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Correva l’anno 1990. E come correva.

Ho incontrato Fritz Tschirren a cena a Milano, “A Santa Lucia”, il suo ristorante abituale. Ho già avuto modo e occasione di dire che Fritz ed io abbiamo piacere a incontrarci e, da oltre trent’anni, parliamo volentieri di libri, di cinema, di vini, cibi, di passioni, di politica, di dettagli buffi della vita, e del lato serio delle cose serie. Ogni tanto parliamo anche di pubblicità.

Mentre mangiavamo “una battuta”, – fettina di carne con olio, aglio, origano e peperoncino, che pare sia stata un’invenzione di Totò e che per questo fu prontamente inserita nel menù- Fritz mi ha ricordato dell’intervista che facemmo a Franco Grignani (1908-1999) per la Hall of Fame dell’Annual 1990 dell’ ADCI, l’Art Directors Club Italiano.

Allora il presidente era Gavino Sanna, il vice Pasquale Barbella. Chi fosse Franco Grignani è per grandi liee descritto nel testo che di seguito potrete leggere. Fu Fritz a proporre al Club di inserire Grignani nella Hall of Fame, perché Fritz ai primordi della sua carriera aveva lavorato per un breve periodo nel suo studio. Dopo essere stato il primo presidente dell’ADCI, nel 1990 Fritz era nel consiglio direttivo.

A quei tempi l’Art Directors Club era ancora una piccola e preziosa organizzazione di singole volontà e talenti che promuovevano, divulgavano e producevano cultura professionale, per spingere verso la qualità del lavoro e l’innovazione dei contenuti nhaella pubblicità italiana. L’ADCI aveva rilevanza proprio perché svolgeva questo ruolo formativo. Era un Club esclusivo, ci si poteva entrare su presentazione. Sì, eravamo rilevanti, facevamo bene alla creatività, tutta, pure quella che non era specificatamente pubblicitaria.

Poi le cose sono cambiate, si è pensato che la rilevanza fosse avere più peso specifico in termini di iscritti e di relazioni con il mondo della comunicazione d’impresa. L’ADCI si è mimetizzato e confuso nel “settore”. Non so: la tecnica ha preso il posto della cultura? L’autoreferenzialità quello dell’autorevolezza? Essere creativi non più ha più ambìto a essere una militanza professionale e dunque culturale, ma uno status aziendale? Fate voi.

Nel frattempo, ecco di che cosa sapeva parlare l’Art Directors Club Italiano al mondo della professione. Correva l’anno 1990. E come correva.

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”L’area operativa della pubblicità sta diventando sempre più vasta e lo sforzo creativo di specialisti non riesce ormai a produrre, per due prodotti similari, quanto basta per differenziarli. ln questo mondo di immagini, che sta raggiungendo valori ipertrofici, si impone la ricerca di nuovi valori segnici, fisici e costruttivi”. (Franco Grignani)

La sera del 23 ottobre del 1965 si chiudono all’Università di Carbondale negli USA i lavori di “Vision 65”, il primo congresso mondiale sulla comunicazione fra gli uomini. ”lo appartengo al professionismo grafico. Ogni giorno uno spazio bianco su di un foglio aspetta l’invenzione di un segno. Dietro di me il peso dì una imposizione commerciale preme sulle deviazioni verso tentativi dl ricerca di nuovi linguaggi. ll mio compito, come quello di altri grafici, è quello di analizzare e convogliare, attraverso filtri intuitivi, le nuove figurazioni per adeguarle alle tecniche in continua evoluzione”. È Franco Grignani il dissidente, l’autodidatta, il dilettante, come dice spesso di sé. Queste paroie gli valgono il plauso dei partecipanti e l’amicizia di Marshall McLuhan.”Tutte le volte che ci incontravamo mi diceva: che bella tua figlia, sembra un Modigliani”.

Franco Grignani, il maratoneta del “nuovo a tutti i costi” come se avesse attraversato a piedi otto decimi del XX secolo, lasciandovi le sue impronte, esplorando nella pittura, nella grafica, nella tipografia, nel design, nella ceramica. E nella pubblicità. “La pubblicità è una macchina enorme, pensata per costruire e produrre comunicazione ai fini d’interesse. Ma se tale è la sua sola funzione noi dovremmo un giorno elencare i suoi sottoprodotti in lusinghe, affermazioni errate, tranelli promessi da oligarchie di specialisti.

Anzi, il ripetuto uso di tali sistemi in certe forme pubblicitarie ha fatto nascere purtroppo, nei più sensibili, la diffidenza e il sospetto”. È il dibattito di oggi, ma Grignani queste parole le ha dette quel giorno di del 1965 a Carbondale.

Classe 1908, pavese, una laurea in architettura. Nel ’27 aderisce al secondo Futurismo. “La mia scelta mi poneva già in un atteggiamento e in una predisposizione alla curiosità e all’avventura”.

Nel ’34 la prima mostra alla Galleria delle tre Arti di Milano, presente Marinetti. La mostra fa il giro di molte città italiane, prima di finire in Germania e lì andare persa in un incendio. Le prime opere grafiche sono del ’37 e vengono esposte in una collettiva al Padiglione italiano dell’Esposizione di Parigi. Ufficiale sotto le armi nel ’40, viene assegnato alla Scuola di Avvistamento: “Pensi che fortuna, dovevo insegnare al soldati come si fa a guardare e e riconoscere la forma di aeroplano, che poi altro non era che la ricerca della grafica.” Grignani l’entusiasta.

Negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, attraverso l’allestimento architettonico di mostre, entra in contatto con imprenditori che sempre più spesso gli chiedono un’idea pe fare avvisi pubblicitari. Grignani è irrequieto , vuole sperimentare, si trasforma in un ricercatore di segni. Gli sta stretto il Bauhaus, comincia a indagare tra la Gestaltpsychologie. Si sente un esule della pittura, un apolide della grafica, si addentra nella fascia ancora smilitarizzata in Italia del graphic design.

Questa specie di furore educato al segno lo avrebbe portato ad essere poi riconosciuto come uno dei principali influenzatori delle correnti “op” (optical art) della grafica mondiale. Del suo lavoro, Giulio Carlo Argan ha scritto che rappresenta, in tanti anni di ricerca metodica, un importantissimo materiale artistico di valore scientifico. “Il graphic design è una specializzazione tuttora poco conosciuta in Italia e il più delle volte viene confuso con la pubblicità, ma vi assicuro che è un lavoro difficile e faticoso, specialmente se fatto in tempi che non fornivano attrezzature né collaborazioni. Ad esempio, il fotografo non conosceva il fotogramma astratto e pur sapendo fare i ritratti si trovava in difficoltà davanti allo scatto di una bottiglia; perciò il graphic designer ha dovuto sostituirsi al fotografo, al tecnico di stampa e di camera oscura e all’esperto di comunicazione. Tale professione ha sempre avuto alle costole il pungolo di una committenza esigente nel chiedere una continua e alta creatività, aggravata e infastidita dalla richiesta di solerzia di esecuzione.” Grignani il caparbio.

Nel ’54 vince il premio nazionale della pubblicità, nel ’59 la “Palma d’oro” della pubblicità in Italia. Per la campagna Alfieri & Lacroix produrrà negli anni 163 bozzetti (oggi li chiameremo soggetti); per ventisette anni disegna le copertine di “Pubblicità in Italia”. C’è chi riconosce la sua mano nel marchio Pura Lana Vergine. È sua la campagna Ducotone. Disegna un nuovo carattere tipografico, il Magnetic. Ormai nel pieno degli anni sessanta, per il suo studio passano decine di clienti importanti. “Avevo scoperto che se presentavo al cliente due sole proposte, lui rimaneva perplesso e io facevo fatica a convincerlo. Allora ne preparavo cinque o sei. Così il cliente doveva chiedere a me quale fosse la migliore, e io riuscivo a far uscire il bozzetto più bello”.

La partecipazione al convegno di Carbondale nel ’65 lo fa conoscere negli Stati Unito: diventa membro onorario della Society Typographic Arts di Chicago e dell’International Center of Typographic Art di New York. Le riviste specializzate di tutto il mondo pubblicano i suoi lavori: la svizzera Graphis, la tedesca Gebrauchsgraphik, le giapponesi Design e Idea, l’inglese Typography. È membro dell’Alliance Graphique Internationale. In Europa, Giappone, Stati Uniti, Sud America, Australia si espongolo i suoi lavoro, le sue opere entrano a far parte delle collezioni dei più importanti musei.

Oggi, a 82 anni, non ha nessuna intenzione di starsene tranquillo nell’indice degli autori dell’Enciclopedia Treccani e della Larousse. Disegna, dipinge, fotografa, inventa. Ma libero, a casa sua, senza clienti alle costole. “Il ditale, sapete cos’è un ditale? È una piccola cosa che la donna mette al dito per cucire. Ma per me il ditale è un vaso. E dato che è piccolo deve avere dei fiori che devono essere piccoli. Sono andata in piazza qui vicino. Sono andato cercare fiori piccolissimi. Li ho messi dentro è ho fatto una fotografia. Dunque, secondo me l’immagine ha una grande dimensione anche se è piccola piccola. C’è uno sforzo ottico, ci costringe a una valutazione, per poterla capire, per essere al suo livello: per comprenderla diventiamo piccoli anche noi”. Franco Grignani è sempre più alto del suo metro e ottantatré.
(Fritz Tschirren e Marco Ferri)

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Cinema Cultura

“La grande bellezza” di Sorrentino, oppure “La migliore offerta” di Tornatore? La parola a Giuseppe Di Giacomo, il filosofo che giudica i film.

Alla luce delle polemiche per la vittoria dell’Oscar di Sorrentino
Giuseppe Di Giacomo rilegge il film di Tornatore, La migliore offerta
Alla ricerca dell’arte perduta
Il vecchio uomo e il nano nascosto sotto la sua scacchiera

di Riccardo Tavani

L’umana commedia del cinema italiano è stata recentemente attraversata da due opere che se ne distaccano, sia nello stile e nella forma che nei contenuti simbolici sedimentati al loro interno. Sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e La migliore offerta di Giuseppe Tornatore. Entrambi pongono le tre dimensioni della bellezza, dell’arte e della inevitabile riflessione umana su esse, all’incrocio con quella quarta dimensione universale che è il tempo.

Del primo film abbiamo già parlato e qui scritto con il professor Giuseppe Di Giacomo, che nel suo insegnamento filosofico dalla cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma non trascura mai un riferimento ai film recenti o passati che ha visto nel tempo e che torna a svolgere per i suoi studenti e uditori, perfettamente avvolti e conservati, nella bobina cinematografica della sua memoria.

Il film di Sorrentino ha suscitato, soprattutto in Italia e in particolare dopo l’assegnazione dell’Oscar, un vero e proprio sabba di polemiche, che ha imperversato e danzato dalle pagine dei grandi giornali agli angoli più nascosti del web. È proprio il carico ridondante di dialoghi e simboli proposti, a fronte di fragilità e inconcludenza narrativa, o vuotezza esistenziale, che sarebbe rimproverato dalla nostra patria a questa sua figlia in veste di pellicola.

Le cose, invece, per il professor Di Giacomo, non stanno così, perché è proprio delle vere opere d’arte il movimento che ci trae dai selciati caoticamente affollati del presente a una costellazione allegorica, figurativa, o – seguendo Kant – a “una rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto senza…. che nessun linguaggio possa completamente raggiungere totalmente e rendere intelligibile”. Che alcuni autori italiani – aldilà di circostanziate e specifiche critiche sempre legittime – cerchino di rompere la prevalente uniformità triviale del nostro attuale tessuto cinematografico, è da incoraggiare e sostenere, anche con occasioni di confronti e incontri, non da demolire preventivamente. Questo, indipendentemente da prestigiosi premi, riconoscimenti o meno che un film può ricevere: il suo valore estetico e critico è in altro.

Così, alla distanza ormai di un anno e mezzo dalla sua uscita, ci troviamo con Di Giacomo a riconsiderare anche l’ultimo film di Tornatore, La migliore offerta, che ha avuto appena sei stranazionali Nastri D’Argento, sei David di Donatello, a fronte di un solo riconoscimento europeo (l’Efa), andato, però, a Ennio Morione per la sua colonna sonora. Né il tempo trascorso, né i mancati riconoscimenti internazionali scalfiscono per Di Giacomo il valore di questo film, che sprigiona la sua forza d’immagine proprio in ciò che il suo maestro Emilio Garroni ha chiamato uno sguardo attraverso.

Uno sguardo sulla bellezza, sull’esistenza, sull’arte, attraverso quel mezzo massimamente trasparente, eppure ontologicamente denso, impenetrabile che è il tempo. Per il filosofo dell’arte non si può prescindere dalle grandi lezioni che hanno illuminato il Novecento e che ancora oggi ci raggiungono con i loro bagliori. Prima fra tutte quella di Marcel Proust che reca il tema del tempo nel titolo e in ogni riga della sua immane Recherche letteraria. Ricorda anzi Di Giacomo che le parole ultime, estreme, a chiusura dell’intera opera, sono proprio “ – nel Tempo”. Tutto il romanzo di Proust è un tentativo di riscattare il passato, le possibilità in esso insite che ci sono sfuggite, attraverso la capacità dell’arte di renderle visibili, rammemorabili sotto la luce improvvisa di un nuovo sguardo, per fissarle nell’eternità dell’opera letteraria, eppure – proprio nel fare e per fare questo – l’artista non può che restare nel tempo, avvinto in esso e perciò da esso vinto.

Nel film di Tornatore – e questo è sfuggito ai più –, già il nome del protagonista ha incapsulato in sé il tema del tempo: Old-man, l’uomo vecchio. Vecchio – spiega Di Giacomo – nel senso che il raffinatissimo e coltissimo battitore d’asta londinese Virgil Oldman, egli stesso, nella sua persona, nel suo stile, nella sua impermeabilità ai fatti della vita quotidiana, fino ad interporre tra sé e gli oggetti fisici del mondo sempre la pelle di un paio di inseparabili guanti neri, è una personificazione vivente dell’aspirazione all’eternità dell’arte. Uomo Vecchio, in quanto la modernità del Novecento nel suo insieme, non solo Proust, conduce al tramonto di tale aspirazione dell’arte.

La bellezza, soprattutto, per Virgil deve conservare questa purezza incontaminata, ab-soluta, ovvero completamente sciolta dal divenire temporale e accidentale del mondo. Virgil Oldman è il castello, la fortezza estrema, perfetta di questo ideale d’assolutezza. Non ha amori terreni, ma centinaia di quadri raffiguranti ogni aspetto e forma della suprema bellezza del volto femminile. Dipinti che ha accumulato e serrato in un’ampia camera blindata, un’abissale galleria segreta; quadri resi inaccessibili a ogni altro occhio umano che non sia il suo, sottratti, anche con la truffa, l’inganno a chi non li meritava, perché li avrebbe solo esposti alla sventatezza della finitezza umana. È in questa Cappella Sistina delle più vertiginose fattezze di volti, sguardi, capelli, spalle femminili nella storia della pittura che egli respira, vive autenticamente e ha eletto l’occulto scopo di tutta la sua vita. Oldman gioca abilmente, elegantemente ogni mossa della sua vita, della sua professione su una scacchiera a un angolo della quale ha eretto un arrocco perfetto e impenetrabile a ogni attacco.

Eppure anche Oldman vive nell’ingranaggio del tempo, non vi si può sottrarre, soprattutto ora che la sua mirabile e invidiata carriera pubblica ha toccato l’apice e si sta concludendo. L’arte dell’ingranaggio – dice Di Giacomo – reca insita in sé anche quella dell’illusione dell’inganno. Nel film Oldman si imbatte continuamente in pezzi, ruote dentate, molle di un automa, che con l’aiuto di Robert, un giovane di sua fiducia, cerca di rimettere insieme. Questo automa è realmente esistito ed è stato costruito nel ‘700 dal celebre inventore francese Jacques de Vaucanson, il quale incantava letteralmente la sua epoca con simili meccanismi e che ha anche una singolare somiglianza con l’attore Geoffrey Rush che nel film interpreta il personaggio di Oldman. Robert svela a Virgil che l’apparato meccanico mostra uno spazio vuoto in basso, il quale doveva celare un piedistallo cavo, sotto il quale si accucciava un nano che faceva rimbombare la sua voce dentro l’automa con un insuperabile effetto di meraviglia per chi lo vedeva muoversi.

Il richiamo alle prime righe delle Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin è per Di Giacomo naturale e immediato. “Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola [su cui poggia una scacchiera] fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili un burattino”. Anche nel film di Tornatore appare una nana, imbattibile nel ricordare ogni evento, con la massima precisione di calcolo numerico nel suo verificarsi e ripetersi nel tempo. Questo personaggio è il vero segreto custode della grande villa-scacchiera, apparentemente trasparente, nella quale Oldman viene trascinato a giocare la sua ultima ambiziosa partita prima del ritiro nel segreto museo d’arte che ha eretto nel corso del tempo. (Solo di sfuggita Di Giacomo richiama come anche ne La grande bellezza Sorrentino affidi al personaggio della nana direttrice del giornale il compito di dire sempre la verità a Jep Gambardella).

Su questa scacchiera truccata ora Oldman si trova a giocare con una bellezza nascosta, velata dalla porta di una stanza sempre chiusa, che è essa stessa un pregiato pezzo d’arte. La bellezza si manifesta sempre attraverso il velo; è inseparabile da questo – dice ancora Benjamin nel suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe. Il cinema anche, attraverso lo schermo, costituisce un velo della bellezza e insieme l’ingranaggio dell’illusione trasparente, l’attrazione erotica inesorabile del mistero per la desiderante mente umana. Dietro il velo, che è il segreto di una bellezza che si lascia solo intravedere, pulsa quello stupore filosofico, quell’aura baluginante della natura, dell’esistenza, che l’arte cerca di fissare su una pagina o sulla tela, come un bagliore dell’eternità che può riscattare la nostra caducità, ma che resta, invece, sempre irraggiungibile, ineffabile.

Una scena de "La migliore offerta" di Giuseppe Tornatore
Una scena de “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore
Su questa scacchiera il precedente inattaccabile arrocco di Oldman risulta scardinato e ogni sua altra ingenua difesa sbaragliata. Ne Il settimo sigillo di Bergman, la partita a scacchi di Block con la morte è a viso aperto ed è il nobile cavaliere ad usare un trucco per lasciarsi battere. Là sono in gioco il dubbio e la fede; qui il paradiso e gli inferi. Il paradiso di un riscatto che prima l’arte suprema sembrava garantire e gli inferi di un divenire senza scopo, né senso, irredimibile da un’arte, perché essa stessa esposta al fallimento, all’oblio dalla rapida mutevolezza delle mode e dei mercati.

Oldman, nota Di Giacomo, assurge al ruolo di Pigmalione nei confronti della giovane Claire, trasfigurata in Galatea, ma come nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, ricopre di talmente tanti strati erotici la sua opera da non distinguerne più la figura, il vero volto, il sentimento reale. Solo un dettaglio resta ormai visibile: un piede mirabilmente dipinto nel racconto di Balzac, un sospiro d’amore di Claire al culmine dell’eros e il suo ricordo di un caffè di Praga, dal nome, ancora una volta, esplicitamente evocativo del tempo, Night and Day.

Ora, però – come suggerisce la stessa etimologia greca di pygmalion –, è Oldman il nano nelle mani del grande automa che pezzo dopo pezzo ha contribuito a costruire contro lui stesso, e niente come la sparizione dell’intera sua sublime sacrestia pittorica è, per il professor Di Giacomo, la perdita stessa della bellezza, dell’illusione di eternità che le opere hanno preziosamente inseguito ma perduto contro il tempo, soprattutto quello del presente, nel quale è l’arte stessa ad essersi frantumata, dispersa in tanti pezzi di un ingranaggio museale e mercantile smembrato, che non ha e non vuole avere più alcun senso. Il vortice di follia nel quale Oldman, il vecchio uomo precipita è il dissolvimento stesso del principio di ragione, spirito e forma che prima orientava le opere artistiche e la loro percezione nel gusto del pubblico.

In quel ristorante di Praga, nel quale Virgil Oldman nel finale si reca, invece che da quattro vertiginose pareti di immortali volti femminili, è circondato da una volta di sferruzzanti orologi di ogni tipo appesi attorno a lui. È il tunnel del tempo che lo avvolge da ogni lato e celebra la sua vittoria. Le sfere sublimi del paradiso d’arte cui aspirava sono vinte da quelle meccaniche delle pendole; la gloria e la luce dell’eterno sono oscurate non dal fragoroso suono di campane, ma traforate dall’infinitesimale, incessante ticchettio della contingenza mondana, con l’invisibile roditore del tempo celato al suo interno. La sua resa è muta, attonita ma non disperata. Il tempo, infatti, non riesce a divorare tutto: le possibilità che non si sono realizzate rimangono intatte su un piano logico e ontologico. Proprio l’arte – attraverso quelle che per Joyce sono le epifanie improvvise e per Proust la memoria involontaria – è capace di mostrarcele come sospese fuori del tempo e dello spazio.

Quel ristorante esiste davvero: il ricordo confidatogli da Claire nell’alcova d’amore non faceva parte dell’inganno, del furto brutale, perché lei non aveva alcun bisogno di raccontarlo. Forse, allora, anche quel sospiro d’amore dal sen fuggito era autentico: “Qualsiasi cosa dovesse accaderci sappi che io ti amo”. Nell’ingranaggio illusionistico dell’arte, del cinema forse qualcosa di vero si deposita, resta e si ripresenta come una possibilità non ancora attuata, come una stella, una speranza nel cielo della notte. Alla domanda del cameriere che lo serve al tavolo e gli domanda se è solo il vecchio Virgil risponde: “No, aspetto una persona”.

Così a Oldman non resta immergersi nella corrente del tempo che lo trascina e attendere che il suo messaggio nella bottiglia sia trovato e letto da altri uomini, “ poiché essi – dicono le righe estreme de Il tempo ritrovato di Proust – toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane l’una dall’altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi, – nel Tempo”. (Beh, buona giornata).

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Il bello de “La grande bellezza”? Ce lo spiega il filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Paolo Sorrentino
La grande bellezza*

di Riccardo Tavani

Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella del momento esistenziale in atto.

Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione, desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo. (Beh, buona giornata.)

*Questo articolo risale ai giorni in cui il film uscì per la prima volta nelle sale e fu accolto piuttosto freddamente dalla critica. Oggi risulta di prepotente attualità, dopo l’Oscar come miglior film straniero.

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Attualità Cinema Cultura Dibattiti Popoli e politiche

Micaela Latini: “Hannah Arendt, della von Trotta

Micaela Latini commenta il film “Hannah Arendt”
di Margarethe von Trotta

Il coraggio del pensiero contro la produzione indifferente del male

Il dislivello prometeico di Anders e il Totum come Totem di Adorno
di Riccardo Tavani

L’incontro con la professoressa Micaela Latini è davanti a due tazze bollenti di squaglio fondente al 75%, con guarnizione di panna fresca, in una vecchia (ora magnificamente restaurata) cioccolateria del quartiere San Lorenzo a Roma. Lei ha visto il film lo scorso anno, appena uscito in Germania, a Monaco. Io lo vedo questo 27 gennaio 2014, in una proiezione speciale, in occasione della giornata della memoria al Cinema Farnese, dove adesso è in programmazione tutti i giorni alle 15,30.

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

La professoressa Latini è anche una delle maggiori studiose italiane dell’opera filosofica di Günther Anders, che è stato anche il primo marito di Hannah Arendt. Ustionandosi il palato con una sorsata di cioccolato bollente, mi dice senza mezzi termini, che è una vera vergogna che questo film venga proiettato con grande successo in tutta Europa e in Italia sia programmato solo in poche sale e per pochi giorni.

Una pellicola interamente al femminile, per la regia di Margarethe von Trotta, la sceneggiatura di Pam Katz e la sensibile interpretazione dell’attrice polacca Barbara Sukowa.
Aspettando che il cioccolato incandescente si raffreddi un po’, cedendo calore alla conversazione, la professoressa mi ricorda come la Arendt, anche in quanto ebrea, si sia trovata al centro di eventi storici cruciali. Fuggita dalla Germania nazista a Parigi, visse la vita dei suoi connazionali nei campi profughi, trasformati poi in campi di prigionia dopo l’invasione tedesca della Francia.

Riparò, come molti altri importanti pensatori e lo stesso Anders, negli Stati Uniti, dove sposò in seconde nozze il poeta e filosofo Heinrich Blücher. Il film di Margarethe von Trotta ritrae la Arendt in questo suo periodo americano degli anni ‘50, diviso tra la vita familiare, lo studio, l’insegnamento, l’incontro con i suoi amici tedeschi espatriati (la cosiddetta altra Germania) e diverse figure di intellettuali americani, tra le quali la scrittrice Mary McCarthy.

Il film passa continuamente dall’uso del tedesco a quello dell’inglese, e non solo per una ragione di realismo storico. In quegli anni, infatti, ricorda Latini, si è sviluppato un dibatto sulla lingua tedesca come lingua del male. “Non è la lingua tedesca a essere impazzita!” dirà poi Arendt in un’intervista rilasciata proprio alla televisione del suo Paese,

Micaela Latini nota che il film, innanzitutto, evidenzia bene la differenza tra la Arendt e gli altri pensatori di quel momento storico, e non parliamo della Germania e dell’Europa, dove dominava la rimozione e il silenzio sulla Shoa. Prova di questa rimozione è proprio silenzio del maestro e primo amante di Hannah Arendt, Martin Heidegger. A questo grande filosofo tedesco, che aveva aderito al nazismo, molti avevano chiesto, alla fine della guerra, di pronunciare una parola critica sulla sua scelta, ma lui non la pronunciò mai.

Differenza, quella di Hannah, coniugata in termini di coraggio etico del suo pensiero, e questo lo scandisce bene una secca battuta di dialogo della McCarthy, scagliata in faccia agli intolleranti quanto pavidi critici della Arendt, nel momento di massima aggressione che subì a seguito delle sconvolgenti pagine che scrisse sul processo Eichmann.

Hannah Arendt, infatti, è inviata dall’importante rivista New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo intentato dallo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, rapito nel 1960 dagli agenti del Mossad a Buenos Aires, dove si nascondeva sotto falsa identità, dopo essere sfuggito al Processo di Norimberga. Il resoconto che più tardi la Arendt farà del processo e della figura di Eichmann, in particolare, sulle pagine del New Yorker e del suo libro La banalità del male determinarono uno shock e una controversia irriducibile dentro la stessa comunità ebraica, alla quale anche lei apparteneva per nascita.

La pellicola inserisce all’interno della sua ricostruzione scenica le immagini vere, in bianco e nero, di Eichmann che si difende nel processo di Gerusalemme, al quale la Arendt assiste di persona. Ciò conferisce all’opera una particolare forza storica e, paradossalmente, un riverbero quasi sperimentale, simile a

L’Istruttoria, di Peter Weiss, che vedeva inserite, dentro il testo teatrale, le vere parole pronunciate dai testimoni nel processo di Francoforte del 1963 contro le SS e i funzionari del Lager di Auschwitz.

Micaela Latini sta approfondendo, con i suoi studenti, proprio nell’anno accademico in corso, i temi delle spaventose ecatombe consumate nella modernità, dall’Olocausto alla bomba atomica su Hiroshima. Quello che la Arendt coglie del processo di Gerusalemme e dall’enorme mole di atti giudiziari che studia approfonditamente è l’aspetto strutturale, di efficienza burocratica, amministrativa, da catena di montaggio della morte come produzione industriale strategicamente pianificata. È un aspetto, questo, che non può essere ridotto in nessun modo alla mostruosità di un singolo per quanto malefico individuo.

È il sistema in sé, quello che Theodor Wiesengrund Adorno (anche lui esule in America) chiamerà poi il Totum a costituire il Totem della cieca obbedienza, ai fini di un’efficiente esecuzione dei compiti da assolvere all’interno della divisione gerarchica. Eichmann era semplicemente un tenente colonnello, dunque neanche uno dei ben più elevati gradi militari ai quali obbediva. A una precisa domanda, risponde che avrebbe ucciso anche il padre se avesse tradito il e glielo avessero ordinato.

Di fronte alle contestazioni dei giudici sul metodo criminale di trasporto degli ebrei rastrellati, l’ufficiale risponde che il suo reparto si occupava solo delle quantità e dei tempi del trasporto, non delle modalità che erano affidate al Reparto U-4, sulle cui decisioni lui non poteva influire. Egli, afferma, con la massima serietà: “non ho mai personalmente torto un capello a un solo ebreo”.

Quello che la Arendt cerca di spiegare ai suoi studenti a New York è il vero aspetto del male assoluto rappresentato dalla Shoa: quello di privare l’essere della propria singolare umanità. Un aspetto ripreso poi anche da Primo Levi che nella sua opera parla della riduzione, praticata nei campi di sterminio, dell’umano al sub-umano, dell’oscena nudità dell’essere spogliato di ogni proprio sé.

La stessa spoliazione, la stessa negazione, però, il Totum sistemico la pretende dai propri addetti in stivali e divisa da militari, o in giacca e cravatta da funzionari. Vi è un parallelo, nota Latini, con il processo di alienazione descritto da Marx a proposito del sistema produttivo capitalistico.

Nelle sue lettere a Gershom Scholem, ricorda Latini, la Arendt scrive che il male non è radicale ma estremo, non possiede né profondità né connotazione demoniaca, ma è come un fungo. Alla stessa stregua Ingeborg Bachmann parlerà di un virus e si domanderà dove si sia annidato nel presente quello del nazismo. Un fungo che può attecchire nell’humus del mondo, ma il pensiero che lo cerca alla radice non riesce a coglierlo.

Solo il bene è profondo e radicale, il male è sempre orizzontale, si fa concrezione di superficie. Per questo lei rimane stupita e sconvolta dalla mediocrità dell’omuncolo Eichmann, dal suo essere anodina vite dell’ingranaggio che gli toglie ogni senso, restituendogli mera funzione esecutiva.

Questa indifferenza funzionale, indipendente dall’attività che si svolge, secondo Anders, è la connotazione moderna del peccato, così come originariamente intuito dal cristianesimo. È quello che lui chiama dislivello prometeico tra produzione e immaginazione, nel senso che quest’ultima non riesce mai raffigurasi il male che conseguirà a tale indifferenza produttiva.

È proprio questa, spiega la professoressa Latini, non la mostruosità, la dimensione abissale, ma la banalità del male, espressione che Hannah Arendt conierà come una delle più sinteticamente affilate di tutto Novecento. Lo choc causato dalla lettura delle pagine da lei firmate sul New Yorker scuote anche l’intera comunità ebraica americana, europea e israeliana.

L’indicazione del male come sistema riguarda anche i capi delle comunità ebraiche che collaborarono – come storicamente è provato – con i nazisti. La Arendt arriva ad affermare che se la strutturazione gerarchica delle comunità le aveva storicamente preservate, non esiste, allo stesso tempo, alcun dubbio che sarebbe morto un numero enormemente inferiori di ebrei se non ci fossero stati questi capi nell’occasione della Shoa.

Il Novecento fa emergere alla superficie tale aspetto prima inesplorato e non agito di Prometeo, come produzione orizzontale e non più controllabile, immaginabile del male.

Si rivoltano contro di lei le stesse radici ebraiche e filosofiche nelle quali affonda la sua formazione di studiosa, rappresentate nel film dai personaggi di Kurt Blumenfeld e Hans Jonas, quest’ultimo suo compagno di studi a Marburgo, dove aveva presentato Hannah ad Heidegger. Proprio Jonas, sottolinea Latini, per la sua internità alla comunità ebraica e allo stato di Israele, sarà poi il maggiore accusatore della vecchia e adorata compagna di formazione.

La loro è una vera e propria diaspora conflittuale che caratterizza tutta la comunità ebraico tedesca, cresciuta all’idea di tolleranza di Lessing e schiacciata poi dall’intolleranza nazista.

La Arendt fa prevalere, però, sempre la sua dimensione di filosofa tedesca, europea di fronte a quella pure profondamente intima di ebrea.

La dimensione pubblica in relazione a quella privata, anzi, il loro corto circuito, precisa Latini, è uno dei poli decisivi dell’intera filosofia della Arendt. Il rapporto controverso con il maestro ripudiato è drammaticamente rappresentato dalla von Trotta con dei salti temporali, in questa parte del film, nella quale la grande filosofa si ritira dalla sua casa di New York, per sottrarsi alla tempesta di critiche, insulti, ruvide pressioni e intimazioni di censura, abiura che si abbattono da ogni parte su di lei.

Questo ritrarsi, però, è anche un immergersi più profondamente nel dialogo interiore del pensiero, per tornare, poi, da autentica filosofa tra gli uomini. In una delle sue opere fondamentali, Vita Activa, Hannah Arendt ha paragonato il primo atto politico allo stesso atto teatrale: quello di presentarsi davanti all’agorà, sulla scena dell’agone collettivo, prendere la parola ed esporsi al giudizio critico del pubblico e al dialogo con esso.

È esattamente quello che vediamo, dice Micaela Latina, rappresentato sullo schermo dalla von Trotta. Hannah Arendt si presenta nell’anfiteatro a gradinate dell’aula magna della scuola, gremito dai suoi studenti e dai professori ostili. Chiede teatralmente all’uditorio il permesso di accendersi una sigaretta e mette in scena questo atto che è estetico e insieme etico, politico, come spiega bene Elena Tavani nel suo importante libro Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo.

"Hannah Arendt", di Margarete von Trotta.
“Hannah Arendt”, di Margarethe von Trotta.
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte. In basso: Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

Una lieve pellicola di cioccolato secco rimane sulle pareti delle nostre tazze ormai fredde, e noi dovremmo ordinare un bis, per approfondire molti altri aspetti che il film fa balenare.

Neanche l’atto dell’interpretazione può essere, però, per Micaela Latini, totemico e prometeico, in quanto anch’esso si espone all’agorà pubblica nella forma di un dialogo critico ed etico sempre aperto al senso di verità e meraviglia. (Beh, buona giornata “della Memoria”.)

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The Counselor Il Procuratore, di Ridley Scott secondo Giuseppe Di Giacomo, filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film “The Counselor” di Ridley Scott
Nel deserto senza legge e frontiera del senso
La bionda bestia di Nietzsche, la lastra di ghiaccio di Wittgestein, l’inferno spietato di McCarthy

di Riccardo Tavani

Se un felino esotico, un biondo ghepardo flessuoso fuggisse da una villa alle porte della città e si aggirasse la notte sull’asfalto viscido di pioggia delle vie del centro… Se, uscendo poi da una sala cinematografica all’ultimo spettacolo, lo vedessimo abbeverarsi alla fontana della piazza antistante, in tutta la sua adamantina purezza di belva feroce, noi avremmo un fremito che scuoterebbe il nostro intero mondo interiore. Se il film appena visto fosse stato, però, “The Counselor – Il Procuratore”, di Ridley Scott, noi ci diremmo che quel felino famelico si nutre e abbevera proprio del nostro strano mondo, non solo interiore, da molto tempo e senza alcun trasalimento della civiltà.

È la riflessione che facciamo con il professor Giuseppe Di Giacomo, uscendo sul selciato umido e striato di luci notturne, alla fine del film.

The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
C’è stata però un’ottima interazione tra scrittore e regista; il testo letterario non travalica mai quello visivo. Non a caso, McCarthy è stato anche uno dei produttori esecutivi del film.

Le vie del centro sono attraversate a quell’ora da ombre di volti e corpi, come i nostri, possibile rancio della “trionfante bionda bestia che vaga alla ricerca della preda e della vittoria” della quale parla Nietzsche nel primo capitolo della sua “Genealogia della morale”. Una fiera che si aggira rinchiusa nel fondo occulto della civiltà, ma che, ogni tanto, ha bisogno di fuggire, riemergere, riapparire tra noi.

“Sono famelica” ripete nel film, sedendosi a tavola, la bionda Malkina, dal corpo flessuoso, percorso da una lunga striscia tatuata che richiama le macule della sua coppia di giaguari, Silvia e Raoul, che corrono eleganti, ghermendo selvaggina, al confine tra Messico e Usa, ribollente di traffici illeciti e umanità da preda.

Alla tavola del filosofo, attorno alla quale c’invita a sedere Di Giacomo, trovi invece riflessione artistica e critica, senza che manchi, però, un sapido piatto di pasta al tonno e vino bianco, per conversare meglio, aprirsi ai significati dell’opera anche attraverso la convivialità dei pensieri e lo scambio dell’amicizia. Filosofia e cinema non possono prescindere oggi l’una dall’altro, tanto più in un film come questo, improntato alla œuvre e alla visione di McCarthy. Un’alleanza fondata, appunto, sull’amicizia. (Amicizia e amore corrono lungo una medesima linea semantica, eppure un sottile confine li distingue criticamente).

L’avvocato, ovvero il procuratore del titolo, nutre un amore puro, profondo e nello stesso tempo vertiginosamente sensuale per Laura, dall’odore della pelle bruno sotto le lenzuola accecanti di biancore nella luce del mattino. Vuole donarle tutto, anche più di quello che ha. Vola ad Amsterdam a comprarle un prezioso diamante, quale pegno per la sua richiesta di matrimonio.

Il diamante, per Di Giacomo, è qui il simbolo stesso della bellezza inscalfibile, che può redimere dalla drammaticità dell’esistenza, come quella “promessa di felicità” del famoso aforisma di Stendhal. Dice, infatti, il mercante di pietre all’avvocato: “Partecipare del destino eterno della pietra… Esaltare la bellezza dell’amata è riconoscere tanto la fragilità di lei quanto la nobiltà di questa fragilità”. La logica anche ha, per Wittgestein, la durezza non scalfibile del diamante. Eppure, aggiunge il mercante, noi siamo cinici, cerchiamo una piuma di imperfezione, altrimenti la pietra sarebbe solo luce. O, come scrive Wittgestein nelle Ricerche Filosofiche (107): “Siamo giunti su una lastra di ghiaccio… Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.

E la pellicola di McCarthy-Scott, sia nella tessitura scritta che in quella visiva, non abbandona mai il terreno scabro, anzi, lo privilegia. L’avvocato si immette nell’ingranaggio d’affari del narco-traffico di confine, dominato dallo spietato Cartello centro-americano. “Una botta e via?” gli domanda Reiner, re dei locali e degli smerci notturni, presso la cui sfarzosa villa vivono e si nutrono Malkina e i suoi due felini. Sì, l’avvocato vorrebbe partecipare ad un singolo, lucroso quanto lurido affare, rimpinguare il conto in banca e poi ritirarsi nel rifugio d’amore dorato con la sua Laura.

Reiner ride per l’ingenuo, ipocrita moralismo, ma intanto anche lui ha il suo lato morale debole, ammalato: è davvero innamorato di quella sua bionda con macchie di ghepardo tatuate sulla pelle e ad elevato grado di calore erotico, anche se per lei la “verità non ha temperatura” e “le cose non tornano mai”. Secondo Di Giacomo, proprio il personaggio Malkina, con le sue lapidarie, ciniche battute di dialogo, rappresenta il vero senso del film. Non è tanto la violenza, il sesso, l’illegalità, la morte che pure spruzza nel film come sangue da una testa mozzata o da una carotide recisa. La mancanza di legge lungo quel confine va intesa come l’assenza di una Legge, ovvero di un senso, di una teleologia, di una direzione che guidino l’azione del singolo e la storia umana. L’aridità desertica è senza direzione; la casualità vi domina spietata nella sua imprevedibilità senza legge e frontiera.

Il protagonista ne rimane vittima, vedendo completamente terremotata, rasa al suolo la sua vita e la preziosa rarità del suo amore, senza neanche rendersene conto. La stessa cosa succede, però, a Reiner e ad un altro scaltro mediatore d’affari, Westray, che dovrebbe passare un carico di coca all’avvocato. Questo Westray, però, ha anche lui il suo lato morale fragile, dunque facilmente ghermibile per la fiera predatrice.

Come in “Alien”, Ridley Scott rappresenta l’imperscrutabilità in sé dell’ignoto quale male senza difesa e riparo sicuro. È tale condizione, nota Di Giacomo, ad essere originariamente aliena eppure insita all’esistenza umana, come un parassita che aggredisce e sbrana dall’interno, in una lotta che sempre si rinnova e non ha mai fine, perché non c’è un fine, una meta, l’approdo di un qualche destino salvifico nell’Universo.

Solo chi si iberna allo stesso grado di “verità senza temperatura” morale, può cinicamente tastare prima e sfruttare poi ogni minimo neo di debolezza altrui, per sopravvivere e proseguire un viaggio, anch’esso, però, privo di ogni senso. “Viandante, non c’è nessun cammino, il cammino si fa andando”, recitano alcuni versi di Antonio Machado, proferiti al telefono all’avvocato, come un de profundis.
Così anche “La morte qui non ha valore: tutta la mia famiglia è morta, ma è la mia vita che non ha significato”, dice all’avvocato il padrone di una bettola di Ciudad Juarez, capitale messicana del narco-traffico, dove ogni anno sono tremila le persone che si contano tra ammazzate e fatte sparire, su circa un milione e mezzo di abitanti. La gente si raduna nelle piazze, per piangere, pregare, reclamare insieme giustizia e salvezza, ma qui non c’è legge, frontiera etica pubblica, solo un’immane discarica del senso, nella quale sono rovesciati i cadaveri delle ragazze sequestrate, stuprate e anche squartate in quel genere di lucrose quanto infernali pellicole pornografiche dette snuff movies. Lo spiega Westray all’avvocato: “Per la produzione di un simile prodotto il consumatore è essenziale. Non puoi guardare un omicidio senza esserne complice”. Vedi: L’inferno di Ciudad Juarez.
Sopra questo strato di sangue e fango umano, oltre la polvere riarsa del deserto, si stagliano le ville scenografiche, con piscine e colonnati riparati dal calore del sole, ma non sufficientemente ombreggiati dalla micidiale ambizione all’eternità simbolica, alla promessa di riscatto esistenziale racchiusa nei diamanti. Nulla, però, avverte Di Giacomo, è garantito, perché, anzi, ogni cosa e persona sono costantemente minacciate dall’avanzare del disordine e dell’insensatezza che tutto sgretola e divora.

Mentre l’avvocato marcisce disperato in una sozza stanza d’albergo di Juarez, lo scontro si sposta altrove, tra le mura protette delle banche e le stanze felpate dei grandi alberghi internazionali nelle capitali della nostra civiltà. Più pulita, silenziosa ma anche più spietata, vorace e decisiva si fa la lotta, in questa savana di vetro-cemento super tecnologica e interconnessa.

Malkina non ha soltanto la pelle tatuata delle macchie dei suoi felini ma possiede anche le loro movenze rapide ed eleganti nel corpo, un’intelligenza istintuale certa e senza sbavature. Si abbevera di champagne e sbrana le più raffinate pietanze in un esclusivo ristorante parigino.

Potremmo, però, proprio ora, mentre usciamo dal cinema, vederla lentamente transitare, al guinzaglio il suo biondo ghepardo Raoul, dai finestrini posteriori di una limousine. Da dietro quel suo piccolo schermo blindato e trasparente, Malkina vedrebbe scorrere la pellicola insensata del nostro strano mondo, nel quale si ama, si crede, si nutre passione o paura per qualunque cosa. Lei, invece, aspira solo alla “purezza di cuore del cacciatore… Non puoi distinguere quello che è da quello che fa… uccidere… e non c’è niente di più crudele di un codardo”.

Conclusione in linea con l’iniziale bionda belva nietzscheana, soltanto che Malkina, dice Di Giacomo, è cosciente di non andare nella direzione di alcun oltreuomo, perché, anche se non torna mai nello stesso luogo, si trasferisce soltanto da un’altra parte, indifferentemente, sia essa la Cina o, domani, anche Marte. Non trasmuta alcun valore morale, ma solo i soldi in diamanti, per riavviare il processo di eterno ritorno dell’uguale, al confine di un deserto esistenziale brulicante di illusioni, stupefacenti e corpi riarsi, sepolti nei turbini caotici di pallottole e sabbia.(Beh, buona giornata.)

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Attualità Cinema Cultura Società e costume

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di Riccardo Tavani

Scanzonato, profondo, lacerante, senza illusioni apre alla speranza.
Si tratta di un film che non tanto consiglio di vedere, quanto di fare in modo che si possa vedere nelle vostre città. Se conoscete, direttamente o indirettamente, proprietari e direttori di sale cinematografiche cercate almeno di convincerli ad informarsi, perché si tratta di una pellicola di qualità e anche di incasso garantito.

Al Nuovo Cinema Aquila di Roma, in Via L’Aquila, 68, al Pigneto, lo avevano programmato solo per il periodo festivo, ora hanno deciso di prolungarne la visione, perché sta facendo fare le file al botteghino e caricando di entusiasmo il pubblico.

Si vede anche e soltanto al “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.

Spaghetti Story, per il momento solo a Roma, al cinema l' Aquila; “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.
Spaghetti Story, per il momento solo a Roma, al cinema l’Acquila; “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.

Proviamo a fare una campagna perché altre sale, in altre città, offrano la possibilità di vederlo.

Si sentiva il bisogno di una simile ventata di aria fresca nel cinema italiano. È la vera sorpresa del nostro cinema non solo dell’anno appena apparso ma anche di quelli indietro per almeno una decina abbondante di anni a questa parte.

Girato con una manciata di spiccioli (quindicimila euro), di giornate di ripresa (undici) e con una Canon 5D da discount dell’elettronica, ottiene un risultato di forma, narrazione e significati davvero stringente e convincente.

È la vicenda di quattro ragazzi di quella periferia generazionale smarrita dalla mancanza di reddito e prospettive, con sentimenti e cultura ad alta definizione e proprio per questo maggiormente umiliata, negata, cancellata. Tra battute di dialoghi fulminanti e scene da commedia del nostro primo neorealismo, si morde l’amaro di una condizione che non sembra offrire nessuna facile via di riscatto. Una generazione straniera a se stessa, no, anzi! arruolata a forza in una sorta di “legione straniera” di se stessa, e lasciata poi vagare assetata nel deserto, alla ricerca di un’oasi, o forse di una borraccia appena di fiducia nelle sue doti e qualità.

Quattro protagonisti di questa vicenda quotidiana delle nostre strade che non a caso sanno riconoscersi nel volto straniero, sconosciuto, lontano nel quale all’improvviso, riflettendosi, si imbattono e al quale cercano di offrire una possibilità, una speranza.

Scrive Walter Benjamin: “Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. Questo significa che la speranza autentica è quella che si nutre per altri, mai per se stessi. Essa, infatti, ha in sé quella particolare forza del dono completamente gratuito di spargere intorno la propria aura, la propria energia umana, sociale. Così è questo film.

Un film “ragazzo”, con autori e attori auratici che strameritano anche loro un’apertura di fiducia che sia insieme viatico al cammino del loro talento, come patrimonio che può fare bene a tutti. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Movimenti politici e sociali Musica Popoli e politiche

Sugar Man, alla ricerca del poeta perduto.

Quando Einstein chiamò lo spazio-tempo “quella bobina cinematografica”

di Riccardo Tavani

Dove è scritto “genere: Documentario” dovete sostituire con “classe: Capolavoro”. La vittoria dell’Oscar holliwoodiano e del Bafta, il prestigioso premio dell’Accademia Cine Tv Britannica, entrambi come “Miglior Documentario 2013”, sono un riconoscimento mai tanto giusto e mai tanto riduttivo allo stesso tempo. Una pellicola va riconosciuta per la qualità della sua storia e della sua forma artistica, indipendentemente dal fatto che sia una fiction o un documentario. Anzi, andrebbe sempre ricordato che la vera precipua caratteristica del cinema è più nella presa diretta con la realtà che nella finzione narrativa, essendo quest’ultima di evidente derivazione letteraria e teatrale, ovvero di media comunicativi antichi che non rappresentano in sé la specifica modernità del cinema.

Il titolo originale del film è Searching for Sugar Man, ovvero “Alla ricerca di Sugar Man”, e mai titolo fu più azzeccato nel riecheggiare il titolo della grande opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. La ricerca del poeta, del profeta, del musicista cantante perduto di cui narra questo film è davvero una ricerca che riguarda in maniera sconvolgente il senso del tempo, soprattutto inteso come senso della memoria, del destino e del reciproco riconoscersi, restituirsi la voce e rendersi piena giustizia. Una giustizia che si presenta nella forma di una caparbietà del destino che si mantiene salda nel sottosuolo delle coscienze e della storia umana, intese entrambe come scenario dell’esistenza nel quale si succedono eventi, popoli e individui e si smarrisce progressivamente la memoria di essi.

Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
La vicenda vera del poeta cantante smarrito Sixto Rodriguez nel farsi film, pellicola cinematografica, opera d’arte per lo schermo, non fa che manifestare la sua vera, profonda natura di film che in se stessa già da sempre essa è, al pari di molte altre misconosciute, trascurate, obliate od occultate vicende di umana storia, cronaca e quotidianità. Anzi, potremmo dire che quella di Sixto è l’emblema stesso dell’essere ogni singola, perduta vicenda esistenziale già avvolta e salva dentro il film, la bobina cinematografica di ciò che chiamiamo “tempo”.

Il paragone tra la bobina cinematografica e il piano esistenziale di tutti gli eventi fisici che accadono nell’intero Universo non è di un filosofo in senso stretto. È invece del padre della fisica moderna Albert Einstein, secondo il quale tutti gli eventi universali giacciono in una dimensione di contemporaneità, simultaneità, ovvero senza passato o futuro, proprio come dentro la bobina di un film. In una pellicola cinematografica tutti i fotogrammi e le scene che essi formano sono già tutti da sempre presenti, ovvero si possono dare soltanto come presente. Il passato e il futuro sono fittizi, ovvero sono relativi alla successione nelle quali noi le guardiamo.

Eppure questa visione di Einstein ha molto a che fare proprio con il senso più profondo e originario della filosofia. A rivelarlo e farlo notare allo stesso scienziato fu Karl Popper, uno dei più grandi filosofi ed epistemologi del ‘900. Popper contestò ad Einstein che la sua visione dell’Universo e del tempo fosse esattamente quella di Parmenide, il padre del primo grandioso e sorprendente sguardo della filosofia greca sul mondo. Popper, nella sua polemica, arrivò a rivolgersi ad Einstein chiamandolo direttamente ‘Parmenide’, cosa che Albert accettò immediatamente e ben volentieri.

Per Parmenide la stessa semplice forma verbale ‘è’ sta come irreversibile dimostrazione logica e ontologica che il Nulla non può darsi in nessun modo, al pari del divenire, del trasformarsi del mondo, dato che tutto è già da sempre e per sempre come eterno presente. L’Universo è una sfera illimitata ma non infinita, perfettamente chiusa, compatta e connessa nella totalità dei suoi eventi. Proprio come in Einstein, l’evento più remoto e invisibile è connesso nel presente a quello più vicino e apparente, perché essi giacciono sullo stesso piano spazio-temporale.

È quello che succede con il long play Cold Fact, inciso negli anni ’70 da un operaio edile con una vena poetica e musicale che non ha niente da invidiare a Bob Dylan ma che non ha il suo stesso successo, anzi, non ne ha per niente e per questo viene licenziato dalla sua etichetta (cosa che Rodriguez aveva profeticamente previsto in anticipo in una sua canzone persino nel giorno del licenziamento). Una sola copia del disco finisce per caso in Sud Africa ai tempi dell’apartheid e comincia – nonostante sia messo sotto severissima censura – a diffondersi clandestinamente tra i giovani della classe bianca e colta che contestavano il regime. Quelle parole e quei profondi ritmi blues alimentano la loro identità politica e fanno sbocciare le prime band musicali alternative. Un’intera generazione di sud africani si forma sulla lezione misconosciuta in patria di Sixto Rodriguez e il disco vende – a sua totale insaputa – più di mezzo milione di copie.

La lontananza degli eventi nella bobina spazio-temporale e anche la loro sconnessione è solo apparentemente. Sugar Man ci racconta come quei fatti freddi e remoti all’improvviso si riavvolgano e trovino finalmente nella pellicola una trama logica ma calda, proprio a partire da quegli ex ragazzi senza voce poetica e politica ai quali Rodriguez ne aveva data una. Ora sono essi a ridarla al vecchio Sixto, rimasto tutta la vita a fare anche i lavori più umili nelle viscere di una grande città industriale americana, ma sempre fedele al suo pensiero e al suo stile. “Grazie di avermi tenuto in vita”, sussurra nel microfono prima di riattaccare a suonare e cantare la sua “Sugar Man”, con la sua voce e le sue profonde inflessioni immutate, come se tutto quel tempo perduto non fosse davvero mai passato. Un film da non perdere in nessun modo, perché niente come quell’ora e mezza seduti davanti allo schermo il tempo – insieme a Parmenide, Proust ed Einstein – ce lo fa ritrovare. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura

Salvo, una canzone e una pistola tra la polvere e l’ombra (con aggiornamento).

di Riccardo Tavani

“Salvo” è un film di poche parole, parecchia ombra, polvere, ferraglia, ruggine. È stato meritatamente insignito a Cannes 2013 con il Gran Premio e una Menzione Speciale. Scenario la Sicilia e la lotta spietata tra cosche locali. Salvo, il protagonista del titolo, è il micidiale, efficientissimo killer di uno dei boss dominanti.

È difficile si faccia uscire qualche parola dalla bocca, sembra un muto. Non ha bisogno di pensiero, linguaggio, ma solo di una pistola, perfettamente funzionante e oliata. Lui è quella pistola. Rita, invece, la sorella di un capo-clan avverso, è realmente cieca. Conta le banconote che il fratello scarica quotidianamente in casa e ascolta sempre la struggente “Arriverà” dei Modà con Emma, canzone che da sola costituisce anche l’intera colonna sonora del film.

L’incontro tra i due fa scoccare un miracolo, che non è tanto quello esplicitamente mostrato dal racconto, quanto quello della brusca interruzione del nulla in cui stagnano le loro rispettive esistenze. Jacques Derrida nelle sue “Memorie di un cieco” spiega la relazione tra vista, accecamento e pianto, il quale è quella particolare modalità nella quale si esprime la commozione, la compartecipazione al dolore, allo strazio altrui.

Il protagonista di questo film è il simbolo di chi pur vedendo in realtà non vede proprio niente e neanche sa di non vedere. Se Rita deve riacquistare miracolosamente la vista, Salvo, al contrario deve perderla, accecarsi, per vedere finalmente qualcosa. Deve perdere, radere al suolo, fino al confine del buio il vecchio modo di percepire visivamente la realtà. Il vero miracolo al quale vuole alludere il film è proprio la perdita della vista da parte di Salvo, proprio per cominciare a intravvedere finalmente qualcosa nell’ombra impenetrabile della sua vita. Un cane eternamente al guinzaglio e abbaiante, nel cortile della squallida pensione familiare in cui dorme e consuma il pasto, diventa improvvisamente per Salvo l’immagine vera di se stesso.

Il vecchio occhio deve essere continuamente accecato per acquistarne uno nuovo che amplia l’orizzonte della mente, della coscienza e della vista. Solo che la realtà che ora percepisce il nuovo sguardo resta completamente invisibile a quello condizionato dalla cultura della cerchia cui si apparteneva. Il conflitto tra vecchio e nuovo sguardo si pone sempre in termini di inconciliabile tragicità, come già nel mito della caverna di Platone. L’uomo che ridiscende nell’ombra degli altri uomini, dopo aver visto la vera luce del mondo, sa di mettere drammaticamente in gioco la propria vita. Anche Salvo ora lo sa, ma ormai non può più sottrarsi al destino che anche inciso nel suo nome: Salvatore.

Il buio della vecchia prigione fraterna nella quale era relegata appare ora chiara a Rita, proprio attraverso quella nuova in cui la scaraventa Salvo. Un buio come mancanza, privazione della luce dei sentimenti, surrogati soltanto da quell’unica canzone continuamente ascoltata. La canzone dei Modà all’inizio dice: “Piangerai, come pioggia piangerai e te ne andrai”; poi nel nel finale del ritornello ripete: “Penserai che la vita è ingiusta e piangerai”. La luce del sentimento per Rita si esprime come acuto atto di compassione nei confronti del suo carceriere-salvatore. Scrive Derrida: “Ora, se le lacrime vengono agli occhi, se dunque possono velare anche la vista, forse rivelano nel corso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini… In fondo, in fondo all’occhio, quest’ultimo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere.

Nel momento in cui velano la vista, le lacrime sembrano svelare il proprio dell’occhio”. La compattezza, la densità drammatica di questo film è portata all’acme proprio dalla impossibilità di una redenzione, di un riscatto finale. Eppure quel velo di pianto e compartecipazione allo strazio ce ne fanno sentire tutto il lancinante bisogno. L’occhio, come la luce di cui è simbolo, permette di vedere ma non si lascia a sua volta vedere. Il schermo del pianto come una pellicola cinematografica lo svela.
(Beh, buona giornata).

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L’eccezione culturale e la strategia cinematografica del Festival di Cannes.

di Riccardo Tavani.

Uno dei temi di scontro tra gli Usa e gli Stati europei resta la cosiddetta “eccezione culturale”(*) sul cinema e sui prodotti audiovisivi. Le major americane del settore vogliono una completa liberalizzazione del mercato, mentre l’Europa – capofila la Francia – sostiene che la cultura non è una merce come le altre: è patrimonio stesso della Res publica, dello Stato e va dunque protetta e opportunamente incentivata. Gli Stati europei hanno ottenuto che il tema fosse stralciato da quelli all’ordine del giorno nel recente G8 irlandese. Obama, in considerevole difficoltà a causa del “data-gate”, lo scandalo dello spionaggio capillare sull’intero traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani, non ha per il momento voluto aprire le ostilità sul tema, ma la partita e’ solo rimandata. Gli Usa – come ha paventato anche Romano Prodi – potrebbero, per ritorsione, sollevare anche essi una loro specifica e magari economicamente più pesante “eccezione”, ad esempio sull’agricoltura. Anche il ministro italiano Bray si e’ schierato per l’eccezione francese, mentre all’interno del Governo non tutti sono sulla sua posizione.

Per capire perché la Francia sia quella più determinata su questo punto, basterebbe guardare ai film del Festival di Cannes che in queste giornate si sono visti in rassegna a Milano e a Roma.

La manifestazione alla Croisette non è semplicemente una “mostra’ dell’arte cinematografica, come Venezia e Berlino. E’ anche questo ma soprattutto l’espressione dell’intervento produttivo e culturale francese sulle cinematografie di quasi tutto il mondo, quelle economicamente più deboli in particolare. Cannes solca come una vera e propria portaerei produttiva i mari di tutto il mondo, pasturando di capitali per il cinema quelle acque, per trainarne poi in patria i risultati migliori. La grande maggioranza delle pellicole presentate a Cannes sono frutto della coproduzione francese nel mondo. Tra queste anche le nostre “La grande Bellezza” e “Salvo”. La prima non e’ stata degnata di alcun riconoscimento, mentre la seconda e’ meritatamente onorata di un “Gran Premio” e di una “Menzione Speciale”, in proporzione – sembrerebbe – proprio alla quantità e qualità dell’intervento francese.

Il film vincitore del Festival è “La vie d’Adele” del franco tunisino Abdel Kechiche, della non giustificata durata di tre ore. Una pellicola, dunque, dal sapore pienamente europeo, francese, ma co-prodotta anche con inglesi e americani. E’ la formazione erotico-sentimentale in versione lesbo di una liceale con una ambiziosa universitaria e pittrice, più tesa al successo e alla sua stabilita quotidiana che all’amore con una ragazzina non del suo côté.

Una vittoria forse già in qualche modo “instradata” dalla direzione strategica di Cannes. Moltissime sono state le pellicole “seminate” e poi scelte per questa edizione che vedono come protagonisti non solo i giovani ma addirittura gli adolescenti. Una scelta che ha tutto il sapore di un investimento strategico-globale, di egemonia culturale e produttivo di lungo respiro, che forse ha qualcosa a che fare proprio con la “eccezione culturale” e lo scontro con le major americane. (Beh, buona giornata).

(*) Cosa è l’eccezione culturale? (di R.T.)

Steven Spielberg, presidente della giuria all'ultimo Festival di Cannes
Steven Spielberg, presidente della giuria all’ultimo Festival di Cannes

L’eccezione culturale è una politica che consiste nel tenere la produzione culturale al di fuori delle leggi di mercato. Essa permette agli Stati di mettere in atto dei meccanismi di aiuto e sostegno alla loro cultura, sotto forma di sovvenzioni come gli aiuti all’industria cinematografica e più generalmente ad ogni forma di opera creativa. Ma questo può anche concretarsi nell’applicazione di quote di diffusione cioè imporre per legge che un certo numero di opere diffuse per radio o televisione siano prodotte in Europa. All’epoca gli americani volevano inserire la questione della proprietà intellettuale nel commercio internazionale, ma l’Unione europea si oppose. Per gli USA la cultura è un prodotto come gli altri che non può essere sovvenzionato.

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Cinema Cultura Società e costume

Roma alla ricerca della sua “grande bellezza” perduta.

Lo schermo cinematografico come velo della bellezza e sedimento della memoria. Un flaneur dell’apparenza sul filo narrativo-filosofico di Proust e Benjamin.

Un punto di vista filosofico su "La grande bellezza" di Sorrentino.
Un punto di vista filosofico su “La grande bellezza” di Sorrentino.
Una scena di "La grande bellezza":
Una scena di “La grande bellezza”:

di Riccardo Tavani

Nel suo saggio sulle Affinità Elettive di Goethe, Walter Benjamin scrive che la bellezza è inseparabile dall’apparenza. Il termine apparenza va qui inteso nel suo senso etimologico e filosofico più profondamente originario, ossia del rendersi manifesto, del presentarsi di qualcosa allo sguardo. L’apparenza è così una sorta di velo che si offre come mezzo diafano sul quale la bellezza si proietta, rendendosi così visibile, ma che allo stesso tempo la cela, per custodirne il segreto inespresso e mai del tutto esprimibile. In questo senso niente come la pellicola e lo schermo cinematografico si offrono in tutta la storia dell’Occidente come quel velo primordiale che manifesta e cela al tempo stesso la bellezza nella sua vibrazione più intensa e struggente. Ciò vale anche per il film di Paolo Sorrentino, ma certamente non solo perché il tema della Grande bellezza è già inciso nel titolo.

Questa pellicola, però, è segnata anche da un significato oggi più in uso dell’apparire, ovvero quello del voler sembrare, dare l’impressione, prevalentemente, se non completamente, volgarmente ingannevole, falsa. Fin dalle prime scene si mostra il tema della bellezza di Roma, città eterna, accanto alla triviale apparenza umana. Vorremo anche notare che il titolo del romanzo giovanile scritto da Jep Gambardella, il protagonista della vicenda, è L’apparato umano. Il sostantivo apparato non ha una radice etimologica lontana da quella di apparenza, tanto che originariamente apparato è l’insieme di addobbi, ornamenti, paramenti che servono a fare da involucro e sfondo alle feste – sacrali o profane che siano – e agli spettacoli in genere. In termini propriamente sceno-tecnici l’Apparato è il complesso delle scene, dei vestiari, delle comparse, con il quale si rappresenta un’opera o un ballo a teatro: la mise-en-scène dei Francesi.

Siamo proprio al centro della scena di questo film: l’ammasso rutilante, ributtante, ridicolo e pietoso insieme, di personaggi e comparse che ruota attorno al raffinato napoletano, trapiantato Roma, Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Re delle feste e delle prestigiose terrazze romane, Jep percorre le vie e le situazioni notturne della città come quel flaneur baudeleriano, descritto proprio da Walter Benjamin nei suoi Passagen su Parigi.

Lo spirito di Jep non è però tanto quello di chi deambula attentamente distratto per le strade e le ombre della città, lasciandosi assorbire dai sui fracassi e dai suoi silenzi. No, l’animo di Jep è quello di un flaneur completamente disincantato, ironicamente agrodolce e feroce. Beve un certo numero cocktail fino all’alba, ma non tanti da stordirsi del tutto e perdere la coscienza critica. Lui solca il suo film, come Marcel Proust attraversa la sterminata tessitura della sua Recherche, descrivendo luoghi, volti, modi, mode, smorfie, linguaggi, flatulenze, singhiozzi e sberleffi. E la pellicola è contrappuntata da alcune peculiari citazioni proustiane.

“Jep, perché non hai più scritto nessun romanzo celebrity pokies, eri davvero bravo?”, gli domandano continuamente. Lui, che ora fa il giornalista per una raffinata rivista culturale, una volta, all’improvviso, risponde: “Io cercavo la bellezza”. La bellezza non c’è più, muore attorno a lui. Il suo amico, aspirante scrittore, Romano non riesce ad afferrarla, né quella fisica di una donna che gli piace, o di Roma che parimenti lo respinge, né nei suoi tentativi di scrittura per il teatro. Ramona, che Jep incontra in un nigth di Via Veneto, è l’emblema della bellezza che gli si spegne tra le braccia, senza neanche poter fare più l’amore.

La bellezza, per lui ora sessantacinquenne, è rimasta Elisa, quella lontana ragazza, innamorata di lui, ma che poi lo ha lasciato, con la quale si scambiavano sguardi intensamente perduti sugli scogli di Capri. Lei, una volta, gli si svela, nella luce sul mare da cui sorge Venere e, come una vera dea, senza mai dirgli neanche una parola. Gli mostra la sua nudità, si toglie la camicetta, il velo della bellezza, poi fa un passo indietro sullo scoglio e sparisce, ovvero, senza una ragione, un perché non appare mai più nella sua vita. Ora la notizia della sua morte lo precipita di nuovo nell’enigma, nel segreto di quel remoto ricordo, del suo amore, custoditi, come per l’Ottilia delle Affinità Elettive, in un diario per sempre muto.

“Solo il ricordo dà all’amore la sua anima”, scrive Benjamin. La bellezza – per parafrasare una celebre espressione del suo amico Theodor Adorno sulla forma artistica– è memoria sedimentata. Il soffitto della camera da letto diventa per lui lo schermo cinematografico, dalla cui impercettibile increspatura riaffiorano le immagini silenziose del mare e della sua giovane, inafferrabile dea.

Schermo, velo, pellicola, sedimento: non è solo una delle tante, possibili storie del presente che si mette nella forma d’arte peculiare del cinema per raccontare e veicolare un senso. È anche il cinema che assume le sembianze di un racconto d’oggi per parlare di sé, dell’apparenza, del trucco, del non senso che gli sono propri. Il vero cinema, parlando della vita, è sempre anche una metafora velata di se stesso. E il film di Sorrentino riesce bene a ri-velare questo suo imprescindibile aspetto.

Sotto le stelle di Caracalla, Jep, come il Gattopardo nel film di Visconti, sente che l’ombra tra le antiche rovine è soffice di morte. Vorrebbe sparire, come in un trucco tipico del cinema, tra quelle mura, pregne del bello in ogni loro sacro, corroso poro. La stella della sera, però, ci dice sempre Benjamin, è anche quella della speranza, di una pur fragile possibilità di riscatto, di una debole forza messianica, che offriamo al passato e a chi in esso è rimasto ammutolito.

Così, proprio come il Marcel della Ricerca del tempo perduto, Jep termina il filo narrativo dei suoi smarriti passagen attraverso l’eterna, grande bellezza di Roma, affermando che ora può cominciare a scrivere il suo romanzo. Romanzo che, esattamente come in Proust, altro non è che quello appena finito di scorrere sotto i nostri occhi di lettori o di spettatori.
(Beh, buona giornata).

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Cultura Fumetti. Guerra&Pace Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

Mauro Biani si aggiudica il Premio Nazionale Nonviolenza 2012.

Come recita il comunicato ufficiale, è Mauro Biani il vincitore del Premio Nazionale Nonviolenza 2012, che sarà consegnato a Sansepolcro il prossimo sabato 16 febbraio 2013.

Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E' stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l'inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall'associazione culturale Altrinformazione nella collana "I libri di Mamma!" (http://www.mamma.am/maurobiani)
Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E’ stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l’inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall’associazione culturale Altrinformazione nella collana “I libri di Mamma!” (http://www.mamma.am/maurobiani)
ultimi vincitori del Premio sono stati Don Luigi Ciotti, Fondatore del Gruppo Abele e di Libera e a Christoph Baker, Scrittore e Consulente Internazionale Unicef.

Il Premio – che ha cadenza biennale – viene assegnato a personaggi che si sono impegnati a far sì che le modalità di soluzione dei conflitti non violente possano essere sempre più conosciute e realizzate nel quotidiano. Il destino del premio Nonviolenza è strettamente legato al Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” nato nel 1992 grazie all’iniziativa del Comitato Promotore per l’Obiezione di Coscienza (oggi Associazione Cultura della Pace) e che quest’anno è assegnato all’attore Marco Paolini. La premiazione si terrà
sabato 16 Febbraio 2013 alle ore 16.00 a Sansepolcro (AR), presso il Teatro INPDAP e sarà preceduto da un incontro con gli studenti delle scuole superiori, alle ore 11.30.

In occasione dell’assegnazione del premio, inoltre, si terranno due mostre personali di Mauro Biani: una a Città di Castello dal 9 al 16 febbraio 2013 presso Palazzo del Podestà e l’altra dal 16 al 23 febbraio 2013 presso Palazzo Pretorio di Sansepolcro, organizzate in collaborazione con l’Associazione “Amici del fumetto” di Città di Castello. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Cultura

Quella hippie venuta dal caldo.

di RICCARDO TAVANI

La domestica dei fratelli Karamazov dà il nome a questa città cui s’intitola il lavoro di Larry Clark. Qui passa il treno, al confine con il Messico.

Il treno, dice Giuseppe Di Giacomo, è in questo film uno di quei personaggi che non parlano ma sono lo sfondo stesso della narrazione. Il treno di Larry Clark passa soltanto e non si ferma mai a Marfa. Passando, scopre la linea dei binari. È una linea di confine, una frontiera, non tanto geografica, quella tra Texas e Mexico, quanto tra storia e mito, tra racconto e natura, tra tempo e atemporalità. Il treno è la Storia; Marfa è una natura desertica, abbandonata nella sua polvere secca, nei suoi spogli prefabbricati monofamiliari tra gli steccati e le recinzioni, nei suoi riti meticci, erotici, allucinogeni.

Adam a sedici anni si trova a camminare sulle traversine di questi binari, di questo confine nudo che sferragliando gli passa dentro, minacciando di schiacciarlo. Adam è anch’egli meticcio, figlio di una yankee bionda e di un messicano, del quale, però, non sappiamo niente. Adam, come gli altri personaggi del film che gli ruotano attorno, non ha passato, è davvero il primo Uomo di questo Eden dai tramonti rosso fuoco nell’immobilità e ripetitività del non tempo, del non racconto, dell’oblio della Storia. Senza passato e senza futuro. Le uniche storie che in modo struggente si raccontano sono quelle di gatti e volatili, di cani che sbranano uomini al pari di volpi nel deserto edenico di Marfa. Anche le cure del corpo e dello spirito sembrano affidate alla ritualità india che la giovane messicana Tina ha ricevuto in eredità dal padre e questi dagli avi, dalla tradizione.

Lo stesso stile cinematografico elaborato dal regista, nota Di Giacomo, è insolito e inizialmente disorientante, proprio perché non ha a che fare con una narrazione, con una trama classica. La macchina da presa scorre fluidamente, senza cadenze ritmiche ben scandite, da una situazione all’altra del ciclo ripetitivo di Marfa, tra sesso, musica, pittura di nudi, cannabis e peyote.

In streaming con il filosofo
Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Larry Clark “Marfa Girl”, vincitore del Festival Internazionale di Roma.
In streaming con il filosofo
Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Larry Clark “Marfa Girl”, vincitore del Festival Internazionale di Roma.
Questa volta al filosofo non abbiamo chiesto di en- trare in una sala cinematografica ma di collegarsi in streaming a un sito web: larryclark.com. Unico modo di vedere, a pagamento, il film vincitore del Festival di Roma. Per Giuseppe Di Giacomo, ordi- nario di Estetica a La Sapienza di Roma, entrare in contatto con i giovani significa incontrarli durante le sue affollate lezioni nell’Aula I di Filosofia a Villa Mirafiori, saggiarne l’attenzione, coglierne visivamente le reazioni durante i passaggi più problematici dei testi studiati. Connettersi al sito del regista di Marfa Girl significa, invece, mettersi virtualmente in streaming insieme a migliaia di giovani sconosciuti e dislocati in chissà quali angoli del pianeta. Nel 1881 il treno si fermava in questo posto desertico e ancora senza un nome solo per fare rifornimento d’acqua, eppure la moglie del cantoniere, a un solo anno di distanza dalla sua uscita in Russia, già leggeva il capolavoro di Do- stoevskij, altro scrittore citatissimo nelle lezioni di Di Giacomo. Ignatievna Marfa, la domestica dei Karamazov, finisce allora per dare un’identità a un luogo anonimo e remoto. Le ragazze e i ragazzi di oggi sono i protagonisti del film di Clark e, così come diversa è stata la forma cinematografica del film e i contenuti in essa sedimentati, Larry Clark ha voluto che fosse diverso anche il modo di ve- derlo. Girato con macchine da presa digitali, il film non ha ancora una distribuzione nelle sale, perché Larry ha deciso che i giovani se lo vedessero dove a loro piace di più, ovvero sullo schermo di un porta- tile o di un tablet. Al costo di 5.99 dollari, ovvero di circa 4 euro e mezzo, il film può essere visto e rivi- sto, sviscerato e memorizzato in scene e dialoghi per un’intera giornata. In uno spirito simile. L’arti- colo che qui pubblichiamo non è un semplice pezzo giornalistico ma una prosecuzione con altri mezzi del mestiere di maestro che Di Giacomo semina con la voce e il pensiero tra i ragazzi che si succe- dono da ogni nuovo angolo del tempo, al confine tra l’arte e la filosofia, il cinema e la letteratura, la musica e la pittura.
Questa volta al filosofo non abbiamo chiesto di en- trare in una sala cinematografica ma di collegarsi in streaming a un sito web: larryclark.com. Unico modo di vedere, a pagamento, il film vincitore del Festival di Roma. Per Giuseppe Di Giacomo, ordi- nario di Estetica a La Sapienza di Roma, entrare in contatto con i giovani significa incontrarli durante le sue affollate lezioni nell’Aula I di Filosofia a Villa Mirafiori, saggiarne l’attenzione, coglierne visivamente le reazioni durante i passaggi più problematici dei testi studiati. Connettersi al sito del regista di Marfa Girl significa, invece, mettersi virtualmente in streaming insieme a migliaia di giovani sconosciuti e dislocati in chissà quali angoli del pianeta. Nel 1881 il treno si fermava in questo posto desertico e ancora senza un nome solo per fare rifornimento d’acqua, eppure la moglie del cantoniere, a un solo anno di distanza dalla sua uscita in Russia, già leggeva il capolavoro di Do- stoevskij, altro scrittore citatissimo nelle lezioni di Di Giacomo. Ignatievna Marfa, la domestica dei Karamazov, finisce allora per dare un’identità a un luogo anonimo e remoto. Le ragazze e i ragazzi di oggi sono i protagonisti del film di Clark e, così come diversa è stata la forma cinematografica del film e i contenuti in essa sedimentati, Larry Clark ha voluto che fosse diverso anche il modo di ve- derlo. Girato con macchine da presa digitali, il film non ha ancora una distribuzione nelle sale, perché Larry ha deciso che i giovani se lo vedessero dove a loro piace di più, ovvero sullo schermo di un porta- tile o di un tablet. Al costo di 5.99 dollari, ovvero di circa 4 euro e mezzo, il film può essere visto e rivi- sto, sviscerato e memorizzato in scene e dialoghi per un’intera giornata. In uno spirito simile. L’arti- colo che qui pubblichiamo non è un semplice pezzo giornalistico ma una prosecuzione con altri mezzi del mestiere di maestro che Di Giacomo semina con la voce e il pensiero tra i ragazzi che si succe- dono da ogni nuovo angolo del tempo, al confine tra l’arte e la filosofia, il cinema e la letteratura, la musica e la pittura.

Essere al confine della Storia, avverte Di Giacomo, non significa esserne completamente fuori, ma subire da essa un attraversamento, il quale non lascia dietro di sé soltanto la linea dei binari vuota, bensì residua qualcosa che turba l’equilibrio ciclico naturale. Il sedimento, per il fatto stesso di apparire come un improvviso, un imprevisto nella staticità atemporale di Marfa, non può che accadere, irrompere in forma di violenza. Tom, il poliziotto di frontiera bianco, è per Di Giacomo, questo elemento. (Beh, buona giornata)

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Attualità Cultura Libri

Un attacco militare annunciato da Gianni Perrelli suo ultimo libro.

di RICCARDO TAVANI

L’attacco israeliano antisiriano (avvenuto ieri 30 gennaio, ndr) è anticipato e descritto in Il Tunnel l’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, che questo blog ha recensito solo qualche giorno fa.

Fresco di libreria, edito da Di Renzo, il libro fa proprio di quel tipo di attacco a un convoglio militare il centro di una complicata partita a scacchi di tipo politico, spionistico e militare.

Gianni Perrelli è un veterano degli inviati italiani nelle zone più calde e nevralgiche del pianeta, oltre a essere stato corrispondente da New York per l’Espresso. In particolare sono proprio le principali città nelle quali si avviluppa la ragnatela di questa political-spy-story, ovvero Teheran, Damasco, Beirut, e Bagdhad, che Perrelli ha frequentato per anni e conosce fin nelle più riservate ambientazioni.

Ci sono sulla mappa della realtà anche zone di confine e oscuri snodi territoriali di scambio, traffici, doppi giochi e felpati voltafaccia internazionali che Perrelli riproduce non solo nella topografia Buy Viagra ma soprattutto nelle insidie impalpabili che si nascondo nelle atmosfere del via vai quotidiano e che sfuggono a chi non sa leggerne i segni.

È proprio la dimestichezza sia con il quadro generale che con i dettagli che esso contiene che ha fatto intuire a Perrelli che sul quel confine oscillava, un fattore di crisi permanente, incombente e pronto a prendere la forma dell’attacco che proprio ora si è attuato.

Se ne è discusso, ieri, mercoledì 30 gennaio, al Palazzo Fandango Incontro, in via dei Prefetti a Roma, in occasione della presentazione di “Tunnel”. Forse, sempre in virtù di questa conoscenza e intuizione premonitoria, Andrea Purgatori che discuteva con Perrelli del libro, ha fatto riferimento a un bombardamento del passato a Teheran, attuato allora dagli americani, che somigliava molto all’altro obiettivo ieri colpito dagli israeliani, ovvero a un centro di ricerca militare vicino Damasco. Gianni Perrelli, Il Tunnel, Di Renzo Editore, pagine 257, 14 Euro. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cultura Guerra&Pace

“Il tunnel” di Gianni Perrelli: un romanzo in zona reportage.

La copertina di Tunnel
La copertina de Il Tunnel
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
di Riccardo Tavani

L’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, Il tunnel, per i tipi di Di Renzo Editore, è un intrigo di personaggi letterari prima che di città e traffici missilistici internazionali. Da veterano degli inviati e corrispondenti esteri per diversi giornali, l’autore, nel tessere le scene dell’intrigo tra una capitale e l’altra, mette soprattutto in scena la sua abilità nel padroneggiare il genere “reportage”. Anzi, l’intrigo internazionale di bruciante attualità che Perrelli sagacemente imbastisce, gli serve sì da carburante per mantenere alta l’attenzione del lettore, ma si tratta di un’attenzione finalizzata soprattutto al reportage.

Reportage da dove e su cosa, dunque? Da quelle capitali e sulle tensioni tra quei Paesi di cui parla il romanzo? Perrelli è troppo istruito sul suo mestiere per cadere in una trappola del genere. In questa ibrida zona narrativa lui non è inviato di nessun vero giornale; semmai lo è solo di quella coppia surreale formata da se stesso e da un indefinibile lettore di romanzi. Così gli bastano pochi sobri quanto efficaci riferimenti toponomastici e atmosferici per restituirci le pulsazioni e le pulsioni più intime di una città, di una sua zona, del suo traffico di superficie e sotterraneo. Gli è sufficiente il ricevimento nel salone di una ambasciata estera a Roma per far balenare l’intero poligono di tensioni in atto in questo momento tra Tel Aviv, Teheran, Roma, Damasco, Parigi e Washington. Gli è sufficiente questo per farci capire quanto lui conosca quelle città e situazioni e quanto potrebbe autorevolmente dilungarsi a riportarne.

Proprio per questo sarebbe, però, soprattutto per lui, operazione troppo banalmente scontata; e noiosa: da scrivere e da far leggere a quel fantomatico lettore della strana coppia. Assodato che il reportage giornalistico – proprio come l’intervista – è un genere letterario in sé che non ha bisogno di “romanzarsi”, rimane da stabilire come esso, senza imbastardirsi, trasli dentro un romanzo, senza, però, neanche ridurre quest’ultimo a reportage allungato a brodaglia.

Detto per altra via: considerato che il reportage è lo stile – di vita prima che letterario – di Gianni Perrelli, cosa diventa esso in quella particolare zona di tensione del mondo che è la sua creazione narrativa? Ovvero: di quale particolare zona del romanzo perrelliano ha bisogno il reportage per tradursi in narrazione senza tradirsi come genere?

Ecco, questa zona appare in tutta evidenza quella dei personaggi. Non si può davvero capire e apprezzare quest’ultimo romanzo di Perrelli senza tenere presente tale sua precipua caratteristica. Non le città, i loro quartieri, il gioco spionistico e le vicende di guerra e di politica internazionale in ballo sono il vero contenuto del reportage, ma i personaggi del romanzo, tanto nella loro originale singolarità quanto nelle loro tensioni e connessioni, altrettanto critiche e disperate. Non la città del personaggio è la scena della narrazione, ma il personaggio della città. Non c’è più una zona spaziale e temporale nella quale si iscrive un personaggio, ma un personaggio-zona tout court, che reca intrinseche le coordinate stilistiche, narrative, urbanistiche e cronologiche del reportage. Lo spazio della città o di una frontiera di guerra non fanno tanto da sfondo quanto sono uno sfondo che riverbera dal personaggio.

Già nel suo precedente romanzo Non avrai altro dio il vero nocciolo letterario del testo è il drammatico reportage sulla guerra che da esterna si fa interna al protagonista. Li, però, ci trovavamo in una situazione claustrofobica, concentrazionaria, conseguenza di una prigionia continuamente oscillante tra la vita e la morte. Il “fuori” della cella nella quale è rinchiuso non c’è proprio per il personaggio, oppure è ridotta soltanto al passato, ai suoi ricordi, a ciò che avvenne in lui e per il mondo quel fatidico 11 settembre 2001. Tutto in quella vicenda era già “dentro”.

Qui, invece, il “fuori” c’è e, anzi, abbonda. Nello spazio come nel tempo, c’è sempre un “fuori” che fa da sfondo. Mentre si legge il romanzo viene da domandarsi: “Perché l’autore fa tutte queste lunghe digressioni su fatti o su pensieri magari meramente accidentali, i quali non solo non hanno una stretta connessione con il nocciolo del plot ma, anzi, allontanano dalla sua buona sostanza?”. Si può rispondere in maniera pertinente a questa domanda solo se si tiene presente che ogni capitolo del romanzo ha come titolo il nome di una città nella quale si svolge una tappa dell’intrigo. La lunga digressione narrativa avviene dunque sempre all’interno di una città, la quale si intona a sfondo, con il suo paesaggio sobriamente mutante, al passage all’interno del personaggio.

L’autore sembra un flâneur baudelairiano, non di città ma di persone. Bruno e Gina, a Roma sono l’oggetto di un particolare reportage, tanto dettagliato quanto stilisticamente fluido, spigliato. Quando poi si spostano, per una breve vacanza sentimentale, a Parigi, i due personaggi diventano zona di un nuovo reportage, che fa emergere una toponomastica umana impossibile da rappresentare a Roma. Flâneur, abbiamo detto, perché quella del Perrelli non è un’altisonante introspezione psicologica o psicanalitica del personaggio, sebbene una deambulazione, una passeggiata, all’interno dei suoi viali, lungofiume o vicoli ciechi, senza una direzione, una meta precisa ma attraverso uno sguardo tanto rabdomante quanto perspicace.

Il motto dello stile reportage esistenziale di Perrelli è: “Vai, vedi, scrivi” ed è esattamente quello che lui fa di ogni suo personaggio. Non solo, come abbiamo detto, lo spazio fa da sfondo al reportage sul personaggio ma anche il tempo, il presente che fugge, il passato che torna, il futuro che si apre simile a una minacciosa chiusura. Assistiamo anche a uno sdoppiamento tra due io narranti: quello di Bruno e quello di Stefano, quasi a sottolineare che l’uno è una parte del paesaggio dell’altro, ovvero una diversa dislocazione bellica,geografica e urbanistica dell’altro.

Il reportage, pur nel suo andamento sempre spedito e anche ironico, alla fine si rivela però drammatico. I personaggi si disperdono nelle loro traiettorie e l’autore non può, non vuole attenuare il senso di tragedia e smarrimento. Solo dal passato di Bruno sembra aprirsi una nuova possibilità di reportage da una zona-personaggio sconosciuta: un passage non semplicemente temporale ma nel tunnel di una generazione smarrita che si infila dentro quello di un’altra dimenticata.

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Cultura libertà, informazione, pluralismo, Media e tecnologia

LA RAI TAGLIA LA FILOSOFIA. CON UN OLE’

Radio Due interrompe “ Così parlò Zap Mangusta ”, l’unico programma di Radio Rai sull’argomento. Al suo posto lezioni di spagnolo e l’ Ottovolante

di Giulio Gargia

Un milione di Podcast scaricati, un prestigio indiscusso, una comunità di ascoltatori e di followers in crescita costante. Si chiamava “ Così parlò Zap Mangusta” ed era l’unica trasmissione di filosofia sulle reti di radio RAI. Andava in onda tutti i giorni alle 15 su Radio Due. Ironica, scoppiettante, piacevole, faceva cultura intrattenendo. Insomma, aveva tutte le modalità che dovrebbero caratterizzare un servizio pubblico degno di questo nome. E quindi, evidentemente andava chiusa. Dal 3 settembre, non c’è più il quarto d’ora in cui Zap Mangusta, conduttore e scrittore di libri sulla filosofia, intratteneva il pubblico di Radio Due. Nessuna comunicazione ufficiale, sui blog della RAI campeggia da mesi la dizione “ pausa estiva “, e nessun dirigente ha pubblicamente annunciato la sua uscita dal palinsesto. Per ora, al suo posto, vanno in onda lezioni di spagnolo e poi un programma comico. Mentre sulla pagina Facebook comincia a montare la protesta, e dal web arrivano i primi segnali che la comunità di Zap non si rassegnerà così facilmente a farsi privare di una delle poche trasmissioni decenti che giustificano il pagamento di un canone. E così si annunciano “ under costruction “ 2 siti, http://www.facebook.com/pages/cos%C3%AC-parl%C3%B2-zap-mangusta/255101704517563 dove a breve si decideranno le contromosse.

Si stanno preparando infatti 3 incontri con il conduttore, uno a Napoli il 29 settembre, uno a Reggio Emilia il 5 ottobre e uno a Milano in data da stabilire.

Il nostro giornale, intanto si fa portatore della richiesta di molti ascoltatori di un appello da firmare on line, da mandare alla Tarantola, al DG Gubitosi, ai consiglieri del CdA e a Flavio Mucciante, responsabile di Radio Due che chiede il ritorno in onda della trasmissione.

Il direttore di Radio Due spiega così la sua decisione :

” Non si tratta di una sospensione ma del completamento di un progetto. Radio2 è oggi, forse, l’unica rete di intrattenimento a Pokies veicolare contenuti importanti, come la filosofia, che ha rappresentato per noi un grosso impegno produttivo, che non si esaurisce ”.

D – in che senso “non sospensione, ma completamento di un progetto” ?
R – Che la trasmissione faceva parte di una serie di progetti
culturali, modulati secondo la nostra missione editoriale, che è
l’intrattenimento

D – Cioè è finito il ciclo delle trasmissioni previste ?
Si. Il palinsesto si chiude a fine giugno con alcune trasmissioni che
si protraggono per alcune settimane, come avvenuto per Zap

D – Il conduttore lo sapeva ? Era avvertito che quella di fine giugno era l’ultima trasmissione ?
R – Zap è stato avvertito con mesi di anticipo,considerando che il
palinsesto autunnale è partito il 10 settembre

D – Agli ascoltatori è stato comunicato ?
R – Agli ascoltatori è stato annunciato nelle modalità consuete…con
comunicati che illustrano la nuova programmazione

D – Insomma, si può dire che la RAI è un’azienda senza più filosofia ?

R – No, questo no. Sull’esperienza di “Così parlò Zap Mangusta” abbiamo, infatti, realizzato una enciclopedia radiofonica a disposizione di tutti, collezionabile gratuitamente in podcast. Al momento sono disponibili oltre cento puntate ma nei prossimi giorni inaugureremo un sito dedicato, diviso per macro aree storiche e di “pensiero” con 450 download e contenuti extra con la filosofia di ogni tempo, di facile consultazione e catalogazione, a testimonianza della positiva onda lunga della trasmissione, che ha certamente rappresentato una novità significativa e di successo ”

Già, tutto vero. Rimane però la domanda degli ascoltatori. “ Ma allora, perchè l’avete chiusa ? ”

da www.3dnews.it

L’APPELLO

Testo dell’appello da inviare a 3dinfonews@gmail.com :

“ Diffondere la cultura della qualità è il primo dei biglietti da visita del servizio pubblico. Attraverso l’informazione corretta e autorevole, l’intrattenimento intelligente e l’educazione informale si può favorire la costruzione di modelli positivi ” . Annamaria Tarantola, presidente RAI, al Prix Italia – 17 settembre 2012.

Proprio perchè crediamo in queste parole invitiamo la Radio Due a NON TAGLIARE LA FILOSOFIA e restituire al più presto agli ascoltatori la trasmissione “ Così parlò Zap Mangusta ”, unico esempio del genere in onda sulle reti radiofoniche. (Beh, buona giornata)

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business Cultura Dibattiti Media e tecnologia Pubblicità e mass media

LItalia che verra. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012: le radici del futuro della pubblicita italiana.

(fonte: http://www.symbola.net).

3.1.3 Le radici del futuro della pubblicità italiana (6)

Secondo le più recenti stime, la pubblicità italiana è in netta recessione. Nielsen Media Research ha fotografato una contrazione che nei primi mesi del 2012 si attesterebbe su -8, 4%, rispetto allo scorso anno. Le previsioni di Assocomunicazione, l’associazione delle agenzie di pubblicità parlano di un andamento che a fine anno farebbe registrare un -7%. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’Upa, l’asso- ciazione delle imprese che investono in pubblicità, stima una contrazione pari a-7, 5%. Tutti i media presi in considerazione come veicoli di pubblicità, vale a dire la tv, la stampa quotidiana e periodica, le affissioni esterne, la radio, la pubblicità nelle sale cinematografiche, tutti sono in netto calo. Ha un segno positivo solo la pubblicità su internet, che si aggira su un +12%, anche se anche qui siamo in presenza di una contrazione, calcolabile almeno intorno a 5 punti percentuali.
La domanda è: la crisi della pubblicità italiana è frutto della crisi economica che più generalmente soffre il Paese? La risposta è semplice, pur nella sua complessità: la crisi dei consumi, il taglio dei budget pubblicitari non sono la causa diretta della crisi della pubblicità.
E se la causa della crisi della pubblicità fossero i pubblicitari? La causa della crisi è tutta dentro il come è strutturato il mercato della comunicazione commerciale italiana, cioè all’interno del come sono organizzati i soggetti: agenzie creative, agenzie media; concessionarie di pubblicità degli editori (tv, stampa, radio, ecc.), dall’altro. E poi, le aziende multinazionali che hanno filiali in Italia e che sono
(6) Realizzato in collaborazione con Marco Ferri, Copy Writer Consorzio Creativi

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big spender in pubblicità; le aziende italiane: poche di grandi dimensioni, in grado cioè di competere con i budget delle multinazionali; molte di piccole e medie dimensioni, che spesso investono nei loro territori, a vantaggio della cosiddetta pubblicità locale.
Ma la causa vera della crisi della pubblicità italiana è dentro a come sono organizzati i media in Italia: c’è da anni una forte presenza della tv come player “monocratico” della raccolta pubblicitaria che ha profondamente condizionato tutti gli altri media. Nonostante la crisi di cui abbiamo visto i numeri, infatti attualmente la tv assorbe almeno il 51% degli investimenti pubblicitari italiani.
Fatto sta che il combinato disposto tra gli effetti della crisi economica e quelli della crisi di sistema della pubblicità italiana hanno prodotto una spinta al rinnovamento della relazione tra committente e agenzia di pubblicità.
Da Milano a Roma, da Torino a Bari sono nate agenzie di pubblicità di nuova generazione. Figlie delle crisi strutturale delle agenzie classiche, spesso fondate da creativi che avevano avuto incari- chi manageriali importanti, queste nuove esperienze stanno rinnovando il mercato. Sapendo agire senza difficoltà tra i media tradizionali e i social media, riescono a dare un servizio migliore, con un rapporto qualità-prezzo appetibile, proprio perché queste nuove agenzie sono a bassissimo tasso di burocrazia interna. Della serie, se son rose pungeranno.
Ciò che è notevole è la spinta spontanea a fare rete, a immaginarsi network di competenze in grado di essere subito disponibili alle esigenze del committente. Ma deve essere sottolineato che all’inter- no di nuove formule organizzative c’è forte il sentore di un rinnovato entusiasmo professionale, di una voglia di innovare la qualità dei messaggi, di rinnovare il rapporto tra creatività e i valori culturali espressi da questa epoca.
Una nuova consapevolezza del valore culturale della comunicazione che si esprime nello stesso modo di porsi e proporsi a mercato. Troviamo così a Milano COOkies che dice di sé: “il nostro intento era quello di creare un’agenzia di pubblicità che non fosse la solita agenzia. Non volevamo più tristi uffici con le luci al neon. Non volevamo perderci in mille burocrazie. Ci siamo dati poche regole: one- stà, puntualità, innovazione”. Oppure Art Attack a Roma che dichiara: “Usiamo la nostra creatività e la nostra visione strategica per “unire i punti”. “Unire i punti” significa scoprire opportunità di co- municazione che sono già alla portata dei nostri clienti e che aspettano solo di essere “attivate”. Per attivarle individuiamo di volta in volta la migliore soluzione creativa, che combina in modo unico le nostre competenze nelle aree più diverse: digital, social, advertising, corporate, video”. A Bari, Pro- forma sostiene: “L’agenzia nasce con l’intento già ambizioso di rivedere e aggiornare il linguaggio della comunicazione(….) Non rinneghiamo i mezzi tradizionali e li utilizziamo in maniera sempre sor-

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prendente, ma da appassionati studiosi della comunicazione contemporanea, sappiamo che un uso intelligente dei nuovi media, in molti casi, può rivelarsi un’arma più efficace ed economica”. Ciò che colpisce positivamente è che queste esperienze, sia pur diverse per collocazione geografica, o per dimensione aziendale, abbiamo, invece, un linguaggio comune, e una consapevolezza della ricchez- za degli strumenti che si possono utilizzare per produrre comunicazione di buona qualità. Colpisce, inoltre, che producano riflessioni e segmenti di cultura della comunicazione attuale, come ormai nelle agenzie di pubblicità “classiche” non si usa più da tempo.
La vicinanza alle problematiche del committente e l’essere concretamente immersi nella realtà so- ciale e produttiva dei rispettivi territori, appare una componente essenziale di questo nuovo modo di intendere la creazione dei messaggi pubblicitari: una relazione calda, artigianale, fatta di sapere e passione che è tutto il contrario della pretesa fredda professionalità che proviene dai network inter- nazionali. A Milano, Le Balene scrivono sul loro sito: “Cosa dovrebbe chiedere un’azienda all’agenzia con cui sceglie di collaborare? Che sia diversa dalle altre, ma questo lo dicono tutti. Che porti argo- menti, provocazioni, idee, fatti davvero utili a rendere diversa l’azienda dalle sue concorrenti, questo è più difficile ma è quello che a noi piace veramente fare.” A Roma, Marimo, afferma: “Anche le cattive idee, i messaggi sciatti, le immagini distorte, la banalità, le volgarità inquinano l’ambiente in cui viviamo. Per esperienza, per filosofia e per un istinto che ci accomuna cerchiamo di produrre solo progetti sostenibili, cioè rispettosi dell’intelligenza altrui. O, almeno, della nostra”.
Costrette da logiche per cui la quantità di profitto è più importante della qualità del prodotto creati- vo, le agenzie tradizionali hanno espulso negli anni i migliori talenti. Ma ciò che è più evidente è che non ne hanno cercato di nuovi. E allora, i talenti si sono autorganizzati, dando vita a aggregazioni professionali che a loro volta hanno dato alla luce piccoli o grandi network di talenti, rinvigorendo quella antica e sempre proficua contaminazione di competenze che è il vero patrimonio culturale del “made in Italy”.
Siamo nel mezzo di un gran bel disordine creativo. Basta mettere il naso fuori dal perimetro rap- presentato dalla pubblicità ufficiale, per trovare esperienze ricche e molto promettenti. È il caso di EDI (Effetti Digitali Italiani) con sede a Milano, leader nel settore della post produzione per cinema e televisione. O di Dadomani, studio di creativi nato a Milano che sanno unire la tradizione visiva italiana fatta di pittura e scultura con le moderne tecnologie per l’animazione. O, ancora, Mammafo- togramma che a Milano sa mescolare scenografia, pittura e multimedialità con il cinema. A Parma, e più precisamente in provincia, c’è Magicind Corporation, uno studio creativo che realizza prodotti audiovisivi in stop-motion per la pubblicità, la messa in onda e l’industria dell’intrattenimento. E

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ancora, Abstract:Groove, società milanese formata da designers, creativi, registi, animatori, autori, musicisti ed esperti in effetti speciali. Il loro settore comprende spot televisivi, comunicazione virale, video musicali e progetti below the line. Mentre a Torino, N9ve è uno studio multidisciplinare di design, incentrato su design, grafica e animazione.
Come abbiamo visto, si tratta di esperienze multidisciplinari, protese verso il mezzo audiovisivo, ca- paci di mescolare tecniche e discipline, talenti e sperimentazioni che quando arrivano alla pubblicità e vengono utilizzati da marchi famosi, in grado di garantire una più vasta visibilità, si fanno notare per innovatività. E che avrebbero bisogno di strategie di comunicazioni altrettanto coraggiose. Che è quello che sostiene ConsorzioCreativi, che si definisce un aggregatore di professionalità e che scrive sul suo sito: “in tempi di crisi, la pubblicità torna a dialogare con i consumatori. Per sorprenderli, cercando di dire qualcosa d’intelligente, di autentico, di credibile, di scritto e visualizzato bene, che possa arricchire i valori della marca con i valori espressi dall’epoca attuale.”.
La ricchezza delle esperienze che si fondano sulla costruzione di sistemi a rete di talenti ben si confà con il sistema mediatico attuale che è complesso, perché i nuovi media non tolgono terreno ai media tradizionali, anzi sembrerebbe che il passato si aggiunge al futuro dei mezzi. Il nuovo avanza, ma il vecchio non demorde.
Tradotto in termini di pianificazione pubblicitaria e di marketing le aziende dovrebbero pianificare sia sul classico che sul nuovo, destreggiandosi nella scelta della forma di pubblicità migliore in questo scenario, che potremmo definire “liquido”. Per esempio, c’è una forte tendenza all’ibridazione tra tv e web e la fruizione da più schermi porrà alle aziende la necessità della misurazione della quantità vera dell’ascolto, non quella presunta dai dati di ascolto a campione. Secondo Carlo Freccero, diret- tore di Rai4, con l’arrivo della smart tv visibile su pc sarà più facile tracciare la mappa dei consumi in rete, per cui l’evoluzione della tv darà la sveglia alla pubblicità, che dovrà tenere conto dell’evolu- zione dei consumi, e alle emittenti, che dovranno rendere i programmi fruibili su più schermi ancora più interessanti.
Le agenzie di pubblicità di nuova generazione, al contrario di quelle tradizionali, sembrerebbero già pronte: il loro modus operandi è talmente flessibile e multidisciplinare che immaginare una co- municazione che sappia essere insieme un “unicum” nella narrazione, ma segmentabile a episodi, diversi a seconda dello schermo su cui debbano essere fruiti, è attualmente alla loro portata. Infatti, ragionare in termini di rete significa avere un’abitudine che più facilmente diventa un’attitudine ad avere una visione d’insieme, e riuscire a concepire tanti argomenti diversi, capaci di arricchire il filo del discorso che si vuole intraprendere con il consumatore.

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Sarebbe di vitale importanza che i soggetti della creatività imprenditoriale italiana, nei vari distret- ti industriali, nelle diverse realtà territoriali prestassero interesse per queste nuove esperienze, espresse dalla creatività diffusa. È da queste che può rinascere uno stile adeguato alle esigenze del mercato italiano e della penetrazione dei prodotti e servizi italiani in Europa e nel mondo. Uno stile di comunicazione commerciale genuino e rispettoso delle regole, alla stessa stregua della qualità dei prodotti e dei servizi che vengono creati e offerti al mercato dalla migliore imprenditoria italiana. È necessario che la creatività esca dalla clandestinità.
Perché è proprio questo il vero nocciolo della questione: la creatività produttiva deve incontrare, stimolare, provocare, spingere la creatività nella comunicazione pubblicitaria. Qui sta è il vero valore aggiunto che la pubblicità può offrire al successo di ciò che si pensa, si costruisce, si produce, si com- mercializza. Così facendo si sono costruiti i successi dei brand globali, che le agenzie multinazionali promuovono anche nei nostri mercati.
Un sano rapporto, ancorché dialettico tra esigenze del committente e sensibilità creative è un buon viatico per fare dell’attuale crisi la palestra del talento, in modo da attivare un costante dialogo con i consumatori, interpretando le loro nuove esigenze.
Per questo sono nate negli ultimi anni strutture molto più leggere, capaci di muoversi con grande agilità, per fornire idee di alto profilo, senza spargimento di costi, burocrazie né perdite di tempo. Strutture capaci di essere molto più competitive dei mastodonti della pubblicità, lenti, costosi, che hanno la missione di servire prima i loro clienti internazionali e poi quelli locali, cioè italiani.
Oggi le filiali in Italia delle agenzie multinazionali si sono nettamente impoverite di talenti. Sono programmate, nella migliore delle ipotesi, per funzionare da hub per la gestione delle problematiche che le marche multinazionali possono incontrare in questo o quel mercato nazionale. Un’azienda italiana non ha alternative se non accodarsi ai tempi e alle modalità prescritte dalle procedure, che come rigidi precetti, presiedono al funzionamento delle grandi agenzie. Al contrario, per non creare intralci, strozzature, frustrazioni e inutili fardelli alla creatività è necessario che la struttura sia legge- ra, orizzontale, focalizzata alla risoluzione dei problemi. E che sappia produrre intuizioni concrete e condivisibili con il pubblico di riferimento del prodotto e del servizio offerto dal committente.
La pubblicità non è solo un costo da misurare con i parametri del Roi, è invece una medicina buona per l’impresa in tempi di difficoltà, è ossigeno per l’economia e per il “made in Italy”.
La crisi è una grande occasione per sperimentare nuovi percorsi verso l’eccellenza. L’invito alle azien- de italiane è non sottovalutare le capacità, il talento, il saper come si fa delle agenzie di pubblicità italiane di nuova generazione. L’invito alle agenzie di nuova concezione è non accontentarsi dell’esi-

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stente, ma di pensarsi in avanti, di essere più propositivi oltre che reattivi, di essere veloci nel com- prendere e risolvere le esigenze e le problematiche del committente. Di sentirsi fino in fondo parte consapevole di un grande progetto di ripresa, di rilancio e di sviluppo compatibile.
Avendo cura di non dimenticare mai l’insegnamento di Emanuele Pirella, che esortava i creativi a lavorare con passione, perché un prodotto, un servizio o una marca venissero scelti dagli acquirenti non solo per convenienza o necessità, ma anche per stima, per affetto, per simpatia, per apparte- nenza un mondo di valori. In ultima analisi, è proprio a questo che serve la creatività in pubblicità. (Beh, buona giornata)

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Cinema Cultura Guerra&Pace Società e costume Televisione

Degli Europei se parla troppo, de “Il mundial dimenticato” troppo poco.

Le possibilità negate della Storia e come il cinema le restituisce,
di RICCARDO TAVANI

Partiamo da un termine tecnico del glossario cinematografico: “mockumentary”. Cosa significa e cos’è un mockumentary? È la fusione di un verbo e di un sostantivo entrambi della lingua inglese: “to mock”, fare il verso, e “documentary”, documentario. In termini pratici, un film che sembra un documentario, perché ne “rifà il verso”, ne riprende il registro tecnico e stilistico, ricostruendo una vicenda verosimilmente reale, ma che in verità è una pura finzione cinematografica.

Il mockumentary si è affermato come un vero e proprio genere del cinema e della televisione, fin dal suo primo riuscito colpaccio nel 1965, quando con “The War Game”, Peter Watkins, simulando un più che realistico attacco atomico all’Inghilterra, si aggiudicò l’Oscar come migliore documentario. Famoso e più recente il tiro messo a segno anche da “The Blair Witch Project”, con cui un gruppo di ragazzi sbancarono i botteghini di mezzo mondo, simulando una situazione horror da loro direttamente vissuta e ripresa con videocamera in un bosco di notte.

Premessa necessaria, questa, per parlare di un altro geniale mockumentary di due scapestrati registi italiani, coprodotto dalla Rai e presentato a Venezia nel 2011. Si tratta de “Il mundial dimenticato”, dei toscanacci Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, in cui si ricostruiscono con il respiro e il puntiglio professionale di una appassionante inchiesta giornalistica le vicende di un Campionato Mondiale di Calcio disputato nel 1942 in Patagonia, Argentina, mentre l’Europa è già avvolta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.

Il racconto si mostra più avvincente hilary duff pokies di qualsiasi pellicola esplicitamente di finzione narrativa. Perché? Perché quello che viene messa in scena, nelle sembianze della realtà storica, è proprio una possibilità realistica della storia, non solo passata ma anche presente e futura. Che questa grande passione planetaria che è il gioco attorno a una sfera di cuoio possa essere usata contro il razzismo, la violenza, la follia guerrafondaia delle grandi potenze politiche ed economiche è qualcosa che può e, anzi, dovrebbe avvenire.

Appare così estremamente realistico che il film ci mostri un conte trasmigrato in Argentina da quella terra martoriata per secoli da guerre di ogni tipo che sono i Balcani, il quale concepisca e realizzi questo progetto visionario di una Coppa Rimet contro la voragine bellica e razzistica in cui l’Europa sta precipitando.

La situazione “precipizio” è una “possibilità” sempre incombente nella storia, e così anche la “possibilità” di un antidoto a esso deve essere realisticamente contemplata, come possibilità e atto concreto di salvezza messianica, secondo quanto scriveva il filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, prima di suicidarsi per sfuggire alla cattura dei nazisti.

L’amore per il calcio è in questo film una coniugazione particolare dell’amore in sé, della sua forza naturale che si oppone e tenta di arginare quella del male. Così alla vicenda calcistica si intreccia una straordinaria narrazione d’amore umano che è anche una storia d’amore per il cinema e per il suo compito artistico di dare visibilità e voce proprio a ciò a cui la Storia ha finora protervamente negato “possibilità”.

Locandina de “Il Mondial Dimenticato”.
(Beh, buna giornata).

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Cinema Cultura Dibattiti Università e ricerca.

Il carcere, il cinema, il filosofo.

In sala con il filosofo
Paolo Virno commenta il film dei fratelli Tavani “Cesare deve morire”
Il carcere è solitudine, il teatro azione politica
Dalla sua detenzione a Rebibbia al perturbante di Freud e l’agorà di Arendt

di Riccardo Tavani

Per Paolo Virno il carcere, in particolare quello di Rebibbia a Roma, è stato un capitolo importante della sua vita. Oggi è uno dei pensatori contemporanei maggiormente apprezzati, soprattutto all’estero, ma lo studio della filosofia, fin dagli anni giovanili, non è stato mai separato da un suo impegno politico diretto nei movimenti della sinistra operaista, per il quale ha pagato anni di reclusione nelle sezioni speciali dei carceri anche di Novara e Palmi.

La scena dell’uccisione di Giulio Cesare in questo film girato all’interno del carcere di Rebibbia, lo riporta, non solo con la memoria, ma con tutta la sensibilità corporea a quei cortili, a quei cubicoli per l’ora d’aria dove per due anni e mezzo ha passeggiato, discusso, avuto anche momenti di tensione con altri detenuti, politici come lui o comuni come quelli che interpretano questa libera versione del “Giulio Cesare” di Shakespeare. A riportarlo in quella atmosfera è l’ambivalenza della figura di Cesare, che trova una piena corrispondenza nell’esperienza esistenziale di quei carcerati.

Giulio Cesare è stimato, amato in massimo grado proprio dai congiurati che lo assassinano, i quali antepongono all’amore per lui quello per la Repubblica, che il grande condottiero si appresta a porre sotto il suo potere assoluto. Dove c’è l’amico migliore si nasconde anche il nemico peggiore, dice Virno, richiamando la grande lezione di Freud sul concetto di “perturbante”. Dove pensi ci sia la sicurezza, la familiarità più rassicurante, là si cela anche il pericolo, l’ostilità più inquietante. Nella vita fuori dal carcere accade continuamente a questi carcerati il rovesciamento improvviso del criterio amico-nemico. Sasà Striano, il detenuto che interpreta magistralmente Bruto, interrompe la recitazione, quando deve pronunciare la celebre battuta: “Si potesse strappare lo spirito di Cesare senza squarciarne il cuore!”.

La scena lo riporta direttamente all’uccisione del suo più intimo amico di contrabbando, considerato un “quaquaraquà”, ossia una delatore, un traditore. L’amico intimo si svela improvvisamente un nemico letale, e lo stesso gruppo criminale che li proteggeva, ora li associa insieme e diventa una minaccia per entrambi. Il carcere stesso, i reparti di alta o massima sicurezza che Virno ha sperimentato direttamente, sono questi perturbanti luoghi della massima insicurezza, della minaccia, della vendetta antirepubblicana della Repubblica reale, per le condizione di sovraffollamento, degrado, quotidiana istigazione al suicidio in cui sono oggi ridotti.

Con l’accentuarsi della crisi economica queste condizioni si aggraveranno ancora di più, perché aumenterà la massa dei senza reddito che andranno a gonfiare le patrie galere. La crisi del sistema giudiziario repubblicano che si abbatte in maniera nefasta su quello carcerario, svela la sua vera faccia di radicale ingiustizia sociale, alla quale un provvedimento di amnistia, pur urgente e anzi improrogabile, non sarebbe certo in grado di occultare. Se Shakespeare mette in scena anche la vendetta che si abbatte sugli sconfitti, nel film questi particolari attori non fanno che mettere in scena se stessi in quanto vinti e soggetti ai soprusi anticostituzionali della attuale repubblica carceraria italiana.

Dopo l’uccisione in Senato di Cesare, i congiurati intingono le mani nel suo sangue e insieme intonano: “Quanti secoli venturi vedranno rappresentati da attori questa nostra grandiosa scena in regni ancora non nati, e in linguaggi non ancora inventati!”. Di tutti gli attori possibili, questi esclusi-reclusi appaiono a Virno i più verosimili e i maggiormente autorizzati a discutere cosa sia pro o contro la libertà, anche confrontandoli con grandi prove d’attore, quale quella di Al Pacino nel Riccardo III. C’è una scena, che scorre via quasi inappariscente, che è per Virno molto significativa.

Sasà Bruto salendo i gradini di una scala interna incrocia altri due detenuti che scendono. Una volta che i due sono ai piedi della scala, mentre Sasà è in alto, uno dice all’altro: “Guarda quello… che si è messo in testa?! Invece di farsi il carcere si è fatto boffone”. Il carcere si presenta quasi come un mestiere, che mette in gioco una capacità di saperlo fare seriamente, dedicandovi anima e corpo. I detenuti sono ipocondriaci e dunque maniaci della salute, della forma fisica e mentale. “Farsi” il carcere significa assumere con impegno e dedizione la “cura del sé”, come direbbe Foucault. Un ostacolo insormontabile alla cura del sé è il colloquio, per il carico eccessivo di aspettative in gioco, da una parte e dall’altra, destinate ad andare inevitabilmente deluse. Il colloquio anche quando va bene, dice Virno, va sempre male. Il carcerato che interpreta Antonio se ne sta in disparte, assorto in una lontananza irraggiungibile. Il regista cerca di richiamarlo a sé, ma non c’è niente da fare. “Lasciatelo perdere – dice un altro carcerato – ha avuto il colloquio”.

Il carcere per Virno è uno spazio di solitudine senza politica, anche fosse pieno soltanto di detenuti politici. Ciò che manca per una dimensione politica è quello che Hannah Arendt chiama l’infra, lo spazio di relazione “fra” le persone nella società. A dispetto dell’addossamento, perfino del cozzo fisico, violento dei corpi, i detenuti sono sempre disperatamente soli. Però è proprio la Arendt, in Vita Activa, ricorda Virno, a mostrare che “Il teatro è l’arte politica per eccellenza”, proprio perché è “L’unica arte che ha come soggetto l’uomo nella sua relazione con gli altri uomini”. Nell’esperienza prepolitica di provenienza e nella organica solitudine carceraria, il teatro reintroduce tra questi detenuti uno spazio relazionale, l’infra sociale e comunitario. Dramma deriva dal greco dran che significa fare, agire ma nell’agorà, in uno spazio pubblico aperto, avendo il coraggio di esporre se stessi allo sguardo degli altri.

È questo che mette Sasà in alto sia nei gradini di quella scala che nell’inquadratura cinematografica, questa esperienza della politica attraverso l’azione scenica, dentro la quale si rivaluta interamente la sua vicenda biografica. Il ritorno in cella è amaro come la fine di una evasione, l’essere ricatturati e imprigionati di nuovo nella propria solitaria individualizzazione. Conclude il film una straziante battuta di Cosimo-Cassio, un “fine pena mai”, un ergastolano: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata ‘na prigione”. (Beh, buona giornata).

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Titoli di studio, titoli di pagamento, titoli dei giornali.

Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord.
Le lauree in canottiera, di Francesco Merlo-la Repubblica

Sono il rogo dei libri nelle valli dei dané. E certo si capisce che ora circolino le battute sulla Lega che «chiude per rutto». E si sprecano le volgarità su Rosy Mauro, la nera che «sta rovinando il capo», «la dottoressa ‘Mamma Ebe’» che ha laureato in Svizzera anche il suo giovane compagno, poliziotto ed artista che cantando «ci hanno ridotto a culi nudi» un po’ si presta alla ferocia della satira sboccata. Perciò Mamma Ebe promette di riempire l’Italia di sganassoni con le sue grandi mani di fatica, rosse e nodose, il cerchio all’anulare, mani laureate in Svizzera che è un dettaglio gradasso di Bossi, una pernacchia in più all’Italia dei saperi: «non solo regalo la laurea alla mia badante, ma la compro addirittura in Svizzera», insomma meglio di quella di Mario Monti, meglio di quella della Fornero.

Come si vede, dunque, la degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica. Al contrario, nel Trota che manda in pensione l’asino e, dopo tre bocciature, il partito gli compra l’agognato e immeritato diploma al mercato nero di chissà dove, c’è già la secessione in atto.

Sulle spalle di questo povero figlio, che dal 2010 frequenta a Londra una misteriosa università («in economia» disse a Vanity Fair) pagata dagli italiani sotto forma di rimborsi elettorali, non c’è solo l’ennesimo aggiornamento del ‘tengo famiglia’ e della logica del cognome che pure spiegano la sua carriera politica.

Ma c’è l’aggressione a quel primato dell’ingegno che ancora ci identifica in tutto il mondo, all’Italia che ora cammina sulle gambe di Riccardo Muti e di Renzo Piano, di Umberto Eco e di Carlo Rubbia, a quella che sarà pure diventata una retorica già gravemente minacciata di decadenza, ma che solo la faccia del trota economista a Londra riesce profondamente a umiliare.

Papà Bossi, che lo voleva come delfino ed erede politico, gli ha negato un’individualità, lo ha azzerato e senza offrirgli via di scampo lo ha modellato come pataccaro leghista, ancora più pataccaro e leghista di sé, ha marchiato la sua giovane coscienza con il dio Po e con tutte le altre corbellerie padane sino a fargli presentare, agli esami di maturità, delle tesi su quel Cattaneo che solo papà ha ridotto a piazzista politico e a imbroglione, ma che in realtà è un autore difficile anche per i professori. Il risultato ovvio non è solo la bocciatura, ma anche quella sua faccia apatica su cui si sarebbero esercitati Piero Camporesi e Arnold Gehelen, la faccia come modello d’inconsistenza che sognavano d’incontrare Walter Chiari, Cochi e Renato e i cabarettisti del Derby, la faccia su cui ora si sta crudelmente divertendo l’Italia.

Ebbene, quella faccia andrebbe presa drammaticamente sul serio perché esprime benissimo l’aggressione dell’incultura leghista all’identità nazionale, è la faccia-bandiera della competenza degradata ad incompetenza nella provincia nordista degli Aiazzone dove i libri sono da sempre arredamento.

Ecco perché il cerchio magico che si compra le lauree non è l’evoluzione nordista della vecchia e gloriosa truffa all’italiana. Qui non ci sono Totò e Peppino a Gemonio. E nella signora Bossi, premiata con una scuola privata, la Bosina, per la quale il marito chiede al partito un milione e mezzo di euro, non c’è solo il Pokies paese delle mogli, il trionfo della solita economia domestica che è l’unica scienza finanziaria nazionale, né c’è solo il tributo del celodurista spelacchiato all’Italia del matriarcato dove, nonostante la biologia, è sempre la moglie che ingravida il marito.

Certo, la signora Manuela, governando il marito ha governato l’intero governo italiano che della Lega è stato lungamente ostaggio, ma in quella scuola privata c’è qualcosa di più e di peggio, qualcosa forse di irreparabile nel mondo del mito sciaguratamente brianzolizzato del self made man che ora ricicla danaro illecito, nella fuga dalla condizione operaia verso quella dei piccoli padroni che evadono il fisco, nella corruzione politica da record che devasta la Lombardia… La scuola della Bossi è il dileggio finalmente realizzato della cultura che in quel mondo ha una sola funzione: essere dileggiata dall’asino, e dunque comprata ed esibita.

È la scuola in canottiera, l’antiscuola, non un nuovo modello Montessori ma il raglio al posto delle grammatiche.
Non sarà facile liberare dall’anticultura e svelenire quella parte dell’Italia del Nord che con Bossi ha ancora un rapporto di identità corporale, non sarà semplice restaurare nei villaggi della val Brembana l’anima italiana, l’identità nazionale fondata sulle eccellenze dei saperi coltivati e depositati. Non c’è infatti nessuna simpatia canagliesca, non c’è nessuna allegria manigolda nelle due lauree — due — che il tesoriere Francesco Belsito, ex autista ed ex venditore di focacce, ‘indossa’ sul corpaccione da buttafuori, il tesoriere più pazzo del mondo, il gorilla leghista dottore in Scienza della comunicazione (università di Malta, scrisse nel sito del governo quando era sottosegretario) e dottore in Scienze politiche a Londra, dove, non avendo valore legale, si vendono lauree ai cialtroni di tutto il mondo, italiani, libanesi, ucraini…

Attenzione, dunque: questo Bossi non è il terrone padano, il solito terrone capovolto. Qui c’è infatti l’attacco alla scuola che non ha solo alfabetizzato l’Italia ma l’ha unita nell’orgoglio rinascimentale, nell’amore per le eccellenze, da Dante sino a Rita Levi Montalcini. Bossi nella sua vita di pataccaro si è finto medico, ha festeggiato per tre volte la laurea mai conseguita e non dimenticheremo mai che la Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, convocò il senato accademico dell’Università di Varese pretendendo di dare il tocco e la toga alla volgarità del linguaggio politico, di maritare il Sapere con l’indecenza grammaticale, di adottare l’insulto come forma di comunicazione colta: «Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo Paese, a ricevere una laurea honoris causa».

Battistrada della via culturale alla secessione la Gelmini, appoggiata da un gruppetto di intellettuali disorientati e rampanti, diffondeva — ricordate? — tutta quella paccottiglia contro i professori meridionali, voleva gli esami in dialetto, fece guerra alla lingua del Manzoni in nome di una improbabile matematica, i numeri contro le lettere, roba che solo adesso, dinanzi al mercato della lauree, assume il suo vero volto di pernacchia.

Il cerchio magico acquista solo lauree vere, non cerca la falsa laurea dei vecchi magliari del sud che, sia pure delittuosamente, esprimevano rispetto e soggezione per i professori che imitavano. Non viola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: non il delitto che collide con la norma, ma la patacca che collude con la norma; non il delitto che è grandezza e castigo, ma il valore comprato ed esibito, che è scherno e disprezzo. È l’unico vero sputo con cui la Lega ha davvero sporcato l’Italia.(Beh, buona giornata).

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Pirella c’

Emanuele Pirella, 1940-2010.
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.

E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.

L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.

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