano e Napoli, accanto allo straordinario pronunciamento di massa su i referendum, accanto alla protesta No tav.

Al Valle c’è entusiasmo collettivo, proprio quello che servirebbe per contagiare di nuovo il Paese intero. C’è anche forte il senso di una consapevole autonomia dalle politiche culturali del centrosinistra, contro le quali le parole di Fofi sono sacrosante. Ma il bello delle lotte è che, qualunque risultato immediato ottengano, esse fanno bene alla salute democratica di un Paese.

Per l’attuale ministro della Cultura, che viene dal management di Publitalia,e che ha detto che per quanto allegra l’occupazione del Valle è pur sempre abusiva, evidentemente gli attori servono solo a fare i testimonial pubblicitari. Se da protagonisti delle fiction diventano attori della realtà, bisogna mandargli la polizia? Beh, buona giornata.

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L’Italia è diventata un Paese di venditori. (Tanto non lo legge nessuno.)

L’Italia è diventato un Paese di venditori. Si vende il proprio sesso per avere un posto in parlamento, un ministero. Si vende il sesso degli altri, meglio sarebbe dire delle altre, per avere un appalto, una commessa per la fornitura di apparecchiature mediche. Si vende la propria professione per avere un posto da direttore di telegiornale. Si vende la propria faccia sui manifesti elettorali per un posticino in un consiglio regionale. Non produciamo più idee, prodotti innovativi, personalità istituzionali, intuizioni creative.

Non siamo più il Paese che si risollevò dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, per diventare uno dei paesi più industrializzati del Mondo, un Paese che si rimboccò le maniche e ricostruì case, ponti, strade, fabbriche, ma anche diritti, competenze, convivenza civile, scuole per alunni, ma anche scuole di pensiero.

No, ormai vendiamo il vendibile. Così non è per nulla strano che si vendano onorificenze ai pompieri, quelli che si ammazzano di fatica, e spesso ci lasciano la pelle per salvare altre pelli, per toglierci dai guai. I guai, quelli che inavvertitamente facciamo contro di noi. I guai, quelli di cui siamo vittime, per colpa di “inavvertiti” politici e amministratori della cosa pubblica: che sono quelli che chiamano i pompieri quando frana un collina, sulla quale si sono date allegramente licenze edilizie; quando esonda un fiume, attorno al quale si è lottizzato senza pensare alle conseguenze; quando vengono giù le case, costruite con l’ingordigia dell’affarismo, invece che col cemento armato.

Quando è stato intervistato il responsabile amministrativo della Protezione Civile, a proposito della vendita delle onorificenze, egli mostrava orgoglioso il campionario: una medaglia e un paio di fregi alla comoda cifra di 130 euro. Un affare, no!? Ma certo che è un affare.

Il nostro Paese non è forse una grande, smisurata televendita? Alcune centinaia di migliaia di persone parteciperanno a una minifestazionde pubblica in piaza San Giovanni in Laterano. Compreranno la tesi del Governo.

Le posizioni politiche non si confrontano, si vendono nei talk show. Il talento non si esercita, si vende nei talent show. La politica non progetta, vende candidati.

La giustizia non sanziona comportamenti criminali, no, la giustizia vende l’ingiustizia del complotto contro gli eletti dal popolo. E gli imputati vendono la loro impunità.

L’informazione non vende giornali, no, vende “fango” contro quelli che presi con le mani nel sacco, vendono in saldi la loro sfacciata impunità.

Fin tanto che ci sarà qualcuno disposto a comprare la merce (della politica, dell’informazione, dell’intrattenimento, addirittura dell’architettura istituzionale), beh, che volete? È la legge della domanda e dell’offerta.

Ci stanno pignorando beni comuni, libertà collettive, diritti condivisi, l’idea della democrazia, la visione stessa del futuro dei nostri figli. Berlusconi, ogni giorno batte l’asta.

Un piccolo, forse prezioso “consiglio per l’acquisto”: cerchiamo, almeno di non comprare prodotti scaduti (così in basso). È un consiglio gratis.
Beh, buona giornata.

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Attualità Teatro

Ma che c’è da ridere?

«Sinceritù»… Quando il comico fa notizia Parla De Carlo, un giornalista sul palco
di Silvia Garambois-l’unità

Si scrive «Sinceritù», si legge alla romana «s’in c’eri tu», è l’ode di una velina promossa in Parlamento,sulle note di «Sincerità» di Arisa. È uno dei pezzi di Francesco De Carlo, giornalista salito sul palco.

Le inchieste? Ci sono le Iene, il Gabibbo… L’informazione? Per fortuna c’è Sabina Guzzanti, e poi Daniele Luttazzi, anche Maurizio Crozza… Ma allora i giornalisti che fanno? È stato più o meno riflettendo su come va il mondo che Francesco De Carlo, coordinatore di un perio-dico sulle questioni dell’informazione, con all’attivo qualche querela per i suoi articoli sui guai di viale Mazzini, a trent’anni ha deciso che era arrivato il momento di scegliere: ha chiuso il blocchetto degli appunti, posato la penna, ed è salito su un palcoscenico. Meglio il comico del giornalista.

Non ci va leggero, De Carlo: «Guarda la tv: c’è Zelig, che dovrebbe far ridere e non mi fa ridere. Dall’ altra c’è Ballarò che non dovrebbe e fa più ridere di Zelig, con tutti che si accapigliano in studio».
Lui c’è stato nel “laboratorio” di Zelig: non si sono reciprocamente piaciuti. Bocciato al provino con Gi-no e Michele. Senza rimpianti. I testi “alla maniera della tv”, dove la satira politica si comprime in un ammiccamento, gli vanno stetti: “Ma come si fa a fare satira politica senza nominare i politici?”. Meglio il cabaret, in giro per l’Italia, meglio la soddisfazione di salire sul palcoscenico del Festival di Grottamma-re, davanti a Sabina Guzzanti, Giobbe Covatta, Enzo Iacchetti e vincere tutto insieme il premio della critica per i testi, quello della tv per il “ritmo” e il premione finale. Mica male, per uno che si permette di far satira su Berlusconi e sul Vaticano, terreno insidioso, troppo facile e troppo difficile, troppo abusato e troppo “riservato” a chi ha le spalle grosse. Va a finire che i suoi pezzi li trovate sul sito della Guzzanti, a partire da una canzoncina sulle note di Sincerità di Arisa, titolo: Sinceritù, ma scritto alla romana, “S’in c’eri tu”, cantico di una velina diventata onorevole.

«Zelig ha le sue esigenze – dice ora -ci deve essere un equilibrio tra mono-loghisti e personaggi, un gusto omogeneo, adatto al pubblico di Canale 5… A me però dà fastidio quando la comicità esalta i luoghi comuni: anzi, lo considero un male assoluto far ridere dicendo che i napoletani non lavorano, che i dipendenti pubblici sono fannulloni, le donne sottomesse. È il più grande difetto di Zelig, sono le regole di un impero commerciale. Pensare che li dentro ci sono comici e autori davvero bravissimi, ma è il prodotto che appiattisce tutto».

E così lui va a fare i suoi monologhi in quelle che una volta erano le “cantine” e ora sono nobilitate dalla tradizione anglo-americana, quella degli “stand-up comedy”, dove ha cominciato Woody Allen. Ce ne sono ancora in giro per l’Italia. E ce n’è una a San Lorenzo a Roma, vecchio quartiere popolare a due passi dall’ Università, il Mads di via dei Sabelli, dove al lunedì sera i comici “provano” i testi nuovi. Gratis. Il pubblico fa la fila, molti non ce la fanno a entrare.

Ma come t’è venuto in mente di mollare il giornalismo per le canti-ne? «Ho scoperto che in un tema di seconda elementare lo avevo già scritto che da grande volevo fare il comico: dopo di che, l’oblio. Poi l’anno scorso sono salito su un palco… e non sono più voluto scendere. Non ho fretta, in fondo non ho ancora compiuto 31 anni».

E come si campa aspettando il successo? «Ci s’arrangia: io faccio l’autore per una radio, ho tenuto da parte i soldi del premio, una specie di anno sabbatico in cui faccio le prove su me stesso. Nella comunità dei comici romani, a dir tanto, saremo una quarantina, dai 20 ai 50 anni: ci conosciamo tutti. Per noi la scommessa è far tornare la gente nei cabaret a sentirci. E da marzo si parte in tournée…».(Beh, buona giornata)

Sito ufficiale www.francescodecarlo.it

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Attualità Finanza - Economia Società e costume Teatro

I soldi tagliati al cinema e al teatro andranno per allestire uno altro spettacolo: il G8 costerà 400 milioni. Presenta Silvio Berlusconi. Dall’8 al 10 Luglio non cambiate canale (di Sardegna), rimanete con noi.

di Sergio Rizzo, da laderiva.corriere.it

Non è uno scherzo: avete capito bene. Per il G8 in programma sull’Isola della Maddalena, dirimpetto a villa Certosa, residenza privata del premier, dall’ 8 al 10 luglio 2009 si spenderanno 400 milioni di euro.

Quattrocento milioni, per intenderci, è l’entità dei tagli apportati dal governo di Silvio Berlusconi ai fondi per lo spettacolo e il cinema che metteranno in ginocchio un bel pezzo delle cultura italiana.

Questa somma sarà spesa per le opere accessorie al vertice, come una nuova strada che collegherà Olbia a Sassari (ma che c’entra con il vertice?), i lavori per il palazzo della conferenza (58 milioni), l’hotel sede del vertice (59 milioni), la riconversione dell’ospedale militare (73 milioni) e perfino la rete fognaria dell’isola. Siccome il G8 è classificato come Grande evento, la sua gestione sarà curata dalla Protezione civile nella persona del commissario straordinario Guido Bertolaso, sottosegretario alla presidenza. Quanto costerà l’organizzazione: “soltanto” 30 milioni.

“Soltanto”, dicono gli esperti, considerando che giapponesi e tedeschi per i vertici internazionali spendono molto di più. Bene. Ma ammesso che sia giusto che pure Giappone e Germania spendano una barca di soldi in questo modo, per i paragoni è meglio restare in Italia.

L’ultimo G8 è stato quello tragico del 2001 a Genova. Per l’organizzazione vennero stanziati 20 miliardi di lire, cioè un terzo di quello che verrà messo a disposizione per la Maddalena. Per le opere accessorie, invece, lo Stato stanziò 90 miliardi (meno di 47 milioni di lire) in quindici anni.

Considerando tutti gli altri fondi, compresi quelli del Comune, il conto fu di 200 miliardi. Poco più di un quarto di quello che si spenderà nel 2009.

Perché, signori, 400 milioni di euro sono sempre 774 miliardi di lire. Ma ha un senso spendere una somma del genere per un vertice alla Maddalena? (Beh, buona giornata).

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Teatro

E’ scoppiato un Casini.

Pier Ferdinando Casini ha detto di non voler “morire berlusconiano”. Pare che questo significhi che l’Udc considera ormai finita l’esperienza della Cdl e punta alla ricostruzione del centrodestra per dar vita a una nuova casa dei moderati.

“Aspetto da Casini un chiarimento, ho troppo rispetto per lui e non credo che abbia detto veramente quelle cose..”, dichiara Ignazio La Russa, di cui si erano perse le tracce ma non le facce.

“Se una dichiarazione di Casini crea tanto entusiasmo nel centrosinistra – ha detto Fini, uno che fino a ieri andava per il Sottile- io dico che non va bene. Il compito dell’opposizione è creare un’alternativa a Prodi e non indebolire la Cdl”.

Maroni invece ha detto che Casini ha rotto i maroni: “Vivere e morire con Berlusconi? Noi della Lega non vogliamo morire e con Berlusconi leader ci sono possibilità di vivere, mentre con Casini non ce ne sarebbe neanche una”.

Il tutto mentre Umberto Bossi era ancora a Villa Certosa, ospite di Silvio Berlusconi, il quale deve aver suonato il campanello e quindi è apparso Sandro Bondi: “Le sue affermazioni sono degli sfoghi più che un proponimento o un progetto politico e preoccupa che un leader dell’ opposizione faccia degli sfoghi piuttosto che dei ragionamenti”.

E, inchinandosi ha aggiunto: “Non dividiamoci e difendiamo Berlusconi”. Sipario. Tra il pubblico, Marco Follini ha commentato:”Se l’Udc dichiarerà la fine della Cdl, sarò con l’Udc; se l’Udc resterà nella Cdl, potrà farlo anche senza di me”.

Insomma, a Càorle vanno in scena le baruffe chioggiotte . Beh, buona giornata.

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