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Il Presidente, il professore e i giovani.

Tanto scipito è stato il discorso di fine anno, che si cerca ora di dargli un qualche sapore. Così, il professor Guido Crainz si è lanciato oltre le trincee del realismo politico alla disperata difesa del discorso del presidente Mattarella. Egli scrive su Repubblica:
“ (…) nella guerra che terminò un secolo fa, ha ricordato, i diciottenni di allora — i «ragazzi del ’99» — andarono a morire nelle trincee, oggi possono dare al Paese non la loro vita ma il loro voto. Possono «essere protagonisti della vita democratica».

I ragazzi del ’99 non furono protagonisti, ma vittime sacrificali di una politica di rapina territoriale, detta “irredentismo”, mandate letteralmente al macello dalla monarchia sabauda, ma anche da una classe politica vecchia e istupidita dal nazionalismo. Quel bagno di sangue immane non battezzò una nuova e più florida epoca, ma spianò la strada al Fascismo, abbondantemente foraggiato da chi – Casa Savoia in testa – temeva che il dopoguerra favorisse il nascente movimento operaio italiano. Il professore Crainz queste cose le sa bene, tuttavia si è lasciato trasportare da una specie di “storicismo all’acqua di rose”, pur di difendere la debole tesi del Presidente Mattarella.

Infatti, Crainz ne è cosciente, al punto di sostenere che “di nuovo la storia aiuta però a ricordare che l’incertezza e la preoccupazione per il futuro, così presenti oggi, non hanno segnato invece altre fasi storiche, pervase da un’idea positiva di progresso.”
È vero. I giovani che aderirono alla Resistenza furono il motore non solo della Liberazione, ma di un vento nuovo che spazzò via, in un colpo solo, occupanti, fascisti e la monarchia corrotta, dando quella spinta alla democrazia del nostro paese, scrivendo pagine di riscatto e riscossa, la cui sintesi è tutt’ora leggibile negli articoli della nostra Costituzione.
Però, stranamente Crainz si è dimenticato di ricordarcelo.

Tuttavia, ci dice finalmente con chiarezza che le difficoltà reali del paese non hanno impedito “ né hanno segnato i primi decenni della nostra storia repubblicana, quando vi era la convinzione che i figli avrebbero avuto un futuro migliore dei padri: fu questa convinzione a farci superare gli anni durissimi del dopoguerra, e poi le asprezze di una modernizzazione che impose anche costi e sacrifici (soprattutto per i più deboli)”.

Vorrei ricordare ai lettori la sostanza di ciò che qui afferma il professor Crainz. Furono i giovani i protagonisti della battaglia per l’attuazione della riforma agraria nel sud, contro i quali si scatenò la violenza mafiosa. Il presidente Mattarella sa bene cosa sia la mafia, che prima di arrivare a colpire gli uomini delle istituzioni, aveva fatto stragi e assassini tra contadini, dirigenti sindacali, militanti politici.

Furono i giovani a battersi contro le “gabbie” salariali, mettendo le basi per la contrattazione collettiva che diede vita ai contratti di lavoro nazionali.

Furono i giovani a dare vita alle grandi battaglie sindacali nel triangolo industriale del nord ovest; furono i giovani a fare delle proteste studentesche del ‘68 non solo un volano di libertà e uguaglianza a fianco della classe operaia, ma anche una formidabile forza di cambiamento nei costumi, nella cultura, nelle relazioni famigliari e nei rapporti tra i sessi, introducendo l’idea dell’estensione dei diritti civili. Senza il protagonismo politico e sociale dei giovani, oggi non avremmo leggi che tutelano il lavoro, le donne, la malattia, le differenze di genere, ecc.

L’Italia cambiò contro il volere dell’establishment a guida democristiana, ma anche oltre le aspettative e l’immaginario politico e sociale della sinistra parlamentare. E qui i giovani divennero un problema politico, che in Italia spesso ha portato a soluzioni di “ordine pubblico”, modo nel quale fu trattato il movimento del ’77, che poneva il problema del reddito, oltre l’organizzazione del lavoro.

È la questione di oggi, a cui però ieri si rispose con la violenza di Stato, accompagnata dalla “scomunica” della sinistra che sedeva in Parlamento, la quale non solo permise la degenerazione dello scontro, ma tentò di gestirla con la repressione assurta a ragion di Stato.

Tra l’altro ci sono amnesie colpevoli. La generazione dei “ragazzi del 1999” è venuta al mondo in contemporanea con il movimento “no global”, nato a Seattle proprio nel 1999. Ma fatto a pezzi a forza di botte e torture al G8 di Genova nel 2001. Il Presidente queste cose dovrebbe ricordarle, perché proprio in quell’anno fu rieletto in Parlamento nelle liste della Margherita.

Ovviamente, il professor Crainz queste cose le sa bene, avendole non solo studiate e insegnate, ma anche vissute. Ed ecco che stupisce la sua difesa d’ufficio del discorso del presidente Mattarella. Tra l’altro, sia detto con grande amarezza, evocare il ruolo dei giovani a poche ore dall’aver permesso di rimandare ancora il diritto di cittadinanza a 815 mila bambini e ragazzi nati in Italia ha avuto il sapore si una gaffe imperdonabile.

Credo sia sbagliato il parallelo storico con i “ragazzi del ’99”; sia retorica fine a sé stessa chiedere ai ragazzi del 1999 di fare qualcosa per salvare il salvabile.

Siamo noi che dobbiamo fare qualcosa per salvare la loro generazione dallo sfacelo nel quale li abbiamo cacciati, (basti prendere in esame il tasso di disoccupazione giovanile). Uno sfacelo che rischia di essere – come ho già avuto modo di dire in un’altra occasione – una Caporetto democratica che incombe nelle prossime elezioni, disfatta il cui sentore si è avvertito nelle stesse parole del Presidente.

La “chiamata alle armi” dei diciottenni rischia di trasformarsi in un bagno di sangue virtuale, in cui veder naufragare non solo la fiducia nella politica –già da tempo bell’e affogata- quanto la stessa fiducia nella cultura democratica, cui tra differenza, scontri e accesi contrasti abbiamo fin qui comunque contribuito per generazioni.

La retorica del macello.

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La politica e la morte a Manchester.

Manchester ricorda le vittime dell’Arena.
“Noi amiamo la morte come voi amate la vita”, è il truce slogan che accompagna gesti scellerati, come l’ultima orribile strage di ragazzine e ragazzini a Manchester. Un distillato d’odio, disperazione, vendetta contro la vita. Ma non suona nuovo.

L’idea della Morte come purificatrice ha riempito la propaganda nazionalista e interventista – da noi “irredentista” e futurista- accompagnando al macello milioni di europei nella Prima Guerra Mondiale. Alla quale segui dopo appena vent’anni, la Seconda Guerra Mondiale, dove il teschio campeggiava nei berretti delle uniformi delle SS, simbolo premonitore delle stragi, delle pulizie etniche, della Shoah. Per non essere da meno, anche le nostrane Brigate nere avevano il teschio sul basco, per sentirsi così all’altezza degli alleati tedeschi, nel condurre rastrellamenti, partecipare agli eccidi, alle deportazioni, alle torture.

Tutta la retorica guerrafondaia si è sempre basata sul gesto estremo di un uomo solo, che immola la sua vita alla “causa”. Dunque, neppure il gesto suicida di chi si fa saltare in aria per portarsi appresso nella morte più vite possibili è un fatto né nuovo né straordinario.

Per concepire, organizzare e mettere in atto gesti come quelli di cui parliamo bisogna essere emotivamente carichi del più definitivo fanatismo. La strage di Manchester è uguale alle carneficine che sciiti e sunniti si scambiano nei paesi in cui si contendono la leadership. Non sappiamo più come contarle in Iraq, per esempio, dove gli Usa e la Nato, dunque anche noi, siamo andati a destabilizzare un equilibrio che ha poi scatenato l’inferno che Daesh vuole restituirci, in parte riuscendovi.

È inutile far finta: ormai ovunque in Europa viviamo sotto scorta della paura. Città blindate, militari ovunque, controlli continui. Il che dimostra che tutto questo apparato non ha l’efficacia che si vorrebbe avesse. Dunque, sperare che il terrorismo islamico sia un problema di ordine pubblico è illusorio.

Anche sul piano del dialogo interreligioso si sono fatti passi significativi. Ma se non si tiene conto che l’Islam, come per altro il Cristianesimo e lo stesso Ebraismo, sono fedi monoteiste, ma non monolitiche non si capisce come stanno davvero le cose nel mondo arabo. Chiedere ai musulmani di condannare il terrorismo ha più il sapore di una spendibilità verso le opinioni pubbliche spaventate, più che efficacia tra i membri delle comunità islamiche delle nostre città.

Neppure la sociologia ha strumenti efficaci per spiegare perché un ventenne nato e cresciuto a Manchester possa arrivare a odiare al tal punto la città in cui vive e la gente con cui è cresciuto, tanto da rendersi disponibile a fare strage di suoi coetanei. Era successo in Francia e in Belgio. È evidente che il disagio sociale sia un ottimo serbatoio cui attingere quella disperazione utile a formare i kamikaze. Ma da solo non basta a capire perché scatti la molla della strage.

Non ci rimane che la politica, come unico strumento per affrontare la questione del terrorismo. Ma la politica occidentale vive il peggior momento della sua funzione sociale dal Dopoguerra.

Delegittimata dalla crisi finanziaria, poi da quella economica, sul piano interno la politica non ha fronteggiato la crisi sociale, ha invece assecondato le peggiori scelte ideologiche dettate dal neo liberismo, quelle scelte che hanno logorato il patto sociale, disgregato il welfare, indebolito la coesione sociale: oggi la politica non è più credibile agli occhi degli elettori, come potrebbe esserlo di fronte agli immigrati di prima e seconda generazione?

Sul piano estero, la politica degli Usa con l’appoggio della Ue continua a giocare contro ogni ragionevole riequilibrio del Medioriente. Prima la guerra in Afghanistan, poi in Iraq, poi l’illusione delle “primavere arabe”, poi la dissoluzione della Libia. Una serie drammatica di errori che ha portato distruzione, vittime, ed esodi in massa.
La “guerra al terrorismo” è diventata una guerra terrorista da ambo i lati. Da un lato la ferocia del Califfato, dall’altro bombardamenti indiscriminati, in mezzo il doppiogiochismo dei nuovi satrapi, che hanno preso il posto dei precedenti Saddam, o Gheddafi o Mubarak.
D’altronde, come si fa a parlare di pace e pacifica convivenza quando il nuovo inquilino della Casa Bianca ha portato in Arabia Saudita 110 miliardi di dollari in armi?

L’ultimo scellerato atto compiuto da Trump è stato il tentativo di compattare i sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma il Califfato è sunnita e ci sono truppe iraniane sul campo che stanno combattendo contro Daesh, ottenendo significativi successi. Dunque, da una lato si combatte Daesh, dall’altro in qualche modo lo si blandisce. Siamo alla solita strategia imperiale Usa in Medioriente. Quanto alla Ue, l’unica preoccupazione è che non partano quei dannati barconi – che invece sono barconi dei dannati – che tanto turbano le opinioni pubbliche europee. A Bruxelles non ci sono altre strategie, se non ognuno per sé a fare affari col petrolio o col cemento.

C’è proprio tutto quello che serve perché il fuoco dell’odio rimanga acceso più a lungo possibile e continui ad ardere odio, vendetta, disperazione e morte nelle nostre città.

Il mondo gronda d’ingiustizie, disuguaglianze, inciviltà. Che muoiano sotto le bombe di un drone, che affoghino nel Mar Mediterraneo, che vengano trucidati da un kamikaze nel primo concerto della loro vita, muoiono i nostri bambini.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo. Beh, buona giornata.

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No, non fate i furbi, non siamo in guerra.

La guerra noi la bombardiamo dall’alto, cercando di non lasciare uomini sul terreno. Noi facciamo i guerrafondai con i morti degli altri. Noi le chiamiamo missioni umanitarie. Noi non spariamo, no, noi facciamo attività di peacekeeping. In Afghanistan, in Iraq, in Siria lo facciamo da quindici anni, che significano centinaia di migliaia di morti civili, per i quali non versiamo lacrime, eh no!, sono danni collaterali, mica lo abbiamo fatto apposta. Gli mandiamo anche cerotti con le organizzazioni non governative, che volete di più?

I nostri nemici non hanno diritto agli onori militari, manco rientrano nelle Convenzioni internazionali: sono terroristi, no!? Bisogna farli parlare, come ad Abu Ghraib o deportare senza processo a Guantánamo.

Ad ogni detonazione, fa eco lo sconcio mantra secondo cui solo i buonisti pensano che non bisogna armarsi e partire, che non bisogna torturarli. “Ci vogliono le palle”, altercano nei salotti televisivi.

I civili inermi che fuggono da lì e vengono da noi? Aiutiamoli a casa loro, quelle stesse case che bombardiamo, radendole al suolo. Rendiamoci conto della sproporzione tra i fatti e la propaganda.

No, loro non sono in guerra contro di noi; semmai, siamo noi che lo siamo contro di loro, da quasi due secoli. Ci servono le loro ricchezze naturali, le fonti di energia vitali per il nostro modo di produrre ricchezza, quella che godono in pochi, ma che distrugge il pianeta di tutti.

Gli attentati che hanno insanguinato Parigi e Bruxelles non sono atti di guerra. Sono gesti disperati di un’organizzazione estremista basata in Belgio. Che è stata evidentemente sottovalutata, magari infiltrata e che poi comunque è sfuggita di mano. Che però fa comodo, perché un po’ di morti europei possono venir utili: aiutano i parlamenti a varare spese militari e leggi speciali, fanno ingoiare alle opinioni pubbliche la militarizzazione del territorio, fanno prendere voti alla destra xenofoba, il cui polverone è utile a mascherare le politiche liberiste contro il welfare.

Bruxelles è insanguinata perché è la capitale del fallimento delle politiche sociali della Eu. È la capitale della disoccupazione, quella giovanile, soprattutto. È la capitale di un’Europa capace solo di aiuti alle banche, nella mistica cieca del mercato. È la capitale del fallimento degli accordi sull’accoglienza delle grandi migrazioni. È la capitale del declino dei grandi ideali.

È la capitale del disastro in cui una cellula ultra-estremista fa da anni cose che si potevano prevedere e prevenire, se il Belgio non fosse una democrazia impazzita, se non avesse più polizie che politiche di sicurezza.

No. Non è contro di noi che Daesh combatte: combatte contro altro che per mettere in discussione le nostre libertà. Al califfo di Isis di noi interessa nulla: combatte contro i governi arabi fantoccio, è in gioco una guerra di supremazia tra sunniti e sciiti. Supremazia come quella in gioco tra valloni e fiamminghi in Belgio.

Non siamo in guerra, non facciamo vittimismo. Che di vittime la nostra sciagurata politica le sta facendo. Non siamo in guerra, ma abbiamo nemici pericolosi: sono nei governi, nei parlamenti, nei talk show televisivi. Sono la destra xenofoba, sono i governi conservatori totalmente supini al capitalismo finanziario e la sinistra che crede nei poteri magici del neoliberismo, sull’altare del quale sacrificare il welfare.

Ma secondo voi, se un ragazzo di 26 anni, magrebino di seconda generazione, cittadino belga con passaporto europeo avesse avuto le opportunità sancite e garantite dalle costituzioni democratiche si sarebbe mai arruolato nelle fila di Daesh, per difendere un’idea astratta di califfato? O si farebbe saltare in aria nella metropolitana della città in cui è nato e cresciuto, urlando disperatamente Allah akbar?

Questo nichilismo è l’urlo di dolore contro l’esclusione sociale, che nessuno ha raccolto, se non qualche predicatore senza scrupoli. Come succede nei sobborghi delle città di provincia degli Usa, dove gli ultimi sono le prime vittime del fanatismo religioso a mano armata: lì cristiano, qui musulmano.

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Crollato il mito del socialismo dei mezzi di produzione, ci siamo incamminati sul sentiero della barbarie. È un vicolo cieco. Di rabbia, di violenza, di morte.

Non ci sono soluzioni facili, semplicemente perché siamo una parte consistente del problema. La sola certezza è che più tardi invertiremo la rotta, più a lungo piangeremo i nostri morti. Beh, buona giornata.

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Cinema Dibattiti Guerra&Pace Popoli e politiche

I naufraghi di “Fuocoammare” siamo noi.

Una scena di "Fuocoammare", di Gianfranco Rosi.
Una scena di “Fuocoammare”, di Gianfranco Rosi.
Ci sono momenti di poetica alta: quando parla il medico, quando vengono controllate le mani di chi sbarca, quando, in primo piano, le donne piangono, sul ponte della nave che le ha tratte in salvo. Quando si tuffa il pescatore in apnea, di giorno e di notte. Quando Samuele, il bimbo che ha un occhio pigro e un senso d’angoscia, simbolo del sentimento di tutti i suoi compaesani, cinguetta di notte con un uccellino, come un dialogo possibile tra due specie viventi, pur differenti.

Ma anche quando si vedono i corpi morti, tra i poveri resti della traversata, nella stiva dell’imbarcazione alla deriva. “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film il cui significato “politico” supera il talento artistico. Un Orso d’oro a Berlino assolutamente meritato.

Che pone, tuttavia una questione stringente quanto drammatica: è giusto che lo scontro politico sull’immigrazione in Europa si giochi tutto tra chi vuole respingere quei corpi e chi vuole accoglierli? Tutto qui? Ma quelle non sono forse persone, popolazioni, moltitudini di uomini e donne in fuga non tanto da guerre e carestie, quanto piuttosto proprio dal nostro sistema economico, politico, militare, che quelle carestie, epidemie e guerre ha creato nelle loro terre, nazioni, patrie? Non è forse il “nostro stile di vita” che li ha ridotti in miseria prima e poi schiavi in fuga della povertà più dura?

Quello stesso nostro sistema che li ha costretti all’esodo in massa, oggi pretende di decidere di nuovo sui loro destini: o inglobandoli nella catena del comando del valore (leggi: integrazione) o escludendoli definitivamente dal diritto di vivere su questo pianeta (leggi: respingimenti, filo spinato, muri). Non sono cittadini: sono corpi. O buoni per produrre o scarti da ributtare da dove son venuti.

“Fuocoammare” dice molto proprio perché non ha la pretesa di dire qual è il vero problema, ne rimane distante, come distanti dalla terra di Lampedusa vengono tenuti i migranti dalla “missione Frontex”: quelle barche di dannati non toccano più terra, non incontrano più gli abitanti dell’isola. Quelle barcacce vengono fermate in mezzo al mare: quelli che sono vivi, vengono fatti trasbordare su imbarcazioni militari, rianimati, portati in strutture di raccolta, come corpi estranei alla terra verso cui di sono imbarcati. I corpi di quelli morti vanno alle autopsie dentro sacchi neri.

“Fuocoammare” ci sbatte in faccia che non basta salvare i salvabili. Ci ricorda che in quei corpi ci sono persone, culture, idee, desideri, dolori, paure, speranze, sogni, tenerezze.

Ci dice che i naufraghi siamo noi: le nostre leggi, i nostri valori, la nostra società, il nostro modo di vedere il mondo sono alla deriva. È il naufragio dell’Europa come entità politica, ma anche come identità culturale. Andate a vedere “Fuocoammare”. È bello da vedere, è importante da capire. Dobbiamo capire cosa dobbiamo fare di noi. Beh, buona giornata.

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Guerra&Pace

Parigi e l’autunno d’Europa.

Parigi e l’autunno d’Europa.

epa05024526 A man looks outside the Carillon cafe with bullets holes on the glasses, in Paris, France, 14 November 2015. At least 120 people have been killed in a series of attacks in Paris on 13 November, according to French officials. Eight assailants were killed, seven when they detonated their explosive belts, and one when he was shot by officers, police said. French President Francois Hollande says that the attacks in Paris were an 'act of war' carried out by the Islamic State extremist group.  EPA/YOAN VALAT
epa05024526 A man looks outside the Carillon cafe with bullets holes on the glasses, in Paris, France, 14 November 2015. At least 120 people have been killed in a series of attacks in Paris on 13 November, according to French officials. Eight assailants were killed, seven when they detonated their explosive belts, and one when he was shot by officers, police said. French President Francois Hollande says that the attacks in Paris were an ‘act of war’ carried out by the Islamic State extremist group. EPA/YOAN VALAT

Quando scopriremo chi sono gli uomini -che hanno messo a ferro e fuoco Parigi e fatto strage di inermi cittadini con bombe e fucilate a sangue freddo- allora sapremo come sia stato possibile che nessuno si sia accorto in tempo del piano terroristico.

Per il momento possiamo solo dire che il tentativo chiaro è quello di trascinarci a forza in un salto mortale di qualità della guerra contro il Califfato. Costringerci all’invio di truppe sul terreno. È contemporaneamente chiuderci in uno stato di perenne auto assedio, di impedire l’agibilità sociale dei cittadini di origine araba dentro i confini degli stati europei, sul modello israeliano verso i palestinesi.

In questo c’è una convergenza tra gli scopi del terrorismo di stampo islamista e la destra razzista e xenofoba in Europa. In Italia alcune cornacchie, in effetti le solite, hanno già cominciato a gracchiare di bellicose rappresaglie. Da questo punto di vista, gli uccelli del malaugurio indicano nel Giubileo il prossimo possibile eclatante obiettivo, con un’ottusità propagandistica che ha il sapore beffardo di un suggerimento.

L’icona della gravità della situazione sta lì nelle strade di Parigi: prima le bombe, gli spari, il sangue; poi i militari e lo stato d’assedio. Che sembra la grottesca prima vittoria del terrorismo, il cui scopo e significato, tattica e strategia sono proprio innalzare sempre di più paura e allarme. È una coazione a ripetere schemi psicologici che non hanno portato nulla di buono, mai.

Non possiamo fare molto in queste ore. Chi ha potuto si è sincerato che amici o parenti che vivono a Parigi stessero bene. Di grande utilità sono stati i social: nel giro di pochi minuti, chi ha potuto è riuscito a tranquillizzarsi. Meglio non osare neppure a pensare cosa possa essere stato per chi, con la stessa rapidità tecnologica è stato raggiunto da drammatiche notizie personali: possiamo solo moltiplicare questa orrenda intuizione per il numero dei morti e dei feriti, in una serata parigina, coccolata da un clima mite, prima di venire stuprata dal terrore.

Ma proprio la vicinanza immediata che ci hanno permesso Facebook o Twitter è stata la cifra del nostro coinvolgimento in presa diretta con quei fatti terribili, come successe con le immagini che ci coinvolsero negli scoppi prima e il crollo poi delle Torri Gemelle, quel maledetto pomeriggio dell’11 settembre 2001.

La storia ci ha raccontato di errori, bugie, scandali e crimini che contrassegnarono la risposta militare degli Usa e degli alleati, tra cui il nostro paese, sotto le truci e truffaldine insegne dell’ “esportazione della democrazia.” Recentemente lo stesso Tony Blair uno dei più attivi sostenitori della “Guerra al terrorismo” ha riconosciuto apertamente che quella avventura fu non solo sbagliata, ma talmente malaugurata da essere diventata di fatto l’incubatrice dell’attuale Isis, il califfato probabilmente mandante dei crimini terroristici di ieri a Parigi.

Ecco allora che il timore di nuovi attentati si lega a doppio filo col timore che lo schema si ripeta in quel salto mortale di qualità, verso cui spingono le azioni del terrorismo islamico in Europa, congiuntamente alla propaganda xenofoba e razzista della destra europea. Beh, buona giornata.

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Cultura Fumetti. Guerra&Pace Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

Mauro Biani si aggiudica il Premio Nazionale Nonviolenza 2012.

Come recita il comunicato ufficiale, è Mauro Biani il vincitore del Premio Nazionale Nonviolenza 2012, che sarà consegnato a Sansepolcro il prossimo sabato 16 febbraio 2013.

Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E' stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l'inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall'associazione culturale Altrinformazione nella collana "I libri di Mamma!" (http://www.mamma.am/maurobiani)
Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E’ stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l’inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall’associazione culturale Altrinformazione nella collana “I libri di Mamma!” (http://www.mamma.am/maurobiani)
ultimi vincitori del Premio sono stati Don Luigi Ciotti, Fondatore del Gruppo Abele e di Libera e a Christoph Baker, Scrittore e Consulente Internazionale Unicef.

Il Premio – che ha cadenza biennale – viene assegnato a personaggi che si sono impegnati a far sì che le modalità di soluzione dei conflitti non violente possano essere sempre più conosciute e realizzate nel quotidiano. Il destino del premio Nonviolenza è strettamente legato al Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” nato nel 1992 grazie all’iniziativa del Comitato Promotore per l’Obiezione di Coscienza (oggi Associazione Cultura della Pace) e che quest’anno è assegnato all’attore Marco Paolini. La premiazione si terrà
sabato 16 Febbraio 2013 alle ore 16.00 a Sansepolcro (AR), presso il Teatro INPDAP e sarà preceduto da un incontro con gli studenti delle scuole superiori, alle ore 11.30.

In occasione dell’assegnazione del premio, inoltre, si terranno due mostre personali di Mauro Biani: una a Città di Castello dal 9 al 16 febbraio 2013 presso Palazzo del Podestà e l’altra dal 16 al 23 febbraio 2013 presso Palazzo Pretorio di Sansepolcro, organizzate in collaborazione con l’Associazione “Amici del fumetto” di Città di Castello. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cultura Guerra&Pace

“Il tunnel” di Gianni Perrelli: un romanzo in zona reportage.

La copertina di Tunnel
La copertina de Il Tunnel
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
di Riccardo Tavani

L’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, Il tunnel, per i tipi di Di Renzo Editore, è un intrigo di personaggi letterari prima che di città e traffici missilistici internazionali. Da veterano degli inviati e corrispondenti esteri per diversi giornali, l’autore, nel tessere le scene dell’intrigo tra una capitale e l’altra, mette soprattutto in scena la sua abilità nel padroneggiare il genere “reportage”. Anzi, l’intrigo internazionale di bruciante attualità che Perrelli sagacemente imbastisce, gli serve sì da carburante per mantenere alta l’attenzione del lettore, ma si tratta di un’attenzione finalizzata soprattutto al reportage.

Reportage da dove e su cosa, dunque? Da quelle capitali e sulle tensioni tra quei Paesi di cui parla il romanzo? Perrelli è troppo istruito sul suo mestiere per cadere in una trappola del genere. In questa ibrida zona narrativa lui non è inviato di nessun vero giornale; semmai lo è solo di quella coppia surreale formata da se stesso e da un indefinibile lettore di romanzi. Così gli bastano pochi sobri quanto efficaci riferimenti toponomastici e atmosferici per restituirci le pulsazioni e le pulsioni più intime di una città, di una sua zona, del suo traffico di superficie e sotterraneo. Gli è sufficiente il ricevimento nel salone di una ambasciata estera a Roma per far balenare l’intero poligono di tensioni in atto in questo momento tra Tel Aviv, Teheran, Roma, Damasco, Parigi e Washington. Gli è sufficiente questo per farci capire quanto lui conosca quelle città e situazioni e quanto potrebbe autorevolmente dilungarsi a riportarne.

Proprio per questo sarebbe, però, soprattutto per lui, operazione troppo banalmente scontata; e noiosa: da scrivere e da far leggere a quel fantomatico lettore della strana coppia. Assodato che il reportage giornalistico – proprio come l’intervista – è un genere letterario in sé che non ha bisogno di “romanzarsi”, rimane da stabilire come esso, senza imbastardirsi, trasli dentro un romanzo, senza, però, neanche ridurre quest’ultimo a reportage allungato a brodaglia.

Detto per altra via: considerato che il reportage è lo stile – di vita prima che letterario – di Gianni Perrelli, cosa diventa esso in quella particolare zona di tensione del mondo che è la sua creazione narrativa? Ovvero: di quale particolare zona del romanzo perrelliano ha bisogno il reportage per tradursi in narrazione senza tradirsi come genere?

Ecco, questa zona appare in tutta evidenza quella dei personaggi. Non si può davvero capire e apprezzare quest’ultimo romanzo di Perrelli senza tenere presente tale sua precipua caratteristica. Non le città, i loro quartieri, il gioco spionistico e le vicende di guerra e di politica internazionale in ballo sono il vero contenuto del reportage, ma i personaggi del romanzo, tanto nella loro originale singolarità quanto nelle loro tensioni e connessioni, altrettanto critiche e disperate. Non la città del personaggio è la scena della narrazione, ma il personaggio della città. Non c’è più una zona spaziale e temporale nella quale si iscrive un personaggio, ma un personaggio-zona tout court, che reca intrinseche le coordinate stilistiche, narrative, urbanistiche e cronologiche del reportage. Lo spazio della città o di una frontiera di guerra non fanno tanto da sfondo quanto sono uno sfondo che riverbera dal personaggio.

Già nel suo precedente romanzo Non avrai altro dio il vero nocciolo letterario del testo è il drammatico reportage sulla guerra che da esterna si fa interna al protagonista. Li, però, ci trovavamo in una situazione claustrofobica, concentrazionaria, conseguenza di una prigionia continuamente oscillante tra la vita e la morte. Il “fuori” della cella nella quale è rinchiuso non c’è proprio per il personaggio, oppure è ridotta soltanto al passato, ai suoi ricordi, a ciò che avvenne in lui e per il mondo quel fatidico 11 settembre 2001. Tutto in quella vicenda era già “dentro”.

Qui, invece, il “fuori” c’è e, anzi, abbonda. Nello spazio come nel tempo, c’è sempre un “fuori” che fa da sfondo. Mentre si legge il romanzo viene da domandarsi: “Perché l’autore fa tutte queste lunghe digressioni su fatti o su pensieri magari meramente accidentali, i quali non solo non hanno una stretta connessione con il nocciolo del plot ma, anzi, allontanano dalla sua buona sostanza?”. Si può rispondere in maniera pertinente a questa domanda solo se si tiene presente che ogni capitolo del romanzo ha come titolo il nome di una città nella quale si svolge una tappa dell’intrigo. La lunga digressione narrativa avviene dunque sempre all’interno di una città, la quale si intona a sfondo, con il suo paesaggio sobriamente mutante, al passage all’interno del personaggio.

L’autore sembra un flâneur baudelairiano, non di città ma di persone. Bruno e Gina, a Roma sono l’oggetto di un particolare reportage, tanto dettagliato quanto stilisticamente fluido, spigliato. Quando poi si spostano, per una breve vacanza sentimentale, a Parigi, i due personaggi diventano zona di un nuovo reportage, che fa emergere una toponomastica umana impossibile da rappresentare a Roma. Flâneur, abbiamo detto, perché quella del Perrelli non è un’altisonante introspezione psicologica o psicanalitica del personaggio, sebbene una deambulazione, una passeggiata, all’interno dei suoi viali, lungofiume o vicoli ciechi, senza una direzione, una meta precisa ma attraverso uno sguardo tanto rabdomante quanto perspicace.

Il motto dello stile reportage esistenziale di Perrelli è: “Vai, vedi, scrivi” ed è esattamente quello che lui fa di ogni suo personaggio. Non solo, come abbiamo detto, lo spazio fa da sfondo al reportage sul personaggio ma anche il tempo, il presente che fugge, il passato che torna, il futuro che si apre simile a una minacciosa chiusura. Assistiamo anche a uno sdoppiamento tra due io narranti: quello di Bruno e quello di Stefano, quasi a sottolineare che l’uno è una parte del paesaggio dell’altro, ovvero una diversa dislocazione bellica,geografica e urbanistica dell’altro.

Il reportage, pur nel suo andamento sempre spedito e anche ironico, alla fine si rivela però drammatico. I personaggi si disperdono nelle loro traiettorie e l’autore non può, non vuole attenuare il senso di tragedia e smarrimento. Solo dal passato di Bruno sembra aprirsi una nuova possibilità di reportage da una zona-personaggio sconosciuta: un passage non semplicemente temporale ma nel tunnel di una generazione smarrita che si infila dentro quello di un’altra dimenticata.

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Cinema Cultura Guerra&Pace Società e costume Televisione

Degli Europei se parla troppo, de “Il mundial dimenticato” troppo poco.

Le possibilità negate della Storia e come il cinema le restituisce,
di RICCARDO TAVANI

Partiamo da un termine tecnico del glossario cinematografico: “mockumentary”. Cosa significa e cos’è un mockumentary? È la fusione di un verbo e di un sostantivo entrambi della lingua inglese: “to mock”, fare il verso, e “documentary”, documentario. In termini pratici, un film che sembra un documentario, perché ne “rifà il verso”, ne riprende il registro tecnico e stilistico, ricostruendo una vicenda verosimilmente reale, ma che in verità è una pura finzione cinematografica.

Il mockumentary si è affermato come un vero e proprio genere del cinema e della televisione, fin dal suo primo riuscito colpaccio nel 1965, quando con “The War Game”, Peter Watkins, simulando un più che realistico attacco atomico all’Inghilterra, si aggiudicò l’Oscar come migliore documentario. Famoso e più recente il tiro messo a segno anche da “The Blair Witch Project”, con cui un gruppo di ragazzi sbancarono i botteghini di mezzo mondo, simulando una situazione horror da loro direttamente vissuta e ripresa con videocamera in un bosco di notte.

Premessa necessaria, questa, per parlare di un altro geniale mockumentary di due scapestrati registi italiani, coprodotto dalla Rai e presentato a Venezia nel 2011. Si tratta de “Il mundial dimenticato”, dei toscanacci Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, in cui si ricostruiscono con il respiro e il puntiglio professionale di una appassionante inchiesta giornalistica le vicende di un Campionato Mondiale di Calcio disputato nel 1942 in Patagonia, Argentina, mentre l’Europa è già avvolta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.

Il racconto si mostra più avvincente hilary duff pokies di qualsiasi pellicola esplicitamente di finzione narrativa. Perché? Perché quello che viene messa in scena, nelle sembianze della realtà storica, è proprio una possibilità realistica della storia, non solo passata ma anche presente e futura. Che questa grande passione planetaria che è il gioco attorno a una sfera di cuoio possa essere usata contro il razzismo, la violenza, la follia guerrafondaia delle grandi potenze politiche ed economiche è qualcosa che può e, anzi, dovrebbe avvenire.

Appare così estremamente realistico che il film ci mostri un conte trasmigrato in Argentina da quella terra martoriata per secoli da guerre di ogni tipo che sono i Balcani, il quale concepisca e realizzi questo progetto visionario di una Coppa Rimet contro la voragine bellica e razzistica in cui l’Europa sta precipitando.

La situazione “precipizio” è una “possibilità” sempre incombente nella storia, e così anche la “possibilità” di un antidoto a esso deve essere realisticamente contemplata, come possibilità e atto concreto di salvezza messianica, secondo quanto scriveva il filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, prima di suicidarsi per sfuggire alla cattura dei nazisti.

L’amore per il calcio è in questo film una coniugazione particolare dell’amore in sé, della sua forza naturale che si oppone e tenta di arginare quella del male. Così alla vicenda calcistica si intreccia una straordinaria narrazione d’amore umano che è anche una storia d’amore per il cinema e per il suo compito artistico di dare visibilità e voce proprio a ciò a cui la Storia ha finora protervamente negato “possibilità”.

Locandina de “Il Mondial Dimenticato”.
(Beh, buna giornata).

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Attualità Cultura Fumetti. Guerra&Pace Media e tecnologia Popoli e politiche

3DNews/UNA GRAPHIC NOVEL PER RICORDARE MARIA GRAZIA CUTULI.

di Barbara Leone

Una vita dedicata al giornalismo. In Dove la Terra Brucia è narrata l’intera vicenda professionale di Maria Grazia Cutuli, giornalista del Corriere della Sera rimasta uccisa in un agguato in Afghanistan, sulla strada tra Jalalabad e Kabul, il 19 novembre 2001.

Il libro, realizzato da Giuseppe Galeani e Paola Cannatella, catanesi come Maria Grazia ed edito da Rizzoli Lizard, si presenta come una graphic novel che, partendo dal 26 ottobre 2001, giorno del 39esimo compleanno della giornalista, racconta il cammino percorso da Maria Grazia per diventare la grande inviata di guerra che è stata. Frequenti flash back rimandano all’inizio della carriera della giornalista che nel 1986 fu costretta a lasciare Catania, città in cui era molto difficile fare informazione a livello professionale, per trasferirsi a Milano dove, prima di approdare al Corriere lavorò per Epoca, rivista per cui, in cambio delle ferie, cominciò a fare trasferte all’estero.

Fil rouge del racconto è l’etica professionale del giornalismo, caratteristica che ha sempre contraddistinto Maria Grazia. Non mancano descrizioni particolareggiate del carattere della reporter, rese possibili grazie alla viva collaborazione della famiglia Cutuli. Sullo sfondo della narrazione una dettagliatissima ricostruzione delle fasi della guerra afghana, molto utile a chi voglia documentarsi dal punto di vista storiografico. Un lavoro durato due anni quello di Galeani e Cannatella, fatto di decine di interviste ad amici e colleghi di Maria Grazia oltre che ad un’opera di approfondimento della realtà afghana.

Un modo per raccontare, senza fronzoli, la storia di una professionista che per amore della verità ha rischiato la vita.
Ma Maria Grazia Cutuli non rivive solo nel fumetto. Per iniziativa della Fondazione a lei dedicata e di cui è presidente Mario Cutuli, fratello della giornalista, è uscita a fine ottobre un storia epistolare: Maria Grazia Cutuli, libro scritto con passione, intelligenza e curiosità da una collega dell’inviata catanese, Cristina Pumpo. Il volume, inserito nella collana

Maria Grazia Cutuli
(il cui ricavato verrà devoluto alla Onlus “La Città del Sole”), è dedicato alla scrittura di viaggio al femminile.

Tra il carteggio privato e numerose fotografie viene raccontata la storia di una giovane donna che ha dedicato tutta la sua vita alla passione: un viaggio che Maria Grazia ha deciso di intraprendere contro tutto e tutti, dettato da inquietudine, curiosità e forte determinazione, ragioni contro le quali ogni reticenza avrebbe perso.
La Fondazione “Maria Grazia Cutuli” ha fatto sua la volontà della giornalista di essere concretamente vicina all’uomo: quest’anno, il decimo dalla morte dell’inviata, è stata completata ed inaugurata la scuola elementare di Herat, in Afghanistan, già in funzione da sette mesi.

Un progetto dal costo di 150mila euro interamente versati dalla Fondazione. A completamento della scuola verrà realizzata una struttura polifunzionale dal valore di 20mila euro, fondi donati dalla Provincia regionale di Catania mentre grazie ad altri 10mila euro devoluti dall’Ance Catania verrà costruita una biblioteca. A Maria Grazia Cutuli è dedicato anche un “Premio Internazionale di Giornalismo”, diviso in sei sezioni, giunto quest’anno alla sua settima edizione. Angela Rodicio (stampa estera), Claudio Monici, Domenico Quirico, Elisabetta Rosaspina, Giuseppe Sarcina (stampa italiana) e Fabrizio Villa (giornalista siciliano emergente) i nomi dei giornalisti premiati lo scorso 24 ottobre da Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere. Ad Emma Lupano è andato il premio per “Miglior Tesi di Dottorato” mentre i premi per la “Migliore Tesi Triennale” e “Specialistica” sono stati assegnati, rispettivamente, a Clelia Passafiume e Andrea de Georgio.

Tra le altre iniziative a settembre e ottobre si è tenuto il quarto “Corso di Perfezionamento in Giornalismo per Inviati in Aree di Crisi”, realizzato in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata”, il Ministero della Difesa e la Croce Rossa Italiana: 170 ore di lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per insegnare agli aspiranti inviati come deve comportarsi un giornalista quando si trova in un’area di crisi. Un progetto sostenuto, così come gli altri, da una grande volontà: che Maria Grazia e la sua passione continuino a vivere.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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Attualità democrazia Guerra&Pace

All’ONU succedono cose turche.

Botte da orbi fra le guardie del corpo del premier turco Recep Tayyip Erdogan e la security interna del Palazzo di Vetro di New York, sede dell’Onu. Un agente ha urtato per errore il presidente turco. E nel palazzo di vetro più famoso al mondo, la diplomazia è andata a farsi benedire: l’uomo, in un attimo, è stato assalito dalla guardia del corpo di Erdogan. La rissa è stata sedata solo quando il segretario dell’Onu in persona, Ban Ki-Moon, si è scomodato per le scuse. Almeno in questo caso, l’Onu è riuscita a intervenire tempestivamente e far fare la pace. Cosa che invece non è mai riuscita a fare in Palestina. Il riferimento non è pretestuoso: infatti, la scazzottata, già di per se fuori luogo, visto, appunto che il luogo è l’organo ufficiale che dovrebbe promuovere la pace nel mondo, è avvenuta proprio mentre parlava Abu Mazen, leader dell’Autorità Palestinese. Cose turche. Beh, buona giornata.

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Attualità Guerra&Pace

Per la democrazia e per il petrolio: truppe scelte europee combattono tra le file dei ribelli a Tripoli.

di Enrico Franceschini- blog d’autore.repubblica.it

Nessuno dovrebbe meravigliarsi del fatto che forze speciali occidentali hanno partecipato e partecipano alla guerra in Libia e stanno avendo un ruolo di primo piano nella caccia a Gheddafi. Il compito delle forze speciali è per l’appunto quello di muoversi dietro le linee nemiche, prima di un conflitto o in una fase in cui l’esercito regolare non può apparirvi coinvolto, per esempio per ragioni politiche. La posta in gioco in Libia, per l’Occidente che ha deciso di appoggiare i ribelli, era e rimane altissima. Un prolungamento o inasprimento della guerra, una guerra civile senza fine, una vittoria di Gheddafi, una lotta intestina fra le fazioni che ne prenderanno il posto, sono tutti scenari da incubo per la Nato. L’obiettivo era evitare ad ogni costo una ripetizione di quanto è accaduto in Iraq, da un lato, e dall’altro non interrompere con un risultato negativo la serie di rivolte dal basso che hanno portato alla caduta di regimi autoritari nel mondo arabo, in Tunisia, in Egitto, ora in Libia, forse domani in Siria.

Fonti britanniche indicano che il Regno Unito ha svolto un ruolo di primo piano per aiutare i ribelli libici sul terreno. Le Sas, leggendaria unità di commandos dell’esercito britannico, hanno preso parte alle operazioni di guerra con i loro uomini già da alcune settimane, guidando in particolare l’operazione per conquistare Tripoli. Per l’occasione i commandos britannici vestono abiti civili, cercano di sembrare arabi e usano le stesse armi di cui sono dotati i ribelli: ma sotto quegli abiti ci sono alcuni tra i più formidabili guerrieri della terra, gente che sa usare non soltanto la forza ma anche e soprattutto il cervello, in battaglia. Accanto alle Sas sono entrate in azione le spie dell’MI6, il servizio di spionaggio britannico (quello in cui milita James Bond nella finzione letteraria e cinematografica), con i loro agenti e i loro informatori libici: si sono occupati principalmente di una cosa, scoprire dov’è Gheddafi e come prenderlo. Londra e la Nato non vogliono che il colonnello riesca a ripetere l’impresa di Saddam Hussein, rimasto nascosto per mesi in Iraq dopo la caduta di Bagdad e del suo regime. Con lo stesso scopo, il Gchq, ovvero il servizio di spionaggio elettronico del Regno Unito, ascolta le telefonate fatte con cellulari a Tripoli e le confronta con registrazioni della voce di Gheddafi, per individuare i suoi spostamenti. Tutte informazioni che vengono poi passate sul terreno alle Sas e ai comandanti ribelli. Accanto alle forze speciali britanniche, sempre secondo le indiscrezioni circolate a Londra, partecipano alle operazioni anche forze speciali di Francia, Qatar e di alcuni paesi dell’Europa orientale. L’altro sistema usato dalla Nato per appoggiare sul terreno i ribelli, senza inviare formalmente proprie truppe nel conflitto, è stato quello – ben sperimentato – di creare un fondo (con l’aiuto di altri paesi arabi e dei proventi del petrolio libico in mano ai ribelli) per assumere un certo numero di “contrattisti privati”, ex-commandos britannici e occidentali che ora lavorano per agenzie di guardie del corpo, le quali a volte agiscono come braccio ufficioso dei servizi segreti e delle forze speciali: in genere si limitano a offrire una scorta a uomini d’affari in luoghi pericolosi del mondo, ma quando è necessario mandano i propri uomini in guerra, a dare una mano ai ribelli appoggiati dal loro paese, come una sorta di corpo paramilitare. Se a ciò si aggiunge la taglia di oltre un milione di dollari sulla testa di Gheddafi, vivo o morto, sembra difficile che il colonnello possa fuggire e cavarsela. Tutto ciò può forse indignare qualcuno, ma non dovrebbe meravigliare. La guerra si combatte, e talvolta si vince, anche così.(Beh, buona giornata).

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Attualità Guerra&Pace

Quello che sta succedendo davvero a Tripoli.

A Tripoli si combatte. Gheddafi ha ancora armi e uomini: ecco lo scenario sul campo. Quello vero, non le bugie messe in giro ad arte.

di Ennio Remondino, da globalist.ch

Il triangolo di resistenza e di fuga di Gheddafi. Dopo i titoli avventati sulla Tripoli Liberata, la complessità torna nelle sabbia mobili delle trattative incrociate tra kabile fedeli e ribelli. Tra Kabile incerte e kabile in vendita. Tra potenze liberatrici e potenze da liberare da lucrosi contratti petroliferi. Tra diplomatici spia e spie travestite da diplomatico. Ancora settimane di guerra, prevedono gli esperti sul campo, e le possibili vie di fuga nel deserto del Rais. Le semplificazioni propagandistiche, nella guerra combattuta, procurano solo guai. Sul campo il caos di Tripoli appare piuttosto come una fase rumorosa di pausa per trattative inconfessabili.

Tripoli liberata dal giornalismo di emozione. Titoli che si inseguono e si smentiscono. Tripoli liberata. No, a Tripoli si combatte. Conquistato il palazzo di Gheddafi. Ma Gheddafi non c’era. Bufala bis della statua di Saddam abbattuta a Baghdad, immagini televisive in campo stretto, per non far vedere che il popolo plaudente era fatto solo da giornalisti e troupe televisive. Oppure il pittoresco sacrificio volontario della barba di qualche poveraccio nella Kabul liberata, pagato da una troupe televisiva per farsi telebano pentito nell’Afghanistan liberato dagli studenti del corano, dai burka e dalle barbe integrali e integraliste.

I tre capisaldi di Gheddafi. Peccato che in Libia le cose siano molto più serie, e più pericolose. Restano fedeli al Rais i reparti beduini, i più mobili e meglio armati, e le postazioni avanzate nel deserto, basi militari della lontana guerra contro il Ciad. Disegniamolo questo triangolo della morte, questa punta di lancia che dalla costa porterà il beduino Gheddafi verso il deserto profondo e la via di fuga. Tripoli (dove ancora si combatte duramente) e Sirte (la città natale), tracciano la base. Poi una puntata a sud, verso il cuore della regione del Fezzan, città oasi di Sabha, la “fedelissima”. Oltre soltanto il deserto, le tribù tuareg e l’immensità dell’Africa.

Sebha o Sabha e la storia militare. Era la capitale della storica regione del Fezzan. Data la sua posizione al centro del deserto libico, Sebha è stata fino al secolo scorso un importante centro di sosta e smistamento delle carovane che attraversavano il Sahara. Ora è la rotta della disperazione per decine di migliaia di migranti sub-sahariani. L’Oasi di Sebha è stato un sito per testare i razzi Otrag. Nel 1981 dalla base libica di Sebha fu lanciato un razzo Otrag con un’altezza massima raggiungibile di 50 km. Esistono ancora quei razzi? E con quali proiettili? Ufficialmente la società Otrag ha chiuso per pressioni politiche da parte degli Usa.

O la fuga o l’olocausto. C’è un segreto tra i segreti. L’incubo delle armi chimiche che fanno ancora parte dell’arsenale non colpito a disposizione del despota che non molla. Forse è anche per questo che ancora oggi si tratta. I kalasnikov sparano per coreografia televisiva ad anticipare un vittoria che potrebbe costare prezzi ancora elevatissimi, e nel segreto, le trattative sotterranee tra governati ed insorti. Tra insorti e insorti. Tra spie e spie. Geopolitica delle “kabile” che governano territori, popoli ed eserciti del caos Libia. Warfalla contro i Qadadhifa (tribù da cui prende il nome lo stesso Rais) e via spartendo. Nuclei che il dopo Gheddafi lo contrattano in potere e petrolio.

Le quattro componenti. Il fronte anti-gheddafiano è diviso al suo interno. Quattro le componenti principali. Prima è l’attuale dirigenza del Comitato nazionale di Transizione di Jalil e Jibril, che tenta di portare avanti una politica unitaria. La seconda è quella filo-francese, minoritaria all’interno degli insorti, ma che vede al suo interno le kabile che controllano le principali fonti energetiche del paese. Quella che potrebbe favorire Parigi nei nuovi contratti. Terza, quella che esprimeva l’assassinato generale Janous, composta dalla “lobby” militare che ha abbandonato il rais. Quarta, all’italiana, quella dei “pontieri” non ostili a Gheddafi pronti a mediare.

 

Fonte: http://www.globalist.ch/Detail_News_Display?ID=1768&typeb=0&I-piani-di-resistenza-e-fuga-di-Gheddafi.

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Attualità Guerra&Pace

Se il dopo Gheddafi fosse peggio di come Europa se lo aspetta?

di Ennio Remondino – globalist.ch

Guerre orfane e senza figli. Le guerre, per quante ne ho conosciute e frequentate (e sono molte), hanno tutte un vizio: «Nascono orfane e muoiono sempre senza figli». Battuta da tradurre. Non c’è mai un padre riconosciuto all’inizio di un conflitto: è Gheddafi che ha esagerato nelle repressioni interne o è qualche leader occidentale (Nicolas Sarkozy in primis), che ha deciso fosse arrivato il momento utile per ripulire l’immagine degli amici dell’occidente sulla fascia mediterranea dopo Tunisia ed Egitto? Soprattutto, le guerre orfane non generano mai figli. Nel senso che le conseguenze imprevedibili e spesso catastrofiche del dopoguerra non vanno mai in conto a nessuno. O meglio, sono sempre figlie di chi la guerra ha perso. Comodo, scontato e sovente falso. Ma si sa: la storia, e purtroppo anche la cronaca, la scrive il vincitore.

La lezione Iraq e Afghanistan. Per memoria comune basterebbe ricordare le guerre bushiane in Iraq e Afghanistan. Combattimenti lampo con ritmi televisivi, e poi lo stillicidio di anni di “dopoguerra” che produce più vittime della guerra stessa. Saddam ucciso, ma cosa è il “dopo Saddam”. Esiste ancora un Iraq unitario o è una finzione che mette assieme tre Stati ufficiosi e incompatibili tra loro? A nord c’è il Kurdistan di Arbil, al centro la Baghdad senza petrolio dei sunniti, e a Bassora i filo-iraniano sciiti. Per l’Afghanistan è pure peggio. Oltre al rosario di morti anche italiani che segna quell’avventura nata sull’emozione dell’11 settembre, alla caccia a Bin Laden, ora, a tornare con l’aurea dei partigiani liberatori dall’occupazione, sono i talebani che, visti più da vicino di un caccia bombardiere, fanno paura e vincono.

Mediazione tra ideali o tra Kabile? E con la Libia, come la mettiamo? Che governo nazionale nascerà dall’assemblaggio tribale tra le varie Kabile che compongono e governano i diversi territori tra Tripolitania e Cirenaica? Sappiamo che, all’inizio della rivolta armata dei senussiti di Cirenaica, orfani del regno di Idris, c’era anche qualche nucleo islamista e una sparuta pattuglia democratica (intesa nel concetto occidentale della parola). Ora assistiamo alla corsa al dissenso dell’ultimo minuto per riciclare antichi complici del vecchio regime. Che ne potrà uscire da una simile e indefinita accozzaglia di interessi contrapposti? Di certo il mondo dovrà fare i conti con un paese distrutto e con partner inaffidabili. L’occidente scoprirà presto di aver speso tempo e denaro per portare al potere un “Partito” di cui ignora natura e programmi.

L’occidente e i guai di casa sua. Ora l’occidente, bruciata la carta estrema dell’intervento militare, deve tornare alla politica, e qui cominciano i guai. Con quale credibilità, dopo quanto s’è visto nei casi già citati? E quale “occidente”? Quello dell’apparente disinteresse statunitense o quello del neo interventismo post-coloniale di una “Grandeur” francese alla Sarkozy? Tunisia ed Egitto attendono il compimento delle loro rivoluzioni e anche in quelle situazioni più favorevoli, il modello di democrazia in chiave occidentale fa fatica a trovare una traduzione in cultura musulmana. Nel frattempo restano al potere Bashar Al Assad in Siria, Ali Abdulla Saleh nello Yemen, Omar Al Bashir in Sudan e Mahmud Ahmadinejad in Iran. Con l’occidente costretto a rincorrere e trovare rimedi soprattutto alla crisi economica e finanziaria di casa.

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Attualità Guerra&Pace

In Libia si sparano pallottole vere e notizie false.

di Gianni Cipriani – globalist.ch. (via megachipdue.info)

Che la guerra di Libia fosse, molto più di altre, guerra fatta con disinformazioni, propaganda e bugie, lo si era capito da molto tempo. Del resto bastava guardare diverse cose con gli occhi bene attenti e non poteva sfuggire che le 3-4 principali fonti delle notizie sull’andamento della guerra, sui crimini, le esecuzioni, gli stupri, sulle avanzate e sulle alleanze, erano siti internet di sedicenti sigle liberatrici, in realtà “redazioni” (il termine deve essere doverosamente usato tra virgolette) espressioni diretta di alcuni servizi segreti occidentali, di alcuni ambienti arabi e perfino di Hezbollah.

Premesso che la caduta di Gheddafi sembra inevitabile e dal mio punto di vista è anche un bene, stando a fonti più attendibili che in questo momento operano sui fronti libici e sono anche a Tripoli, le notizie che risultano a Globalist sono un po’ diverse.
Le fotografie che testimoniavano la caduta di Tripoli scattate sulla piazza Verde, in realtà non sono state scattate sulla piazza verde.
Alle 17.50 del 23 agosto le truppe di Gheddafi controllano buona parte della città (c’è chi dice il 30% chi più) mentre i ribelli controllano i sobborghi.
Gheddafi controlla ancora l’aeroporto mentre è battaglia per il controllo del porto.
L’accelarazione dei combattimenti è stata il frutto del passaggio tra gli insorti di alcuni generali chiamati alla difesa di Tripoli che hanno abbandonato il campo dei lealisti.
Si lavora ancora ad una soluzione diplomatica per evitare il bagno di sangue finale, mentre alcuni paesi stanno cercando in extremis di offrire una via d’uscita a Gheddafi e alla sua famiglia proprio per evitare questa drammatica coda.
Insomma, nelle ore appena trascorse è stata raccontata una inesistente caduta di Tripoli che sicuramente ci sarà, ma ancora non è avvenuta. Sono state mostrate immagini false, si è raccontato (attraverso appunto notizie veicolate da siti web controllati dai diversi 007) di episodi e catture non vere. Per carità, non è stata la prima volta, né sarà l’ultima. Ma non è mai un bene abbeverare l’opinione pubblica al pozzo avvelenato della propaganda e della disinformazione.

Sul futuro del paese, infine, l’analisi di Ennio Remondino mi sembra la più corretta. La Libia unita e democratica è una legittima aspirazione. Ma non ci si arriverà facilmente. E speriamo che la vera guerra non scoppi alla fine di quella “ufficiale” contro Gheddafi. Come è accaduto in Afghanistan, come è accaduto in Iraq dopo la fine di Saddam.(Beh, buona giornata).

 

Fonte: http://www.globalist.ch/Detail_News_Display?ID=1756&typeb=0&La-caduta-di-Tripoli-bugia-per-bugia.

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia Guerra&Pace Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Piero Ottone: se si spegne la capacità creatività, comincia l’inesorabile declino.

I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica

Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.

Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.

Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.

Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.

E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.

Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).

Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.

E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.

Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.

Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).

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Attualità Guerra&Pace Popoli e politiche

Il generale Mini: “In Afghanistan chiudiamo il gas e andiamo via”.

di Carlo Mercuri-Il Messaggero.

Generale Fabio Mini, l’ennesimo soldato italiano ucciso in Afghanistan potrebbe indurci a un ripensamento di strategia militare, magari a fare le valigie prima del tempo? «Prima dovrebbe spingere le Autorità a verificare che cosa si è fatto in Afghanistan negli ultimi 10 anni. A rispondere alla domanda: quale eredità lasciamo agli afghani?».

Quale eredità?
«Nessuna. In Afghanistan abbiamo fatto poco, male e mai niente di nostra iniziativa».

Vuol dire che noi italiani facciamo quello che gli altri ci dicono di fare?
«Esattamente. In Afghanistan abbiamo seguito la linea americana della caccia a bin Laden e ora che bin Laden è morto, noi continuiamo lo stesso a dare la caccia a qualcuno o a qualche cosa. Mai proposto una strategia diversa, né in Afghanistan né in Iraq né nei Balcani».

Ma gli americani sono nostri alleati…
«Già. Però nelle missioni del Libano nel 1982, nel Kurdistan iracheno, in Albania, noi conducemmo operazioni che tendevano a risolvere i conflitti senza rompere gli equilibri regionali. Questa fu una caratteristica delle nostre missioni: operazioni militari che non avevano lo scopo di distruggere ma di costruire rapporti. Ora questa nostra caratteristica si è persa».

Perché, secondo lei?
«Perché ora abbiamo una politica estera ispirata al criterio della mera partecipazione. Dove c’è qualcun altro dobbiamo esserci anche noi. Ce lo impongono i trattati, dicono. Falso. Veda la questione delle nostre basi concesse ai britannici e ai francesi per la crisi libica».

Francesi e britannici non sono nostri alleati?
«Noi abbiamo concesso le basi prima del via alla missione Nato. Non è che noi si debba concedere qualsiasi cosa che gli altri, per le loro ragioni interne, ritengano opportuno».

Fa bene la Lega, allora, a dire: via dalle missioni?
«La Lega mira a far affondare la barca grande per poter comandare la scialuppa. Ma questo autolesionismo, paradossalmente, potrebbe favorire la riappropriazione della nostra sovranità in ambito internazionale».

Lei parlava prima della Libia: anche lì ci sono dei punti oscuri?
«La Libia è la somma di tutte le vacuità. Prima con il trattato bilaterale abbiamo calpestato la Nato, poi abbiamo cancellato d’un colpo tutte le ragioni del rapporto bilaterale decidendo di bombardare, infine abbiamo invocato la Nato per rallentare i raid… Qual è il nostro ruolo internazionale? Non c’è. Finirà come quando abbiamo lasciato l’Iraq, che Rumsfeld disse: tanto non servivate».

Disse proprio così?
«Certo, c’è la dichiarazione ufficiale».

Ora la nuova strategia Usa in Afghanistan prevede i colloqui con i talebani. Lei che ne pensa?
«Bene. E’ un assioma militare: se non si conoscono i nemici è inutile fare alcunché».

In conclusione, come si esce dall’Afghanistan?
«Chiudendo il gas e andando via. E chiedendoci: che cosa lasciamo laggiù, oltre a tutte queste giovani vite spezzate?». (Beh, buona giornata).

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