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Il divorzio tra politica e potere.

Intervista a Zygmunt Bauman
di Massimo Di Forti-Il Messaggero

«

Zygmunt Bauman
. Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della “Vita liquida” e della “Modernità liquida” (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.

Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.

Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?

«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».

È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?

«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»

Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…

«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».

A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?

«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».

La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?

«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza». (Beh, buona giornata).

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Sembra che i comunisti sappiano come si fa a uscire dalla crisi: ci vuole un nuovo New Deal.

di Massimiliano Piacentini-televideo.rai.it

Quanto è importante il racconto della crisi?
Molto, se si tiene nel conto il suo impatto sulla rappresentazione della realtà; se si vede in esso un potente strumento politico. “Oggi abbiamo a che fare con delle vere e proprie menzogne, come ad esempio la questione della speculazione finanziaria sul debito pubblico. Essa investe solo i paesi dell’euro e non è causata dai debiti pubblici come ci viene raccontato, ma dal fatto che la Bce è l’unica banca centrale del mondo che presta i soldi alle banche private, cioè agli speculatori, e non agli stati”. Tanto per essere chiari. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, inizia a parlarci così del suo ultimo libro.

“Ma oltre alle balle, chi detiene il potere usa modi di pensare radicati nei costumi della gente per giustificare tagli allo stato sociale, aumento della precarietà e riduzione dei salari. Faccio un esempio: mia madre ha vissuto la guerra e la fame. Se pensa alla crisi pensa alla scarsità e dice che bisogna tirare la cinghia. Ma se la gente normale continua a tirare la cinghia la crisi si aggrava, perché ci saranno meno soldi, si spenderà di meno e continueranno i licenziamenti. Noi siamo dentro una grande ricchezza polarizzata: i ricchi hanno troppi soldi, mentre larga parte della popolazione arriva con difficoltà a fine mese. Perciò, la cinghia bisogna farla tirare ai ricchi e non ai lavoratori”.

-Economia reale e finanza. Alla bolla speculativa si è giunti per il calo della domanda aggregata?
“Sì. Prima hanno ridotto la domanda tagliando i salari, poi si sono accorti che questo produceva la crisi e hanno messo in campo due meccanismi: la speculazione e il sostegno alla domanda attraverso ciò che si potrebbe chiamare credito al consumo. Questo meccanismo un po’ drogato è saltato quando i disoccupati hanno cominciato a non pagare i mutui. Saltate per aria le finanziarie che li avevano concessi è scoppiata la crisi bancaria, poiché i titoli di quelle aziende non valevano più niente. Lehman Brothers è fallita così. Poi i governi hanno salvato le banche portando il conto agli stati, che quindi si sono indebitati: dal 2008 a oggi Usa e Europa hanno speso 15.000 miliardi di dollari per le banche private, che ora speculano sul debito pubblico”.

-Al di là del nodo Europa, cosa si potrebbe fare da subito in Italia?
“Ci sono cose che il governo, se volesse, potrebbe fare domani mattina senza il permesso della Merkel. Penso alla patrimoniale sulle grandi ricchezze, alla questione degli stipendi dei parlamentari e ai grandi stipendi di Stato, alla possibilità di fare della Cassa depositi e prestiti una banca pubblica, in modo da poter chiedere soldi alla Bce a un tasso dello 0,75%, invece che reperirli al 6-7%. Ma Monti non farà mai nulla contro i suoi amici speculatori”.

-Perché questa crisi è costituente?
“Perché chi governa, per mantenere l’attuale linea politica, deve imbarbarire la situazione. Riducono la democrazia e i parlamenti non contano più nulla; attaccano i diritti del lavoro, ciò che si era costruito in 30 anni di lotte operaie; demoliscono lo stato sociale con tagli alla sanità e alle pensioni; cancellano le conquiste di civiltà raggiunte dopo la seconda guerra mondiale. La crisi è costituente perché da essa non si esce come prima. O si risolve facendo un balzo in avanti, oppure chi ha le leve del potere continuerà a creare una realtà sempre peggiore in direzione della barbarie. Non c’è nulla di sovrannaturale in ciò che sta accadendo: questa crisi non l’ha decisa il Padreterno, ma semplicemente dei signori che la usano per continuare ad arricchirsi. Bisogna spiegare questa cosa semplice alla gente”.

-Lei dice socialismo o barbarie. Ci spiega questo aut-aut?
“Faccio un esempio storico. Dopo la crisi del ’29 il governo tedesco guidato da Heinrich Brüning fece una politica identica a quella di Monti: tagliò la spesa pubblica e produsse 5 milioni di disoccupati. Sappiamo come finì: nel ’33 Hitler vinse le elezioni facendo leva sul sentimento contro le banche e dicendo che avrebbe avviato lavori pubblici per occupare tutti. La barbarie è frutto di politiche che distruggono legami sociali e benessere. Ciò fa regredire a una situazione di guerra fra poveri, alla ricerca del capro espiatorio, al far west, al razzismo. Il socialismo, invece, è la possibilità di uscire dalla crisi facendo leva sugli elementi positivi: se abbiamo creato tanta ricchezza bisogna distribuirla bene; se il lavoro è più produttivo bisogna redistribuirlo; se il mercato non riesce ad individuare le produzioni per un salto in avanti, penso alla riconversione ambientale, lo deve fare lo Stato con un intervento pubblico. Tutto ciò con più democrazia. Sull’economia deve poter decidere la gente: vogliamo investire sulle bombe atomiche o sui pannelli solari? E questi vogliamo metterli al posto degli uliveti o sui tetti delle case? Non bisogna lasciare le scelte importanti ai mercati, cioè gli speculatori”.

-Nella parte propositiva del libro parla di New Deal di classe.
“Penso che occorra alludere a quell’esperienza fatta nel ’33 negli Usa sapendo però che era insufficiente, tanto che la disoccupazione in tutti gli anni ’30 non scese. Ma il New Deal fu la risposta contrapposta al nazismo. Monti e Merkel stanno scegliendo la strada che ci ha portati al nazismo. Noi dobbiamo fare la scelta di Roosevelt, ma con più nettezza: redistribuire la ricchezza, riconvertire l’economia in senso ambientale e ridurre l’orario di lavoro per distribuirlo fra tutti. Dopo la crisi del ’29 abbiamo visto che c’erano due strade: una portò al nazismo, l’altra allargò la democrazia. Anche oggi ci sono due strade e non una sola come si vuol far credere. Il rischio è che una linea politica sbagliata produca barbarie sociale e maggiori conflitti. L’incomprensione del fatto che l’umanità potrebbe fare un passo in avanti rischia di portarla a fare sette o otto passi indietro”. (Beh, buona giornata).

Paolo Ferrero.

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E il neoliberismo partor

di Carlo Bordoni-Il Fatto Quotidiano

L’antipolitica come rinuncia dello Stato alla politica tradizionale? È la tesi di Étienne Balibar, docente emerito all’Università di Parigi, noto per i suo saggi Leggere il Capitale (con Louis Althusser) e La paura delle masse, che si ripropone ora con Cittadinanza, pubblicato da Bollati Boringhieri.

Antipolitica come annullamento degli antagonismi politici, delle differenze tra i partiti, dell’omologazione delle forze in campo, all’interno di una generale stagnazione dove emergono individualità carismatiche che catalizzano l’interesse pubblico.

La crisi delle ideologie, quelle convinzioni fideistiche su cui si basavano i partiti della sinistra, in grado di raccogliere il consenso di larghe masse popolari, ha lasciato un vuoto, prontamente colmato da una logica individualista e privatistica.

Balibar riprende da Aristotele il termine politeía, per indicare un concetto più ampio di cittadinanza: lo speciale rapporto che s’instaura tra la pólis (città) e il cittadino, facendone un attore politico. E quindi politeía come partecipazione alla cosa pubblica.

Ora, il vacillare di questo rapporto mette in discussione la democrazia.

Due sono le cause principali: la prima è la perdita di un’identificazione collettiva tra cittadino e Stato, che si manifesta con un eccesso di burocrazia (insieme di complessità formali che mascherano l’inosservanza di aspetti sostanziali) e col prevalere di strutture sovranazionali. L’altra causa è appunto l’emergere dell’antipolitica, che non è unicamente una reazione di tipo populista e nazionalista.

Secondo una teoria già proposta da Wendy Brown, il neoliberalismo sottopone le funzioni sociali dello Stato al calcolo economico. Una pratica insolita, che introduce criteri di redditività neservizi pubblici, come se si trattasse di aziende private, regolando sotto un profilo economicistico i campi dell’istruzione, della sanità, della ricerca scientifica, dei servizi sociali, della sicurezza.

L’antipolitica è pertanto un atteggiamento di de-responsabilizzazione dello Stato, di rinuncia alla sue prerogative tradizionali e la loro progressiva privatizzazione. Le responsabilità si dividono così in una miriade di deleghe sempre più frazionate, fino a convergere sul singolo individuo. Unico responsabile di se stesso.

Del resto il neoliberalismo all’americana, adottato anche da noi e ravvisabile nei provvedimenti presi dal governo Monti, si sposa bene con l’uscita dalla società di massa: la cosiddetta “demassificazione”. Il processo di individualizzazione che ha riportato in primo piano il concetto di “moltitudine”.

Chissà che in futuro non ci aspetti una società “caina”, dove ognuno potrà interpretare a suo modo la frase biblica: “Sono forse io il custode di mio fratello?”

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Rifiuti di Roma, la farsa si sposta sui Monti dell’Ortaccio.

(riceviamo e volentieri pubblichiamo)

Basta discariche: è ora della raccolta differenziata.

La scelta del Commissario Sottile riguardo Monti Dell’Ortaccio come discarica provvisoria è un’ennesima gaffe agli occhi dell’Europa. E’ l’emblema del non rispetto nei confronti di un territorio che da trent’anni paga lo scotto di politiche sui rifiuti al servizio dello strapotere economico di pochi, è il simbolo della negazione di ogni impegno verso un cambiamento che vedrebbe la raccolta differenziata come unica soluzione possibile, è il risultato di un’incapacità di gestire in modo responsabile ciò che in ogni società civile non dovrebbe rappresentare un “problema”, ma un dovere. I cittadini che nel tempo si sono organizzati in movimenti di lotta, sanno che l’alternativa alla ricerca affannosa di buche esiste e pretendono in modo determinato di essere ascoltati e rispettati. Non si tratta di sindrome nimby, come si gioca a far credere all’opinione pubblica, ma si tratta invece della consapevolezza che insieme e democraticamente si possa salvaguardare la propria libertà di esistere.
Alla luce di queste considerazioni, il Coordinamento Rifiuti Zero Per il Lazio esprime profonda solidarietà e sostegno ai cittadini della Valle Galeria con ogni mezzo democratico a disposizione, primo fra tutti il Referendum sui Rifiuti che mira all’abrogazione dello “scenario di controllo” del Piano Rifiuti Regionale, scenario del quale la scelta di Monti dell’Ortaccio rappresenta il diretto effetto.
Nessun sito da sacrificare, questa rimane la nostra posizione da sempre. Non vogliamo discariche nè a Monti dell ‘Ortaccio, nè in qualunque altro sito, pretendiamo invece che il Comune di Roma, che è il grande responsabile di questa situazione avvii la raccolta differenziata in modo serio e tempestivo. Questa per noi è l’unica strada percorribile.


Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio
inforzlazio@gmail.com
www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it

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Le Pussy Riot condannate, ma Putin ha perso.

Nadezhda Tolokonnikova, leader delle Pussy Riot.
Le Pussy Riot, le tre cantanti punk, diventate il simbolo del dissenso contro Putin, sono state condannate a due anni per teppismo e incitamento all’odio religioso. Mentre si svolgono proteste in tutta Europa, pubblichiamo una lettera dalla prigione

di NADEZHDA TOLOKONNIKOVA

La nostra carcerazione è servita come un chiaro e inconfutabile segno che l’intero paese è stato privato della libertà. E ciò minaccia di annichilire le forze di liberazione ed emancipazione in Russia: è questo che causa la mia rabbia, vedendo il grande nel piccolo, la tendenza nel segno, il comune nell’individuo.

Le femministe della seconda ondata dicono che il personale è politico. Così è. Il caso delle Pussy Riot ha mostrato come i guai individuali di tre persone di fronte alle accuse di teppismo possono dare vita a un movimento politico. Un singolo caso di repressione e persecuzione contro coloro che hanno il coraggio di Parlare in un paese autoritario ha scosso il mondo: attivisti, punk, pop star, membri di governo, attori ed ecologisti, femministe e maschilisti, teologi islamici e cristiani stanno pregando per le Pussy Riot. Il personale è diventato politico. Il caso delle Pussy Riot ha messo insieme forze così multidirezionali che io stento ancora a credere che non sia un sogno.

L’impossibile sta accadendo nella politica russa contemporanea: un esigente, continuo, potente e coerente impatto della società sul governo.
Sono grata a tutti coloro che hanno detto “Free Pussy Riot!”. Adesso ognuno di noi sta partecipando a un grande e importante Evento politico che il regime di Putin sta facendo sempre più fatica a controllare. Qualunque sarà l’imminente sentenza per le Pussy Riot, noi – e voi – stiamo già vincendo.

Perché abbiamo imparato a essere arrabbiati e a dirlo politicamente.

Pussy Riot è contenta che siamo stati in grado di spronare un’azione veramente collettiva, e che la vostra passione politica ha dimostrato di essere così forte da abbattere le barriere linguistiche, culturali, ambientali, di status economico e politico. Kant direbbe che non vede altre ragioni di questo Miracolo se non l’inizio della morale umana. Grazie per questo Miracolo. (traduzione a cura del collettivo Uninomade.

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Grillo, una vecchia novit

“A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.”

Renato Mannheimer, sulle colonne del Corsera, ha scritto: “Come si sa, il profilo dell’elettore del M5S è in larga parte diverso da quello degli altri partiti. Si tratta di cittadini in maggior misura residenti nelle regioni del Nord, tendenzialmente giovani, con titoli di studio medio-alti, più interessati alla politica, con una più intensa lettura dei giornali e, specialmente, frequentazione di internet.” E’ da qui, infatti, che deve partire ogni analisi che voglia confrontarsi col “nuovo” fenomeno Grillo.

Per comprendere come abbia potuto prendere vita un’aggregazione, che si è andata via via assemblando sui territori, ma via web, fino all’exploit delle elezioni amministrative. Ciò che appare clamoroso non è tanto l’essere riusciti a far eleggere un proprio sindaco al Comune di Parma, ma il modo in cui questo risultato è potuto maturare. Dal web, col web, attraverso il web il M5S è riuscito non solo a intercettare, ma a dare corpo e infine una concreta prospettiva politica al movimento stesso. Un esempio di simile portata, che poi si è scatenato su scala nazionale, fino alla conquista del governo, lo si era visto con le tv e l’uso che ne ha saputo fare Berlusconi. L’uno ficcato dentro il web fino al collo, l’altro sempre davanti alle telecamere, entrambi sono riusciti a capovolgere il paradigma della rappresentanza politica attraverso il consenso elettorale.

Se fino ad allora, i partiti, espressione di ceti economici e sociali esprimevano i loro leader, con Berlusconi prima e Grillo poi si è verificato plasticamente il contrario: è il carisma del leader che intercetta gli umori di un parco consensi disponibili e su questo dà vita all’organizzazione, usando a piene mani non l’analisi politica, neppure la leva programmatica, ma direttamente gli strumenti di comunicazione con le masse, la tv e poi, appunto il web.

La strategia mediatica è tutta tattica. Berlusconi, infatti ha usato una gamba sola, la tv e il clamore mediatico delle sue manifestazioni carismatiche, e a un certo puntosi è azzoppato. Grillo, accorgendosi che un’anatra zoppa partecipa, ma non vince, a un certo punto si è scaraventato fuori dal web e ha incominciato a essere pressantemente presente sui giornali e citato con ossessione dalle tv.

E in questo, ha molto imparato da Berlusconi: spararla grossa, perché così tutti ne parlino a lungo. E’ successo, consapevolmente con la storia della mafia che “non strangola”, è successo con la storia del terrorismo che vorrebbe fermare il M5S. Berlusconi aveva scelto una precisa collocazione di destra. Grillo si colloca in una presunta terra di nessuno.

Saranno le scelte di governo delle città a tracciare il perimetro delle scelte concrete di M5S. Ma questo è un terreno squisitamente politico. Non ci si arriva con le sole astuzie della comunicazione di massa. Un conto è il potere, altro conto è un blog. Su questo terreno il marketing da solo non basta. (Beh, buona giornata).

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“Il liberalismo

Con l’uguaglianza, riecco la sinistra

Il tema veramente importante, che si discute da una decina d’anni, e non da quaranta come la crisi della socialdemocrazia, è quello della violenza da un lato, e del fallimento dall’altro del sistema neoliberale. È questo il dibattito oggi nuovo: tutto il periodo in cui il capitalismo aveva imparato a «comporre», a negoziare una società capace di controbilanciare Stato e mercato, a dare un ruolo alle forze sociali, ai sindacati, tutto questo è crollato. Il capitalismo keynesiano è scomparso, annegato negli ultimi dieci anni da un modello di società capitalista basato sulla violenza sociale.

La sinistra si è paralizzata davanti all’aggressività di questo nuovo capitalismo totale, ammutolendosi e rifugiandosi nell’idea che non si poteva fare diversamente, che eravamo davanti a una sorta di «necessità» storica. Non so quante volte abbiamo sentito in questi anni discorsi del tipo: «Le leggi del mercato ci sfuggono completamente, dunque non le possiamo controllare». Oppure: «La globalizzazione è un processo inarrestabile, come i processi fisici». Tutto ciò è falso.
Il sistema liberale è fondamentalmente basato sulla disuguaglianza: e non solo nei fatti. È un sistema che ha cercato di legittimare la disuguaglianza come valore, che era anche uno slogan pubblicitario a un certo punto: «Perché io valgo!». Se guadagno miliardi è perché li valgo, e quelli che faticano ad arrivare a 1.500 euro al mese, avrebbero potuto essere più furbi, o lavorare di più, e sarebbero arrivati al mio stesso successo.

È questa la morale che sottende i rapporti sociali oggi. E questa non è meritocrazia, perché la meritocrazia è un valore profondamente repubblicano in Francia; la scuola della Repubblica che dà chance uguali a tutti e premia il merito ne è l’esempio più evidente. Questa è la legge del più forte. Durante questi anni è stato normale pensare che la società dovesse funzionare in questo modo. Fino a quando semplicemente il sistema è crollato.

Per lungo tempo, prima che crollasse, quelli che lo denunciavano, come ho fatto io, erano considerati degli «arcaici», dei passatisti che cercavano di attaccarsi a valori sociali ormai improponibili. I moderati ci dicevano: «Avete perso il treno della storia!». Poi sono cominciati i segni precursori inquietanti della crisi: l’avanzare dell’estrema destra populista in tutta Europa, la perdita di contatto della sinistra con le classi popolari. C’era qualcosa che non andava più.

E poi, infine, il crac del 2008, e l’evidenza mondiale che il liberalismo, con tutte le sue caratteristiche così vantate per decenni, la sua razionalità, la sua capacità di anticipazione, la mano invisibile, la capacità di autocorrezione, è un disastro. Il sistema era semplicemente un sistema predatorio, di captazione della ricchezza da parte di un’oligarchia e, oltre ad essere ingiusto, ci siamo resi tutti conto che era ed è un sistema totalmente instabile. È un sistema che porta il mondo al precipizio.

Quel che succede oggi è che anche le menti liberali più convinte sono obbligate a concedere che il
sistema non funziona più e ad accettare che si nazionalizzino banche, che si indebitino Stati fino sopra ai capelli per salvare l’economia dalla catastrofe.
Per questo oggi ritorna possibile vincere dicendo cose molto semplici. Quali? Beh, che l’obiettivo da sempre della sinistra, quello che definisce la sinistra in quanto tale, è la ricerca, benché mai totalmente realizzata, dell’ uguaglianza . Se rinunciamo a questo, rinunciamo alla sinistra. Ora, negli ultimi trent’anni, la sinistra aveva rinunciato all’uguaglianza. Aveva accettato, come una forma di autocensura, che l’uguaglianza era un orizzonte non solo sfuggente, difficile da raggiungere, ma non era più l’orizzonte che si voleva e si doveva raggiungere. Una rinuncia che ha preso diverse forme, da John Rawls, con le sue «disuguaglianze accettabili», al progetto della Terza via di Anthony Giddens, tutte idee molto sottili, ma che in fondo sotterravano la sinistra.

Quel che abbiamo proposto è di tenere sotto controllo il sistema finanziario e reintrodurre l’uguaglianza Viagra come valore. La sinistra per anni si è persa. Era talmente impressionata dal suo avversario da non avere più il coraggio di assumere i propri valori. E, peggio, alcuni socialisti hanno fatto il gioco degli avversari. Chi ha liberalizzato la finanza internazionale, che ha fatto uscire la belva dalla gabbia, non sono stati dei pensatori estremisti liberali, ma dei socialisti francesi, come Pascal Lamy, direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio, o Jacques Delors, che hanno convinto l’Fmi, l’Ocse, gli Stati Uniti, e la comunità internazionale che bisognava liberalizzare gli scambi e il sistema finanziario.

Bisogna ritrovare una comunità di uguali, in cui i valori e i modi di vita di chi ha il potere, e di chi è rappresentato da questo potere, tornino a somigliarsi. Quando c’è gente che guadagna due, tre, quattro milioni di euro all’anno, che rapporto volete che abbia con la gente? Siete in un altro mondo simbolico, e reale. Non vivete negli stessi posti, non mangiate le stesse cose, non vedete la stessa gente. Queste differenze vanno semplicemente ridotte. Allora, contenere i salari delle persone al potere e aumentare l’imposizione fiscale per le grandi ricchezze fino al 75 per cento andava detto, e ora va fatto. La sinistra in Francia, come in Europa, deve riprendere il senso della responsabilità delle decisioni politiche. La finanza è una scusa per deresponsabilizzare la classe politica.

Un’Europa della finanza non è credibile agli occhi dei cittadini. Se si vuole rilanciare l’Europa, bisogna rilanciare un’industria europea, una ricerca europea, una cultura europea. Non far saltare tutto in aria in nome del libero mercato.
La maggior parte della gente nasce, cresce e muore nello stesso posto. Perché dovrebbe accettare di pagare un prezzo per una mobilità che non la riguarda? Può accettare di pagare un prezzo se l’Europa non è solo un terrificante libero mercato che spiazza la vita della gente, ma uno spazio di valori e di prodotti condivisi, uno spazio di crescita comune, industriale, scientifica e culturale. Se non vogliamo che i cittadini si facciano incantare dal populismo, bisogna che la sinistra dica queste cose chiaramente: non accettiamo l’Europa dell’austerity in nome della contabilità. Non siamo antieuropeisti, ma vogliamo un’altra Europa.

Il liberalismo è il disordine europeo mondiale. Quello che proponiamo noi è rimettere in ordine, stabilire nuove regole. Il disordine non è altro che la legge del più forte.
Bisogna essere capaci di organizzare le cose. Keynes non era certo un rivoluzionario. Ma aveva un’idea di una società ordinata. Mi piace anche citare quello che diceva sulla mondializzazione: «Le idee, le persone e le opere d’arte devono circolare liberamente. Ma bisogna produrre e consumare localmente». (Beh, buona giornata).
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La rivista
Uno sguardo sulla crisi europea
Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi dell’intervento di Aquilino Morelle, in conversazione con Gloria Origgi, che appare sul numero in uscita oggi della rivista «MicroMega». Il fascicolo contiene anche una lettera aperta del direttore Paolo Flores d’Arcais a Beppe Grillo e vari contributi sulla situazione politica in Italia, in Francia e in Grecia. Tra gli autori: Barbara Spinelli, Vladimiro Giacché, Pierre Rosanvallon, Alain Touraine, Angelo d’Orsi.
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L’autore
• Nato nel 1962 a Parigi, figlio di un operaio spagnolo immigrato, Aquilino Morelle (nella foto) è uno degli uomini più vicini al neoeletto presidente socialista francese François Hollande, che lo ha nominato suo consigliere politico
• Laureato in Medicina e docente universitario, Morelle è stato uno stretto collaboratore del primo ministro socialista Lionel Jospin dal 1997 al 2002. Attualmente scrive i discorsi di Hollande e, in parte, ne costruisce lo stile
• Molto critico verso l’Unione Europea, Morelle si è schierato per il no al referendum sul trattato costituzionale europeo, respinto dagli elettori francesi nel maggio 2005 con una maggioranza del 54,7 per cento
Aquilino Morelle-Il Corriere della Sera

21 giugno 2012 14:36

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“Qual

di Slavoj Zizek – Testo dell’intervento del filosofo sloveno alla convention di Syriza (Grecia)

Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda «che cosa vuole una donna?», ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi:T «Che cosa vuole l’Europa?» Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole.

Il modo in cui gli stati europei e i media riportano ciò che sta accadendo oggi in Grecia è, credo, il miglior indicatore di che tipo di Europa vogliono. È l’Europa neoliberale, è l’Europa degli stati isolazionisti. I critici accusano Syriza di essere una minaccia per l’euro, ma Syriza è, al contrario, l’unica possibilità che ha l’Europa. Ma quale minaccia. Voi state dando all’Europa la possibilità di uscire dalla sua inerzia e di trovare una nuova via.

Nelle sue note sulla definizione di cultura, il grande poeta conservatore Thomas Eliot ha sottolineato quei momenti in cui l’unica scelta è tra eresia e il non credere. Vale a dire momenti in cui l’unico modo per mantenere il credo, per mantenere viva la religione, è necessario eseguire una diversione drastica dalla via principale. Questo è ciò che accade oggi con l’Europa. Solo una nuova eresia – rappresentata in questo momento da Syriza – può salvare ciò che vale la pena salvare dell’eredità europea, cioè la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria.

L’Europa che vincerà, se Syriza verrà messa fuori gioco, sarà un’Europa con valori asiatici: e, naturalmente, questi valori asiatici non hanno nulla a che fare con l’Asia, ma con la volontà attuale ed evidente del capitalismo contemporaneo di sospendere la democrazia.
Si dice che Syriza non ha abbastanza esperienza per governare. Sono d’accordo, manca loro l’esperienza di come far fallire un paese, truffando e rubando. Non avete questa esperienza. Questo ci porta all’assurdità dell’establishment della politica europea: ci fa la predica sul pagare le tasse, opponendosi al clientelismo greco e nello stesso tempo ripone tutte le lsue speranze sulla coalizione tra i due partiti che hanno portato la Grecia a questo clientelismo.

Christine Lagarde ha recentemente affermato che ha più simpatia per i poveri abitanti del Niger che per i greci, e ha anche consigliato i greci ad aiutare se stessi pagando le tasse, che, come ho potuto verificare pochi giorni fa, lei non deve pagare. Come tutti i liberali umanitari, ama i poveri impotenti che si comportano da vittime, evocano la nostra simpatia spingendoci a fare la carità. Ma il problema con voi greci è che sì, soffrite, ma non siete vittime passive: resistete, lottate, non volete comprensione e carità, volete solidarietà attiva. Volete e chiedete una mobilitazione, il sostegno per la vostra lotta.

Syriza è accusata di promuovere finzioni di sinistra, ma è il piano di austerità imposto da Bruxelles ad essere chiaramente una finzione. Tutti sanno che questo piano è fittizio, che lo stato greco non potrà mai ripagare il debito, in questo modo. Allora perché Bruxelles impone queste misure? Il vero scopo non è quello di salvare la Grecia, ma ovviamente di salvare le banche europee.
Queste misure non sono presentate come decisioni fondate su scelte politiche, ma come necessità imposte da una logica economica neutrale. Come a dire: se vogliamo stabilizzare la nostra economia, dobbiamo semplicemente ingoiare la pillola amara. Oppure, come dicono i proverbi tautologici: non si può spendere più di quello che si produce. Ebbene, le banche americane e gli Stati Uniti sono stati una grande prova, per decenni, che si può spendere più di quello che si produce.

Per illustrare l’errore delle misure di austerità, Paul Krugman spesso le paragona alla pratica medievale del salasso. Una bella metafora, che ritengo debba essere ulteriormente estremizzata. I medici finanziari europei, a loro volta non sicuri di come questo farmaco funzionerà, stanno usando voi greci come cavie da laboratorio, stanno rischiando il vostro sangue, non il sangue dei loro paesi. Non vi è alcun salasso per le banche tedesche e francesi. Al contrario, quelle stanno ottenendo grandi trasfusioni.

Il buon senso radicale
Dunque Syriza è davvero un gruppo di pericolosi estremisti? No, Syriza è qui per portare un pragmatico buon senso. Per cancellare la confusione creata da altri. I sognatori pericolosi sono quelli che vogliono imporre le misure di austerità. I veri sognatori sono coloro che pensano che le cose possono andare avanti, a tempo indeterminato, così come stanno apportando qualche modifica cosmetica. Voi non siete dei sognatori: voi vi state risvegliando da un sogno che si sta trasformando in un incubo. Voi non state distruggendo nulla, state reagendo al modo in cui il sistema sta gradualmente distruggendo se stesso.

Conosciamo tutti la classica scena del cartone di Tom e Jerry: il gatto raggiunge il precipizio, ma continua a camminare, ignorando il fatto che non c’è terreno sotto i suoi piedi. È solo quando comincia a scendere che guarda verso il basso e si rende conto che c’è il vuoto. Questo è quello che state facendo: state dicendo a chi è al potere, «ehi, guarda giù!» e quelli cadono.

La mappa politica della Grecia è chiara ed esemplare. Al centro c’è un solo partito, con due ali, destra e sinistra, Pasok e Nuova Democrazia. È come, che so, la Cola che è o Coca o Pepsi, una scelta che non è una scelta. Il vero nome di questo partito, se si mettono insieme Pasok e Nd, dovrebbe essere qualcosa, penso, come Nmced, Nuovo movimento ellenico contro la democrazia. Naturalmente questo grande partito sostiene di essere a favore della democrazia, ma io sostengo che sia a favore di una democrazia decaffeinata. Sapete, come il caffè senza caffeina, la birra senza alcool, il gelato senza zucchero. Vogliono la democrazia, ma una democrazia dove invece di compiere una scelta, la gente si limita a confermare quello che saggi esperti diranno loro di fare. Vogliono il dialogo democratico? Sì, ma come nei dialoghi tardi di Platone, dove un ragazzo parla tutto il tempo e l’altro dice solo, ogni dieci minuti, «per Zeus, è così!»

Poi c’è l’eccezione. Voi, Syriza, il vero miracolo, movimento di sinistra radicale, che è uscito dalla comoda posizione di resistenza marginale e coraggiosamente ha segnalato la disponibilità a prendere il potere. Questo è il motivo per cui dovete essere puniti. Ecco perché Bill Freyja ha scritto di recente, sulla rivista Forbes, un articolo dal titolo «Dare alla Grecia quello che merita: comunismo». Cito: «Quello di cui il mondo ha bisogno, non dimentichiamolo, è un esempio contemporaneo del comunismo in azione. Quale miglior candidato della Grecia? Buttatela fuori dall’Unione europea, interrompete il flusso libero di euro e ridategli le vecchie dracme. Poi, state a guardare che succede per una generazione». In altre parole, la Grecia dovrebbe essere punita in modo esemplare, così che una volta per tutte, la tentazione per una soluzione radicale e di sinistra della crisi venga messa a tacere.

So che il compito di Syriza è quasi impossibile. Syriza non è l’estrema sinistra folle, è la voce pragmatica della ragione, che contrasta la follia ideologia del mercato. Syriza avrà bisogno della combinazione formidabile di principi politici e pragmatismo senza radici di impegno democratico, oltre alla capacità di agire rapidamente e brutalmente quando necessario. Perché Syriza abbia una Cialis chance, anche una minima chance di successo, sarà necessaria una solidarietà pan-europea.

Cambiare la Grecia
Per questo penso che voi, qui in Grecia, dovreste evitare il nazionalismo facile, tutti i discorsi su come la Germania vuole rioccupare la Grecia, distruggerla e così via. Il vostro primo compito è quello di cambiare le cose qui. Syriza dovrà fare il lavoro che gli altri avrebbero dovuto fare. Il lavoro di costruzione di uno stato migliore, moderno: uno stato efficiente. Dovrete fare un lavoro di bonifica dell’apparato statale dal clientelismo. È un lavoro duro, non c’è nulla di entusiasmante in questo: è lento, duro, noioso.

I vostri critici pseudo-radicali vi stanno dicendo che la situazione non è ancora quella giusta per un vero cambiamento sociale. Che se prendete il potere ora, non farete che aiutare il sistema, rendendolo più efficiente. Questo è, se ho ben capito, quello che il Kke,, che è fondamentalmente il partito delle persone ancora vive perché si sono dimenticate di morire, vi sta dicendo.
È vero che la vostra élite politica ha dimostrato la sua incapacità di governare, ma non ci sarà mai un momento in cui la situazione sarà completamente giusta per il cambiamento. Se aspettate il momento giusto, il momento giusto non arriverà mai. Quando si interviene, è sempre il momento non proprio maturo. Quindi, avete di fronte una scelta: o aspettare comodamente e guardare la vostra società che si disintegra, come alcuni altri partiti di sinistra suggeriscono, o intervenire eroicamente, pienamente consapevoli di quanto sia difficile la situazione. Syriza ha fatto la scelta giusta.

I vostri critici vi odiano perché, penso, segretamente sanno che voi avete il coraggio di essere liberi e di agire come persone libere. Quando si è davanti agli occhi della gente, quelli che osservano colgono, almeno per un istante, che state offrendo loro la libertà. State osando fare ciò che anche loro sognano di fare. In questo istante, sono liberi. Sono un unicum con voi. Ma è solo un attimo. Torna la paura e vi odieranno ancora, perché hanno paura della loro libertà.

Qual è dunque la scelta che voi, popolo greco, vi troverete ad affrontare il 17 giugno? Si dovrebbe tenere a mente il paradosso che sostiene la libertà di voto nelle società democratiche: siete liberi di scegliere, a condizione che facciate la scelta giusta. Ecco perché, quando la scelta è quella sbagliata, per esempio quando l’Irlanda ha votato contro la costituzione europea, la scelta sbagliata è trattata come un errore. E allora vogliono ripetere la votazione, per illuminare le persone a fare la scelta giusta. È per questo che l’establishment europeo è in preda al panico. Ritengono che forse non meritiate la vostra libertà, perché c’è il pericolo che facciate la scelta sbagliata.

Caffè senza latte
C’è una barzelletta meravigliosa in Ninoska di Ernst Lubitsch: l’eroe entra in una caffetteria e ordina un caffè senza panna. Il cameriere risponde «mi dispiace, ma abbiamo esaurito la panna, abbiamo solo latte. Posso portarle un caffè senza latte?» In entrambi i casi, si avrà solo il caffè, ma credo che la barzelletta sia corretta.

Anche la negazione è importante. Un caffè senza panna non è lo stesso che un caffè senza latte. Voi oggi vi trovate nella stessa situazione: la situazione è difficile. Avrete una specie di austerità, ma avrete il caffè dell’austerità senza panna o senza latte? È qui che l’establishment europeo sta barando. Si sta comportando come se avrete il caffè dell’austerità senza panna. Vale a dire che i frutti della vostra fatica non beneficeranno solo le banche europee: vi stanno offrendo anche il caffè senza latte. Sarete voi a non beneficiare dei vostri sacrifici e difficoltà.

Nel sud del Peloponneso ci sono le cosiddette piangenti, donne che vengono chiamate per piangere ai funerali, a fare uno spettacolo per i parenti del morto. Ora, non c’è nulla di primitivo in questo. Noi, nelle nostre società sviluppate, facciamo esattamente la stessa cosa. Pensate a questa meravigliosa invenzione, penso che sia forse il maggior contributo dell’America alla cultura mondiale: il sottofondo di risate registrate. Le risate che fanno parte della colonna sonora della televisione. Torni a casa stanco, sintonizzi la tv su uno di questi stupidi programmi tipo Cheers o Friends. Ti siedi e la tv ride anche per te. E, purtroppo, funziona.

È così che chi detiene il potere, l’establishment europeo, vuole vedere non solo i greci, ma tutti noi: che guardiamo lo schermo e osserviamo come gli altri sognano, piangono e ridono. C’è un aneddoto, apocrifo ma meraviglioso, sullo scambio di telegrammi tra il quartier generale dell’esercito tedesco e quello austriaco nel mezzo della prima guerra mondiale. I tedeschi inviano un messaggio agli austriaci: «Dalla nostra parte del fronte, la situazione è grave ma non catastrofica». Gli austriaci rispondono: «Dalla nostra parte la situazione è catastrofica, ma non grave».

Questa è la differenza tra Syriza e gli altri: per gli altri la situazione è catastrofica ma non grave, le cose possono andare avanti come al solito, mentre per Syriza la situazione è grave, ma non catastrofica e per questo il coraggio e la speranza devono sostituire la paura. Dunque ciò che avete davanti, per dirla con il titolo di una vecchia canzone dei Beatles, è «una strada lunga e tortuosa». Quando anni fa la guerra fredda minacciava di esplodere in una caldissima, John Lennon scrisse una canzone, «all we are saying is give peace a chance» («tutto quello che stiamo dicendo è dare una chance alla pace»). Oggi, voglio sentire una nuova canzone in tutta Europa, «tutto quello che stiamo dicendo è dare una chance alla Grecia».

La rivoluzione a casa propria
Consentitemi un riferimento a una delle grandi, forse la più grande, delle tragedie classiche, Antigone: non combattere battaglie che non sono le tue battaglie. Nella mia idea di Antigone, abbiamo Antigone e Creonte. Sono solo due sette della classe dirigente. Un po’ come Pasok e Nuova Democrazia. Nella mia versione di Antigone, mentre i due membri delle famiglie reali stanno combattendo tra loro, minacciando di mandare in rovina lo Stato, mi piacerebbe vedere il coro, le voci delle persone, uscire da questo ruolo stupido di mero commento saggio, impadronirsi della scena, costituire un comitato pubblico di potere del popolo, arrestare entrambi, Creonte e Antigone, e dare vita al potere del popolo.

Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela. Ma voi siete qui e questo è ciò che ammiro. Non avete paura di impegnarvi in una situazione disperata, sapendo quanto le probabilità siano contro di voi. Questo è quello che ammiro. C’è anche un opportunismo di principio, l’opportunismo dei principi. Quando si dice la situazione è persa, non possiamo fare nulla, perché significherebbe tradire i nostri principi, questo sembra essere una posizione coerente, ma in realtà è la forma estrema di opportunismo.
Syriza è un evento unico di come proprio quella sinistra – in contraddizione con ciò che fa la solita sinistra extraparlamentare, che si preoccupa di più se i diritti umani di qualche criminale vengono violati, che di migliaia di esseri umani che muoiono – ha trovato il coraggio di fare qualcosa. (Beh, buona giornata)

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Dibattiti Lavoro Movimenti politici e sociali Politica

La classe operaia senza sinistra?

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Una domanda per Bersani, Ferrero, Vendola e Di Pietro: «Chi rappresenta gli interessi dei lavoratori?». La Fiom chiama i partiti di sinistra a confrontarsi sul tema del lavoro. E domattina Nichi Vendola, Paolo Ferrero e Antonio Di Pietro si troveranno di fronte a una platea di 500 delegati metalmeccanici; un pienone che lascerà fuori un numero assai più alto di delegati che vorrebbero esserci, nonostante i molti impegni di mobilitazione in corso anche in questi giorni e l’impegno totale delle strutture sindacali nelle zone terremotate dell’Emilia.

Ci sarà anche Luigi Bersani, che è segretario del partito più grande, ma anche l’unico dei quattro a sostenere il governo Monti che proprio sul lavoro – tra «riforma» delle pensioni, cancellazione dell’art. 18, drastica riduzione degli ammortizzatori sociali e conferma perenne della precarietà – ha esibito socialmente il peggio di sé.

Per lui, insomma, sarà probabilmente meno facile trovare l’empatia con la platea. L’attesa del sindacato guidato da Maurizio Landini è che «la politica venga ad ascoltare, e magari anche che dica qualcosa di sinistra». Viviamo in tempi in cui la «crisi della rappresentanza» è concetto dibattuto persino nei talk show, ma quando si deve affrontare il tema concreto della «rappresentanza degli interessi materiali del lavoro» le bocche si chiudono, gli interlocutori diventano vaghi, le parole si arrampicano su ogni tipo di specchio.

L’obiettivo minimo è quindi quello di verificare se è possibile una riaprtura del «dialogo tra due mondi» che hanno percorso, nel bene e nel male, fianco a fianco la storia italiana del dopoguerra, ma che da tempo hanno smesso di parlarsi. Anche qui il discorso non è uguale per tutti, perché Rifondazione e Sel accompagnano in modo esplicito le rivendicazioni del mondo del lavoro; e altrettanto fa il partito-movimento di Di Pietro, con un occhio attento ai dati elettorali disaggregati per classi sociali; il Pd, invece, da molti anni si presenta ufficialmente come partito «neutrale» rispetto al conflitto tra capitale e lavoro, ma all’atto pratico – il voto su provvedimenti che danneggiano pesantemente il secondo – lascia cadere gli interessi dei più deboli in nome del «salvataggio del paese».
Il tentativo è insomma quello di un’interlocuzione alta con la politica, perché un sindacato non fa mai politica in proprio, anche se – ovviamente – nel suo agire esercita un peso indubbio sulla politica e anzi, nella storia italiana, ha per lungo tempo trovato nella politica una «sponda» attenta a tradurre in misure legislative gli interessi concreti dei lavoratori.

La crisi e la «fuga della sovranità» dallo Stato verso i «mercati internazionali» senza volto né nome hanno tranciato questi legami già molto indeboliti nell’ultimo ventennio. La domanda «è possibile ricostruirli?» è dunque non solo legittima ma necessaria.

Una parte della stampa, nei giorni scorsi, ha fatto circolare la voce che in realtà – con questa scadenza – la Fiom intendesse annunciare la sua «discesa in politica». Una tesi sostenuta in particolare da Luca Telese, su Il Fatto, curiosamente proprio alla vigilia dell’annuncio della sua «scissione» dal giornale diretto da Padellaro per andare a fondarne uno proprio.

In Fiom lo scherzo mediatico non è stato preso bene, perché – non è inutile ricordarlo, in tempi in cui «farsi un partito» è diventata un’attività imprenditoriale emergente – «il bene più prezioso di un sindacato è la sua autonomia da qualsiasi partito».

Un sindacato, infatti, chiama la gente a mobilitarsi, a scioperare, quindi a sacrificare una fetta di salario per raggiungere obiettivi tangibili. Non certo per «scaldare» una campagna elettorale…
Quella lettura «politicista» sembrava insomma quasi strillata a bella posta, per far derubricare l’incontro di domani a «normale» giro di valzer nello squalificato «teatrino della politica politicante». Che nel paese ha ormai una credibilità quasi zero, ma tra i metalmeccanici – atti legislativi alla mano – forse anche meno. (Beh, buona giornata).

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali

L’ennesimo inutile vertice europeo sulla crisi del debito.

di Bruno Steri-rifondazione.it

Il vertice tenutosi ieri a Bruxelles era atteso come una sorta di “ultima spiaggia” per le sorti dell’euro, una tappa decisiva per decidere il futuro di un’ “Europa in bilico”. Oggi vediamo che la montagna ha partorito un topolino: niente che sia all’altezza delle aspettative. Per la verità, c’era chi lo aveva previsto. Ad esempio, qualche giorno fa, Marco Moussanet concludeva così un editoriale de Il sole 24 ore: “Si metteranno d’accordo. Su un testo che parlerà di project bond, di sblocco dei fondi strutturali, di maggiori risorse per la Banca Europea per gli Investimenti e di Tobin Tax.

Evitando accuratamente temi spinosi come il ruolo della Bce o la mutualizzazione del debito”. L’articolo si riferiva in realtà all’incontro tra Angela Merkel e François Hollande e a un’ipotizzabile “sintesi franco-tedesca”; ma la citata argomentazione può essere estesa all’incontro di Bruxelles. In sostanza si tratta di un ben magro risultato, una mediazione che non ferma l’incipiente sprofondamento del Titanic.

Mario Monti si è affrettato a rilasciare dichiarazioni rasserenanti (“Il fatto che il tema degli eurobond sia chiaramente sul tavolo (…) significa che la cosa si muove”), le quali tuttavia non convincono nessuno. Men che meno i cosiddetti “mercati”, che ieri hanno fatto precipitare gli indici azionari nelle borse di mezzo mondo, facendo toccare minimi storici a quella di Milano (- 3,68%) e innalzando il differenziale tra titoli italiani e tedeschi da 411 a 435 punti base. Disastro comprensibilmente riassunto nel titolo: “le borse non credono nel vertice Ue”.

E, in effetti, alle parole di Monti fanno da contraltare i nein della signora Merkel, le precisazioni di Mario Draghi (“L’emissione degli eurobond ci sarà solo quando avverrà un’unione di bilanci”), i traccheggi del Presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy (“Nessuno ha chiesto che gli eurobond fossero immediatamente adottati”). Così come in pochi credono alle mielose perorazioni del “salvataggio” della Grecia (“Vogliamo che resti nell’euro”): soprattutto quando, contemporaneamente e per via ufficiosa – voci “dal sen fuggite” – i tecnici Ue chiedono ai singoli Paesi di predisporre piani per affrontare un’uscita della Grecia dall’euro. Nei confronti del Paese ellenico, è la classica politica del bastone e della carota, delle premurose esortazioni unite a ricatti e secche minacce: vi vogliamo bene, ma dovete fare quel che diciamo noi (e, soprattutto, alle prossime elezioni politiche non dovete votare Syriza, la sinistra anticapitalista).

Questi signori sono pronti ad abbandonare la Grecia al suo destino – peraltro sottostimando, da veri apprendisti stregoni, gli inevitabili dirompenti effetti a catena sulla stessa tenuta dell’Unione Europea – e, nei fatti, spianano un’autostrada alle prevedibili incursioni speculative ai danni dei singoli Paesi e, in ultima analisi, dell’euro. Ciò rende quanto mai pertinente un interrogativo: qual è il gioco a cui questi signori giocano? E a vantaggio di chi? In proposito, non riusciamo a trattenere la tentazione di menzionare qui i due editoriali con cui Le monde diplomatique ha aperto i suoi ultimi due numeri di aprile e maggio. Il primo (Gli economisti sul libro paga della finanza) fa le pulci in tasca agli “esperti” di mezza Europa, evidenziando come “gli accademici invitati dai media a illuminare il dibattito pubblico, ma anche i ricercatori designati come consiglieri dai governi, sono a libro paga di banche e grandi imprese”. E che paga! Il secondo editoriale (Il volto dei signori del debito) passa al setaccio i big della politica europea, anche in questo caso puntando i riflettori sulla materialità dei loro incarichi da rendita e da capitale. I nomi di casa nostra meritano un’ampia citazione: “La copertura giornalistica della nomina di Mario Monti alla Presidenza del consiglio in Italia fornisce un perfetto esempio di discorso-paravento, che chiama in causa ‘tecnocrati’ ed ‘esperti’ laddove semplicemente si fa un governo di banchieri”. Non si tratta di metafore evocative ma di cruda realtà: “A uno sguardo più attento si vede come la maggior parte dei ministri sieda nei consigli d’amministrazione dei principali gruppi d’affari della Penisola. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, è amministratore delegato di Intesa San Paolo; Elsa Fornero, ministro del Lavoro e professoressa di economia all’università di Torino, è vicepresidente della stessa banca; Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione e della ricerca e rettore del Politecnico di Torino, è amministratore di UniCredit Private Bank e di Telecom Italia – controllata da Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca e Telefonica – dopo esser transitato anche per Pirelli; Piero Gnudi, ministro del Turismo e dello sport, è amministratore di UniCredit Group; Piero Giarda, incaricato dei Rapporti con il parlamento, professore di Scienza delle finanze all’università Cattolica del Sacro cuore di Milano, è vicepresidente del Banco popolare e amministratore di Pirelli. Quanto a Monti è stato consulente di Coca Cola e Goldman Sachs e ha fatto parte dei consigli di amministrazione di Fiat e Generali”.

L’intento sarà forse un po’ schematico; ma, all’opposto, glissare su tali fatti equivale a imbrogliare la gente. (Beh, buona giornata).

Manifestazione degli Occupy a Francoforte: la polizia appare molto rilassata al corteo.

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Attualità democrazia Finanza - Economia Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

L’Europa tra recessione e repressione.

di Claudio Riccio-rifondazione.it
Una cortina di ferro sta calando nell’Europa. Nel marzo del ‘46, con un celebre discorso, Winston Churchill sanciva l’inizio della guerra fredda e soprattutto della divisione in blocchi dell’Europa, rendendo celebre l’espressione della “cortina di ferro”. O da una parte o dall’altra: muri, confini, frontiere invalicabili, materiali ed ideologiche. Questa volta non vedrete cartine geografiche che raffigurano la divisione dell’Unione Europea: le linee di demarcazione ci sono, ma non sono visibili.

Da un lato c’è chi sacrifica la democrazia sull’altare della finanza, dall’altro chi vuole autodeterminarsi, difendendo un’idea di società solidale, aperta, democratica ed egualitaria. Da un lato la repressione, dall’altro il dissenso. Centinaia di arresti al giorno, divieto di manifestare, una enorme zona rossa, ecco quel che è successo nei giorni scorsi a Francoforte, dove il variegato mondo dei movimenti sociali europei – per la prima volta dopo molti anni – si è riunito per una prima, importante manifestazione internazionale. La sfida, ovvero passare dalla mobilitazione internazionale ad un movimento europeo, è appena agli inizi, ma i primi passi sono stati fatti. Non è la prima volta che in Europa vengono sospesi i diritti democratici – si pensi ovviamente ai drammatici fatti di Genova 2001, o alla repressione del vertice ambientale di Copenaghen 2009 –, ma il fatto che questi divieti si applichino nella capitale finanziaria dell’UE assume una valenza simbolica ulteriore.

Le politiche di austerity rompono l'unità europea.

Prima che – comprensibilmente – i media italiani venissero travolti dalle drammatiche notizie della bomba di Brindisi e del terremoto in Emilia Romagna, le notizie della mobilitazione e degli arresti a Francoforte erano comunque avvolte da un’altra cortina, questa volta fumogena, che ha offuscato totalmente la mobilitazione. Ben più rilievo viene dato oggi agli scontri e alla repressione a Chicago. Per la serie “basta che sia lontano da casa e se ne può parlare”, anche con un pizzico di esterofilia, che non manca mai.
L’ipocrisia della politica e dell’informazione italiana è ormai a livelli improponibili.

Se a Mosca vengono arrestati i manifestanti la notizia è – com’è giusto che sia – sulle prime pagine dei giornali italiani: “violati i diritti fondamentali, nella Russia di Putin non si può manifestare”. Se a Francoforte, nella Germania della Merkel, ti arrestano perché non rinunci al tuo diritto di manifestare, si tratta invece di una normale gestione dell’ordine pubblico.
Lo straordinario corteo di sabato, al netto dei limiti organizzativi del cartello blockupy Frankfurt e della macchina repressiva, ha avuto una grande risposta da moltissime zone della Germania. Ciò dimostra che un fronte antisistemico è possibile anche nella prosperosa Germania e non solo in quel che resta della Grecia. Se i movimenti sapranno accrescere il proprio livello di coordinamento e non cadere nelle numerose e crescenti trappole della repressione, potranno aprire davvero degli spazi di possibilità e contribuire alla costruzione di un’Europa differente.

A Francoforte si è manifestato un solco, visibile a chiunque abbia la voglia di guardare oltre le molteplici cortine, di ferro o fumogene che siano: da un lato l’austerity, la distruzione dello stato sociale, e i dispositivi di controllo mediatici e repressivi; dall’altro lato il rifiuto di sottostare al ricatto del mercato e allo stato di polizia e il sogno di un’altra Europa. Non si può più stare nel guado. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

I governi tanto sono stati capaci di entrare nella crisi, quanto sono incapaci di saperne uscire.

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Vedere che la disoccupazione giovanile esplode -da un già inquietante 31% di pochi mesi fa al 36% di marzo 2012 – impone di cercare risposta alla domanda che viene subito alla mente: non sarà che con la «riforma» che ha portato l’età pensionabile a 67 anni questo governo – sempre pronto a riempirsi la bocca con «lo facciamo per i giovani» – ha di fatto precluso l’ingresso nel mondo del lavoro ad almeno quattro-cinque scaglioni di «coscritti»?

Per Roberto Pizzuti, docente di politica economica a Roma, «è evidente e accertato il legame tra aumento dell’età pensionabile e disoccupazione, soprattutto giovanile». Del resto, «se c’è un certo numero – già insufficiente – di posti di lavoro, e riduci all’improvviso il turnover, quei posti non possono essere occupati da altre persone». Ma c’è di più: «è una cosa che danneggia anche le aziende, perché i lavoratori anziani costano di più, sono mediamente meno istruiti e inevitabilmente meno reattivi all’innovazione». Una politica di questo tipo «in questo momento è un autogol, vengono ridotti i redditi e la domanda quando dovrebbe invece essere sostenuta».

Giovanni Mazzetti, docente di economia politica, agginge una considerazione ulteriore: «se si è capaci di creare lavoro aggiuntivo, puoi anche lasciare sul posto gente che potrebbe andare in pensione; ma se non lo sai fare – e tutte le società avanzate non sono più capaci di crearne di nuovo – allora devi mandar via con soluzioni decorose quelli che hanno lavorato già un bel po’ (senza fare quei pasticci orrendi sugli ‘esodati’), e sostituirli con dei giovani».

L’obiezione del governo è nota: se si fossero lasciati andare in pensione quelli che avevano già maturato i requisiti «sarebbero saltati i conti Inps». Non è vero nemmeno questo, spiega Pizzuti (tra l’altro ex membro del cda Inpdap), «tutto il sistema pensionistico pubblico è da anni in attivo di 26 miliardi e contribuisce ai conti pubblici nella proporzione di una grande finanziaria ogni anno; è solo una scelta politica di colpire queste fasce, perché danno un’entrata certa e sono facili da colpire».

Se usciamo dal piano generale della macroeconomia e andiamo a vedere cosa accade nei diversi settori produttivi, la valutazione non cambia, ma assume una concretezza davvero drammatica. «Noi vediamo che la crisi non solo non passa, ma si acuisce – spiega Laura Spezia, segretario nazionale Fiom – Molte aziende chiedono ‘esuberi’ e finiamo a discutere di fatto di ‘esodati’». Perché «la riforma del mercato del lavoro non va certo nella direzione di favorire le assunzioni dei giovani». Dopo l’aumento dell’età del ritiro, infatti, «si prevede di ridurre gli ammortizzatori sociali nel tipo e nella durata; di fatto vengono rigettati sul mercato lavoratori che potrebbero e dovrebbero andare in pensione». E non è vero neppure che le aziende abbiano «tanta voglia di assumere giovani; basta guardare le reazioni della Marcegaglia e non solo all’ipotesi di restringere appena un po’ la ‘flessibilità in entrata’». La precarietà conclude – «è rimasta tale e quale, disoccupazione è aumentata; ora che vanno a scadenza gli ammortizzatori che sono stati concessi per le crisi degli ultimi anni esploderà con grandi numeri». Tanto più se andrà in porto la nuova «riforma»…

«Il fenomeno più preoccupante dice Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil – è la perdita di senso del sistema istruzione. Diplomati e laureati vengono buttati nella disperazione proprio quando il paese ne avrebbe più bisogno; si rischia una perdita totale di credibilità del sistema, che nel frattempo non è più nemmeno gratuito, negando il diritto allo studio. Questo è un paese che rinuncia al futuro, a partire dal governo Monti che non fa nulla per invertiore la tendenza».

L’ultima conferma arriva dal pubbblico impiego, ora sotto la lente della spending review. «Qui il turnover è bloccato da 7-8 anni», racconta Massimo Betti, Usb. «E già stiamo affrontando il problema di circa 100.000 dipendenti che vengono dichiarati in esubero. 65.000 dalle Province, diecimila dal personale civile della Difesa e 30.000 militari». Ma anche al ministero degli Interni si prepara un taglio «del 10% del personale». Per i «pubblici» c’è la mobilità per due anni, all’80% dello stipendio; poi, se non possono essere ricollocati in altro comparto o sede, c’è il licenziamento. La spending review punta a eliminare 4,2 miliardi di spese subito; ma «prima di nominare Bondi, Monti aveva illustrato tagli per 25-27 miliardi». Se ci si aggiunge la «delega» data a Patroni Griffi per applicare anche qui il «nuovo» art. 18, dice Betti, «diventa possibile licenziare per motivi economici praticamente tutti i 3,5 milioni di dipendenti. ‘Per Costituzione’, visto che hanno inserito l’obbligo al pareggio di bilancio».

Insomma: la crisi crea disoccupazione, ma il governo ci mette molto di suo…(Beh, buona giornata.

La ricetta della Bce per uscire dalla crisi non sta funzionando.

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

Lezione di Toni Negri: Storia dei movimenti dagli anni 60 a oggi.

http://vimeo.com/38182573

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Fumetti. libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

C’era una volta a Gaza.

di Giulio Gargia-3dnews.it

Dedicato a Vittorio Arrigoni

Il giorno in cui fu assassinato,Vittorio Arrigoni viveva a Gaza,
dentro una comunità di cui raccontava problemi e sofferenze, come
quelli causati dall’Operazione Piombo Fuso del 2008.

Dopo allora solo sette attivisti occidentali dell’ISM, l’International
Solidarity Mouvement, tra cui lui, sono rimasti sotto le bombe,
decisi a dare una mano alla popolazione civile di Gaza.

Per questo, Vittorio ha ricevuto il Premio Speciale Rachel Corrie
2010. dedicato all’attivista USA morta sotto un bulldozer israeliano.
Non potendo uscire da Gaza a causa del blocco israeliano, alla
premiazione del 4 ottobre sono andati i suoi genitori

Tra i suoi articoli, veri e propri scoop, come la denuncia
dell’impiego massiccio di fosforo bianco e di armi di nuova
generazione (DIME).
Per le sue attività un sito pro Israele, http://stoptheism.com/ lo
indica tra i “bersagli da colpire”, con relativi riferimenti
telefonici.
I volontari dell’ISM sono definiti “terroristi” , su di loro ci sono
schede dettagliate e invito, a chiunque possa fornire indicazioni
utili, a mettersi in contatto con l’organizzazione tramite mail o
numero di telefono.

A Vik e a tutti loro abbiamo dedicato questa nostra puntata della
cronaca a fumetti, che trovate sul nostro link
http://www.3dnews.it/taxonomy/term/384?page=7
Con una particolare citazione per Fiamma Nirenstein e per il suo odio
inconsulto per tutti quelli che vogliono aiutare il popolo
palestinese. (Beh, buona giornata).

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La lotta di classe dei ricchi contro i poveri.

Intervista a Luciano Gallino di Matteo Pucciarelli-micromega

Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all’improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.

Ecco, la lettura dell’ultimo lavoro di Luciano Gallino “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto.

Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell’idea, anzi dell’ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all’infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.

Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica.

Era un’ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.

Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l’attacco all’articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?

«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».

Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco… Ci fu la riforma Treu nel ’96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l’impianto ad essere sbagliato…

«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».

La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello sociale. C’è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?

«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica».

Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta….

«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente sconfessate dalla realtà»

È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l’internazionalismo, cioè la capacità di fare “gioco di squadra” a livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una Viagra 100mg visione alternativa della società?

«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente strumentale».

Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.

«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»

Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan “Lavorare meno, lavorare tutti”. A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto…». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di classe? L’egoismo, l’interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È questa l’ennesima vittoria del pensiero dominante?

«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».

Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com’è possibile che il Pd lo sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.

«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo elettorale».

Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?

«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».

L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il “Manifesto per un soggetto politico nuovo”, e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l’ha redatto e firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?

«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».

Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?

«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe dirigente». (Beh, buona giornata).

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Lega rubona.

di Stefano Galieni-rifondazione.it

Roberto Biorcio è forse uno dei migliori conoscitori della Lega Nord in Italia, numerose sono state le sue pubblicazioni e interviene volentieri per parlare delle ultime vicende che hanno colpito il partito di Bossi.

Il partito è oggi più che in passato al centro di inchieste di forte rilevanza, ma non si tratta in fondo di novità
«Si sullo stesso tesoriere Belsito erano già emersi numerosi elementi problematici. È stato al centro di alcune spregiudicatezze finanziarie, erano emersi legami fra politica e n’drangheta. La novità è che quanto accade oggi lambisce direttamente la famiglia Bossi. Poi quando a beneficiarne sono anche i singoli il fatto è nuovo e diviene ancora più grave. Nel passato recente c’è stato il caso di Boni, alla Regione Lombardia che è stato difeso compattamente nonostante si parli di tangenti. Questa volta la reazione di Maroni e di quelli a lui più vicini è stata diversa. Ha cavalcato l’indignazione leghista, ha chiesto e ottenuto non solo le dimissioni di Belsito ma una pulizia generale nel gruppo dirigente. Bossi si è imbestialito, nel suo gruppo c’è stato un lungo silenzio e solo alla fine ha parlato di un attacco mirato alla Lega. In altri tempi non avrebbe fatto così.
Questo segna un cambiamento nelle competizioni interne alla Lega che non si era mai raggiunto. Se la vicenda di Belsito sarà forte come quella di Lusi si arriverà ad una crescita del potere di Maroni come interprete di una serie di istanze della base».

Ma secondo lei si è aperta la lotta alla successione di Bossi?
«Più che altro si è accentuata. Bossi ha anche provocatoriamente offerto le proprie dimissioni ma non è quello che vogliono i leghisti. Non vedo uno scontro frontale ma un processo in cui si capirà fino a che punto avanza il potere di Maroni. Ora ci saranno i congressi regionali e vedremo chi la spunterà già nella formazione dei nuovi organismi dirigenti. Un altro elemento importante saranno le amministrative, vero banco di prova. La lega gode di posizioni di vantaggio, è forza di opposizione al governo Monti e raccoglie tutto quel dissenso che non Cialis Online si riversa su Di Pietro o la sinistra fuori e dentro il parlamento. Contemporaneamente alle persecuzioni in via Bellerio dalla Padania si annunciava la raccolta firme per opporsi alla revisione dell’Art 18. Quindi si intende investire in questo spazio politico rimasto vuoto. Al di là delle divisioni interne potenziali la Lega dovrebbe ottenere risultati immediati, anche gli altri partiti non risultano molto attrattivi e la sola alternativa per molti leghisti è l’astensionismo».

Certo pare di vedere un attacco generalizzato verso i partiti tutti.
«Io non credo che ci sia un complotto ma un indebolimento dei partiti. Come ai tempi di tangentopoli c’è maggiore possibilità di perseguire reati che prima incontravano forte opposizione. I partiti hanno perso credibilità, non hanno autorità morale e politica e in questo quadro le procure possono colpire anche dirigenti più elevati. Sulla vicenda della lega c’è da dire che ci si è mossi su denuncia di un leghista, sintomo di una lotta interna che coinvolge diverse componenti della lega che non vogliono certo distruggere il movimento. Non a caso Maroni vuole dare la caccia ai trasgressori e dichiara di auspicare pulizia».

Che futuro si prospetta secondo lei per questo partito pensando agli umori del popolo leghista?
«Dipende da come evolve il confronto. Se aumenta il potere di Maroni e diminuisce gradualmente quello di Bossi ci sarà una trasformazione quasi indolore, gestendo l’opposizione a Monti. Pochi scossoni e nessuna scissione verticale. Anzi il consenso si potrebbe consolidare con il passaggio di voti dal Pdl alla Lega grazie agli effetti negativi di Monti. Se invece lo scontro interno aumentasse e per esempio Bossi riprovasse ad imporre i propri uomini nei congressi regionali il rischio è di ripercussioni pesantissime che il movimento vorrebbe evitare. Bossi non è più quello di 10 anni fa e anche se nessuno vuole fare a meno di lui non è in grado di riprovare ad estromettere Maroni. Se ci prova potrebbe palesarsi il rischio di una scissione che pagherebbero tutti. Quindi la prospettiva più plausibile è quella di una limitazione dei conflitti verso una lenta trasformazione della Lega».(Beh, buona giornata)

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La rivolta degli Zero: i cittadini in croce contro discariche e inceneritori.

Dal 4 al 12 aprile 2012 un cittadino si metterà in croce davanti al Ministero dell’Ambiente.
Chiediamo al Ministro Clini, al governo e alle autorità competenti di attuare la strategia Rifiuti Zero per la gestione dei rifiuti di Roma: raccolta differenziata porta a porta spinta, riuso, riciclo, riduzione dei rifiuti.
Basta con la vecchia politica delle discariche e degli inceneritori. Basta inquinare il territorio e avvelenare i cittadini. Crediamo in un’Italia migliore, attenta all’ambiente e alla salute, finalmente cosciente delle sue ricchezze naturali, culturali 7drugs priligy, umane.

In concomitanza con l’iniziativa e sempre davanti al Ministero dell’Ambiente, un cittadino sarà in sciopero della fame per tutto l’arco della protesta. Ogni giorno invierà una lettera aperta diretta ai principali soggetti coinvolti nel problema dei rifiuti (l’iniziativa ‘TRE CAPPUCCINI E UNA LETTERA AL GIORNO’ potrà essere seguita sul sito www.larivoltadeglizero.it

Le iniziative sono promosse dal Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio.
Informazioni su www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it

Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio
inforzlazio@gmail.com
www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it

La rivolta degli Zero.

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“Non faremo un passo indietro: no discariche, no inceneritori, s


Il Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio, insieme a molti comitati, ha partecipato alla manifestazione del 31 marzo a Torrimpietra per opporsi alla costruzione dell’inceneritore e/o discarica a Pizzo del Prete, uno dei siti indicati dal Ministro Clini come compatibile.
Alla manifestazione hanno partecipato circa mille persone che hanno gridato in modo deciso la loro opposizione al progetto.
Pizzo del Prete ha precisi vincoli archeologici e paesaggistici, oltre ad aver usufruito dei fondi europei per l’agricoltura e la zootecnia biologica.
Forse esiste il reato di truffa all’Europa?
Noi esploreremo tutte le strade per fermare questa operazione e sollecitiamo il Ministro ad imporre a Roma il raggiungimento del 65% di differenziata porta a porta, come imposto dalla normativa europea.
Il raggiungimento di questo obiettivo renderebbe inutile non solo l’inceneritore di Pizzo del Prete, ma qualsiasi inceneritore Buy Tramadol nella regione Lazio.
Come Coordinamento ricordiamo inoltre al Ministro Clini e a questo governo che non si può citare l’Europa solo quando fa comodo, ma chiediamo invece coerenza e rispetto della legge.
In occasione degli incontri del Ministro Clini con il Comune e la Provincia di Roma, Il Commissario, Il Co.na.i, i Consorzi di filiera, le societa’ Ama ed E.Giovi,Banca Impresa Lazio e la Regione Lazio, che si terranno il 4 e 5 Aprile, il Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio invita i cittadini, i comitati e i rappresentanti politici ad intervenire al presidio che organizzeremo per ostacolare un percorso che, in modo fermo e determinato, non condividiamo.

PRESIDIO 4 e 5 Aprile 2012 dalle ore 10.00 ad oltranza.
MINISTERO dell’AMBIENTE via Cristoforo Colombo, 44- Roma


Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio
inforzlazio@gmail.com
www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it

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Il fronte del rifiuto.

COMUNICATO STAMPA del COORDINAMENTO RIFIUTI ZERO PER IL LAZIO:

Oggi il Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio, insieme a molti comitati, ha partecipato alla manifestazione a Torrimpietra per opporsi alla costruzione dell’inceneritore e/o discarica a Pizzo del Prete, uno dei siti indicati
dal Ministro Clini come compatibile.

Alla manifestazione hanno partecipato circa mille persone che hanno gridato in modo deciso la loro opposizione al progetto.

Pizzo del Prete ha precisi vincoli archeologici e paesaggistici, oltre ad aver usufruito dei fondi europei per avviare aziende ad agricoltura e allevamento biologici.
Forse esiste il reato di truffa all’Europa? Noi esploreremo tutte le strade per fermare questa hgh helpful for low thyroid operazione e sollecitiamo il Ministro ad imporre a Roma la raccolta al 65% di differenziata porta a porta, secondo ciò che è
previsto dalla legge europea. Questa percentuale renderebbe inutile non solo l’inceneritore di Pizzo del Prete, ma qualsiasi inceneritore nella regione Lazio.
Come Coordinamento ricordiamo inoltre al Ministro Clini e a questo governo che non si può citare l’Europa solo quando fa comodo, ma chiediamo invece coerenza e rispetto della legge.
Su questo non faremo un passo indietro: no discariche, no inceneritori, sì alla raccolta differenziata spinta porta a porta.

31 marzo 2012

Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio
inforzlazio@gmail.com
www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it (Beh, buona giornata).

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Mutanda Day contro la tassa sui permessi di soggiorno.

Le mutande tornano a essere strumenti di protesta.
COMUNICATO STAMPA ricevuto da Unione Sindacale di Base.

“Mentre il governo Monti continua nella sua “riflessione e valutazione” sul che fare della legge che dal 30 gennaio porta a 200 euro la tassa sui permessi di soggiorno, noi diamo appuntamento a tutti i migranti e le loro famiglie venerdì 3 febbraio al “MUTANDA DAY”.

Aboubakar Soumahoro Responsabile nazionale USB Immigrazione denuncia: “poiché a pagare siamo sempre noi, mentre il Governo incassa i soldi, consegneremo Mutande alle prefetture se questo può servire a salvare la nave Italia, sulla quale ci siamo anche noi migranti, che la crisi sta affondando. L’importante è che si cancelli questa norma razzista della tassa sui permessi di soggiorno”.

“Invitiamo i cittadini immigrati e le loro famiglie a portare tante Mutande, perché migliaia sono i migranti che hanno perso il lavoro con la crisi che sta divorando il paese” conclude Soumahoro.
I primi appuntamenti già in programma per venerdì 3 febbraio per la MUTANDA DAY sono le Prefetture di Torino in Piazza Castello dalle ore 12,00 Napoli in Piazza del plebiscito dalle ore 10.00 e Vicenza in Via Contra’ Gazzolle,6 dalle ore 11.00. (Beh, buona giornata).

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