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Per un 25 Aprile senza retorica.

È una festa nazionale, il 25 Aprile celebra la Liberazione dell’occupazione nazista, la sconfitta del governo fantoccio di Salò, la fine della Seconda Guerra mondiale in Italia. Ci sono, dunque, tre validi motivi per aderire ai festaggiamenti. Tuttavia, la retorica è fuori luogo: agli attacchi contro la memoria storica non bisognerebbe mai rispondere con la nostalglia dei tempi che furono. 

Sono nato dieci anno dopo la seconda guerra mondiale e ho conosciuto molti ex partigiani, tra i quali mio padre. Avevano la riservatezza e la dignità umana e politica di chi sentiva di aver fatto la cosa giusta, dalla parte giusta. Ma non si sentivano nel passato, guardavano, parlavano, credevano in un mondo migliore. Come se la guerra partigiana fosse stato un montento, importante, pericoloso, decisisivo di un percorso ancora lungo da compiere: dalla Liberazione del territorio nazionale, alla liberazione dalle ingiustizie sociali, dallo sfruttamento, dalla sudditanza di larga parte della popolazione dalla schiavitù prodotta da un sistema economico che distribuisce in modo diseguale la ricchezza, che discrimina le persone, che ostacola, quando addirittura non nega apertamente, i diritti.

Questi uomini e donne, posate le armi con cui sconfissero il nazifascismo, si rimboccarono le maniche per ricostruire un paese devastato non solo dalle bombe, dalle carestie, dalle angherie e le stragi degli occupanti e dei loro collaborazionisti italiani, ma per rimettere insieme pezzi di un senso dell’esistenza, di un preciso punto di vista etico, morale, civile. Hanno sconfitto il fascimo prima, hanno fatto un Italia migliore poi.

La ricostruzione non fu solo di case e strade e fabbriche, ma anche dei sentimenti, della cultura, della vita di tutti giorni. 

Tra la ricostruzione di corretti rapporti umani e sociali, vorrei ricordare importanti passi verso il superamento delle differenze di genere. I combattenti antifascisti in Italia furono 300 mila. 54 mila furono uccisi: 17 mila erano militari, 37 mila civili, il 70 per cento dei quali militanti comunisti.

Le donne combattenti furono 35 mila, 70 mila delle quali appartenenti ai Gruppi di difesa delle donne, GDD. La prima donna presidente della Camera dei Deputati, l’on. Nilde Iotti, aveva fatto parte dei GDD.

Durante quei lunghi venti mesi, che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, furono arrestate e torturate 4.653 donne; 2.750 furono deportate in Germania; 2.812 furono fucilare o impiccate; 1.070 caddero in combattimento.

Dopo il 25 aprile del 1945, 19 donne furono decorate con con la medaglia d’oro al valor militare; mentre 21 furono le donne che parteciparono all’Assemblea Costituiente. Quando si parla di “padri costituenti”, non dimentichiamoci le “madri costituenti”. Se lo sono conquistato.

Le donne votaroro in Italia per la prima volta nel 1946, in occasione del Referendum col quale il paese scelse di diventare una Repubblica, che poi la Costituente descrisse come democratica e fondata sul lavoro, come recita, appunto, l’art.1.

La Resistenza, dunque, ha scritto pagine indimenticabili per la nostra vita collettiva, ha prefigurato una nuova visione del mondo, ha tracciato un discrimine invalicabile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non si tratta di memoria, ma della Storia, con la consapevolezza della quale dobbiamo guardare all’oggi, e saperci orientare tra le contraddizioni, le difficoltà, e sapere immaginare e poi mettere in pratica nuovi strumenti per capire la realtà. Per cambiarla, come riuscirono a cambiarla i partigiani.

La Resistenza fu il momento delle scelte decisive, sia individuali che collettive. Concentriamoci sulle scelte fatte e quelle da fare. Non c’è tempo per la retorica che celebra il passato. Perché qui ci vuole un nuovo 25 Aprile.

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La politica e la morte a Manchester.

Manchester ricorda le vittime dell’Arena.
“Noi amiamo la morte come voi amate la vita”, è il truce slogan che accompagna gesti scellerati, come l’ultima orribile strage di ragazzine e ragazzini a Manchester. Un distillato d’odio, disperazione, vendetta contro la vita. Ma non suona nuovo.

L’idea della Morte come purificatrice ha riempito la propaganda nazionalista e interventista – da noi “irredentista” e futurista- accompagnando al macello milioni di europei nella Prima Guerra Mondiale. Alla quale segui dopo appena vent’anni, la Seconda Guerra Mondiale, dove il teschio campeggiava nei berretti delle uniformi delle SS, simbolo premonitore delle stragi, delle pulizie etniche, della Shoah. Per non essere da meno, anche le nostrane Brigate nere avevano il teschio sul basco, per sentirsi così all’altezza degli alleati tedeschi, nel condurre rastrellamenti, partecipare agli eccidi, alle deportazioni, alle torture.

Tutta la retorica guerrafondaia si è sempre basata sul gesto estremo di un uomo solo, che immola la sua vita alla “causa”. Dunque, neppure il gesto suicida di chi si fa saltare in aria per portarsi appresso nella morte più vite possibili è un fatto né nuovo né straordinario.

Per concepire, organizzare e mettere in atto gesti come quelli di cui parliamo bisogna essere emotivamente carichi del più definitivo fanatismo. La strage di Manchester è uguale alle carneficine che sciiti e sunniti si scambiano nei paesi in cui si contendono la leadership. Non sappiamo più come contarle in Iraq, per esempio, dove gli Usa e la Nato, dunque anche noi, siamo andati a destabilizzare un equilibrio che ha poi scatenato l’inferno che Daesh vuole restituirci, in parte riuscendovi.

È inutile far finta: ormai ovunque in Europa viviamo sotto scorta della paura. Città blindate, militari ovunque, controlli continui. Il che dimostra che tutto questo apparato non ha l’efficacia che si vorrebbe avesse. Dunque, sperare che il terrorismo islamico sia un problema di ordine pubblico è illusorio.

Anche sul piano del dialogo interreligioso si sono fatti passi significativi. Ma se non si tiene conto che l’Islam, come per altro il Cristianesimo e lo stesso Ebraismo, sono fedi monoteiste, ma non monolitiche non si capisce come stanno davvero le cose nel mondo arabo. Chiedere ai musulmani di condannare il terrorismo ha più il sapore di una spendibilità verso le opinioni pubbliche spaventate, più che efficacia tra i membri delle comunità islamiche delle nostre città.

Neppure la sociologia ha strumenti efficaci per spiegare perché un ventenne nato e cresciuto a Manchester possa arrivare a odiare al tal punto la città in cui vive e la gente con cui è cresciuto, tanto da rendersi disponibile a fare strage di suoi coetanei. Era successo in Francia e in Belgio. È evidente che il disagio sociale sia un ottimo serbatoio cui attingere quella disperazione utile a formare i kamikaze. Ma da solo non basta a capire perché scatti la molla della strage.

Non ci rimane che la politica, come unico strumento per affrontare la questione del terrorismo. Ma la politica occidentale vive il peggior momento della sua funzione sociale dal Dopoguerra.

Delegittimata dalla crisi finanziaria, poi da quella economica, sul piano interno la politica non ha fronteggiato la crisi sociale, ha invece assecondato le peggiori scelte ideologiche dettate dal neo liberismo, quelle scelte che hanno logorato il patto sociale, disgregato il welfare, indebolito la coesione sociale: oggi la politica non è più credibile agli occhi degli elettori, come potrebbe esserlo di fronte agli immigrati di prima e seconda generazione?

Sul piano estero, la politica degli Usa con l’appoggio della Ue continua a giocare contro ogni ragionevole riequilibrio del Medioriente. Prima la guerra in Afghanistan, poi in Iraq, poi l’illusione delle “primavere arabe”, poi la dissoluzione della Libia. Una serie drammatica di errori che ha portato distruzione, vittime, ed esodi in massa.
La “guerra al terrorismo” è diventata una guerra terrorista da ambo i lati. Da un lato la ferocia del Califfato, dall’altro bombardamenti indiscriminati, in mezzo il doppiogiochismo dei nuovi satrapi, che hanno preso il posto dei precedenti Saddam, o Gheddafi o Mubarak.
D’altronde, come si fa a parlare di pace e pacifica convivenza quando il nuovo inquilino della Casa Bianca ha portato in Arabia Saudita 110 miliardi di dollari in armi?

L’ultimo scellerato atto compiuto da Trump è stato il tentativo di compattare i sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma il Califfato è sunnita e ci sono truppe iraniane sul campo che stanno combattendo contro Daesh, ottenendo significativi successi. Dunque, da una lato si combatte Daesh, dall’altro in qualche modo lo si blandisce. Siamo alla solita strategia imperiale Usa in Medioriente. Quanto alla Ue, l’unica preoccupazione è che non partano quei dannati barconi – che invece sono barconi dei dannati – che tanto turbano le opinioni pubbliche europee. A Bruxelles non ci sono altre strategie, se non ognuno per sé a fare affari col petrolio o col cemento.

C’è proprio tutto quello che serve perché il fuoco dell’odio rimanga acceso più a lungo possibile e continui ad ardere odio, vendetta, disperazione e morte nelle nostre città.

Il mondo gronda d’ingiustizie, disuguaglianze, inciviltà. Che muoiano sotto le bombe di un drone, che affoghino nel Mar Mediterraneo, che vengano trucidati da un kamikaze nel primo concerto della loro vita, muoiono i nostri bambini.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo. Beh, buona giornata.

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No, non fate i furbi, non siamo in guerra.

La guerra noi la bombardiamo dall’alto, cercando di non lasciare uomini sul terreno. Noi facciamo i guerrafondai con i morti degli altri. Noi le chiamiamo missioni umanitarie. Noi non spariamo, no, noi facciamo attività di peacekeeping. In Afghanistan, in Iraq, in Siria lo facciamo da quindici anni, che significano centinaia di migliaia di morti civili, per i quali non versiamo lacrime, eh no!, sono danni collaterali, mica lo abbiamo fatto apposta. Gli mandiamo anche cerotti con le organizzazioni non governative, che volete di più?

I nostri nemici non hanno diritto agli onori militari, manco rientrano nelle Convenzioni internazionali: sono terroristi, no!? Bisogna farli parlare, come ad Abu Ghraib o deportare senza processo a Guantánamo.

Ad ogni detonazione, fa eco lo sconcio mantra secondo cui solo i buonisti pensano che non bisogna armarsi e partire, che non bisogna torturarli. “Ci vogliono le palle”, altercano nei salotti televisivi.

I civili inermi che fuggono da lì e vengono da noi? Aiutiamoli a casa loro, quelle stesse case che bombardiamo, radendole al suolo. Rendiamoci conto della sproporzione tra i fatti e la propaganda.

No, loro non sono in guerra contro di noi; semmai, siamo noi che lo siamo contro di loro, da quasi due secoli. Ci servono le loro ricchezze naturali, le fonti di energia vitali per il nostro modo di produrre ricchezza, quella che godono in pochi, ma che distrugge il pianeta di tutti.

Gli attentati che hanno insanguinato Parigi e Bruxelles non sono atti di guerra. Sono gesti disperati di un’organizzazione estremista basata in Belgio. Che è stata evidentemente sottovalutata, magari infiltrata e che poi comunque è sfuggita di mano. Che però fa comodo, perché un po’ di morti europei possono venir utili: aiutano i parlamenti a varare spese militari e leggi speciali, fanno ingoiare alle opinioni pubbliche la militarizzazione del territorio, fanno prendere voti alla destra xenofoba, il cui polverone è utile a mascherare le politiche liberiste contro il welfare.

Bruxelles è insanguinata perché è la capitale del fallimento delle politiche sociali della Eu. È la capitale della disoccupazione, quella giovanile, soprattutto. È la capitale di un’Europa capace solo di aiuti alle banche, nella mistica cieca del mercato. È la capitale del fallimento degli accordi sull’accoglienza delle grandi migrazioni. È la capitale del declino dei grandi ideali.

È la capitale del disastro in cui una cellula ultra-estremista fa da anni cose che si potevano prevedere e prevenire, se il Belgio non fosse una democrazia impazzita, se non avesse più polizie che politiche di sicurezza.

No. Non è contro di noi che Daesh combatte: combatte contro altro che per mettere in discussione le nostre libertà. Al califfo di Isis di noi interessa nulla: combatte contro i governi arabi fantoccio, è in gioco una guerra di supremazia tra sunniti e sciiti. Supremazia come quella in gioco tra valloni e fiamminghi in Belgio.

Non siamo in guerra, non facciamo vittimismo. Che di vittime la nostra sciagurata politica le sta facendo. Non siamo in guerra, ma abbiamo nemici pericolosi: sono nei governi, nei parlamenti, nei talk show televisivi. Sono la destra xenofoba, sono i governi conservatori totalmente supini al capitalismo finanziario e la sinistra che crede nei poteri magici del neoliberismo, sull’altare del quale sacrificare il welfare.

Ma secondo voi, se un ragazzo di 26 anni, magrebino di seconda generazione, cittadino belga con passaporto europeo avesse avuto le opportunità sancite e garantite dalle costituzioni democratiche si sarebbe mai arruolato nelle fila di Daesh, per difendere un’idea astratta di califfato? O si farebbe saltare in aria nella metropolitana della città in cui è nato e cresciuto, urlando disperatamente Allah akbar?

Questo nichilismo è l’urlo di dolore contro l’esclusione sociale, che nessuno ha raccolto, se non qualche predicatore senza scrupoli. Come succede nei sobborghi delle città di provincia degli Usa, dove gli ultimi sono le prime vittime del fanatismo religioso a mano armata: lì cristiano, qui musulmano.

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Crollato il mito del socialismo dei mezzi di produzione, ci siamo incamminati sul sentiero della barbarie. È un vicolo cieco. Di rabbia, di violenza, di morte.

Non ci sono soluzioni facili, semplicemente perché siamo una parte consistente del problema. La sola certezza è che più tardi invertiremo la rotta, più a lungo piangeremo i nostri morti. Beh, buona giornata.

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I naufraghi di “Fuocoammare” siamo noi.

Una scena di "Fuocoammare", di Gianfranco Rosi.
Una scena di “Fuocoammare”, di Gianfranco Rosi.
Ci sono momenti di poetica alta: quando parla il medico, quando vengono controllate le mani di chi sbarca, quando, in primo piano, le donne piangono, sul ponte della nave che le ha tratte in salvo. Quando si tuffa il pescatore in apnea, di giorno e di notte. Quando Samuele, il bimbo che ha un occhio pigro e un senso d’angoscia, simbolo del sentimento di tutti i suoi compaesani, cinguetta di notte con un uccellino, come un dialogo possibile tra due specie viventi, pur differenti.

Ma anche quando si vedono i corpi morti, tra i poveri resti della traversata, nella stiva dell’imbarcazione alla deriva. “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film il cui significato “politico” supera il talento artistico. Un Orso d’oro a Berlino assolutamente meritato.

Che pone, tuttavia una questione stringente quanto drammatica: è giusto che lo scontro politico sull’immigrazione in Europa si giochi tutto tra chi vuole respingere quei corpi e chi vuole accoglierli? Tutto qui? Ma quelle non sono forse persone, popolazioni, moltitudini di uomini e donne in fuga non tanto da guerre e carestie, quanto piuttosto proprio dal nostro sistema economico, politico, militare, che quelle carestie, epidemie e guerre ha creato nelle loro terre, nazioni, patrie? Non è forse il “nostro stile di vita” che li ha ridotti in miseria prima e poi schiavi in fuga della povertà più dura?

Quello stesso nostro sistema che li ha costretti all’esodo in massa, oggi pretende di decidere di nuovo sui loro destini: o inglobandoli nella catena del comando del valore (leggi: integrazione) o escludendoli definitivamente dal diritto di vivere su questo pianeta (leggi: respingimenti, filo spinato, muri). Non sono cittadini: sono corpi. O buoni per produrre o scarti da ributtare da dove son venuti.

“Fuocoammare” dice molto proprio perché non ha la pretesa di dire qual è il vero problema, ne rimane distante, come distanti dalla terra di Lampedusa vengono tenuti i migranti dalla “missione Frontex”: quelle barche di dannati non toccano più terra, non incontrano più gli abitanti dell’isola. Quelle barcacce vengono fermate in mezzo al mare: quelli che sono vivi, vengono fatti trasbordare su imbarcazioni militari, rianimati, portati in strutture di raccolta, come corpi estranei alla terra verso cui di sono imbarcati. I corpi di quelli morti vanno alle autopsie dentro sacchi neri.

“Fuocoammare” ci sbatte in faccia che non basta salvare i salvabili. Ci ricorda che in quei corpi ci sono persone, culture, idee, desideri, dolori, paure, speranze, sogni, tenerezze.

Ci dice che i naufraghi siamo noi: le nostre leggi, i nostri valori, la nostra società, il nostro modo di vedere il mondo sono alla deriva. È il naufragio dell’Europa come entità politica, ma anche come identità culturale. Andate a vedere “Fuocoammare”. È bello da vedere, è importante da capire. Dobbiamo capire cosa dobbiamo fare di noi. Beh, buona giornata.

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Quello che Papa Francesco non ha mai detto sull’Argentina.

16 metri quadri, romanzo. Dall’orlo di un cratere erotico al ventre del vulcano nell’inferno argentino

di Riccardo Tavani

Il protagonista maschile di questo ultimo sconvolgente romanzo di Gianni Perrelli si chiama SergioTarantini. Nato a Buenos Aires è stato allevato fin da bambino a Roma.
Senza madre – da solo con il padre Atilio –, dalle sponde del Rio de La
Plata si è ritrovato su quelle del Tevere.

Sul Tevere affacciano i 16metri quadri del titolo nei quali Sergio si è murato vivo per cercare di dare una forma comprensibile al magma interiore che lo devasta. Sergio, infatti, ha camminato sull’orlo di un cratere ed è precipitato poi dentro il magma ribollente nel suo ventre.

Il personaggio femminile si chiama Carlotta. Anche lei nata a Buenos Aires ma lì cresciuta, in una famiglia agiata e in una casa molto
confortevole. Anche lei allevata quasi soltanto dalla figura del
padre, poiché con quella della donna-madre-padrona è arrivata presto
a incarcerare ogni moto d’affetto. Viene a Roma perché ha il
progetto di realizzare un documentario. Qualcuno la indirizza verso
Sergio.

Eccolo, dunque, Sergio, già semi bendato, sull’orlo del cratere
inquieto. Carlotta è quell’orlo. L’orlo di un erotismo
vertiginoso. All’esterno, lo spettacolo di una bellezza femminile,
giovanile che Sergio non ricordava di aver mai visto in Italia, ma che
forse doveva portarsi sepolto dentro dai suoi pochi anni in Argentina.
All’interno, un buio caratteriale, psicologico, ma tutt’altro
che un vuoto, poiché si ode un movimento, un salire e scendere di un
magma buio ma denso di gas, potenza, temperatura proibitiva.

Carlotta è anche La fuggitiva, proprio nel senso che Proust
dà alla sua Albertine scomparsa. La gelosia immaginativa di Sergio
offre squarci improvvisi della gelosia febbrile di Marcel, ma nello
sfondo più lacerato, nel brusio insensato, nella lingua anch’essa
più fuggitiva delle capitali odierne.

A ogni nuova fuga di Carlotta e – soprattutto – a ogni sua nuova
riapparizione aumenta la condizione di accecamento sull’orlo del
cratere di Sergio, fino al buio totale. Carlotta fugge alla stazione
Termini. Lui la insegue, la raggiunge qualche minuto prima del
fischio del capostazione. “Me ne vado per sempre”, gli dice.
“Perché?”, domanda Sergio. “È così, sono una persona
libera, sono incinta”. Sergio rimane da solo sulla banchina.
Dentro il treno che parte c’è Carlotta. Ma il figlio dentro di lei
di chi è? È il buio più totale, è la caduta, il volo dall’orlo del
cratere verso il fondo del suo magma oscuro.

Il ventre nero, ribollente del vulcano è Buenos Aires. Sergio vi torna,
dopo tanti anni, consciamente alla ricerca della fuggitiva e di quel
figlio suo. “Suo” di chi? Solo di lei? O anche di lui? Ma sa
che inconsciamente sta cercando di svelare un altro mistero, ancora
più originario: il suo di passato, la sua di origine, le tracce della
sua di madre. Inghiottita un giorno nei gironi infernali del sistema
di sequestro, tortura ed eliminazione messo in piedi dalla dittatura
militare, di quella donna nessuno ha saputo più niente.
Di Alicia Domenech, architetta rinomata, grande donna di azione e di pensiero, da tutti ammirata e apprezzata per il suo alto lignaggio umano e morale, non resta più neanche la più vacua ombra di memoria. Solo tre vecchie foto, portate via dal marito Atilio nella fuga precipitosa verso l’Italia, per salvare il loro bambino, Sergio.

Qui Perrelli, attraverso il suo personaggio, entra davvero nel
ventre buio di un inferno e ricostruisce una grande agghiacciante pagina di storia,
restituendole, fin nei dettagli, tutta la dimensione d’immane
tragedia consumata, attraverso i crimini più spietati, dalla follia
del potere costituito contro l’umanità. Sequestro, sparizione e reclusione dentro i
tunnel di tortura della Escuela Mecanica de la Marina (ESMA) o dei
vari Garage Olimpo diffusi per il paese; trasbordo collettivo su aerei
Electra o Skyvan PA-51; apertura del portellone posteriore o ventrale;
rovesciamento istantaneo del carico umano, semi-tramortito e denudato, in
alto Oceano Atlantico. I famigerati “vuelos de la muerte”.

A tutto questo deve aggiungersi l’ultimo orrido tassello, il
picco di follia concepito è consumato da tale sistemico ingranaggio.
Lo strappare i neonati alle puerpere, prima di scaraventarle in
mare, per donarli come prede da adottare alle famiglie del vertice degli
aguzzini che gli avevano scannato le madri e anche i padri.

Perrelli ci guida passo passo dentro questo claustrofobico
strazio, facendocelo sentire come un micidiale pugno che ci arriva
direttamente “dentro” lo stomaco.

E la consistenza inconsistente di un fantasma incancellabile assume ora per Sergio la figura di sua madre Aicia Domenech. Piegata a strisciare sulla soglia tra l’umano e il subumano – come John in Non avrai altro dio – lei mantiene elevato il suo lignaggio umano nel precipizio di quel sotterraneo di segregazione e tortura.

16 metri quardri, di Gianni Perrelli.
16 metri quardri, di Gianni Perrelli.

Non gli sarà stato sufficiente, però, essere scivolato dall’orlo erotico del cratere al magma ribollente nel suo ventre. Un altro assordante, allucinato giro di vite – per dirla con Henry James – lo attende.

Proprio come Marcel Proust nelle ultime righe del Tempo Ritrovato, così anche Sergio Tarantini, alla fine di tutto, potrà affermare la sua capacità di scrivere quel romanzo folle che è stato la sua vita. Il romanzo scritto nella clausura forzata di 16 metri quadri: vero e proprio confessionale e camera di tortura.

E la fine è un salto dentro l’abisso racchiuso in un semplice click. (Beh, buona giornata.)

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Se l’inglese diventa un trucco del governo.

C’è una vecchia storiella che parla di un emigrante italiano in procinto di partire per la Gran Bretagna, al quale un amico del suo paese di provincia insegna che l’inglese è come l’italiano, basta parlare lentamente, molto lentamente. Sicché il nostro arriva a Londra, entra in un bar e chiede molto, ma molto lentamente un caffè. Molto lentamente, ma molto lentamente il barman gli risponde chiedendogli come desidera sia fatto il caffè: corto o lungo? Macchiato caldo o freddo? In tazzina o al vetro? Sorpreso, l’emigrante chiede , molto, molto lentamente al barista: ” Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?”.

Dal che si evince, parafrasando un’uscita del celebre Totò, che ogni lingua ha una pazienza.

Dunque rivolgerò lentamente, ma molto lentamente una domanda a chi ha escogitato il trucco semantico che per dire “non vi do un a lira” dice invece “fiscal compact”. La domanda è: perché non parli come tagli?

Anche recentemente, il trucco di mascherare in inglese cose sgradevoli da dire in italiano riguarda, guarda caso, le classi sociali meno abbienti.

Perché chiamare “spending review” il taglio dei soldi alla Sanità, all’Istruzione, ai trasporti pubblici?

Perché chiamare Job Act il peggioramento normativo della condizione del lavoro dipendente, invece che, parafrasando il Belli, “io (imprenditore) sono io e voi (lavoratori) non siete un cazzo”?

È vero che la lingua italiana è sempre stata la lingua delle classi alte, quindi del potere, o meglio dei poteri, per cui tutte le cose importanti vengono ancora oggi scritte e dette con quell’accurata capacità di intimorire, più che farsi capire: basti pensare al linguaggio giuridico, a quello medico, a quello finanziario.

In effetti, oggi sembrerebbe che l’uso della lingua inglese sia come quello del latino ai tempi della nascita del volgare: una roba da pochi eletti, mica da tutti gli elettori.

E allora, invece che spernacchiare, sia pur a ragion veduta, l’uso goffo dell’inglese maccheronico dei nostri politici, dovremmo preoccuparci di come vengono chiamate le leggi.

Non è una questione di purismo linguistico, né di protezionismo sintattico, men che meno di nazionalismo della grammatica. Se una cosa è giusta, bella e fatta bene, sicuramente viene nominata, raccontata, spiegata con semplicità in una lingua a tutti comprensibile.

Al contrario, se si usano artifici linguistici, forzature semantiche, sforzi pirotecnici atti a stupire invece che dialogare; se si fa ricorso a stereotipi e slogan anglofoni, che spesso risultano maccheronici, come un tempo fu il latinorum, allora forte è il puzzo dell’inganno.

Se la lingua inglese diventa la lingua della propaganda del governo, per dire cose che si vergognerebbe di dire in italiano, la domanda che pongo lentamente, molto lentamente è: “Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?” Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Italia 2014, la guerra civile tra i poveri.

Cronaca in diretta di un testimone della sparatoria e dei fatti avvenuti il 13-14 luglio a Castel Volturno

di Gian-Luca S. Castaldi-3dnews.it

A Castel Volturno, nel quartiere di Pescopagano, la sera del 13 luglio 2014 (ore 20:00) due ragazzi originari della Costa d’Avorio sono stati feriti con un’arma da fuoco, a seguito di una lite con due italiani. I nomi dei due ragazzi sono YUSSIF BAMBA (35 anni) e NICOLAS GYAN (37 anni). La ragione della lite è stata molto superficiale. Yussif stava trasportando una bombola di gas ed è stato fermato da due italiani, Pasquale Cipriano (padre) e Cesare Cipriano (figlio), proprietari di un’agenzia di vigilanza privata. Questa agenzia, tra l’altro, non è neanche registrata: legalmente non esiste. I due sono scesi dalla macchina ed hanno cominciato a minacciare Yussif chiedendo dove avesse preso quella bombola. Infatti i due Cipriano, oltre a gestire un controllo privato ed abusivo della zona, vendono bombole del gas, e pensavano che il ragazzo avesse rubato la bombola, dato che non l’aveva comprata da loro. Il ragazzo ha insistito a ripetere che la bombola non l’aveva rubata a loro, ma che era sua, e allora Cesare Cipriano (figlio) lo ha aggredito. Nicolas, connazionale di Yussif, è intervenuto per aiutare l’amico, finché i due aggressori non sono scappati con la macchina. Una volta che la macchina si è allontanata, Nicolas ha chiesto a Yussif cosa fosse successo, e mentre quest’ultimo raccontava, la macchina è tornata. Dentro c’era solo Cesare Cipriano, che ha aperto il fuoco ed ha sparato ad entrambi ferendoli alle gambe.

Sul luogo, a quasi trecento metri, c’eravamo noi come Caritas Caserta. Infatti, io e Osman (mediatore culturale della Caritas) eravamo lì per le attività del Progetto Presidio di Caritas Italiana. Entrambi siamo intervenuti in tempo, l’ambulanza è giunta in pochi minuti. Tuttavia è stata questione di pochi minuti anche prima che si creasse un buon numero di immigrati africani che si è messo prima ad urlare e poi a gettare l’immondizia che stava ai bordi delle strade per creare la prima barricata. C’erano frigoriferi dismessi e mobili rotti, e quindi è stato veramente un attimo. La sede dell’agenzia di vigilanza privata, infatti, si trova a meno di 200 metri dal luogo dove è avvenuto il tutto: gli immigrati volevano impedire l’arrivo delle forze dell’ordine per poter correre all’agenzia e farsi vendetta da soli. Dopo altri pochi minuti, la seconda barricata è stata tirata su proprio oltre la sede dell’agenzia privata, chiudendo la strada da entrambi i lati.

L’arrivo dei carabinieri è stato, mi suole dirlo, tanto lento quanto inutile. Avevano paura ad avvicinarsi e non riuscivano a comunicare con nessuno. Io e Osman abbiamo cominciato a mediare, calmando i migranti. Alla fine siamo riusciti ad ottenere che una delle due barricare si aprisse per far passare le ambulanze e i carabinieri. Una volta portati via i ragazzi feriti, tuttavia, il clima si è fatto sempre più caldo, e il numero dei migranti scesi in piazza era aumentato notevolmente, saranno stati già un 150. Abbiamo continuato a mediare, spiegando ai migranti che dovevano calmarsi e lasciare che i carabinieri arrestassero i due italiani. Ma non ci siamo riusciti, perché ormai i migranti avevano deciso di bruciare le macchine dell’agenzia e l’ufficio.

Pochi minuti dopo la macchina che si trovava di fronte all’ufficio era già in fiamme, e poi i migranti hanno cominciato a sfondare la saracinesca e la porta di entrata dello stabile. Sono entrati ed hanno dato fuoco a tutto. Il problema si è aggravato quando ci siamo accorti che al piano di sopra c’erano delle persone, tra cui una ragazzina, e che nel cortile di dietro, tutto in fiamme, macchine, un furgone e soprattutto molte bombole del gas. Io e Osman ci siamo messi ad allontanare i migranti, per evitare la tragedia e lasciare che chi fosse al piano di sopra potesse scappare. Ci siamo riusciti, anche se nel trascinare fuori i migranti inferociti, uno non mi ha riconosciuto e mi ha prima colpito alla testa da dietro facendomi cadere a terra e poi preso a calci mentre tentavo di rialzarmi. Osman, nel frattempo aveva chiamato di nuovo l’ambulanza, perché un ragazzo era rimasto ferito e perdeva molto sangue. Non è riuscito a convincere i migranti a fare aprire di nuovo la barricata, e quindi ha trascinato il ragazzo ferito fino all’altra parte, in modo che l’ambulanza potesse portarlo via. L’esplosione del gas è avvenuta, per fortuna, che eravamo riusciti a far uscire ed allontanare tutti.

Mentre tutto questo avveniva, è arrivata anche la Squadra Mobile della Polizia. Io e Osman cercavamo di mediare e di mantenere calmi gli animi, per evitare che il tutto degenerasse ulteriormente. Tuttavia tra di loro non trovavo nessuno con cui interloquire autorevolmente e quindi ho provveduto a chiamare il dott. Vola Mario, della Squadra Mobile. Lui ci conosce da anni ed è il nostro punto di riferimento per la lotta allo sfruttamento lavorativo. Mi ha assicurato che avrebbe informato l’ispettore capo addetto della mia presenza e che mi avrebbe fatto trovare. Così è avvenuto. Dopo pochi minuti mi ha telefonato l’ispettore capo Alessandro Tocco, chiedendomi della situazione e suggerimenti sul da farsi. Mi disse che stava mandando qualche decina di agenti, in tenuta anti-sommossa, e allora io l’ho sconsigliato. Gli ho detto che sarebbe stato l’inizio della fine, che uno spiegamento di forze avrebbe solo fatto peggiorare ulteriormente la situazione, aumentando sia il numero dei migranti che la loro rabbia. Gli ho detto apertamente: meglio lasciare che bruci una casa che rischiare una città intera in fiamme. Mi ha dato ascolto e non ha mandato gli agenti che aveva preparato. Come avevo previsto, infatti, bruciata la casa e fatto esplodere il tutto, la rabbia ha cominciato a scemare, e la mediazione è diventata più facile, anche perché alcuni migranti si erano resi conto che se non li avessimo fatti uscire in tempo l’esplosione avrebbe certamente ferito molti di loro se non peggio. Insomma, ora ci ascoltavano un po’ di più.

Nel frattempo ci ha richiamati l’ispettore capo Tocco e ci ha riferito che Pasquale e Cesare Cipriano erano stati entrambi arrestati ed ora si trovavano in Questura a Caserta. Io ed Osman abbiamo subito comunicato la notizia ai migranti, sapendo che questo avrebbe aiutato ulteriormente a calmare gli animi. Nell’occasione, ho ringraziato l’ispettore di aver seguito il mio consiglio e di non aver inviato gli agenti anti-sommossa: la situazione si stava scemando, come gli avevo garantito che sarebbe successo sin dall’inizio. Nel giro di un paio d’ore siamo poi riusciti a disperdere i migranti, che però minacciavano rappresaglie per il giorno successivo.

A questo punto, la prima cosa che io ed Osman abbiamo fatto è stato avvertire un po’ tutte le realtà associative che lavorano sul territorio: il centro sociale “Ex-Canapificio”, Emergency, R.E.S. ed altri. Infatti, siccome il tutto è avvenuto in una domenica sera, nessuno era in giro, e il risultato è stato che io ed Osman ci eravamo trovati completamente soli a gestire una situazione al limite della follia. In secondo luogo, abbiamo subito convocato alcuni dei leader del Movimento dei Migranti e Rifugiato, che è molto forte ed organizzato sul territorio, chiedendogli una buona presenza per il servizio d’ordine il giorno successivo. Infine, l’ispettore capo Tocco ci aveva chiesto di non lasciare Castel Volturno ma di rimanere in giro, assicurandoci la presenza di volanti il giorno successivo, e dunque io ed Osman abbiamo passato la notte a convincere i migranti a non fare follie il giorno successivo,a calmare gli animi e a rassicurare.

La mattina del 14 luglio, alle 8 del mattino, la situazione era calma. Il Movimento dei Migranti e Rifugiati si era ben organizzato ed era presente in un buon numero per garantire supporto logistico e servizio d’ordine. Quindi, io e uno dei loro leader, Doe Prosper, ci siamo recati al pronto soccorso di Castel Volturno per assicurarci sullo stato di salute dei due ragazzi feriti. Entrambi stavano abbastanza bene. Avevano estratto le pallottole e non vi erano complicazioni cliniche. E’ stato parlando con loro che abbiamo capito bene la dinamica della lite e tutto il resto. Siamo dunque tornati nel quartiere di Pescopagano, dove ci aspettava già l’ispettore capo Tocco. La situazione era tranquilla, e dunque ci ha chiesto di accompagnarlo al pronto soccorso per prendere la deposizione dei ragazzi e tradurre. Così abbiamo fatto.

Tornati nuovamente a Pescopagano, ci siamo accorti che erano arrivati un buon numero di giornalisti. Ci siamo attivati a spiegare la situazione e a evitare nuovi allarmismi sul territorio. Tuttavia, l’arrivo dei giornalisti ha infastidito la popolazione locale italiana, che si è radunata in un centinaio di manifestanti che hanno bloccato la Domiziana. Volevano che i giornalisti prendessero anche la loro versione. E la retorica è sempre quella: non ce la fanno più, troppi stranieri, lo stato non c’è eccetera eccetera…

Questa manifestazione d’italiani residenti, tuttavia, è stata una provocazione per la popolazione straniera, che ha cominciato di nuovo a scaldarsi. Alcuni migranti hanno rialzato una barricata, a cui gli italiani hanno risposto con un’altra barricata. La strada principale di Pescopagano, la vena che divide la città in due e l’attraversa da un capo all’altro era divisa in due, barricata degli italiani e barricata degli africani. Forze dell’ordine nel mezzo. La tensione era altissima. Tra gli italiani si cominciava a dire che bisognava iniziare da noi, da quelli delle associazioni, della Caritas, da quelli che “difendono i negri” eccetera eccetera. Quindi abbiamo deciso di esporci un po’ di meno, e di levarci i gilet con i loghi del Progetto Presidio – Caritas Italiana, ed hanno fatto lo stesso anche quelli di Emergency ed altre associazioni.

Per fortuna siamo riusciti a fare in modo che i migranti non aumentassero troppo di numero e a quindi a calmarli. Ci sono volute ore, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Dopotutto, a differenza della sera prima, eravamo molti di più a controllare la situazione e a mediare.

Nel frattempo, l’ispettore capo Tocco mi ha confermato che solo il figlio, Cesare Cipriano, era tornato indietro con la macchina a sparare. Lo ha confermato anche Yussif in ospedale. E quindi il padre, Pasquale Cipriano, pregiudicato, che era stato arrestato in questa occasione per concorso in tentato omicidio, verrà rilasciato al più presto. Io ho comunque fatto notare che quasi tre mesi fa accompagnammo un altro immigrato ghanese, Martin Kwadwo, a denunciare un aggressione d’arma da fuoco. Anche a lui spararono alla gamba. In quella occasione, dopo l’aggressione, gli stessi padre e figlio Cipriano andarono da un altro immigrato, Hassan, a minacciarlo dicendoli letteralmente che dovevano stare tutti attenti, perché se no sarebbero finiti tutti come quel ragazzo “a cui è stato sparato”. Nella denuncia noi avevamo specificato tutto. Non so se questo avrà un ruolo nelle indagini e nel processo che ne seguirà. Oggi è il 15 luglio. Non so cosa può succedere, ma spero che il picco di tensione sia ormai passato. (Beh, buona giornata).

Ancora scontri a Castel Volturno tra migranti africani, braccianti stagionali e cittadini italiani che mal sopportano la loro presenza in città.
Ancora scontri a Castel Volturno tra migranti africani, braccianti stagionali e cittadini italiani che mal sopportano la loro presenza in città.

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Micaela Latini: “Hannah Arendt, della von Trotta

Micaela Latini commenta il film “Hannah Arendt”
di Margarethe von Trotta

Il coraggio del pensiero contro la produzione indifferente del male

Il dislivello prometeico di Anders e il Totum come Totem di Adorno
di Riccardo Tavani

L’incontro con la professoressa Micaela Latini è davanti a due tazze bollenti di squaglio fondente al 75%, con guarnizione di panna fresca, in una vecchia (ora magnificamente restaurata) cioccolateria del quartiere San Lorenzo a Roma. Lei ha visto il film lo scorso anno, appena uscito in Germania, a Monaco. Io lo vedo questo 27 gennaio 2014, in una proiezione speciale, in occasione della giornata della memoria al Cinema Farnese, dove adesso è in programmazione tutti i giorni alle 15,30.

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

La professoressa Latini è anche una delle maggiori studiose italiane dell’opera filosofica di Günther Anders, che è stato anche il primo marito di Hannah Arendt. Ustionandosi il palato con una sorsata di cioccolato bollente, mi dice senza mezzi termini, che è una vera vergogna che questo film venga proiettato con grande successo in tutta Europa e in Italia sia programmato solo in poche sale e per pochi giorni.

Una pellicola interamente al femminile, per la regia di Margarethe von Trotta, la sceneggiatura di Pam Katz e la sensibile interpretazione dell’attrice polacca Barbara Sukowa.
Aspettando che il cioccolato incandescente si raffreddi un po’, cedendo calore alla conversazione, la professoressa mi ricorda come la Arendt, anche in quanto ebrea, si sia trovata al centro di eventi storici cruciali. Fuggita dalla Germania nazista a Parigi, visse la vita dei suoi connazionali nei campi profughi, trasformati poi in campi di prigionia dopo l’invasione tedesca della Francia.

Riparò, come molti altri importanti pensatori e lo stesso Anders, negli Stati Uniti, dove sposò in seconde nozze il poeta e filosofo Heinrich Blücher. Il film di Margarethe von Trotta ritrae la Arendt in questo suo periodo americano degli anni ‘50, diviso tra la vita familiare, lo studio, l’insegnamento, l’incontro con i suoi amici tedeschi espatriati (la cosiddetta altra Germania) e diverse figure di intellettuali americani, tra le quali la scrittrice Mary McCarthy.

Il film passa continuamente dall’uso del tedesco a quello dell’inglese, e non solo per una ragione di realismo storico. In quegli anni, infatti, ricorda Latini, si è sviluppato un dibatto sulla lingua tedesca come lingua del male. “Non è la lingua tedesca a essere impazzita!” dirà poi Arendt in un’intervista rilasciata proprio alla televisione del suo Paese,

Micaela Latini nota che il film, innanzitutto, evidenzia bene la differenza tra la Arendt e gli altri pensatori di quel momento storico, e non parliamo della Germania e dell’Europa, dove dominava la rimozione e il silenzio sulla Shoa. Prova di questa rimozione è proprio silenzio del maestro e primo amante di Hannah Arendt, Martin Heidegger. A questo grande filosofo tedesco, che aveva aderito al nazismo, molti avevano chiesto, alla fine della guerra, di pronunciare una parola critica sulla sua scelta, ma lui non la pronunciò mai.

Differenza, quella di Hannah, coniugata in termini di coraggio etico del suo pensiero, e questo lo scandisce bene una secca battuta di dialogo della McCarthy, scagliata in faccia agli intolleranti quanto pavidi critici della Arendt, nel momento di massima aggressione che subì a seguito delle sconvolgenti pagine che scrisse sul processo Eichmann.

Hannah Arendt, infatti, è inviata dall’importante rivista New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo intentato dallo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, rapito nel 1960 dagli agenti del Mossad a Buenos Aires, dove si nascondeva sotto falsa identità, dopo essere sfuggito al Processo di Norimberga. Il resoconto che più tardi la Arendt farà del processo e della figura di Eichmann, in particolare, sulle pagine del New Yorker e del suo libro La banalità del male determinarono uno shock e una controversia irriducibile dentro la stessa comunità ebraica, alla quale anche lei apparteneva per nascita.

La pellicola inserisce all’interno della sua ricostruzione scenica le immagini vere, in bianco e nero, di Eichmann che si difende nel processo di Gerusalemme, al quale la Arendt assiste di persona. Ciò conferisce all’opera una particolare forza storica e, paradossalmente, un riverbero quasi sperimentale, simile a

L’Istruttoria, di Peter Weiss, che vedeva inserite, dentro il testo teatrale, le vere parole pronunciate dai testimoni nel processo di Francoforte del 1963 contro le SS e i funzionari del Lager di Auschwitz.

Micaela Latini sta approfondendo, con i suoi studenti, proprio nell’anno accademico in corso, i temi delle spaventose ecatombe consumate nella modernità, dall’Olocausto alla bomba atomica su Hiroshima. Quello che la Arendt coglie del processo di Gerusalemme e dall’enorme mole di atti giudiziari che studia approfonditamente è l’aspetto strutturale, di efficienza burocratica, amministrativa, da catena di montaggio della morte come produzione industriale strategicamente pianificata. È un aspetto, questo, che non può essere ridotto in nessun modo alla mostruosità di un singolo per quanto malefico individuo.

È il sistema in sé, quello che Theodor Wiesengrund Adorno (anche lui esule in America) chiamerà poi il Totum a costituire il Totem della cieca obbedienza, ai fini di un’efficiente esecuzione dei compiti da assolvere all’interno della divisione gerarchica. Eichmann era semplicemente un tenente colonnello, dunque neanche uno dei ben più elevati gradi militari ai quali obbediva. A una precisa domanda, risponde che avrebbe ucciso anche il padre se avesse tradito il e glielo avessero ordinato.

Di fronte alle contestazioni dei giudici sul metodo criminale di trasporto degli ebrei rastrellati, l’ufficiale risponde che il suo reparto si occupava solo delle quantità e dei tempi del trasporto, non delle modalità che erano affidate al Reparto U-4, sulle cui decisioni lui non poteva influire. Egli, afferma, con la massima serietà: “non ho mai personalmente torto un capello a un solo ebreo”.

Quello che la Arendt cerca di spiegare ai suoi studenti a New York è il vero aspetto del male assoluto rappresentato dalla Shoa: quello di privare l’essere della propria singolare umanità. Un aspetto ripreso poi anche da Primo Levi che nella sua opera parla della riduzione, praticata nei campi di sterminio, dell’umano al sub-umano, dell’oscena nudità dell’essere spogliato di ogni proprio sé.

La stessa spoliazione, la stessa negazione, però, il Totum sistemico la pretende dai propri addetti in stivali e divisa da militari, o in giacca e cravatta da funzionari. Vi è un parallelo, nota Latini, con il processo di alienazione descritto da Marx a proposito del sistema produttivo capitalistico.

Nelle sue lettere a Gershom Scholem, ricorda Latini, la Arendt scrive che il male non è radicale ma estremo, non possiede né profondità né connotazione demoniaca, ma è come un fungo. Alla stessa stregua Ingeborg Bachmann parlerà di un virus e si domanderà dove si sia annidato nel presente quello del nazismo. Un fungo che può attecchire nell’humus del mondo, ma il pensiero che lo cerca alla radice non riesce a coglierlo.

Solo il bene è profondo e radicale, il male è sempre orizzontale, si fa concrezione di superficie. Per questo lei rimane stupita e sconvolta dalla mediocrità dell’omuncolo Eichmann, dal suo essere anodina vite dell’ingranaggio che gli toglie ogni senso, restituendogli mera funzione esecutiva.

Questa indifferenza funzionale, indipendente dall’attività che si svolge, secondo Anders, è la connotazione moderna del peccato, così come originariamente intuito dal cristianesimo. È quello che lui chiama dislivello prometeico tra produzione e immaginazione, nel senso che quest’ultima non riesce mai raffigurasi il male che conseguirà a tale indifferenza produttiva.

È proprio questa, spiega la professoressa Latini, non la mostruosità, la dimensione abissale, ma la banalità del male, espressione che Hannah Arendt conierà come una delle più sinteticamente affilate di tutto Novecento. Lo choc causato dalla lettura delle pagine da lei firmate sul New Yorker scuote anche l’intera comunità ebraica americana, europea e israeliana.

L’indicazione del male come sistema riguarda anche i capi delle comunità ebraiche che collaborarono – come storicamente è provato – con i nazisti. La Arendt arriva ad affermare che se la strutturazione gerarchica delle comunità le aveva storicamente preservate, non esiste, allo stesso tempo, alcun dubbio che sarebbe morto un numero enormemente inferiori di ebrei se non ci fossero stati questi capi nell’occasione della Shoa.

Il Novecento fa emergere alla superficie tale aspetto prima inesplorato e non agito di Prometeo, come produzione orizzontale e non più controllabile, immaginabile del male.

Si rivoltano contro di lei le stesse radici ebraiche e filosofiche nelle quali affonda la sua formazione di studiosa, rappresentate nel film dai personaggi di Kurt Blumenfeld e Hans Jonas, quest’ultimo suo compagno di studi a Marburgo, dove aveva presentato Hannah ad Heidegger. Proprio Jonas, sottolinea Latini, per la sua internità alla comunità ebraica e allo stato di Israele, sarà poi il maggiore accusatore della vecchia e adorata compagna di formazione.

La loro è una vera e propria diaspora conflittuale che caratterizza tutta la comunità ebraico tedesca, cresciuta all’idea di tolleranza di Lessing e schiacciata poi dall’intolleranza nazista.

La Arendt fa prevalere, però, sempre la sua dimensione di filosofa tedesca, europea di fronte a quella pure profondamente intima di ebrea.

La dimensione pubblica in relazione a quella privata, anzi, il loro corto circuito, precisa Latini, è uno dei poli decisivi dell’intera filosofia della Arendt. Il rapporto controverso con il maestro ripudiato è drammaticamente rappresentato dalla von Trotta con dei salti temporali, in questa parte del film, nella quale la grande filosofa si ritira dalla sua casa di New York, per sottrarsi alla tempesta di critiche, insulti, ruvide pressioni e intimazioni di censura, abiura che si abbattono da ogni parte su di lei.

Questo ritrarsi, però, è anche un immergersi più profondamente nel dialogo interiore del pensiero, per tornare, poi, da autentica filosofa tra gli uomini. In una delle sue opere fondamentali, Vita Activa, Hannah Arendt ha paragonato il primo atto politico allo stesso atto teatrale: quello di presentarsi davanti all’agorà, sulla scena dell’agone collettivo, prendere la parola ed esporsi al giudizio critico del pubblico e al dialogo con esso.

È esattamente quello che vediamo, dice Micaela Latina, rappresentato sullo schermo dalla von Trotta. Hannah Arendt si presenta nell’anfiteatro a gradinate dell’aula magna della scuola, gremito dai suoi studenti e dai professori ostili. Chiede teatralmente all’uditorio il permesso di accendersi una sigaretta e mette in scena questo atto che è estetico e insieme etico, politico, come spiega bene Elena Tavani nel suo importante libro Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo.

"Hannah Arendt", di Margarete von Trotta.
“Hannah Arendt”, di Margarethe von Trotta.
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte. In basso: Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

Una lieve pellicola di cioccolato secco rimane sulle pareti delle nostre tazze ormai fredde, e noi dovremmo ordinare un bis, per approfondire molti altri aspetti che il film fa balenare.

Neanche l’atto dell’interpretazione può essere, però, per Micaela Latini, totemico e prometeico, in quanto anch’esso si espone all’agorà pubblica nella forma di un dialogo critico ed etico sempre aperto al senso di verità e meraviglia. (Beh, buona giornata “della Memoria”.)

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Sugar Man, alla ricerca del poeta perduto.

Quando Einstein chiamò lo spazio-tempo “quella bobina cinematografica”

di Riccardo Tavani

Dove è scritto “genere: Documentario” dovete sostituire con “classe: Capolavoro”. La vittoria dell’Oscar holliwoodiano e del Bafta, il prestigioso premio dell’Accademia Cine Tv Britannica, entrambi come “Miglior Documentario 2013”, sono un riconoscimento mai tanto giusto e mai tanto riduttivo allo stesso tempo. Una pellicola va riconosciuta per la qualità della sua storia e della sua forma artistica, indipendentemente dal fatto che sia una fiction o un documentario. Anzi, andrebbe sempre ricordato che la vera precipua caratteristica del cinema è più nella presa diretta con la realtà che nella finzione narrativa, essendo quest’ultima di evidente derivazione letteraria e teatrale, ovvero di media comunicativi antichi che non rappresentano in sé la specifica modernità del cinema.

Il titolo originale del film è Searching for Sugar Man, ovvero “Alla ricerca di Sugar Man”, e mai titolo fu più azzeccato nel riecheggiare il titolo della grande opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. La ricerca del poeta, del profeta, del musicista cantante perduto di cui narra questo film è davvero una ricerca che riguarda in maniera sconvolgente il senso del tempo, soprattutto inteso come senso della memoria, del destino e del reciproco riconoscersi, restituirsi la voce e rendersi piena giustizia. Una giustizia che si presenta nella forma di una caparbietà del destino che si mantiene salda nel sottosuolo delle coscienze e della storia umana, intese entrambe come scenario dell’esistenza nel quale si succedono eventi, popoli e individui e si smarrisce progressivamente la memoria di essi.

Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
La vicenda vera del poeta cantante smarrito Sixto Rodriguez nel farsi film, pellicola cinematografica, opera d’arte per lo schermo, non fa che manifestare la sua vera, profonda natura di film che in se stessa già da sempre essa è, al pari di molte altre misconosciute, trascurate, obliate od occultate vicende di umana storia, cronaca e quotidianità. Anzi, potremmo dire che quella di Sixto è l’emblema stesso dell’essere ogni singola, perduta vicenda esistenziale già avvolta e salva dentro il film, la bobina cinematografica di ciò che chiamiamo “tempo”.

Il paragone tra la bobina cinematografica e il piano esistenziale di tutti gli eventi fisici che accadono nell’intero Universo non è di un filosofo in senso stretto. È invece del padre della fisica moderna Albert Einstein, secondo il quale tutti gli eventi universali giacciono in una dimensione di contemporaneità, simultaneità, ovvero senza passato o futuro, proprio come dentro la bobina di un film. In una pellicola cinematografica tutti i fotogrammi e le scene che essi formano sono già tutti da sempre presenti, ovvero si possono dare soltanto come presente. Il passato e il futuro sono fittizi, ovvero sono relativi alla successione nelle quali noi le guardiamo.

Eppure questa visione di Einstein ha molto a che fare proprio con il senso più profondo e originario della filosofia. A rivelarlo e farlo notare allo stesso scienziato fu Karl Popper, uno dei più grandi filosofi ed epistemologi del ‘900. Popper contestò ad Einstein che la sua visione dell’Universo e del tempo fosse esattamente quella di Parmenide, il padre del primo grandioso e sorprendente sguardo della filosofia greca sul mondo. Popper, nella sua polemica, arrivò a rivolgersi ad Einstein chiamandolo direttamente ‘Parmenide’, cosa che Albert accettò immediatamente e ben volentieri.

Per Parmenide la stessa semplice forma verbale ‘è’ sta come irreversibile dimostrazione logica e ontologica che il Nulla non può darsi in nessun modo, al pari del divenire, del trasformarsi del mondo, dato che tutto è già da sempre e per sempre come eterno presente. L’Universo è una sfera illimitata ma non infinita, perfettamente chiusa, compatta e connessa nella totalità dei suoi eventi. Proprio come in Einstein, l’evento più remoto e invisibile è connesso nel presente a quello più vicino e apparente, perché essi giacciono sullo stesso piano spazio-temporale.

È quello che succede con il long play Cold Fact, inciso negli anni ’70 da un operaio edile con una vena poetica e musicale che non ha niente da invidiare a Bob Dylan ma che non ha il suo stesso successo, anzi, non ne ha per niente e per questo viene licenziato dalla sua etichetta (cosa che Rodriguez aveva profeticamente previsto in anticipo in una sua canzone persino nel giorno del licenziamento). Una sola copia del disco finisce per caso in Sud Africa ai tempi dell’apartheid e comincia – nonostante sia messo sotto severissima censura – a diffondersi clandestinamente tra i giovani della classe bianca e colta che contestavano il regime. Quelle parole e quei profondi ritmi blues alimentano la loro identità politica e fanno sbocciare le prime band musicali alternative. Un’intera generazione di sud africani si forma sulla lezione misconosciuta in patria di Sixto Rodriguez e il disco vende – a sua totale insaputa – più di mezzo milione di copie.

La lontananza degli eventi nella bobina spazio-temporale e anche la loro sconnessione è solo apparentemente. Sugar Man ci racconta come quei fatti freddi e remoti all’improvviso si riavvolgano e trovino finalmente nella pellicola una trama logica ma calda, proprio a partire da quegli ex ragazzi senza voce poetica e politica ai quali Rodriguez ne aveva data una. Ora sono essi a ridarla al vecchio Sixto, rimasto tutta la vita a fare anche i lavori più umili nelle viscere di una grande città industriale americana, ma sempre fedele al suo pensiero e al suo stile. “Grazie di avermi tenuto in vita”, sussurra nel microfono prima di riattaccare a suonare e cantare la sua “Sugar Man”, con la sua voce e le sue profonde inflessioni immutate, come se tutto quel tempo perduto non fosse davvero mai passato. Un film da non perdere in nessun modo, perché niente come quell’ora e mezza seduti davanti allo schermo il tempo – insieme a Parmenide, Proust ed Einstein – ce lo fa ritrovare. (Beh, buona giornata).

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Lo stato solido dei gas e quello fluido dello Stato di diritto.

di Riccardo Tavani

Marco Pannella, il quale esprime con il suo partito e la sua radio radicale l’attuale Ministro degli Esteri, ripete ad ogni occasione che l’Italia è uno “Stato delinquente abituale”. Lo afferma sulla scorta delle continue e reiterate procedure di infrazione che la CEDU, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, promuove nei confronti del nostro Paese. In quale strana situazione si possa poi trovare un fiore di campo come Emma Bonino in mezzo a una banda di delinquenti, stando sempre alla definizione del suo leader, non dovrebbe essere troppo difficile capirlo. Il perché invece sieda e agisca tra quelle distinte persone è davvero meno agevole se non proprio cervellotico farsene una ragione.

Difficile negare la situazione delinquenziale, affermata da Pannella sul piano generale, anche nello specifico affaire dell’espulsione-rapimento della signora Alma Shalabayeva, moglie dell’oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, e di sua figlia di sei anni Alua. Uno Stato straniero interviene direttamente sui nostri organi di polizia e li manovra come un burattinaio per vedere soddisfatte a tamburo battente le proprie illegali pretese.

Questa è una situazione di per sé, in via formale e sostanziale, “fuori legge”, senza dover aggiungere l’aggravante che nello Stato in questione i diritti universali siano calpestati e gli oppositori fatti fuori senza certo passare per il galateo. “Fuori legge”, sia che il nostro Ministro degli Interni fosse stato o meno informato, e non si sa quale sia la condizione peggiore per lui. Che poi si nomini un alto funzionario dallo stesso ministro dipendente per un indagine che lo riguarda in prima persona non fa che aumentare tragicomicamente la situazione denunciata da Pannella.

In quanto a Emma Mammola Bonino, va da sé che uno “Stato delinquente abituale” non la calcoli neanche una ministra come lei: se ne serve solo quando ha bisogno di spruzzarsi un po’ di deodorante floreale sotto le mefitiche ascelle.

Lo stato naturale del gas è quello fluido, del petrolio quello liquido, eppure entrambi, nelle condizioni geo-politiche attuali, si presentano volentieri sotto lo stato solido: quello dell’economia. Lo “Stato delinquente abituale” Italia è il maggior partner europeo del Kazakistan con una quota del 13% del totale degli interscambi Eu, avendone sestuplicato il valore nel 2013. Che ci siano delle inchieste in corso sull’aumento nell’interscambio anche di tangenti e corruzione tra Eni e relativi enti di Stato kazaki non fa che dimostrare lo stato solido dei gas in regime di Stato fluido delinquenziale.

Sarebbe, però, un enorme errore considerare il Kazakistan come entità a sé stante. Esso è parte integrante di una Unione Doganale con Russia e Bielorussia, alla quale partecipano da quest’anno anche Ucraina e Kyrgystan, in qualità di osservatori. Questa area rappresenta l’83% del potenziale economico dell’ex URSS e gli scambi italiani con essa sono cresciuti di un ulteriore 5% nel primo trimestre di quest’anno, sopra il livello del 50% già raggiunto nell’ultimo quinquennio (fonte Intesa Sanpaolo).

Le 750 imprese italiane operanti in tutta questa aerea doganale integrata, con un volume d’affari dei 4,4 mld di euro nel 2012, sono al terzo posto, dopo Germania e Olanda, ma destinate a crescere rapidamente. Nella sola Russia il volume d’affari italiani ammonta a 8 mld di euro, pari al 14% sul totale degli scambi con l’intera Europa. In crescita sono sia le importazioni che le esportazioni, con una diminuzione del saldo negativo a nostro vantaggio, ossia aumentano le nostre esportazioni.

Rapidamente è destinata a crescere anche l’importanza dell’Unione Doganale di cui parliamo, che rappresenta complessivamente 180 milioni di abitanti, con un PIL pari a 2 trilioni di dollari. Nel 2015, infatti, essa dovrebbe trasformarsi in UNIONE EUROASIATICA, nella quale si integrerà anche la Repubblica del Tagikistan. Questa entità si esprimerà attraverso una Commissione Euroasiatica, modellata proprio sulla scorta della nostra Commissione Europea, e destinata dunque ad esserne interlocutrice diretta e privilegiata. Chi è stato l’ideatore primo di questa vasta area geo-politica pan russa, prima che Vladimir Putin l’annunciasse ufficialmente nell’ottobre del 2011? Proprio l’autocrate presidente kazako Nazarbayev, il cui ambasciatore, impartendo direttamente ordini a nostri alti funzionari ministeriali, ha preteso e ottenuto la “extraordinary rendition” dall’Italia della moglie e della figlioletta di un suo ex alleato e ora oppositore.

Va solo di sfuggita ricordato che la futura Unione EUROASIATICA non si configura soltanto come una fortezza economica di prima grandezza planetaria, dirimpettaia e partner obbligato dell’Europa, ma è già quella potenza militare e nucleare che le ha lasciato pari pari in eredità l’ex impero sovietico. Ovvero: esattamente ciò che manca di più alla nostra cara vecchia Europa. Sarà al momento anche un arsenale atomico arretrato rispetto a quello Usa, ma non per questo meno sufficientemente deterrente e poi rapidamente ammodernabile sulla scia dell’aumento degli scambi economici e scientifico-culturali. Un ombrello atomico e strategico economico, sotto il quale l’Europa difficilmente potrà fare a meno di infilarsi, fosse solo per il fatto che gli Usa non si potrebbero più permettere di continuare ad attizzare a proprio vantaggio il già congenito dissidio tra Paesi europei.

Nazarbayev non è stato elogiato solo da Berlusconi, ma – pur se non negli stessi scandalosi termini – anche da Prodi e da altri capi di Stato democratici occidentali. Proprio su iniziativa di Prodi l’Italia lo ha insignito del Gran Cordone, una delle più alte onorificenze elargite dal Quirinale. Cordone o bordone, il caso più eclatante è quello dell’ex cancelliere socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder. Un ex capo della nazione più potente d’Europa che diventa addirittura un dipendente di Gazprom, il colosso del gas russo, che lo ha messo a capo del board per la costruzione del gasdotto sotto il Mar Baltico, “Nord Stream AG”. La cosa non solo parla sostanzialmente e simbolicamente più di ogni altro discorso, ma sancisce in sé un accordo strategico tra un vasto blocco territoriale.

Ecco perché il gas e il petrolio si presentano oggi allo stato solido e il fluido empatico tra capi di Stato delinquenziali, più che un mero fattore di elezione personale, si presenta con i caratteri di un destino, ossia di una vera e propria destinazione storica. (Beh, buona giornata)

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Datagate, la prima guerra mondiale per il dominio strategico sulla rete.

di Riccardo Tavani

Va ricordato solo di sfuggita che Internet nasce come una tecnologia militare, per connettere tra loro le varie basi Nato nel mondo, e poi diventa in soverchiante misura un’applicazione civile. Talmente prevalente l’aspetto civile che la Cia, per mettersi al passo con i prodigiosi mutamenti della rete, ha proposto, già qualche anno fa, una collaborazione a Mark Zuckerberg, il mitico fondatore di Facebook, la stessa società che ha recentemente ammesso di aver “parzialmente” aderito alle richieste della National Security Agency (NSA) di fornirle i dati degli iscritti.

Il data-gate è deflagrato dalla scala interna americana a quella planetaria nel giro di pochi giorni. Dal controllo sul traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani a quello degli Stati, dei governi, dei popoli di tutto il mondo.

Ne avevamo già parlato in relazione alla cosiddetta “eccezione culturale” (cfr https://www.marco-ferri.com/?p=6590) sui prodotti audiovisivi, sollevata in primo luogo dalla Francia. I maggiori governi del mondo, Cina, Europa e Russia ne sono rimasti coinvolti e sconvolti, mentre anche altri Stati più piccoli sono ora direttamente sotto la ruvida minaccia di vedersi il lato B fatto a stelle e strisce se daranno asilo politico all’agente segreto americano Edward Snowden.

In Europa, soprattutto Germania e Francia sono montate su tutte le furie, mentre l’Italia attraverso il presidente Napolitano e la ministra Bonino ha adottato la linea della “faccenda spinosa”, come dire : “Siamo seduti su un rovo di spine, muoviamoci il meno possibile”. La cosa più grave, però, è che si sta cercando di accreditare, anche nel nostro apparato mediatico, l’opinione tranquillizzante che in fondo non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il cielo: spiati eravamo e spiati restiamo. Soprattutto – si dice – in relazione a quanto già emerso nelle varie commissioni di indagine sull’affare Echelon. Questo fu il primo progetto di raccolta dati planetari strutturato e ripartito tra Australia, Canada, Nuova Zelanda, Inghilterra e Usa. Capofila del progetto era sempre la NSA, con alle dirette dipendenze la Cia e il super segreto National Reconnaissance Office (NRO).

La vittima più illustre di questo apparato fu proprio il Parlamento Europeo, che si trovò spiato direttamente da un suo membro formalmente interno, l’Inghilterra. La differenza fondamentale con l’attuale sistema sta però nel fatto che Echelon era una rete di satelliti terrestri diffusa su diversi territori degli Stati associati. Ora, invece, si tratta direttamente della rete, del web, di Internet, di quella tecnologia sempre più capillare, articolata, differenziata e convergente insieme che usiamo tutti sulla crosta terrestre, nei cieli e nei mari.

Facciamo alcune cifre. La più importante è quella che riguarda l’e-commerce. “Il fatturato in Italia è stimato per l’intero 2013, pari a 11,2 miliardi di euro e in salita del 17% per cento rispetto all’anno passato. Numeri più che discreti ma ancora poca cosa se rapportati a quelli europei. Stando alle rilevazioni di Ecommerce Europe, infatti, l’incremento annuale delle vendite via Web per il 2012 è stato nell’ordine del 22 per cento, per un fatturato complessivo di oltre 305 miliardi di euro. Il Vecchio Continente è il primo mercato mondiale per l’e-commerce, davanti agli Usa (con 280 miliardi di euro) e regione Asia-Pacifico (216 miliardi di euro)”. (IlSole24ORE.com).

Pare evidente non solo la perdita del gradino più alto del podio, ma soprattutto la scomoda situazione da fetta di prosciutto nella quale si trovano gli Usa, tra le due robuste fette di pane rappresentate da Asia ed Europa. È chiaro che anche le altre operazioni bancarie avvengono ormai prevalentemente on line, tanto che Bnp Paribas ha già dato il via alla Hello Bank, la prima banca europea di grandi dimensioni completamente telematica, con ramificazioni in Belgio, Germania e Italia (con apertura qui prevista ad ottobre con BNL). I dati, gli scambi, le operazioni, i pagamenti, i finanziamenti e i progetti viaggeranno tutti ed unicamente via tablet, smartphone e pc.

Ed è questo ormai il nuovo tipo di e-Bank che si sta già egemonicamente affermando nel mondo. Cominciamo a capire la differenza tra il controllo tramite una rete di satelliti terrestri e il controllo diretto, anzi il dominio strategico, militare-spionistico sulla rete.

Abbiamo detto ‘militare’ e non deve stupire, perché sempre di più l’essenza ultima dello scontro – sia bellico che economico – si gioca sul piano della tecnoscienza. Il 23 marzo 1983, il presidente americano Ronald Regan annunciò il cosiddetto “Scudo Spaziale”, lo SDI, Strategic Defense Initiative. Il salto tecnologico rispetto al livello raggiunto dell’ex Urss era talmente vertiginoso che in nessun modo questa avrebbe potuto pareggiarlo o approssimarsi strategicamente a esso. La partita storica del XX secolo era vinta per l’uno e persa per l’altro con quel solo micidiale tecno-colpo.

Il web è il cuore pulsante di qualsiasi ulteriore fattore di sviluppo tecno-scientifico, e la stessa governance, tanto nelle aziende multinazionali produttive, quanto in quelle politiche istituzionali internazionali è impensabile oggi, e tanto più lo sarà domani, senza questo organo cardiaco di pompaggio e smistamento dati. Ricordiamoci che l’Europa aveva già tecnologicamente scavalcato gli Usa nel sistema computerizzato di accelerazione particellare che ha portato al celebre rilevamento del bosone X; e che i cinesi hanno recentemente loro strappato lo scettro di detentori del computer più potente e veloce del mondo.

Per questo gli Usa stanno giocando una partita decisiva, che non è semplicemente quella dei soliti fottuti spioni planetari. Una partita nella quale il galateo diplomatico è destinato a lasciare il campo al gioco duro, quello che quando arriva solo allora i duri cominciano a ballare.

Una locuzione tipica degli americani, che risale agli anni ’50 del secolo scorso è “complesso militare-industriale”. Oggi andrebbe riformulato con “militare-industriale-informatico”, dato che il Dipartimento della Difesa prevede di aumentare il numero dei collaboratori presso il Cyber Command da 900 a 4000. Inoltre, il mercato globale della sicurezza informatica dovrebbe espandersi da circa 64 miliardi di dollari USA del 2011 a 120 miliardi entro il 2017 – con una crescita annua composta pari all’11,3 per cento, secondo dati della società di ricerche Markets and Markets.

L’unico interrogativo, non sappiamo ancora quanto legittimo, che si affaccia lateralmente a tutto questo lurido pacchetto di mischia nel fango è: ma siamo certi che la rete è questo docile strumento di manipolazione e controllo dei potenti? Che non abbia ormai sviluppato un suo efficace sistema immunitario di anti virus che diffondo disubbidienza e beffarda tecno-ribellione, proprio come i casi Anonymus, Assange e Snowden dimostrano? (Beh, buona giornata).

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L’eccezione culturale e la strategia cinematografica del Festival di Cannes.

di Riccardo Tavani.

Uno dei temi di scontro tra gli Usa e gli Stati europei resta la cosiddetta “eccezione culturale”(*) sul cinema e sui prodotti audiovisivi. Le major americane del settore vogliono una completa liberalizzazione del mercato, mentre l’Europa – capofila la Francia – sostiene che la cultura non è una merce come le altre: è patrimonio stesso della Res publica, dello Stato e va dunque protetta e opportunamente incentivata. Gli Stati europei hanno ottenuto che il tema fosse stralciato da quelli all’ordine del giorno nel recente G8 irlandese. Obama, in considerevole difficoltà a causa del “data-gate”, lo scandalo dello spionaggio capillare sull’intero traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani, non ha per il momento voluto aprire le ostilità sul tema, ma la partita e’ solo rimandata. Gli Usa – come ha paventato anche Romano Prodi – potrebbero, per ritorsione, sollevare anche essi una loro specifica e magari economicamente più pesante “eccezione”, ad esempio sull’agricoltura. Anche il ministro italiano Bray si e’ schierato per l’eccezione francese, mentre all’interno del Governo non tutti sono sulla sua posizione.

Per capire perché la Francia sia quella più determinata su questo punto, basterebbe guardare ai film del Festival di Cannes che in queste giornate si sono visti in rassegna a Milano e a Roma.

La manifestazione alla Croisette non è semplicemente una “mostra’ dell’arte cinematografica, come Venezia e Berlino. E’ anche questo ma soprattutto l’espressione dell’intervento produttivo e culturale francese sulle cinematografie di quasi tutto il mondo, quelle economicamente più deboli in particolare. Cannes solca come una vera e propria portaerei produttiva i mari di tutto il mondo, pasturando di capitali per il cinema quelle acque, per trainarne poi in patria i risultati migliori. La grande maggioranza delle pellicole presentate a Cannes sono frutto della coproduzione francese nel mondo. Tra queste anche le nostre “La grande Bellezza” e “Salvo”. La prima non e’ stata degnata di alcun riconoscimento, mentre la seconda e’ meritatamente onorata di un “Gran Premio” e di una “Menzione Speciale”, in proporzione – sembrerebbe – proprio alla quantità e qualità dell’intervento francese.

Il film vincitore del Festival è “La vie d’Adele” del franco tunisino Abdel Kechiche, della non giustificata durata di tre ore. Una pellicola, dunque, dal sapore pienamente europeo, francese, ma co-prodotta anche con inglesi e americani. E’ la formazione erotico-sentimentale in versione lesbo di una liceale con una ambiziosa universitaria e pittrice, più tesa al successo e alla sua stabilita quotidiana che all’amore con una ragazzina non del suo côté.

Una vittoria forse già in qualche modo “instradata” dalla direzione strategica di Cannes. Moltissime sono state le pellicole “seminate” e poi scelte per questa edizione che vedono come protagonisti non solo i giovani ma addirittura gli adolescenti. Una scelta che ha tutto il sapore di un investimento strategico-globale, di egemonia culturale e produttivo di lungo respiro, che forse ha qualcosa a che fare proprio con la “eccezione culturale” e lo scontro con le major americane. (Beh, buona giornata).

(*) Cosa è l’eccezione culturale? (di R.T.)

Steven Spielberg, presidente della giuria all'ultimo Festival di Cannes
Steven Spielberg, presidente della giuria all’ultimo Festival di Cannes

L’eccezione culturale è una politica che consiste nel tenere la produzione culturale al di fuori delle leggi di mercato. Essa permette agli Stati di mettere in atto dei meccanismi di aiuto e sostegno alla loro cultura, sotto forma di sovvenzioni come gli aiuti all’industria cinematografica e più generalmente ad ogni forma di opera creativa. Ma questo può anche concretarsi nell’applicazione di quote di diffusione cioè imporre per legge che un certo numero di opere diffuse per radio o televisione siano prodotte in Europa. All’epoca gli americani volevano inserire la questione della proprietà intellettuale nel commercio internazionale, ma l’Unione europea si oppose. Per gli USA la cultura è un prodotto come gli altri che non può essere sovvenzionato.

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Elezioni, pareggio di bilancio e recessione: attenti alle frottole.

di MARCO PALOMBI-Il Fatto Quotidiano
Quale sarà la vera agenda del prossimo governo? È questa la domanda da cui siamo partiti per spiegare che la libertà d’azione macroeconomica di qualunque esecutivo si insedi a marzo sarà, per usare un eufemismo, piuttosto limitata. Se si volesse usare uno slogan, ad esempio, si potrebbe dire che le vere elezioni italiane saranno quelle tedesche del prossimo ottobre: è tutto nel rapporto con l’Unione europea infatti – e, ancor più, con gli altri paesi dell’eurozona – che si gioca il destino del nostro paese e, per quelli a cui interessa, del prossimo governo. Ecco un breve riassunto per capitoli dello stato dell’arte e di quel che c’è da aspettarsi tra poche settimane.

Il punto di partenza. Gli schieramenti in campagna elettorale possono promettere molto, ma occorre sempre ricordare che gli esecutivi si muovono ormai in un meccanismo di sovranità limitata. Il governo italiano, infatti, non solo ha rinunciato tempo fa alla leva monetaria, ma in sostanza anche a quella fiscale: il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, e promesso ai partner continentali entro quest’anno, lo obbliga infatti ad agire in una sola direzione. La faccenda si farà ulteriormente complicata con la legge di stabilità del prossimo anno: dal 2015 scatta, infatti, l’obbligo sancito dal Fiscal compact (approvato in tutta fretta dalla strana maggioranza nell’ultimo scorcio di legislatura) di diminuire la parte del debito pubblico che supera il 60% del Pil di un ventesimo l’anno. In soldi fanno una cinquantina di miliardi l’anno: siccome i conti si faranno sul prodotto nominale – e non quello depurato dall’inflazione – il problema non sarebbe insormontabile se ci fosse un po’ di crescita. Solo che non c’è, e qui veniamo al vero problema.

La recessione. Dall’inizio della crisi abbiamo perso 7 punti di Pil, dice Bankitalia, e l’emorragia non accenna a finire e colpisce ormai la struttura stessa del tessuto produttivo che ha fatto grande l’economia del nostro paese. Sempre dal 2008, per dire, la produzione industriale è scesa del 25%, il suo volume rilevato all’indice grezzo segna 82,9, al minimo dal 1990. Riassunto: le aziende chiudono, aumentano i disoccupati, calano i consumi e le entrate dell’erario. Questa è la spirale, questa è la priorità di qualsiasi governo nell’immediato. Poteri di intervento? Nei limiti di bilancio di cui abbiamo parlato, molto pochi, anche perché lo stato dei conti pubblici non è quello raccontato da Mario Monti in questi mesi (“siamo fuori dall’emergenza”).

Una nuova manovra? Forse sarà la prima cosa che il prossimo esecutivo dovrà fare per ottenere il famoso pareggio di bilancio obbligatorio, nonostante sia pensiero comune che la cosa non farà che peggiorare la recessione in atto (se mi tassi spendo meno, se lo stato spende meno qualcuno – pensionati, lavoratori, aziende – vedrà diminuire i suoi introiti e spenderà meno). I problemi sono due. Intanto nel bilancio pubblico 2013 ci sono alcune spese non finanziate interamente: le missioni militari all’estero sono scoperte da settembre, il rinnovo dei contratti di oltre 200mila precari della P.A. da giugno e anche le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in deroga su tutti) scarseggiano. Totale: 5-7 miliardi di euro. In secondo luogo, le previsioni del governo sulla (non) crescita sono assai ottimiste: -0,2% nel 2013, mentre quelle di Bankitalia, Confindustria, Fmi etc veleggiano verso una contrazione dell’1%. Essendo il rapporto deficit/Pil appunto un rapporto, se il denominatore è più basso il risultato è peggiore. In sostanza la manovra necessaria potrebbe aggirarsi attorno ad un punto di Pil – circa 15 miliardi – ma fonti della Ragioneria generale dello Stato hanno parlato negli ultimi giorni di un importo più contenuto (7-10 miliardi). È tanto vero che il governatore della Banca d’Italia ha appena ribadito che “l’Italia non deve abbassare la guardia” sui conti pubblici e che per farlo servono “ulteriori, prolungati sforzi”.

Soluzioni. Mantenendo inalterata la struttura dei rapporti con l’Europa (moneta unica e relativi trattati di funzionamento), l’unica via d’uscita è rappresentata dalle scelte della Germania. Negli ultimi anni Berlino ha basato la sua strategia economica sulle esportazioni, in particolare nei paesi dell’eurozona, tenendo bassi i suoi salari e la sua inflazione. Il risultato è che ha mandato in deficit i suoi partner europei che ora, però, hanno smesso di comprare i suoi prodotti (e infatti recentemente le stime di crescita tedesca sono state tagliate). Ha spiegato al nostro giornale, ad esempio, il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo: “La nostra parte noi l’abbiamo fatta, ora la Germania deve fare la sua. Ha due strade: o rilancia la sua domanda interna aumentando i salari e/o la spesa pubblica oppure consente un certo grado di europeizzazione dei debiti pubblici”. Sulla stessa linea il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: “La Germania deve fare la sua parte aumentando i salari e spingendo la sua domanda interna e poi basterebbe una diversa politica di bilancio Ue che escludesse alcuni investimenti dai saldi validi per il Patto”. A guardare la campagna elettorale tedesca – Cdu o Spd non fa differenza – non c’è molto da sperare: non solo nessuno propone politiche espansive interne per essere davvero “la locomotiva d’Europa”, ma tutto si gioca sulla critica ai cosiddetti Piigs fannulloni (e, in qualche caso, ai “terroni germanici”, che sono i poveri del nord e dell’est).

Sogni elettorali. In questo contesto le promesse di mirabolanti tagli di tasse fatte soprattutto da Silvio Berlusconi e Mario Monti non solo sono poco credibili, ma non sembrano tener conto delle priorità nella situazione attuale: come ha recentemente ribadito un working paper del Fmi – firmato dal capo economista Olivier Blanchard e da Daniel Leigh – non solo l’austerità fa male, ma il moltiplicatore (l’effetto positivo/negativo delle varie politiche economiche) della spesa pubblica, in particolar modo quella per investimenti, è assai superiore a quello fiscale. Tradotto: in una recessione bisogna fare politiche anticicliche e, tra queste, meglio che lo Stato spenda di più piuttosto che tagliare le tasse. Una proposta in questo senso in campagna elettorale l’ha lanciata ad esempio Pier Luigi Bersani sui debiti della P.A. verso le imprese. Si tratta, ma non c’è una stima ufficiale, di 90 miliardi in tutto che, al momento, non sono registrati dal nostro bilancio: tutti sanno che c’è un debito e che andrà saldato ma, secondo le stesse regole Ue, può essere tenuto fuori dai conti finché lo Stato non paga. Il Pd adesso propone di stanziare 50 miliardi per rifondere le Pmi emettendo titoli di stato vincolati a quel fine. Il problema? È un’uscita che inciderebbe significativamente tanto sul deficit quanto sul debito pubblico e per fare una cosa del genere – o altre che prevedano questi livelli di spesa – serve il permesso di Bruxelles. Ce lo daranno? (Beh, buona giornata).

Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall'altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.
Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall’altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.

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Mauro Biani si aggiudica il Premio Nazionale Nonviolenza 2012.

Come recita il comunicato ufficiale, è Mauro Biani il vincitore del Premio Nazionale Nonviolenza 2012, che sarà consegnato a Sansepolcro il prossimo sabato 16 febbraio 2013.

Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E' stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l'inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall'associazione culturale Altrinformazione nella collana "I libri di Mamma!" (http://www.mamma.am/maurobiani)
Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E’ stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l’inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall’associazione culturale Altrinformazione nella collana “I libri di Mamma!” (http://www.mamma.am/maurobiani)
ultimi vincitori del Premio sono stati Don Luigi Ciotti, Fondatore del Gruppo Abele e di Libera e a Christoph Baker, Scrittore e Consulente Internazionale Unicef.

Il Premio – che ha cadenza biennale – viene assegnato a personaggi che si sono impegnati a far sì che le modalità di soluzione dei conflitti non violente possano essere sempre più conosciute e realizzate nel quotidiano. Il destino del premio Nonviolenza è strettamente legato al Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” nato nel 1992 grazie all’iniziativa del Comitato Promotore per l’Obiezione di Coscienza (oggi Associazione Cultura della Pace) e che quest’anno è assegnato all’attore Marco Paolini. La premiazione si terrà
sabato 16 Febbraio 2013 alle ore 16.00 a Sansepolcro (AR), presso il Teatro INPDAP e sarà preceduto da un incontro con gli studenti delle scuole superiori, alle ore 11.30.

In occasione dell’assegnazione del premio, inoltre, si terranno due mostre personali di Mauro Biani: una a Città di Castello dal 9 al 16 febbraio 2013 presso Palazzo del Podestà e l’altra dal 16 al 23 febbraio 2013 presso Palazzo Pretorio di Sansepolcro, organizzate in collaborazione con l’Associazione “Amici del fumetto” di Città di Castello. (Beh, buona giornata).

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“L’Europa rischia di diventare terreno di conquista del particolarismo e del populismo.”

Londra 20 ottobre 2012, 100 mila manifestanti contro l’austerity.
CRISI E’ POLITICA, NON SOLO ECONOMICA- Critica Sociale

Il Regno Unito e il resto dell’UE si dirigono in direzioni diametralmente opposte, constata il Guardian. Dal punto di vista britannico il Continente farebbe meglio a sottrarsi ai disegni egemonici tedeschi
“Man mano che va avanti la più grande crisi della storia d’Europa, il Regno Unito e il resto dell’Unione si dirigono in direzioni diametralmente opposte. Concentrata ormai da tre anni sulla crisi dell’euro, Berlino chiede di riaprire i trattati europei per facilitare una maggiore convergenza – o abdicazione, a seconda del punto di vista – della sovranità nazionale per rendere possibile la creazione di un’Europa federale. Ciò porterebbe alla nascita di un governo centrale europeo che avrebbe prerogative esclusive in tema di potere fiscale e di spesa. Ma il Regno Unito ne è escluso”. Questo l’incipit del contributo di Ian Traynor per il Guardian, che mette in guardia, dal punto di vista britannico, dai disegni egemonici tedeschi sul rinnovato processo di integrazione europea. Berlino sta manovrando per rafforzare la sua egemonia economica (e ormai politica) sull’Europa continentale, privilegiando l’interesse nazionale a una profonda, inclusiva e democratica riforma dell’architettura europea.

Le recenti scelte di politica europea prese dell’esecutivo di Angela Merkel sono avversate da Juergen Habermas che, insieme ad altri intellettuali tedeschi di area riformista, mette sotto accusa “le reazioni particolaristiche degli interessi nazionali (che spiegano) il fallimento di quell’approccio globale coordinato (contro la crisi) proposto per la prima volta al G-20 di Londra nel 2009″. Secondo il noto filosofo e storico tedesco: ” Una grande potenza economica come la UE … dovrebbe svolgere una funzione di avanguardia … Il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee è ormai inevitabile, se si vuole applicare efficacemente la disciplina di bilancio e garantire un sistema finanziario stabile. Allo stesso tempo, si avverte l’esigenza di un maggiore coordinamento delle politiche finanziarie, economiche e sociali dei paesi membri con l’obiettivo di compensare gli squilibri strutturali nell’area della moneta unica”.

I mali europei non sono tuttavia riconducibili ai soli problemi economici. Il deficit democratico che si avverte in tutto il continente è all’origine del malessere sociale che alimenta quella che i ricercatori della London School of Economics and Political Science (LSE) definiscono “politica sotterranea”, distinguendola dall’anti-politica. Secondo quanto afferma la professoressa LSE Mary Kaldor, “le principali forze politiche europee descrivono l’attuale crisi in termini prettamente finanziari, ma la nostra ricerca suggerisce che la crisi in Europa sia soprattutto politica, perché le proteste non sono riferite all’austerity in quanto tale, ma si concentrano piuttosto sui fallimenti della democrazia, sul modo in cui viene attualmente gestita.”

L’Europa rischia di diventare terreno di conquista del particolarismo e del populismo, che storicamente prosperano nei momenti prolungati di crisi. L’unico modo per evitarlo è prendere atto del fatto che l’Europa da grande progetto di emancipazione si sta trasformando in un apparato burocratico e tecnocratico, i cui meccanismi decisionali appaiono a cittadini opachi e anti-democratici. L’emergere della politica sotterranea rappresenta non solo un campanello d’allarme, ma anche una grande opportunità di ricostruire il tessuto democratico continentale come presupposto di una politica più autorevole ed efficiente.

Questione politica ed economica risultano peraltro intrecciate. Un recente editoriale apparso sull’Economist pone il tema dello strisciante conflitto economico che contrappone le sempre più inquiete nuove generazioni ai baby-boomers, i nati in Occidente tra il 1945 e il 1964: “I ‘boomers’ hanno beneficiato di una serie di tendenze economiche, politiche e sociali (la crescita del trentennio 1945-1975, la costruzione del welfare state, la diffusione del lavoro femminile) che hanno consentito loro di vivere un’esistenza più agiata e gratificante sia dei loro padri che dei loro figli e nipoti”. Detenendo in larga misura il potere politico ed economico, la generazione nata e cresciuta nel secondo dopoguerra è ancora in grado di condizionare a suo vantaggio il processo decisionale al massimo livello, entrando spesso in rotta di collisione con gli interessi delle fasce più giovani della popolazione.

I rapporti di forza sono inevitabilmente destinati a cambiare, aprendo una nuova fase del conflitto intergenerazionale senza precedenti che la crisi globale ha determinato. (Beh, buona giornata)

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Politica Popoli e politiche Potere

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L’operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l’idiozia» – letterale – delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa – insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato – una pratica potentemente «progressiva». Nell’epoca dell’ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all’arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.

Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».

Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra – e l’affermarsi del «socialismo sovietico» – per convincere le classi dirigenti dell’Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».

Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c’è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.

Quando queste hanno preso a reagire meno – per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse – è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni ’70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d’ordine è diventata «tagliare la spesa».

Qui il contributo di Mazzetti diventa prezioso. L’accumulazione, dopo gli anni ’70, è in qualche modo andata avanti lo stesso; com’è stato possibile?
Negli anni ’80 Keynes viene archiviato, ma resta il problema del finanziamento in deficit per «stimolare» nuove produzioni. «Il credito privato (anni ’90, ndr) ha svolto la stessa funzione del keynesiano deficit di bilancio. È stato l’unico modo per sostenere quella domanda che se fosse mancata avrebbe determinato sin dall’inizio quel drammatico crollo intervenuto negli ultimi anni». Il crollo del «socialismo reale» – di lì a poco – ha messo a disposizione del mercato oltre due miliardi di lavoratori-consumatori, un polmone straordinario che ha rallentato l’esplosione delle antinomie economiche per altri venti anni. Ma i nodi sono arrivati comunque al pettine.

«A differenza del debito pubblico, (quello privato, ndr) pretende di appropriarsi di una ricchezza reale attraverso uno scambio, pur non avendo messo in moto alcun lavoro aggiuntivo». Pensiamo al mondo oscuro dei prodotti finanziari derivati, cds, ecc: righe di codice dentro un computer da cui scaturiscono obblighi reali. «Il credito speculativo alimenta il debito senza la misura imposta dal collegamento con la produzione, e lo scarto tra la richezza reale e la pseudo-ricchezza finanziaria diventa incolmabile». Creare denaro col denaro, senza produrre nulla, ha prodotto una cecità pervasa da senso di onnipotenza. Il film Margin call è quasi un paradigma. Senza «la misura del collegamento con la produzione», del prestito commisurato a un determinato progetto ben dimensionato, l’investimento finanziario diventa «speculazione» senza limiti. Per elaborare i «prodotti finanziari» si chiamano i matematici, invece degli economisti; così come l’economia accademica scade a econometria. L’unica «misura» che conta è un algoritmo esponenziale, senza più l’impiccio della «cosa reale».

Ovvero «il capitale pretende di diventare una variabile indipendente rispetto alla stessa produzione». Negli anni ’70 era il salario, con qualche ragion pratica e morale in più, a nutrire questa speranza.
La crisi, dunque, è il punto d’approdo «fisiologico» di una dinamica surreale. Ma «la crisi non è altro che il processo attraverso il quale una nuova forma di vita sociale preme per venire alla luce». Non torneremo a come stavamo prima. Lo dicono anche Draghi e Monti, ma in direzione totalmente opposta a quella auspicabile per la stragrande maggioranza degli esseri umani («un innovativo processo di coordinamento generale»).

Il liberismo trionfante ha ammanettato lo stato come soggetto economico, concedendogli solo tre possibilità: «lo stato viene costretto a limitare le sue spese; lo stato continua a spendere, ma aumenta le tasse; lo stato attua le spese necessarie, ma indebitandosi con i privati e come un privato». È la storia degli ultimi 30 anni. Ma per questa via «non c’è soluzione alla crisi». Perché è l’imprenditoria privata a non saper come utilizzare l’eccesso di risorse disponibili.
«Quando la spesa dello stato ha cominciato a crescere senza generare un aumento multiplo del reddito, ciò testimoniava che il processo di riproduzione del rapporto di valore era bloccato».

Ma invece di prendere atto di questa realtà e «far recedere il potere oppressivo dei capitalisti» (Keynes!) si è proceduto nella direzione opposta. Per mantenere la libertà di impresa vengono ricostruite le condizioni della scarsità. Quindi «più povertà per tutti (quelli che lavorano)», così riprende l’accumulazione. Pardon, la crescita…
Qui l’invito di Mazzetti non può che essere quello di fare come Keynes (e Marx): «ristrutturare del senso del problema con cui ci si confronta», guardarlo da un altro lato. Insomma: pensare di nuovo.

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Il divorzio tra politica e potere.

Intervista a Zygmunt Bauman
di Massimo Di Forti-Il Messaggero

«

Zygmunt Bauman
. Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della “Vita liquida” e della “Modernità liquida” (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.

Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.

Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?

«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».

È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?

«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»

Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…

«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».

A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?

«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».

La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?

«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza». (Beh, buona giornata).

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E il neoliberismo partor

di Carlo Bordoni-Il Fatto Quotidiano

L’antipolitica come rinuncia dello Stato alla politica tradizionale? È la tesi di Étienne Balibar, docente emerito all’Università di Parigi, noto per i suo saggi Leggere il Capitale (con Louis Althusser) e La paura delle masse, che si ripropone ora con Cittadinanza, pubblicato da Bollati Boringhieri.

Antipolitica come annullamento degli antagonismi politici, delle differenze tra i partiti, dell’omologazione delle forze in campo, all’interno di una generale stagnazione dove emergono individualità carismatiche che catalizzano l’interesse pubblico.

La crisi delle ideologie, quelle convinzioni fideistiche su cui si basavano i partiti della sinistra, in grado di raccogliere il consenso di larghe masse popolari, ha lasciato un vuoto, prontamente colmato da una logica individualista e privatistica.

Balibar riprende da Aristotele il termine politeía, per indicare un concetto più ampio di cittadinanza: lo speciale rapporto che s’instaura tra la pólis (città) e il cittadino, facendone un attore politico. E quindi politeía come partecipazione alla cosa pubblica.

Ora, il vacillare di questo rapporto mette in discussione la democrazia.

Due sono le cause principali: la prima è la perdita di un’identificazione collettiva tra cittadino e Stato, che si manifesta con un eccesso di burocrazia (insieme di complessità formali che mascherano l’inosservanza di aspetti sostanziali) e col prevalere di strutture sovranazionali. L’altra causa è appunto l’emergere dell’antipolitica, che non è unicamente una reazione di tipo populista e nazionalista.

Secondo una teoria già proposta da Wendy Brown, il neoliberalismo sottopone le funzioni sociali dello Stato al calcolo economico. Una pratica insolita, che introduce criteri di redditività neservizi pubblici, come se si trattasse di aziende private, regolando sotto un profilo economicistico i campi dell’istruzione, della sanità, della ricerca scientifica, dei servizi sociali, della sicurezza.

L’antipolitica è pertanto un atteggiamento di de-responsabilizzazione dello Stato, di rinuncia alla sue prerogative tradizionali e la loro progressiva privatizzazione. Le responsabilità si dividono così in una miriade di deleghe sempre più frazionate, fino a convergere sul singolo individuo. Unico responsabile di se stesso.

Del resto il neoliberalismo all’americana, adottato anche da noi e ravvisabile nei provvedimenti presi dal governo Monti, si sposa bene con l’uscita dalla società di massa: la cosiddetta “demassificazione”. Il processo di individualizzazione che ha riportato in primo piano il concetto di “moltitudine”.

Chissà che in futuro non ci aspetti una società “caina”, dove ognuno potrà interpretare a suo modo la frase biblica: “Sono forse io il custode di mio fratello?”

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Le Pussy Riot condannate, ma Putin ha perso.

Nadezhda Tolokonnikova, leader delle Pussy Riot.
Le Pussy Riot, le tre cantanti punk, diventate il simbolo del dissenso contro Putin, sono state condannate a due anni per teppismo e incitamento all’odio religioso. Mentre si svolgono proteste in tutta Europa, pubblichiamo una lettera dalla prigione

di NADEZHDA TOLOKONNIKOVA

La nostra carcerazione è servita come un chiaro e inconfutabile segno che l’intero paese è stato privato della libertà. E ciò minaccia di annichilire le forze di liberazione ed emancipazione in Russia: è questo che causa la mia rabbia, vedendo il grande nel piccolo, la tendenza nel segno, il comune nell’individuo.

Le femministe della seconda ondata dicono che il personale è politico. Così è. Il caso delle Pussy Riot ha mostrato come i guai individuali di tre persone di fronte alle accuse di teppismo possono dare vita a un movimento politico. Un singolo caso di repressione e persecuzione contro coloro che hanno il coraggio di Parlare in un paese autoritario ha scosso il mondo: attivisti, punk, pop star, membri di governo, attori ed ecologisti, femministe e maschilisti, teologi islamici e cristiani stanno pregando per le Pussy Riot. Il personale è diventato politico. Il caso delle Pussy Riot ha messo insieme forze così multidirezionali che io stento ancora a credere che non sia un sogno.

L’impossibile sta accadendo nella politica russa contemporanea: un esigente, continuo, potente e coerente impatto della società sul governo.
Sono grata a tutti coloro che hanno detto “Free Pussy Riot!”. Adesso ognuno di noi sta partecipando a un grande e importante Evento politico che il regime di Putin sta facendo sempre più fatica a controllare. Qualunque sarà l’imminente sentenza per le Pussy Riot, noi – e voi – stiamo già vincendo.

Perché abbiamo imparato a essere arrabbiati e a dirlo politicamente.

Pussy Riot è contenta che siamo stati in grado di spronare un’azione veramente collettiva, e che la vostra passione politica ha dimostrato di essere così forte da abbattere le barriere linguistiche, culturali, ambientali, di status economico e politico. Kant direbbe che non vede altre ragioni di questo Miracolo se non l’inizio della morale umana. Grazie per questo Miracolo. (traduzione a cura del collettivo Uninomade.

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“Il liberalismo

Con l’uguaglianza, riecco la sinistra

Il tema veramente importante, che si discute da una decina d’anni, e non da quaranta come la crisi della socialdemocrazia, è quello della violenza da un lato, e del fallimento dall’altro del sistema neoliberale. È questo il dibattito oggi nuovo: tutto il periodo in cui il capitalismo aveva imparato a «comporre», a negoziare una società capace di controbilanciare Stato e mercato, a dare un ruolo alle forze sociali, ai sindacati, tutto questo è crollato. Il capitalismo keynesiano è scomparso, annegato negli ultimi dieci anni da un modello di società capitalista basato sulla violenza sociale.

La sinistra si è paralizzata davanti all’aggressività di questo nuovo capitalismo totale, ammutolendosi e rifugiandosi nell’idea che non si poteva fare diversamente, che eravamo davanti a una sorta di «necessità» storica. Non so quante volte abbiamo sentito in questi anni discorsi del tipo: «Le leggi del mercato ci sfuggono completamente, dunque non le possiamo controllare». Oppure: «La globalizzazione è un processo inarrestabile, come i processi fisici». Tutto ciò è falso.
Il sistema liberale è fondamentalmente basato sulla disuguaglianza: e non solo nei fatti. È un sistema che ha cercato di legittimare la disuguaglianza come valore, che era anche uno slogan pubblicitario a un certo punto: «Perché io valgo!». Se guadagno miliardi è perché li valgo, e quelli che faticano ad arrivare a 1.500 euro al mese, avrebbero potuto essere più furbi, o lavorare di più, e sarebbero arrivati al mio stesso successo.

È questa la morale che sottende i rapporti sociali oggi. E questa non è meritocrazia, perché la meritocrazia è un valore profondamente repubblicano in Francia; la scuola della Repubblica che dà chance uguali a tutti e premia il merito ne è l’esempio più evidente. Questa è la legge del più forte. Durante questi anni è stato normale pensare che la società dovesse funzionare in questo modo. Fino a quando semplicemente il sistema è crollato.

Per lungo tempo, prima che crollasse, quelli che lo denunciavano, come ho fatto io, erano considerati degli «arcaici», dei passatisti che cercavano di attaccarsi a valori sociali ormai improponibili. I moderati ci dicevano: «Avete perso il treno della storia!». Poi sono cominciati i segni precursori inquietanti della crisi: l’avanzare dell’estrema destra populista in tutta Europa, la perdita di contatto della sinistra con le classi popolari. C’era qualcosa che non andava più.

E poi, infine, il crac del 2008, e l’evidenza mondiale che il liberalismo, con tutte le sue caratteristiche così vantate per decenni, la sua razionalità, la sua capacità di anticipazione, la mano invisibile, la capacità di autocorrezione, è un disastro. Il sistema era semplicemente un sistema predatorio, di captazione della ricchezza da parte di un’oligarchia e, oltre ad essere ingiusto, ci siamo resi tutti conto che era ed è un sistema totalmente instabile. È un sistema che porta il mondo al precipizio.

Quel che succede oggi è che anche le menti liberali più convinte sono obbligate a concedere che il
sistema non funziona più e ad accettare che si nazionalizzino banche, che si indebitino Stati fino sopra ai capelli per salvare l’economia dalla catastrofe.
Per questo oggi ritorna possibile vincere dicendo cose molto semplici. Quali? Beh, che l’obiettivo da sempre della sinistra, quello che definisce la sinistra in quanto tale, è la ricerca, benché mai totalmente realizzata, dell’ uguaglianza . Se rinunciamo a questo, rinunciamo alla sinistra. Ora, negli ultimi trent’anni, la sinistra aveva rinunciato all’uguaglianza. Aveva accettato, come una forma di autocensura, che l’uguaglianza era un orizzonte non solo sfuggente, difficile da raggiungere, ma non era più l’orizzonte che si voleva e si doveva raggiungere. Una rinuncia che ha preso diverse forme, da John Rawls, con le sue «disuguaglianze accettabili», al progetto della Terza via di Anthony Giddens, tutte idee molto sottili, ma che in fondo sotterravano la sinistra.

Quel che abbiamo proposto è di tenere sotto controllo il sistema finanziario e reintrodurre l’uguaglianza Viagra come valore. La sinistra per anni si è persa. Era talmente impressionata dal suo avversario da non avere più il coraggio di assumere i propri valori. E, peggio, alcuni socialisti hanno fatto il gioco degli avversari. Chi ha liberalizzato la finanza internazionale, che ha fatto uscire la belva dalla gabbia, non sono stati dei pensatori estremisti liberali, ma dei socialisti francesi, come Pascal Lamy, direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio, o Jacques Delors, che hanno convinto l’Fmi, l’Ocse, gli Stati Uniti, e la comunità internazionale che bisognava liberalizzare gli scambi e il sistema finanziario.

Bisogna ritrovare una comunità di uguali, in cui i valori e i modi di vita di chi ha il potere, e di chi è rappresentato da questo potere, tornino a somigliarsi. Quando c’è gente che guadagna due, tre, quattro milioni di euro all’anno, che rapporto volete che abbia con la gente? Siete in un altro mondo simbolico, e reale. Non vivete negli stessi posti, non mangiate le stesse cose, non vedete la stessa gente. Queste differenze vanno semplicemente ridotte. Allora, contenere i salari delle persone al potere e aumentare l’imposizione fiscale per le grandi ricchezze fino al 75 per cento andava detto, e ora va fatto. La sinistra in Francia, come in Europa, deve riprendere il senso della responsabilità delle decisioni politiche. La finanza è una scusa per deresponsabilizzare la classe politica.

Un’Europa della finanza non è credibile agli occhi dei cittadini. Se si vuole rilanciare l’Europa, bisogna rilanciare un’industria europea, una ricerca europea, una cultura europea. Non far saltare tutto in aria in nome del libero mercato.
La maggior parte della gente nasce, cresce e muore nello stesso posto. Perché dovrebbe accettare di pagare un prezzo per una mobilità che non la riguarda? Può accettare di pagare un prezzo se l’Europa non è solo un terrificante libero mercato che spiazza la vita della gente, ma uno spazio di valori e di prodotti condivisi, uno spazio di crescita comune, industriale, scientifica e culturale. Se non vogliamo che i cittadini si facciano incantare dal populismo, bisogna che la sinistra dica queste cose chiaramente: non accettiamo l’Europa dell’austerity in nome della contabilità. Non siamo antieuropeisti, ma vogliamo un’altra Europa.

Il liberalismo è il disordine europeo mondiale. Quello che proponiamo noi è rimettere in ordine, stabilire nuove regole. Il disordine non è altro che la legge del più forte.
Bisogna essere capaci di organizzare le cose. Keynes non era certo un rivoluzionario. Ma aveva un’idea di una società ordinata. Mi piace anche citare quello che diceva sulla mondializzazione: «Le idee, le persone e le opere d’arte devono circolare liberamente. Ma bisogna produrre e consumare localmente». (Beh, buona giornata).
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La rivista
Uno sguardo sulla crisi europea
Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi dell’intervento di Aquilino Morelle, in conversazione con Gloria Origgi, che appare sul numero in uscita oggi della rivista «MicroMega». Il fascicolo contiene anche una lettera aperta del direttore Paolo Flores d’Arcais a Beppe Grillo e vari contributi sulla situazione politica in Italia, in Francia e in Grecia. Tra gli autori: Barbara Spinelli, Vladimiro Giacché, Pierre Rosanvallon, Alain Touraine, Angelo d’Orsi.
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L’autore
• Nato nel 1962 a Parigi, figlio di un operaio spagnolo immigrato, Aquilino Morelle (nella foto) è uno degli uomini più vicini al neoeletto presidente socialista francese François Hollande, che lo ha nominato suo consigliere politico
• Laureato in Medicina e docente universitario, Morelle è stato uno stretto collaboratore del primo ministro socialista Lionel Jospin dal 1997 al 2002. Attualmente scrive i discorsi di Hollande e, in parte, ne costruisce lo stile
• Molto critico verso l’Unione Europea, Morelle si è schierato per il no al referendum sul trattato costituzionale europeo, respinto dagli elettori francesi nel maggio 2005 con una maggioranza del 54,7 per cento
Aquilino Morelle-Il Corriere della Sera

21 giugno 2012 14:36

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