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“Qual

di Slavoj Zizek – Testo dell’intervento del filosofo sloveno alla convention di Syriza (Grecia)

Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda «che cosa vuole una donna?», ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi:T «Che cosa vuole l’Europa?» Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole.

Il modo in cui gli stati europei e i media riportano ciò che sta accadendo oggi in Grecia è, credo, il miglior indicatore di che tipo di Europa vogliono. È l’Europa neoliberale, è l’Europa degli stati isolazionisti. I critici accusano Syriza di essere una minaccia per l’euro, ma Syriza è, al contrario, l’unica possibilità che ha l’Europa. Ma quale minaccia. Voi state dando all’Europa la possibilità di uscire dalla sua inerzia e di trovare una nuova via.

Nelle sue note sulla definizione di cultura, il grande poeta conservatore Thomas Eliot ha sottolineato quei momenti in cui l’unica scelta è tra eresia e il non credere. Vale a dire momenti in cui l’unico modo per mantenere il credo, per mantenere viva la religione, è necessario eseguire una diversione drastica dalla via principale. Questo è ciò che accade oggi con l’Europa. Solo una nuova eresia – rappresentata in questo momento da Syriza – può salvare ciò che vale la pena salvare dell’eredità europea, cioè la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria.

L’Europa che vincerà, se Syriza verrà messa fuori gioco, sarà un’Europa con valori asiatici: e, naturalmente, questi valori asiatici non hanno nulla a che fare con l’Asia, ma con la volontà attuale ed evidente del capitalismo contemporaneo di sospendere la democrazia.
Si dice che Syriza non ha abbastanza esperienza per governare. Sono d’accordo, manca loro l’esperienza di come far fallire un paese, truffando e rubando. Non avete questa esperienza. Questo ci porta all’assurdità dell’establishment della politica europea: ci fa la predica sul pagare le tasse, opponendosi al clientelismo greco e nello stesso tempo ripone tutte le lsue speranze sulla coalizione tra i due partiti che hanno portato la Grecia a questo clientelismo.

Christine Lagarde ha recentemente affermato che ha più simpatia per i poveri abitanti del Niger che per i greci, e ha anche consigliato i greci ad aiutare se stessi pagando le tasse, che, come ho potuto verificare pochi giorni fa, lei non deve pagare. Come tutti i liberali umanitari, ama i poveri impotenti che si comportano da vittime, evocano la nostra simpatia spingendoci a fare la carità. Ma il problema con voi greci è che sì, soffrite, ma non siete vittime passive: resistete, lottate, non volete comprensione e carità, volete solidarietà attiva. Volete e chiedete una mobilitazione, il sostegno per la vostra lotta.

Syriza è accusata di promuovere finzioni di sinistra, ma è il piano di austerità imposto da Bruxelles ad essere chiaramente una finzione. Tutti sanno che questo piano è fittizio, che lo stato greco non potrà mai ripagare il debito, in questo modo. Allora perché Bruxelles impone queste misure? Il vero scopo non è quello di salvare la Grecia, ma ovviamente di salvare le banche europee.
Queste misure non sono presentate come decisioni fondate su scelte politiche, ma come necessità imposte da una logica economica neutrale. Come a dire: se vogliamo stabilizzare la nostra economia, dobbiamo semplicemente ingoiare la pillola amara. Oppure, come dicono i proverbi tautologici: non si può spendere più di quello che si produce. Ebbene, le banche americane e gli Stati Uniti sono stati una grande prova, per decenni, che si può spendere più di quello che si produce.

Per illustrare l’errore delle misure di austerità, Paul Krugman spesso le paragona alla pratica medievale del salasso. Una bella metafora, che ritengo debba essere ulteriormente estremizzata. I medici finanziari europei, a loro volta non sicuri di come questo farmaco funzionerà, stanno usando voi greci come cavie da laboratorio, stanno rischiando il vostro sangue, non il sangue dei loro paesi. Non vi è alcun salasso per le banche tedesche e francesi. Al contrario, quelle stanno ottenendo grandi trasfusioni.

Il buon senso radicale
Dunque Syriza è davvero un gruppo di pericolosi estremisti? No, Syriza è qui per portare un pragmatico buon senso. Per cancellare la confusione creata da altri. I sognatori pericolosi sono quelli che vogliono imporre le misure di austerità. I veri sognatori sono coloro che pensano che le cose possono andare avanti, a tempo indeterminato, così come stanno apportando qualche modifica cosmetica. Voi non siete dei sognatori: voi vi state risvegliando da un sogno che si sta trasformando in un incubo. Voi non state distruggendo nulla, state reagendo al modo in cui il sistema sta gradualmente distruggendo se stesso.

Conosciamo tutti la classica scena del cartone di Tom e Jerry: il gatto raggiunge il precipizio, ma continua a camminare, ignorando il fatto che non c’è terreno sotto i suoi piedi. È solo quando comincia a scendere che guarda verso il basso e si rende conto che c’è il vuoto. Questo è quello che state facendo: state dicendo a chi è al potere, «ehi, guarda giù!» e quelli cadono.

La mappa politica della Grecia è chiara ed esemplare. Al centro c’è un solo partito, con due ali, destra e sinistra, Pasok e Nuova Democrazia. È come, che so, la Cola che è o Coca o Pepsi, una scelta che non è una scelta. Il vero nome di questo partito, se si mettono insieme Pasok e Nd, dovrebbe essere qualcosa, penso, come Nmced, Nuovo movimento ellenico contro la democrazia. Naturalmente questo grande partito sostiene di essere a favore della democrazia, ma io sostengo che sia a favore di una democrazia decaffeinata. Sapete, come il caffè senza caffeina, la birra senza alcool, il gelato senza zucchero. Vogliono la democrazia, ma una democrazia dove invece di compiere una scelta, la gente si limita a confermare quello che saggi esperti diranno loro di fare. Vogliono il dialogo democratico? Sì, ma come nei dialoghi tardi di Platone, dove un ragazzo parla tutto il tempo e l’altro dice solo, ogni dieci minuti, «per Zeus, è così!»

Poi c’è l’eccezione. Voi, Syriza, il vero miracolo, movimento di sinistra radicale, che è uscito dalla comoda posizione di resistenza marginale e coraggiosamente ha segnalato la disponibilità a prendere il potere. Questo è il motivo per cui dovete essere puniti. Ecco perché Bill Freyja ha scritto di recente, sulla rivista Forbes, un articolo dal titolo «Dare alla Grecia quello che merita: comunismo». Cito: «Quello di cui il mondo ha bisogno, non dimentichiamolo, è un esempio contemporaneo del comunismo in azione. Quale miglior candidato della Grecia? Buttatela fuori dall’Unione europea, interrompete il flusso libero di euro e ridategli le vecchie dracme. Poi, state a guardare che succede per una generazione». In altre parole, la Grecia dovrebbe essere punita in modo esemplare, così che una volta per tutte, la tentazione per una soluzione radicale e di sinistra della crisi venga messa a tacere.

So che il compito di Syriza è quasi impossibile. Syriza non è l’estrema sinistra folle, è la voce pragmatica della ragione, che contrasta la follia ideologia del mercato. Syriza avrà bisogno della combinazione formidabile di principi politici e pragmatismo senza radici di impegno democratico, oltre alla capacità di agire rapidamente e brutalmente quando necessario. Perché Syriza abbia una Cialis chance, anche una minima chance di successo, sarà necessaria una solidarietà pan-europea.

Cambiare la Grecia
Per questo penso che voi, qui in Grecia, dovreste evitare il nazionalismo facile, tutti i discorsi su come la Germania vuole rioccupare la Grecia, distruggerla e così via. Il vostro primo compito è quello di cambiare le cose qui. Syriza dovrà fare il lavoro che gli altri avrebbero dovuto fare. Il lavoro di costruzione di uno stato migliore, moderno: uno stato efficiente. Dovrete fare un lavoro di bonifica dell’apparato statale dal clientelismo. È un lavoro duro, non c’è nulla di entusiasmante in questo: è lento, duro, noioso.

I vostri critici pseudo-radicali vi stanno dicendo che la situazione non è ancora quella giusta per un vero cambiamento sociale. Che se prendete il potere ora, non farete che aiutare il sistema, rendendolo più efficiente. Questo è, se ho ben capito, quello che il Kke,, che è fondamentalmente il partito delle persone ancora vive perché si sono dimenticate di morire, vi sta dicendo.
È vero che la vostra élite politica ha dimostrato la sua incapacità di governare, ma non ci sarà mai un momento in cui la situazione sarà completamente giusta per il cambiamento. Se aspettate il momento giusto, il momento giusto non arriverà mai. Quando si interviene, è sempre il momento non proprio maturo. Quindi, avete di fronte una scelta: o aspettare comodamente e guardare la vostra società che si disintegra, come alcuni altri partiti di sinistra suggeriscono, o intervenire eroicamente, pienamente consapevoli di quanto sia difficile la situazione. Syriza ha fatto la scelta giusta.

I vostri critici vi odiano perché, penso, segretamente sanno che voi avete il coraggio di essere liberi e di agire come persone libere. Quando si è davanti agli occhi della gente, quelli che osservano colgono, almeno per un istante, che state offrendo loro la libertà. State osando fare ciò che anche loro sognano di fare. In questo istante, sono liberi. Sono un unicum con voi. Ma è solo un attimo. Torna la paura e vi odieranno ancora, perché hanno paura della loro libertà.

Qual è dunque la scelta che voi, popolo greco, vi troverete ad affrontare il 17 giugno? Si dovrebbe tenere a mente il paradosso che sostiene la libertà di voto nelle società democratiche: siete liberi di scegliere, a condizione che facciate la scelta giusta. Ecco perché, quando la scelta è quella sbagliata, per esempio quando l’Irlanda ha votato contro la costituzione europea, la scelta sbagliata è trattata come un errore. E allora vogliono ripetere la votazione, per illuminare le persone a fare la scelta giusta. È per questo che l’establishment europeo è in preda al panico. Ritengono che forse non meritiate la vostra libertà, perché c’è il pericolo che facciate la scelta sbagliata.

Caffè senza latte
C’è una barzelletta meravigliosa in Ninoska di Ernst Lubitsch: l’eroe entra in una caffetteria e ordina un caffè senza panna. Il cameriere risponde «mi dispiace, ma abbiamo esaurito la panna, abbiamo solo latte. Posso portarle un caffè senza latte?» In entrambi i casi, si avrà solo il caffè, ma credo che la barzelletta sia corretta.

Anche la negazione è importante. Un caffè senza panna non è lo stesso che un caffè senza latte. Voi oggi vi trovate nella stessa situazione: la situazione è difficile. Avrete una specie di austerità, ma avrete il caffè dell’austerità senza panna o senza latte? È qui che l’establishment europeo sta barando. Si sta comportando come se avrete il caffè dell’austerità senza panna. Vale a dire che i frutti della vostra fatica non beneficeranno solo le banche europee: vi stanno offrendo anche il caffè senza latte. Sarete voi a non beneficiare dei vostri sacrifici e difficoltà.

Nel sud del Peloponneso ci sono le cosiddette piangenti, donne che vengono chiamate per piangere ai funerali, a fare uno spettacolo per i parenti del morto. Ora, non c’è nulla di primitivo in questo. Noi, nelle nostre società sviluppate, facciamo esattamente la stessa cosa. Pensate a questa meravigliosa invenzione, penso che sia forse il maggior contributo dell’America alla cultura mondiale: il sottofondo di risate registrate. Le risate che fanno parte della colonna sonora della televisione. Torni a casa stanco, sintonizzi la tv su uno di questi stupidi programmi tipo Cheers o Friends. Ti siedi e la tv ride anche per te. E, purtroppo, funziona.

È così che chi detiene il potere, l’establishment europeo, vuole vedere non solo i greci, ma tutti noi: che guardiamo lo schermo e osserviamo come gli altri sognano, piangono e ridono. C’è un aneddoto, apocrifo ma meraviglioso, sullo scambio di telegrammi tra il quartier generale dell’esercito tedesco e quello austriaco nel mezzo della prima guerra mondiale. I tedeschi inviano un messaggio agli austriaci: «Dalla nostra parte del fronte, la situazione è grave ma non catastrofica». Gli austriaci rispondono: «Dalla nostra parte la situazione è catastrofica, ma non grave».

Questa è la differenza tra Syriza e gli altri: per gli altri la situazione è catastrofica ma non grave, le cose possono andare avanti come al solito, mentre per Syriza la situazione è grave, ma non catastrofica e per questo il coraggio e la speranza devono sostituire la paura. Dunque ciò che avete davanti, per dirla con il titolo di una vecchia canzone dei Beatles, è «una strada lunga e tortuosa». Quando anni fa la guerra fredda minacciava di esplodere in una caldissima, John Lennon scrisse una canzone, «all we are saying is give peace a chance» («tutto quello che stiamo dicendo è dare una chance alla pace»). Oggi, voglio sentire una nuova canzone in tutta Europa, «tutto quello che stiamo dicendo è dare una chance alla Grecia».

La rivoluzione a casa propria
Consentitemi un riferimento a una delle grandi, forse la più grande, delle tragedie classiche, Antigone: non combattere battaglie che non sono le tue battaglie. Nella mia idea di Antigone, abbiamo Antigone e Creonte. Sono solo due sette della classe dirigente. Un po’ come Pasok e Nuova Democrazia. Nella mia versione di Antigone, mentre i due membri delle famiglie reali stanno combattendo tra loro, minacciando di mandare in rovina lo Stato, mi piacerebbe vedere il coro, le voci delle persone, uscire da questo ruolo stupido di mero commento saggio, impadronirsi della scena, costituire un comitato pubblico di potere del popolo, arrestare entrambi, Creonte e Antigone, e dare vita al potere del popolo.

Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela. Ma voi siete qui e questo è ciò che ammiro. Non avete paura di impegnarvi in una situazione disperata, sapendo quanto le probabilità siano contro di voi. Questo è quello che ammiro. C’è anche un opportunismo di principio, l’opportunismo dei principi. Quando si dice la situazione è persa, non possiamo fare nulla, perché significherebbe tradire i nostri principi, questo sembra essere una posizione coerente, ma in realtà è la forma estrema di opportunismo.
Syriza è un evento unico di come proprio quella sinistra – in contraddizione con ciò che fa la solita sinistra extraparlamentare, che si preoccupa di più se i diritti umani di qualche criminale vengono violati, che di migliaia di esseri umani che muoiono – ha trovato il coraggio di fare qualcosa. (Beh, buona giornata)

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L’Europa tra recessione e repressione.

di Claudio Riccio-rifondazione.it
Una cortina di ferro sta calando nell’Europa. Nel marzo del ‘46, con un celebre discorso, Winston Churchill sanciva l’inizio della guerra fredda e soprattutto della divisione in blocchi dell’Europa, rendendo celebre l’espressione della “cortina di ferro”. O da una parte o dall’altra: muri, confini, frontiere invalicabili, materiali ed ideologiche. Questa volta non vedrete cartine geografiche che raffigurano la divisione dell’Unione Europea: le linee di demarcazione ci sono, ma non sono visibili.

Da un lato c’è chi sacrifica la democrazia sull’altare della finanza, dall’altro chi vuole autodeterminarsi, difendendo un’idea di società solidale, aperta, democratica ed egualitaria. Da un lato la repressione, dall’altro il dissenso. Centinaia di arresti al giorno, divieto di manifestare, una enorme zona rossa, ecco quel che è successo nei giorni scorsi a Francoforte, dove il variegato mondo dei movimenti sociali europei – per la prima volta dopo molti anni – si è riunito per una prima, importante manifestazione internazionale. La sfida, ovvero passare dalla mobilitazione internazionale ad un movimento europeo, è appena agli inizi, ma i primi passi sono stati fatti. Non è la prima volta che in Europa vengono sospesi i diritti democratici – si pensi ovviamente ai drammatici fatti di Genova 2001, o alla repressione del vertice ambientale di Copenaghen 2009 –, ma il fatto che questi divieti si applichino nella capitale finanziaria dell’UE assume una valenza simbolica ulteriore.

Le politiche di austerity rompono l'unità europea.

Prima che – comprensibilmente – i media italiani venissero travolti dalle drammatiche notizie della bomba di Brindisi e del terremoto in Emilia Romagna, le notizie della mobilitazione e degli arresti a Francoforte erano comunque avvolte da un’altra cortina, questa volta fumogena, che ha offuscato totalmente la mobilitazione. Ben più rilievo viene dato oggi agli scontri e alla repressione a Chicago. Per la serie “basta che sia lontano da casa e se ne può parlare”, anche con un pizzico di esterofilia, che non manca mai.
L’ipocrisia della politica e dell’informazione italiana è ormai a livelli improponibili.

Se a Mosca vengono arrestati i manifestanti la notizia è – com’è giusto che sia – sulle prime pagine dei giornali italiani: “violati i diritti fondamentali, nella Russia di Putin non si può manifestare”. Se a Francoforte, nella Germania della Merkel, ti arrestano perché non rinunci al tuo diritto di manifestare, si tratta invece di una normale gestione dell’ordine pubblico.
Lo straordinario corteo di sabato, al netto dei limiti organizzativi del cartello blockupy Frankfurt e della macchina repressiva, ha avuto una grande risposta da moltissime zone della Germania. Ciò dimostra che un fronte antisistemico è possibile anche nella prosperosa Germania e non solo in quel che resta della Grecia. Se i movimenti sapranno accrescere il proprio livello di coordinamento e non cadere nelle numerose e crescenti trappole della repressione, potranno aprire davvero degli spazi di possibilità e contribuire alla costruzione di un’Europa differente.

A Francoforte si è manifestato un solco, visibile a chiunque abbia la voglia di guardare oltre le molteplici cortine, di ferro o fumogene che siano: da un lato l’austerity, la distruzione dello stato sociale, e i dispositivi di controllo mediatici e repressivi; dall’altro lato il rifiuto di sottostare al ricatto del mercato e allo stato di polizia e il sogno di un’altra Europa. Non si può più stare nel guado. (Beh, buona giornata).

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I governi tanto sono stati capaci di entrare nella crisi, quanto sono incapaci di saperne uscire.

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Vedere che la disoccupazione giovanile esplode -da un già inquietante 31% di pochi mesi fa al 36% di marzo 2012 – impone di cercare risposta alla domanda che viene subito alla mente: non sarà che con la «riforma» che ha portato l’età pensionabile a 67 anni questo governo – sempre pronto a riempirsi la bocca con «lo facciamo per i giovani» – ha di fatto precluso l’ingresso nel mondo del lavoro ad almeno quattro-cinque scaglioni di «coscritti»?

Per Roberto Pizzuti, docente di politica economica a Roma, «è evidente e accertato il legame tra aumento dell’età pensionabile e disoccupazione, soprattutto giovanile». Del resto, «se c’è un certo numero – già insufficiente – di posti di lavoro, e riduci all’improvviso il turnover, quei posti non possono essere occupati da altre persone». Ma c’è di più: «è una cosa che danneggia anche le aziende, perché i lavoratori anziani costano di più, sono mediamente meno istruiti e inevitabilmente meno reattivi all’innovazione». Una politica di questo tipo «in questo momento è un autogol, vengono ridotti i redditi e la domanda quando dovrebbe invece essere sostenuta».

Giovanni Mazzetti, docente di economia politica, agginge una considerazione ulteriore: «se si è capaci di creare lavoro aggiuntivo, puoi anche lasciare sul posto gente che potrebbe andare in pensione; ma se non lo sai fare – e tutte le società avanzate non sono più capaci di crearne di nuovo – allora devi mandar via con soluzioni decorose quelli che hanno lavorato già un bel po’ (senza fare quei pasticci orrendi sugli ‘esodati’), e sostituirli con dei giovani».

L’obiezione del governo è nota: se si fossero lasciati andare in pensione quelli che avevano già maturato i requisiti «sarebbero saltati i conti Inps». Non è vero nemmeno questo, spiega Pizzuti (tra l’altro ex membro del cda Inpdap), «tutto il sistema pensionistico pubblico è da anni in attivo di 26 miliardi e contribuisce ai conti pubblici nella proporzione di una grande finanziaria ogni anno; è solo una scelta politica di colpire queste fasce, perché danno un’entrata certa e sono facili da colpire».

Se usciamo dal piano generale della macroeconomia e andiamo a vedere cosa accade nei diversi settori produttivi, la valutazione non cambia, ma assume una concretezza davvero drammatica. «Noi vediamo che la crisi non solo non passa, ma si acuisce – spiega Laura Spezia, segretario nazionale Fiom – Molte aziende chiedono ‘esuberi’ e finiamo a discutere di fatto di ‘esodati’». Perché «la riforma del mercato del lavoro non va certo nella direzione di favorire le assunzioni dei giovani». Dopo l’aumento dell’età del ritiro, infatti, «si prevede di ridurre gli ammortizzatori sociali nel tipo e nella durata; di fatto vengono rigettati sul mercato lavoratori che potrebbero e dovrebbero andare in pensione». E non è vero neppure che le aziende abbiano «tanta voglia di assumere giovani; basta guardare le reazioni della Marcegaglia e non solo all’ipotesi di restringere appena un po’ la ‘flessibilità in entrata’». La precarietà conclude – «è rimasta tale e quale, disoccupazione è aumentata; ora che vanno a scadenza gli ammortizzatori che sono stati concessi per le crisi degli ultimi anni esploderà con grandi numeri». Tanto più se andrà in porto la nuova «riforma»…

«Il fenomeno più preoccupante dice Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil – è la perdita di senso del sistema istruzione. Diplomati e laureati vengono buttati nella disperazione proprio quando il paese ne avrebbe più bisogno; si rischia una perdita totale di credibilità del sistema, che nel frattempo non è più nemmeno gratuito, negando il diritto allo studio. Questo è un paese che rinuncia al futuro, a partire dal governo Monti che non fa nulla per invertiore la tendenza».

L’ultima conferma arriva dal pubbblico impiego, ora sotto la lente della spending review. «Qui il turnover è bloccato da 7-8 anni», racconta Massimo Betti, Usb. «E già stiamo affrontando il problema di circa 100.000 dipendenti che vengono dichiarati in esubero. 65.000 dalle Province, diecimila dal personale civile della Difesa e 30.000 militari». Ma anche al ministero degli Interni si prepara un taglio «del 10% del personale». Per i «pubblici» c’è la mobilità per due anni, all’80% dello stipendio; poi, se non possono essere ricollocati in altro comparto o sede, c’è il licenziamento. La spending review punta a eliminare 4,2 miliardi di spese subito; ma «prima di nominare Bondi, Monti aveva illustrato tagli per 25-27 miliardi». Se ci si aggiunge la «delega» data a Patroni Griffi per applicare anche qui il «nuovo» art. 18, dice Betti, «diventa possibile licenziare per motivi economici praticamente tutti i 3,5 milioni di dipendenti. ‘Per Costituzione’, visto che hanno inserito l’obbligo al pareggio di bilancio».

Insomma: la crisi crea disoccupazione, ma il governo ci mette molto di suo…(Beh, buona giornata.

La ricetta della Bce per uscire dalla crisi non sta funzionando.

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

Lezione di Toni Negri: Storia dei movimenti dagli anni 60 a oggi.

http://vimeo.com/38182573

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Fumetti. libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

C’era una volta a Gaza.

di Giulio Gargia-3dnews.it

Dedicato a Vittorio Arrigoni

Il giorno in cui fu assassinato,Vittorio Arrigoni viveva a Gaza,
dentro una comunità di cui raccontava problemi e sofferenze, come
quelli causati dall’Operazione Piombo Fuso del 2008.

Dopo allora solo sette attivisti occidentali dell’ISM, l’International
Solidarity Mouvement, tra cui lui, sono rimasti sotto le bombe,
decisi a dare una mano alla popolazione civile di Gaza.

Per questo, Vittorio ha ricevuto il Premio Speciale Rachel Corrie
2010. dedicato all’attivista USA morta sotto un bulldozer israeliano.
Non potendo uscire da Gaza a causa del blocco israeliano, alla
premiazione del 4 ottobre sono andati i suoi genitori

Tra i suoi articoli, veri e propri scoop, come la denuncia
dell’impiego massiccio di fosforo bianco e di armi di nuova
generazione (DIME).
Per le sue attività un sito pro Israele, http://stoptheism.com/ lo
indica tra i “bersagli da colpire”, con relativi riferimenti
telefonici.
I volontari dell’ISM sono definiti “terroristi” , su di loro ci sono
schede dettagliate e invito, a chiunque possa fornire indicazioni
utili, a mettersi in contatto con l’organizzazione tramite mail o
numero di telefono.

A Vik e a tutti loro abbiamo dedicato questa nostra puntata della
cronaca a fumetti, che trovate sul nostro link
http://www.3dnews.it/taxonomy/term/384?page=7
Con una particolare citazione per Fiamma Nirenstein e per il suo odio
inconsulto per tutti quelli che vogliono aiutare il popolo
palestinese. (Beh, buona giornata).

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La lotta di classe dei ricchi contro i poveri.

Intervista a Luciano Gallino di Matteo Pucciarelli-micromega

Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all’improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.

Ecco, la lettura dell’ultimo lavoro di Luciano Gallino “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto.

Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell’idea, anzi dell’ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all’infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.

Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica.

Era un’ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.

Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l’attacco all’articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?

«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».

Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco… Ci fu la riforma Treu nel ’96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l’impianto ad essere sbagliato…

«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».

La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello sociale. C’è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?

«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica».

Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta….

«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente sconfessate dalla realtà»

È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l’internazionalismo, cioè la capacità di fare “gioco di squadra” a livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una Viagra 100mg visione alternativa della società?

«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente strumentale».

Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.

«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»

Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan “Lavorare meno, lavorare tutti”. A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto…». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di classe? L’egoismo, l’interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È questa l’ennesima vittoria del pensiero dominante?

«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».

Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com’è possibile che il Pd lo sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.

«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo elettorale».

Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?

«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».

L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il “Manifesto per un soggetto politico nuovo”, e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l’ha redatto e firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?

«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».

Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?

«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe dirigente». (Beh, buona giornata).

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L’articolo 18 e le manie compulsive degli economisti neo-liberisti.

Il capitalismo in balia dei neo-liberisti.
La scacchiera di Adam Smith, di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

OLTRE un decennio è passato, e ancora in Italia si inveisce contro un articolo dello Statuto dei lavoratori che incendia gli animi come se possedesse vizi ferali, da cui deriverebbero tutti i mali.

Possibile che in piena recessione, con la disoccupazione giovanile salita al 32 per cento, l’infelicità e il malessere dipendano in modo così totale dalla tutela giuridica del lavoratore allontanato per falsi motivi economici, contemplata nell’articolo 18?

Possibile che i pochi casi di reintegrazione dei licenziati (un migliaio in 10 anni) siano a tal punto distruttivi della ripresa, della stabilità economica, della reputazione esterna, dell’interesse di investitori stranieri? Neppure la Confindustria pare crederci, tanto che il nuovo presidente, Squinzi, considera la burocrazia ben più devastante dell’articolo 18 (“Non è l’articolo a fermare lo sviluppo”).

Né si può abusare dell’Europa: la lettera della Bce non parla nei dettagli dell’articolo, ma di una “revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento (…), stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro”. Le autorità europee sono “indifferenti alle classi” (class-indifferent), ha detto un economista greco, Yanis Varoufakis: fissano obiettivi, non come raggiungerli.

Se i detrattori dell’articolo 18 sono così rigidi vuol dire che dietro la loro battaglia c’è un’ideologia forte, restia alle confutazioni. C’era in Berlusconi, ma c’è anche in quello che Ezio Mauro chiama “integralismo accademico”. Una norma dello Statuto diventa sineddoche, cioè la parte che spiega il tutto: come quando si dice vela e s’intende nave. Si dice articolo 18 ma s’intende la filosofia, la genealogia, la storia dell’incandescente articolo. Con questa filosofia e questa storia si regolano i conti, e più precisamente con alcuni principi base della socialdemocrazia: lo Statuto dei lavoratori del ’70, e la concertazione praticata nei primi ’90 tra governi, imprenditori, sindacati.

Ambedue sono la riposta che la nostra classe dirigente seppe dare al ribellismo sociale, nonché al terrorismo. Ambedue generarono un Patto sociale permanente che in Italia era inconsueto, che consentì ai sindacati di preferire le riforme alla rivoluzione o ai particolarismi rivendicativi. Che li spinse a unirsi, a rendersi autonomi dai partiti. Che diede loro un’inedita padronanza di sé, del destino nazionale (Amartya Sen parla di empowerment, di potere su di sé dato agli emarginati, perché diventino cittadini responsabili).

Tutto questo è socialdemocrazia, non comunismo o consociativismo: anche se da noi il nome era altro. Chi se la prende con tale patrimonio trucca un po’ le carte. La crisi del 2007-2008 non sembra passata da queste parti, intaccando vecchi dogmi e anatemi: per molti resta una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che prodigiosamente colpevolizza non i mercati poco imbrigliati, ma le riforme socialdemocratiche e la carta d’identità dell’Europa postbellica che è stata la creazione (non a caso concepita durante la guerra) del Welfare.

È così che alcune parole decadono, annerite: la concertazione, il consenso o dialogo sociale. Perfino dialettica è parola invisa a chi, certo d’avere scienza infusa, non vede che il conflitto di idee e progetti è sale della democrazia.

Vale dunque la pena ripensare gli anni ’70-’90, che produssero la variante socialdemocratica italiana che è il patto sociale permanente. Lo Statuto dei lavoratori, divenuto legge nel ’70, viene approvato dal Senato il giorno dopo Piazza Fontana. La concertazione e la politica dei redditi furono perfezionate da Amato e Ciampi nel ’92 e ’93, quando un sistema politico infettato dalla corruzione e tanto più vulnerabile al terrorismo venne messo in riga da Mani Pulite.

Salvaguardare la coesione sociale d’un Paese così provato era prioritario, e per Buy Cialis ottenerla fu inventata non una democrazia più autoritaria ma più plurale, che del conflitto sapesse far tesoro “coinvolgendo (sono parole di Gino Giugni, ministro del lavoro di Ciampi) una platea di soggetti assai più ampia di quella uscita dal voto”.

Sin dal ’94 Berlusconi mise in questione tale eredità. La concertazione divenne il nemico, come testimonia il Libro Bianco sul lavoro presentato nel 2001 dal ministro del Welfare Maroni: la codecisione doveva finire, soppiantata da mere consultazioni. Che il bersaglio non fosse il comunismo ma la socialdemocrazia è attestato dalla biografia di Giugni: è nel partito socialdemocratico di Saragat che il padre della concertazione si fece le ossa.

In un libro-intervista del 2003, Giugni disse che con lo Statuto dei lavoratori “la Costituzione entrò in fabbrica”, e che la concertazione rese la democrazia più plurale, efficace: “Perché ci sia intesa bisogna partire dalla diversità”, scrisse, aggiungendo che la critica della concertazione in nome delle prerogative sovrane del Parlamento era infondata, anche quando veniva da economisti illustri come Mario Monti (Giugni, La lunga marcia della concertazione, Mulino).

Gino Giugni fu gambizzato nell’83 dalle Br. Altri economisti a lui vicini, riformatori del diritto del lavoro, furono assassinati (Tarantelli, D’Antona, Biagi). Tutti erano fautori della concertazione. Ricordiamo quel che disse D’Antona, sull’articolo 18 e la reintegrazione dell’operaio licenziato per fittizi motivi economici: “Il superamento delle forme più rigide di garantismo può portare a rivedere in cosa consiste un licenziamento legittimo, ma non a sottoporre a revisione i rimedi che si offrono nei confronti dei licenziamenti non rispondenti a tale requisito”. Il regolamento dei conti non è finito, con un’epoca che vide congiungersi concertazione, lotta alla corruzione, antimafia. Noi commemoriamo Falcone e Borsellino, e Tarantelli, D’Antona, Biagi. Ma volentieri ne dimentichiamo i metodi e le fedi.

Dicono che l’articolo 18 non ha da essere tabù, e certo i difetti non mancano: i processi sterminati sono fonte d’incertezza. Ma i tabù sono materia combustibile, non si spengono senza pericolo. Ci deve essere una ragione per cui all’articolo s’aggrappa anche chi – precario, disoccupato – non ne usufruisce. Anche chi, col tristo nome di esodato, non ha più lavoro e non ancora pensione. Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive. I tabù non sono idoli, feticci. È colma di tabù, l’Europa uscita da guerre e dittature che fecero strame di antichi divieti (non ucciderai, non negherai giustizia alla vedova e all’orfano, ai deboli e diversi). Per Hitler era tabù intollerabile anche il Decalogo.

Gli economisti neo-liberali che denunciano mercati troppo regolati hanno forse in mente una società perfetta, che funziona senza lentezze né dubbi. Si dicono ispirati da Adam Smith. Ma Smith teorizzò la mano invisibile che in un libero mercato trasforma l’interesse egoista in pubblica virtù, restando il filosofo morale che era. In quanto tale se la prese con gli ideologi, chiamati “uomini animati da spirito di sistema”.

L’uomo di sistema, scrive nella Teoria dei sentimenti morali, “tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera.(…) Nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli”.

Forse vale la pena rileggere Smith il moralizzatore, oltre che l’economista: l’avversario di tutti coloro che “inebriati dalla bellezza immaginaria di sistemi ideali” si lasciano ingannare dai loro stessi sofismi, e alla società chiedono troppo, non ottenendo nulla. (Beh, buona giornata).

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“Il paradossale prodigio sulla pelle della realt

In sala con Giuseppe Di Giacomo*, di RICCARDO TAVANI

Un'immagine di "Miracolo a le Havre".
Giuseppe Di Giacomo.
Giuseppe di Giacomo ci propone un assunto che poi immediatamente rovescia. L’assunto è che il miracolo ha a che fare con la paradossalità e Kaurismaki prende talmente sul serio questo postulato da far diventare il paradosso normalità, e addirittura ovvietà, banalità quotidiana del suo racconto. Il rovesciamento, però, ci avverte il professore, dobbiamo coglierlo non solo nella struttura della narrazione ma sopratutto nella semplicità, nella povertà spoglia delle immagini e dei mezzi cinematografici di cui il regista volutamente si serve.

La superficie, la pelle delle immagini qui gioca un ruolo decisivo. L’autore vuole che proprio la semplicità, la banalità quotidiana ci sia messa davanti, perché è in essa che noi dobbiamo saper vedere il miracolo possibile, ovvero sapere cogliere un aspetto che non è immediatamente visibile, solo perché non sappiamo o non vogliamo vederlo.

Il miracolo ha a che fare con la paradossalità dello sguardo umano che non riesce a vedere proprio quello ha davanti a sé. Non a caso Wittgenstein, ricorda Di Giacomo, invoca che Dio sappia far cogliere ai filosofi proprio quello che hanno sotto gli occhi e non riescono a vedere. È il miracolo che ci guarisce dalla nostra stessa cecità.

Sotto l’aspetto della vicenda umana che qui si racconta, il miracolo assume la forma narrativa della favola. Un adolescente africano, Idrissa, fugge da un container scaricato su una banchina del porto di Le Havre, dentro il quale ha attraversato clandestinamente le acque territoriali francesi. La polizia, guidata dall’enigmatico commissario Monet, gli dà la caccia per tutta la città. Ad aiutarlo e dargli rifugio è il lustrascarpe Marcel Marx, proprio il giorno in cui sua moglie Arletty è ricoverata in ospedale per un grave tumore che i medici (tacendolo però al lustrascarpe) diagnosticano come inguaribile, senza alcuna speranza.

Il “C’era una volta” della fiaba rimanda a una dimensione di atemporalità, anche se, dovendo rendercela con delle immagini, il regista le mette qui le vesti di gente e di ambienti rimasti per lo più agli anni 50-60 del secolo scorso. La favola, però, tratta di un tema estremamente attuale: quello della immigrazione clandestina. Dunque, l’elemento senza tempo del “C’era una volta” è attraversato da un cruciale carattere di temporalità, attualità. E Kaurismaki, nota Di Giacomo, nella scena in cui due amiche di Arletty le leggono in ospedale il brano di un libro, sofferma volutamente l’inquadratura sulla copertina.

Si tratta dei Racconti di Franz Kafka. Ora in Kafka è proprio l’elemento della temporalità a precludere la possibilità di un significato unico, di una spiegazione definitiva, di un senso compiuto del racconto. Kafka ci mette sempre davanti a un finale, a un problema aperto che non si chiude da sé e su sé. L’autore del film alterna continuamente il registro narrativo della fiaba alle immagini della drammatica realtà attuale relativa alla immigrazione. Favola e realtà le avvertiamo entrambe, simultaneamente, sulla stessa epidermide sensibile, la nostra.

Kaurismaki, suggerisce Di Giacomo, vuole che noi ci poniamo davanti al problema, facendoci però scorgere che sotto quella pelle scorre una speranza, c’è la possibilità di scrivere veramente quella che noi ora chiamiamo “favola”, o l’avverarsi di quello che definiamo “miracolo”. La realtà non è mai buona o cattiva in senso assoluto ma in relazione alla nostra consapevolezza, alla nostra presa di posizione, al nostro impegno.

In un mondo reale come quello attuale c’è bisogno di un rapporto di solidarietà per risolvere il problema tragico della immigrazione. Il lustrascarpe Marcel compie la scelta di mettere in atto la solidarietà, perché anche lui si è trovato un giorno ai margini della società e Arletty gli ha dato aiuto e rifugio, non badando ai pregiudizi e agli inconvenienti sociali derivanti dal suo essere un clochard. Lui è già, in quanto lustrascarpe, un personaggio della favola scritta a suo tempo da Arletty, la quale insiste sempre che Marcel, proprio come Idrissa, è rimasto un bambino.

È questo l’aspetto spiccatamente etico del top direct lenders for payday loans film, sottolinea Di Giacomo. La decisione di Marcel di impegnarsi attivamente e di ritirare fuori tutto il proprio coraggio civile e la propria dignità umana è bene espressa dal suo ritirare fuori dall’armadio l’abito buono poco indossato, per aiutare meglio il ragazzo a oltrepassare la Manica e raggiungere la madre a Londra.

Il comportamento gretto, attaccato alla loro grigia realtà dei piccoli negozianti nei confronti dei quali il lustrascarpe ha maturato un debito lungo e mai rimesso, viene trasformato dal constatare che Marcel non si mette paura neanche di fronte alla pressione rude e incalzante della polizia. Il rovesciamento dal grigiore spento della realtà a quello luminoso della favola lo fa scattare Marcel con la sua scelta di entrare il quella che Hanna Arendt chiama la “vita activa”.

La solidarietà verso il ragazzo scatta anche negli altri. Il lustrascarpe si fa elemento attivo di azione e comunicazione. Il vecchio cantante rock Little Bob torna a sfoderare il meglio della sua musica e della sua mimica per esibirsi e tirare su i soldi necessari a far passare il canale a Idrissa. Di Giacomo coglie una sorprendente citazione cinematografica, un fulminante flashback che ci fa veramente ruzzolare alla metà del secolo scorso. Il rapporto tra il lustrascarpe e il commissario Monet è lo stesso che si instaura in “Casablanca” tra Rick Blaine e il Capitano Louis Renault. Anche in quel film è la decisione di Rick di uscire dal suo disincanto esistenziale e di rientrare nella “vita activa” a determinare la complice solidarietà dell’ufficiale francese.

Nel finale il regista torna a giocare pienamente l’assunto iniziale e il suo rovesciamento. Il miracolo ha a che fare con il paradossale e un ciliegio improvvisamente fiorito al primo e unico raggio di sole tra le costanti nebbie del porto non potrebbero mostrarcelo meglio. Ma il vero paradosso è lo scorrere del prodigio a fior di pelle della realtà e il nostro esiliarlo nella fiaba. (Beh, buona giornata).

*Chi è Giuseppe Di Giacomo ovvero la impossibilità del senso e il dovere etico della forma nell’arte del presente.

Giuseppe Di Giacomo si è formato agli studi estetici con Emilio Garroni, ha ereditato la sua cattedra a “La Sapienza” di Roma e come il suo maestro è diventato uno dei docenti più seguiti dagli studenti e dai cultori di ogni età nella Facoltà di Filosofia.

È uno dei maggiori studiosi contemporanei del pensiero di Benjamin e Adorno, ma fondamentali sono anche le sue ricerche e i suoi scritti su Nietzsche, Lukács, Warburg e Wittgenstein. Nel campo dell’arte i suoi studi investono sia la pittura che la letteratura, da Klee, a Mondrian, a Malevič; da Proust, Dostojewskij Kafka, Joyce e Beckett.

Occupandosi dello scrittore contemporaneo Cormac McCarthy, soprattutto della “trilogia della frontiera” e delle trasposizioni cinematografiche, Di Giacomo sta delineando nelle sue lezioni universitarie una visione del cinema western come forma di narrazione epica moderna.

A partire dalla filosofia critica di Kant, dal prospettivismo nietzscheano, dall’opera estetica di Adorno e dalla concezione dei giochi linguistici di Wittgestein, Di Giacomo proprio perché vede nell’arte del presente l’impossibilità paradossale di giungere o di tornare a un senso finale compiuto, pensa che il lavoro sugli aspetti formali dell’opera costituisca un vero e proprio dovere estetico ed etico dell’artista.

Solo il processo di composizione, di montaggio formale di linee e colori, di parole, versi, ritmo, successione di immagini in movimento può conferire all’arte quella autonomia che la metta in grado di guardare criticamente alla realtà del mondo amministrato, tentando di ridare voce al silenzio di chi non ha potuto esprimersi, a cui è stata tolta la parola e la speranza insieme.

Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, 1989; Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, 1999; Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, 1999; Introduzione a Paul Klee, 2003; Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, 2008; Beckett ultimo atto, 2009; L’oggetto nella pratica artistica, 2010. Sta dando alle stampe un libro sul grande pittore russo Malevič.

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Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

UniCredit Research ha presentato il suo rapporto previsionale Outlook 2012: gli squilibri globali, se non affrontati efficacemente, potrebbero minacciare la ripresa.

Il Pil globale è atteso in crescita di poco più del 3 per cento, mentre l’Eurozona vedrà un ritmo di espansione dello 0,6 per cento
L’economia europea si sta stabilizzando
I mercati dovrebbero consolidare la ripresa, grazie anche alle misure della BCE
La preoccupazione più forte riguarda la possibilità che la crisi del debito e finanziaria si allarghi al settore privato, mettendo a rischio la coesione sociale
Gli squilibri globali, se non affrontati efficacemente, potrebbero minacciare la ripresa

UniCredit Research, guidata dal Capo Economista Erik F. Nielsen, ha presentato oggi il suo rapporto previsionale

L'economia globale è ancora in riparazione per tutto il 2012.
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UniCredit prevede un rallentamento della crescita globale del PIL dal 4,25% del 2011 a poco più del 3% nel 2012. È probabile che in Eurozona si assisterà a una flessione del tasso di crescita dall’1,6% allo 0,6%. Tuttavia è probabile che la traiettoria del PIL abbia toccato il punto di minimo a fine 2011, che dovrebbe essere seguito da un moderato miglioramento della performance nel corso del 2012. Ciò premesso, in tutto il mondo si affrontano notevoli incertezze dovute alla gravità della crisi 2008-2009, alla risposta senza precedenti dei policy makers e al perdurare degli squilibri nazionali e globali.

UniCredit prevede una stabilizzazione dell’economia europea durante l’inverno, seguita da un moderato miglioramento della crescita, che dovrebbe tornare ad attestarsi intorno all’1,5% annualizato verso la fine del 2012. Il consolidamento fiscale e il perdurare dell’incertezza freneranno la crescita, e le condizioni monetarie restrittive dei paesi periferici ne penalizzeranno ulteriormente la ripresa.

Nel caso di Italia, Portogallo e Grecia, gli economisti di UniCredit prevedono una contrazione del PIL nel 2012. È importante sottolineare che i bilanci del settore privato restano buoni nella maggior parte dei paesi dell’Eurozona, compresa l’Italia. La ripresa delle esportazioni è già iniziata in tutta la periferia dell’Eurozona, con una tendenza destinata a proseguire.

Se le previsioni sul PIL sono corrette, la ripresa dei mercati dovrebbe continuare. La mossa aggressiva della BCE sulla liquidità, attuata nel suo primo step in dicembre, contribuirà positivamente. Gli spread dovrebbero diminuire, i titoli azionari recuperare e dato che le banche godono di maggiore accesso alla liquidità della BCE, sia in euro sia in dollari, la necessità da parte loro di vendere attività denominate in valuta estera diminuirà, cosa che lascia prevedere un ulteriore indebolimento dell’euro.

Tuttavia, affinché tali prospettive di un moderato miglioramento possano concretizzarsi, è fondamentale che gli investitori inizino a tranquillizzarsi. Nonostante gli aggiustamenti fiscali e strutturali senza precedenti in tutta la periferia dell’Eurozona, gli investitori rimangono cauti. Sono preoccupati per l’atteggiamento esitante della BCE rispetto al ripristino di un corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria, che ha determinato differenze insostenibili nelle condizioni monetarie all’interno dell’Eurozona. Inoltre, nutrono preoccupazioni per l’incertezza che circonda la possibile partecipazione del settore privato alle future rinegoziazioni del debito. Di conseguenza, quella che in ultima analisi è una crisi sovrana si è diffusa diventando una crisi del settore finanziario e in alcuni paesi inizia a minacciare il settore privato non finanziario e la coesione sociale.

Nel frattempo, le incertezze continuano a restare radicate negli squilibri globali sottostanti, che hanno svolto un ruolo importante nell’innescare la crisi del 2008. Tali squilibri vengono affrontati molto lentamente o non vengono affrontati affatto. Negli USA, dove nel 2011 la crescita è stata praticamente pari a quella dell’Eurozona, è probabile che i consumi privati, in parte sotto la spinta del corrente stimolo fiscale e della riduzione dell’inflazione, favoriscano in qualche modo un miglioramento della crescita nel 2012, ma il debito pubblico come percentuale sul PIL si sposta verso il 100% e i bilanci delle famiglie restano estremamente vulnerabili. Il tasso di risparmio statunitense resterà inferiore al 4% del reddito: un terzo rispetto a quello dell’Eurozona.

La Cina, che in termini numerici ha prodotto più di un terzo della crescita globale nel 2011, non ha ancora fatto significativi passi avanti nel proprio piano a lungo termine per favorire la domanda interna rispetto a quella estera. Di conseguenza l’economia cinese ha subito un rallentamento nel secondo semestre del 2011 a causa dell’indebolimento dei mercati dell’esportazione. Resta da vedere se le autorità saranno in grado di dare un’altra spinta alla crescita attraverso l’investimento pubblico in infrastrutture e nel settore immobiliare nonché attraverso imprese statali.(Beh, buona giornata).

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3DNews/Il manuale per gli ammutinati? E’ sotto il Vesuvio.

di Giulio Gargia
Qualche anno fa una delle sigle dei movimenti altermondialisti più presenti alle manifestazioni era quella dei “ disobbedienti”. Si presentavano con scudi di plastica e caschi per andare a violare le “ zone rosse” dei G8 e prendersi inevitabilmente un po’ di botte e cariche dalla polizia. Lo facevano per rappresentare plasticamente la necessità di disobbedire al demenziale ordine mondiale delle banche e della finanza senza regole che ci ha portati al naufragio attuale. Spiaggiati sullo spread, in attesa che qualcuno ci venga a salvare, evitando il disastro in cui ci ha precipitato un comportamento irresponsabile, che ha negato il pericolo fino all’ultimo.

Ha scritto qualcuno su Twitter che a Schettino mancava soltanto dire “ mi consenta” per completare il quadro e il paragone con il comportamento del nostro ex-premier. Sulla nave, davanti a questo modo di essere, evidente a tutti, l’unico comportamento responsabile è stato l’ammutinamento. Solo così, grazie alla disubbidienza attiva di un gruppo di persone consapevoli, a bordo e sulla costa, si è evitato che la tragedia si trasformasse in una vera e propria strage. E la forza di questo esempio, moltiplicato dall’attenzione mediatica che si riversa sull’Italia da tutto il mondo, ci fa pensare, per suggestione, a cosa dovrebbe accadere in economia, davanti a un meccanismo che con tutta evidenza ci sta portando a sbattere contro scogli da tutti segnalati da tempo: l’esaurirsi delle risorse del pianeta, l’abbandono di ogni senso del bene comune, lo strapotere di pochi ultraricchi che vogliono solo continuare su questa rotta, guidati solo dal pilota automatico del PIL e dello sviluppo senza progresso ormai sempre più insostenibile. In questa situazione siamo chiamati alla ribellione civile, a richiamare tutti quegli Schettino dell’economia e della politica che sono indegnamente ai loro posti di comando.

Dobbiamo dire, con tutta la forza che abbiamo : “ ora comando io “. E riscrivere le carte navali della nostra navigazione . Come sta facendo Serge Latouche, in questi giorni a Napoli per presentare il disegno di un nuovo modo di pensare e di produrre ( http://www.napolicittasociale.it ) per uscire dalle secche della “crescita obbligatoria” e tornare a vivere senza l’incubo dello spread. Perchè oggi, ammutinarsi è una necessità da cui dipende la nostra vita. Sul Concordia ce lo hanno mostrato senza equivoci. Sta a noi capire ed agire di conseguenza. (Beh, buona giornata).

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Dibattiti Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

L’Italia alle prese con BBB+ /3.

di BILLY EMMOTT-lastampa.it

L’indisciplina degli Stati membri che ha portato alla crisi dell’euro, ha scritto nel giugno scorso un saggio, è nata da «una malsana cortesia reciproca e dall’eccessiva deferenza verso gli Stati membri di grandi dimensioni». Questo saggio è il professor Mario Monti, autore di un blog per il «Financial Times».
Ora che è il presidente Monti, e ora che la crisi dell’euro si sta di nuovo intensificando, è tempo che segua il suo stesso eccellente consiglio.

Dobbiamo sperare che, nei suoi incontri con il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, abbia già parlato in modo chiaro e diretto. Se così non fosse, questo è ciò che dovrebbe dire.

«Cari colleghi, come ben sapete mi piace dire che io sono il più tedesco tra tutti gli economisti italiani. Bene, ora sarò anche americano e senza peli sulla lingua. Sotto la vostra guida, la zona euro non riesce ancora ad affrontare la realtà. Sì, noi italiani siamo stati molto, molto lenti ad affrontarla, ma ora stiamo lavorando sodo. Adesso tocca a voi.

«In un attimo tornerò alla realtà italiana perché il nostro lavoro, lo so, è appena iniziato. Ma se la zona euro prosegue così com’è allo stato attuale, il nostro lavoro sarà distrutto in ogni caso, perché le nostre banche e la valuta crolleranno. Ci sono due realtà che finora avete rifiutato di accettare e affrontare.

«La prima è che la Grecia getta ancora un’ombra fosca su tutti gli altri membri dell’eurozona. Perché? Perché chiunque sia in possesso di una calcolatrice tascabile, per non dire di un computer, può capire che non sarà in grado di rimborsare i debiti, anche se i creditori privati accetteranno un’enorme riduzione del valore dei loro prestiti. Le voci sulla riduzione per ora sono cessate, ma anche se alla fine si farà, la Grecia, secondo previsioni piuttosto ottimistiche, ridurrà semplicemente il suo debito pubblico al 120% del Pil entro la fine del decennio.

«Le finanze pubbliche italiane sono state sull’orlo di una crisi con gli oneri finanziari saliti a oltre il 7%. Siamo molto più deboli, in termini economici, di quanto ci siamo raccontati nel decennio passato, ma siamo ancora molto più forti della Grecia, quindi se siamo vicini a una crisi con il nostro debito al 120% del Pil, come sopravviverà la Grecia con oneri finanziari sempre maggiori e con un’economia molto più debole? Questo significa solo che ci sarà una nuova crisi greca ogni pochi mesi, che per contagio ci danneggerà tutti.

«Sappiamo tutti che, in primo luogo la Grecia non avrebbe dovuto essere autorizzata a partecipare all’euro, e la verità è che anche all’Italia non avrebbe dovuto essere consentito farlo, perché i nostri debiti erano troppo alti. Ma questa è storia. La realtà attuale è che ora la Grecia deve lasciare l’euro, perché altrimenti la sua insolvenza continuerà ad avvelenarci tutti. Dovrebbe farlo con tutto l’aiuto finanziario possibile che noi e il Fondo monetario internazionale possiamo offrire, ma il punto importante è che dovrebbe farlo presto.

«Quando ciò accadrà, gli altri Paesi altamente indebitati, prima fra tutti l’Italia, saranno duramente colpiti dalla speculazione dei mercati sul nostro prossimo default e successiva uscita di scena. Il lavoro principale per dimostrare che ciò non è vero sta a noi: in Italia occorre fare di più per dimostrare che abbiamo un piano credibile a lungo termine per ridurre il nostro debito pubblico al livello del Trattato di Maastricht, il 60% del Pil, probabilmente entro 10 – 15 anni, introducendo allo stesso tempo misure per far crescere di nuovo la nostra economia con un tasso medio annuo di almeno il 2%.

«Stiamo lavorando a questo, come sapete, e il mio governo si accinge a presentare la prossima fase del programma di riforme. Ma la seconda realtà è che abbiamo bisogno del vostro aiuto, sia per sopravvivere abbastanza a lungo perché le riforme producano il loro effetto, e ancora di più per sopravvivere all’inevitabile e auspicabile uscita greca dall’euro.
«Pubblicamente, avete dichiarato che il fiscal compact, il patto fiscale che tutti noi (tranne la Gran Bretagna) abbiamo accettato di 9 dicembre, è la soluzione che l’euro richiede. Ma cerchiamo di affrontare la realtà, non dobbiamo essere troppo educati e deferenti: sappiamo tutti che questo non è vero. Non è vero perché anche con un trattato non c’è motivo perché i mercati credano alle nostre promesse di contenere il disavanzo pubblico e (nel caso dell’Italia) dimezzare il debito pubblico in rapporto al Pil. Queste promesse sono necessarie e importanti, ma non sono sufficienti e non sono credibili.

«Non sono credibili a causa della Grecia, come ho già detto, ma anche perché il passaggio dal peccato alla virtù sta andando troppo per le lunghe. La politica e gli imprevisti sono destinati a intervenire, mettendo in forse le nostre promesse. E come ha sottolineato la Banca centrale europea, i mercati possono già vedere come tutti stiamo cercando di indebolire le disposizioni del trattato, per renderci più accettabile l’idea di mancare gli obiettivi del deficit e del debito. I mercati sanno che la Germania e la Francia nel 2003 hanno distrutto il patto di stabilità e crescita, quindi ci sta che diffidino ancora una volta di noi e delle nostre promesse.

«No, miei cari colleghi, questo fiscal compact non è sufficiente, né i miei piani nazionali di austerità e liberalizzazione dei piani basteranno per distinguere in modo sicuro l’Italia dalla Grecia quando quel Paese andrà in default. L’unico modo per risolvere questo problema, l’unico modo per far sì che l’inevitabile uscita della Grecia non sia un disastro, è che voi due, il che significa soprattutto la Germania, accettiate la responsabilità collettiva per i debiti della zona euro, emettendo eurobond garantiti congiuntamente.

«Questi eurobond possono avere una durata limitata nel tempo e devono essere subordinati sia al fiscal compact sia ai nostri piani di liberalizzazione interna. Ma senza di essi, l’euro semplicemente non sopravviverà. So che questo significherà che il credito di ognuno verrà declassato, proprio come lo è stata la Francia e che ci sarà un grande scontro nella politica tedesca. Mi dispiace di essere maleducato, ma come direbbero gli americani: Guardate in faccia la realtà. Svegliatevi e sentite l’odore del caffè. E voi sapete che il miglior caffè lo facciamo noi italiani».
(Beh, buona giornata).

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L’Italia alle prese con BBB+ /2.

di MASSIMO GAGGI – corriere.it
L’abbassamento di due punti del rating dell’Italia è di certo un duro colpo per il governo Monti che ha ereditato una situazione difficilissima, ha adottato misure correttive assai penose per i cittadini ma apprezzate in Europa, e che da oggi si ritrova a dover percorrere un sentiero ancora più stretto e pieno di insidie. Ma se la decisione annunciata ieri sera da Standard & Poor’s è una bocciatura dell’Italia – pur con un apprezzamento per l’azione del governo Monti, mitigato però dal timore che le sue riforme, definite ambiziose, vengano frenate da un’opposizione politica -, il «declassamento di massa» è una dichiarazione di sfiducia nell’euro. Dunque un giudizio con una larga componente politico-istituzionale da parte di un’agenzia di rating americana: cioè di un Paese da sempre scettico sul destino della moneta unica, che negli eventi degli ultimi mesi ha trovato la conferma della fondatezza dei suoi dubbi.

Reagire prendendosela con gli Usa o invocando compartimenti stagni, con l’Europa giudicata da organismi di valutazione europei, non avrebbe, però, senso: tra l’altro le strutture di analisi di queste agenzie sono ormai globalizzate e al «downgrading politico» non sono sfuggiti nemmeno gli Stati Uniti che ne hanno subito uno sei mesi fa motivato con la caotica gestione del debito pubblico da parte del Congresso. Washington, poi, ha già ricevuto più di un avvertimento: presto arriverà un’altra bocciatura, con motivazioni analoghe.

Il nodo vero è che questi giudizi, che dovrebbero servire a mettere in allarme gli investitori segnalando loro rischi che non hanno ancora percepito (adeguando di conseguenza i relativi rendimenti), in realtà arrivano quando quelle preoccupazioni sono ormai ampiamente diffuse nei mercati che hanno già eseguito le loro correzioni: un intervento prociclico, che rischia di portare a un eccessivo squilibrio della reazione di mercati fin troppo reattivi, coi nervi messi a dura prova da quattro anni di crisi durante i quali ha quasi sempre piovuto sul bagnato.

Negli Stati Uniti e anche in Europa sono stati fatti vari tentativi di ridurre l’impatto di questi giudizi negativi. Ad agosto, dopo il downgrading Usa, il Tesoro americano autorizzò le banche locali a continuare a sottoscrivere titoli del governo federale senza effettuare gli accantonamenti di bilancio richiesti quando c’è un aumento del rischio. E le norme sui mercati finanziari varate a Washington l’anno scorso riducono per molte emissioni di bond l’obbligo di essere corredate dai giudizi di una pluralità di agenzie. È, inoltre, aumentata l’attenzione sui conflitti d’interesse che possono condizionare questi organismi.
Ma alla fine, trattandosi di società private, la soluzione verrà solo dall’allargamento della platea degli operatori, superando l’oligopolio S&P-Moody’s-Fitch. È il caso delle nuove agenzie che stanno emergendo in America e anche di quella cinese che, peraltro, Francia e Italia le aveva già declassate a dicembre.

Insomma dobbiamo abituarci – opinione pubblica e mercati – ad avere reazioni meno «accaldate» cogliendo, al tempo stesso, il messaggio, non nuovo, che esce rafforzato dal giudizio di Standard & Poor’s: quella europea è una crisi profonda che non ha soluzioni facili. Il percorso da compiere è lungo e pieno di insidie. Decise le manovre necessarie per disinnescare i meccanismi della crescita del debito pubblico, ora l’enfasi va posta sullo sviluppo delle economie dell’Unione e su una maggiore solidarietà tra le varie capitali per rafforzare l’euro con un’unità d’intenti almeno sulle politiche fiscali, di bilancio e del lavoro.

Certo, anche se accompagnata dalle «bocciature» di parecchi altri Paesi, dalla Francia all’Austria, dalla Spagna al Portogallo, il passo indietro di due caselle dell’Italia, che la porta al livello di Paesi come il Perù, non è di certo incoraggiante per il nostro governo. Ma questo declassamento non può cancellare la consapevolezza che il Paese sta finalmente tentando di imboccare la direzione giusta. Un dato che, oltre che dalle istituzioni e dai partner europei, viene riconosciuto anche dai mercati che col positivo andamento delle aste dei titoli del Tesoro, soprattutto a breve termine, dimostrano di avere una certa fiducia sulla stabilizzazione della situazione italiana, almeno nei prossimi 12-18 mesi.

Ma è difficile andare oltre questa scadenza nelle previsioni, le nuvole all’orizzonte sono ancora troppo fitte: alle incertezze di un quadro politico caratterizzato da una tregua che potrebbe non durare a lungo, si aggiungono quelle che derivano dalla stagnazione. Per questo da oggi diventano ancora più importanti le politiche per la crescita che Monti, varata la manovra fiscale, ha messo al centro del suo programma. Per rendere gestibile il debito pubblico e farlo diminuire rispetto al Pil il governo ha bisogno di far crescere le attività produttive, evitando, al tempo stesso, impennate dei tassi. Qui, purtroppo, la mossa di S&P, che arriva proprio quando si vedeva qualche spiraglio di luce, non aiuta: già ieri sera a Wall Street alcuni analisti invitavano gli investitori a cautelarsi rispetto a rischi crescenti di «monetizzazione» del debito pubblico dei Paesi europei. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

L’Italia alle prese con BBB+

di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
All’indomani del cosiddetto “tsunami” provocato dall’agenzia di rating Standard&Poor’s ci sono alcuni fatti certi dai quali bisogna partire. Sono i seguenti:
1. Lo “tsunami” non c’è stato. Le Borse hanno registrato modesti ribassi, Piazza Affari ha perso l’1 per cento, le altre Borse europee hanno oscillato intorno al mezzo per cento di perdita, l’Austria, colpita anch’essa dal “downgrade”, ha addirittura chiuso in rialzo.
2. Standard&Poor’s ha declassato nove paesi su diciassette, cioè ha attaccato non un paese specifico ma l’intera economia europea e quindi, indirettamente, anche la Germania che senza l’Europa vivrebbe malissimo. Si è trattato dunque d’un giudizio politico più che economico.
3. Per quanto riguarda l’Italia questo attacco ha avuto come effetto quello di rafforzare il governo Monti, tanto più che la stessa Standard&Poor’s ha apprezzato la politica di Monti nel momento stesso in cui declassava di due punti il nostro debito sovrano mandandolo in serie B.
4. I rendimenti dei nostri Bot e dei nostri Btp alle aste di giovedì e di venerdì sono stati ottimi per i Bot e buoni per Btp triennali.
5. La Bce ha confermato che il valore dei “collaterali” che le banche danno in garanzia dei prestiti loro accordati dalla Banca centrale non subiranno alcun mutamento; la Bce cioè non terrà in nessun conto i giudizi negativi dell’agenzia di rating. Le notizie che davano per certo un peggioramento del valore dei collaterali erano dunque sbagliate o false.

Le aste italiane di giovedì e venerdì hanno comunque confermato che la fiducia nel nostro debito sta tornando e dai Bot si sta gradualmente allargando anche sui Btp ed infatti, confrontando i tassi spuntati alle aste di gennaio con quelli delle aste di novembre si hanno i seguenti risultati: Bot a sei mesi dal 6,5 al 3,2; Bot a dodici mesi dal 5,9 al 3,2; Btp a tre anni da 7,9 a 4,8; Btp a dieci anni da 5,7 a 4,9.

È possibile che nella seduta di domani alcuni di questi tassi peggiorino sul mercato secondario che però, per quanto riguarda gli oneri del Tesoro, non hanno alcuna ripercussione. Per quanto riguarda l’Italia, se ne riparlerà soltanto alle aste di febbraio e marzo che avranno dimensioni imponenti. Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un’operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.

La prima conclusione che questi dati suggeriscono nel loro complesso è dunque abbastanza rassicurante. I risparmiatori e le banche hanno ricominciato a investire in titoli italiani di breve scadenza ma anche in Btp di scadenza media. Auspichiamo che questo processo si estenda tenendo presente che il 19 febbraio la Bce aprirà un secondo sportello alle banche europee per prestiti triennali di ammontare illimitato al tasso dell’1 per cento e con collaterali a valore invariato. Si tratta di fatto di uno schiaffo sulla faccia dei dirigenti di Standard&Poor’s.

* * *

Il presidente Napolitano ha indirizzato due messaggi pubblici all’Europa con due principali destinatari: la Merkel e Sarkozy, che saranno a Roma nei prossimi giorni. Un messaggio, il giorno precedente al downgrade di Standard&Poor’s, puntava sulla necessità di un governo economico europeo e in particolare dei diciassette paesi dell’Eurozona; il secondo auspicava un ruolo non solo economico ma politico dell’Unione, esteso dunque non solo all’economia ma all’immigrazione, alla giustizia, agli investimenti intraeuropei e a una diversa configurazione della governance.

La Francia continua ad essere riottosa alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali all’Unione; la Germania lo è altrettanto, ma ambedue cominciano a rendersi conto dell’urgenza di un nuovo trattato e della necessità di ridurre al minimo i poteri di veto dei singoli Stati. Sullo sfondo ci dovrebbe essere l’istituzione degli eurobond e i poteri di intervento diretto della Bce anche sui debiti sovrani.
Le dichiarazione della Merkel di ieri non dicono granché su questi obiettivi di sfondo ma finalmente puntano anche sulla necessità della crescita oltreché del rigore. Ma soprattutto vogliono sottoporre le agenzie di rating a una disciplina giuridica che vada al di là di un semplice codice etico peraltro inesistente, almeno finora.

Non c’è dubbio che l’esigenza di disciplinare le agenzie di rating con regole oggettive sia a questo punto una necessità senza tuttavia negare ad esse la libertà di esprimere documentati giudizi. L’attenzione va posta soprattutto su quell’aggettivo: documentati. Ma lo spazio pubblico europeo non può esser negato a nessuno. Se le agenzie di rating passano da giudizi strettamente economici a giudizi prevalentemente politici come è avvenuto l’altro ieri, le regole non valgono più ma in compenso l’oggettività del giudizio economico diminuisce di altrettanto.
Se l’onorevole Di Pietro e il senatore Bossi reclamano elezioni a primavera nessuno può né deve metter loro il bavaglio ma ogni persona sensata e consapevole del fatto che durante tutto l’anno ci saranno in Europa 1200 miliardi di titoli pubblici in scadenza non può che giudicarli demagoghi pericolosi o personaggi fuori di testa. Analogo giudizio daranno i mercati se le agenzie di rating attaccheranno l’esistenza d’una moneta e le politiche di un intero continente anziché dimostrare la fragilità dei suoi “fondamentali”.
Da questo punto di vista la Merkel è sulla buona strada quando dice – come ha dichiarato ieri – che il Fondo di intervento sui debiti sovrani opererà comunque, anche se non otterrà la tripla A dalle agenzie di rating e Draghi ha fatto benissimo a mantenere inalterato il valore dei collaterali di garanzia ai prestiti della Bce anche se composti da titoli di debiti svalutati da quelle agenzie.

* * *

Abbiamo già osservato che il downgrade di Standard&Poor’s ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo. Soprattutto gli ha dato ottime carte da giocare nei prossimi incontri trilaterali e alla riunione del vertice europeo di fine gennaio. Ma ha rafforzato il governo anche di fronte alle forze politiche e a quelle sociali.
Il programma di liberalizzazioni sarà varato tra pochissimi giorni. Ha già il pieno favore del Pd e del Terzo Polo. Il Pdl manifesta alcune incertezze e le maschera dietro la distinzione tra poteri forti da liberalizzare e poteri deboli (leggi tassisti ed altri) da risparmiare o postergare. La risposta di Monti è ineccepibile: le liberalizzazioni riguarderanno tutte le categorie, poteri forti e poteri diffusi. Tutti nello stesso decreto.

Osservo dal canto mio che i tassisti sono un potere diffuso ma non un potere debole. Come lo sono i camionisti. Come lo sono gli allevatori di mucche inadempienti alle regole comunitarie. Chiamarli poteri deboli è un errore lessicale e alquanto demagogico. Ci sono certamente alcuni punti sostenuti da queste categorie che vanno risolti con equità a cominciare da quello che riguarda le vecchie licenze dei tassisti. Per il resto, il trasporto urbano è un pubblico servizio e va regolato a vantaggio dei consumatori, altrimenti che servizio pubblico sarebbe?
Farmacie, notai, ordini professionali, vanno tutti ripensati alla luce del concetto di tutela della concorrenza. Così sembra formulato il decreto che sta per essere emesso. Gli ordini non vanno aboliti ma debbono avere un solo e fondamentale obiettivo: essere i custodi del canone etico e deontologico degli associati. Gli ordini non sono un sindacato, perciò non possono occuparsi di tariffe e di altre questioni economiche. Debbono occuparsi dell’etica e lo debbono fare nell’interesse della società civile per la quale l’esistenza degli ordini deve essere una garanzia di professionalità dei loro aderenti……..(Beh, buona giornata).

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Cultura Fumetti. Popoli e politiche Potere

3DNews/Francia, un fumetto racconta i segreti diplomatici occidentali.

Ieri è stato pubblicato in Francia il secondo volume a fumetti disegnato dall’autore francese Christophe Blain dedicato al “Quai d’Orsay” e ai suoi segreti. “Quai d’Orsay” è l’indirizzo e il nome con cui è conosciuto il ministero degli Esteri francese, e la storia di Blain, ben documentata, si basa sui racconti di un ex responsabile del ministero che si nasconde dietro lo pseudonimo di Abel Lanzac e che compare in copertina come coautore.

Il primo volume è stato da poco pubblicato da noi dall’editore Coconino Press: il protagonista è un giovane consulente e ghost-writer assunto nello staff di un ministro degli Esteri ispirato chiaramente a Dominique de Villepin. Il secondo volume, con molto umorismo, spiega i negoziati del 2003 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul disarmo dell’Iraq e il ruolo che in quell’occasione ebbe il ministero francese.
(vedi le tavole del primo volume su http://www.ilpost.it/2011/11/27/fumetti-quai-orsay

Quai d'Orsay.

Il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un’intervista all’autore ex collaboratore di Dominique de Villepin, che ha accettato a patto di mantenere l’anonimato.

Di sé dice soltanto: «Ho studiato la resistenza. Oggi sono un inventore di giochi. Ho una conoscenza generale del gioco: la vita ne è un esempio quando non è tragica. Per questo motivo ho scritto il Quai d’Orsay». E spiega:
«Quello che mi interessa è come funzionano le cose. I negoziati delle Nazioni Unite hanno avuto diversi livelli (…). Abbiamo cercato di ricostruire questa verità attraverso le storie che raccontiamo. Ma la verità più la si racconta più la si inventa: è il principio della sintesi. Quai d’Orsay è una sintesi, non un documento storiografico.
Quando si è vissuto in un certo ambiente, sembra ancora di sentirne parlare i personaggi. Di fronte a una certa situazione, sappiamo quello che avrebbero potuto dire. Siamo in grado di farli parlare, di farli muovere. Questo non significa che le parole attribuite pretendano di essere precise: i nostri personaggi vivono una loro vita, indipendentemente da noi che li abbiamo ispirati».

Sulla somiglianza tra Taillard (il personaggio che nel libro rappresenta il primo ministro) e Villepin l’autore spiega:
«È molto divertente: se guardate da vicino, Taillard non assomiglia assolutamente a Villepin. Guardate il suo naso lungo, dritto e stretto, le sue spalle spioventi. Ma Christophe Blain ha catturato nella sua linea qualcosa di più profondo che la somiglianza fisica. E questo è vero anche per il carattere. C’è un effetto di somiglianza che nasce, paradossalmente, dalla libertà che ci siamo dati nel plasmare il suo personaggio».

E quando gli viene chiesto se avesse avuto qualche problema dopo che molti collaboratori del ministero si sono riconosciuti nei personaggi, lui risponde:
«È piuttosto divertente diventare un eroe dei fumetti, vero? Detto questo, se faccio il conto, i dodici personaggi del Quai d’Orsay sono la sintesi di una trentina di persone. Nessuno è puro. E no, ho avuto nessun problema, anzi».

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Politica Popoli e politiche

“È ora di progettare seriamente un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”.

di Guido Viale, da il manifesto, 29 novembre 2011

Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell’ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan).

Il liberismo ha di fatto esonerato dall’onere del pensiero e dell’azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, “i mercati”; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un’attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell’auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un’inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell’Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai “mercati” ha significato la rinuncia a un’idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra – quella “vera”, come la vorrebbero quelli di sinistra – è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora “un vero programma” (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.

Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che “i mercati” gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo – risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa – ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi.

Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po’ lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, “di nascosto”). Se la Bce è oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di “creare moneta” è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i “mercati”. E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di “denaro virtuale”: se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto – anzi molto spesso – una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell’acquisto di un’azienda, una banca, un albergo, un’isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l’umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro “fittizio” – che fittizio non è – si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e “prestiti d’onore”), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non – probabilmente – con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l’idea di pagare il debito con altro debito si chiama “schema Ponzi”, dal nome di un finanziere che l’aveva messa in pratica negli anni ’30 del secolo scorso (al giorno d’oggi quell’idea l’hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama “catena di Sant’Antonio”. In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell’immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell’acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l’intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l’Italia: paghiamo quest’anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L’anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell’anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni – da quando hanno cominciato a correre – e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l’economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l’evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di “politica”, della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale – e ci stanno – per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte – non tutti – gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto “risorse inutilizzate”: lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e “risparmi” che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo “generose”! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all’anno. E da una “riforma” anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all’anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant’altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l’economista di riferimento, quest’ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell’economia di un intero paese. Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da “saldare” si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governo potrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un’impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene (anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L’altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream – e in primis dai bocconiani – è la “crescita”. A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve “costituzionalizzato”, cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la “crescita” del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le “grandi opere” (in primis il Tav).

Ma per raggiungere con l’aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi”; in un periodo in cui l’Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l’Europa sta per entrarci, l’euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l’economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale – di cui nessuno vuole più parlare – e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire.

È ora di pensare – e progettare seriamente – un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c’è niente di utopistico in tutto questo; basta – ma non è poco – l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

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Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

Cgia di Mestre: “Negli ultimi 12 anni 20 manovre per 575 miliardi”.

Il segretario Bortolussi: “Nel 2011 si sono sovrapposti i risultati di dieci provvedimenti presi negli ultimi anni, con effetti sui conti pubblici per 77 miliardi”. E lancia l’allarme: “Nel 2013, anno del pareggio di bilancio, raggiungeremo gli 84″.

Per migliorare la situazione dei nostri conti pubblici, negli ultimi 12 anni abbiamo subito 19 manovre correttive. Se aggiungiamo anche quella che si appresta a fare nei prossimi giorni il governo Monti, la dimensione economica complessiva di queste 20 finanziarie ammonta a 575,5 miliardi di euro”. Lo rileva la Cgia di Mestre secondo la quale se, invece, si “analizzano gli effetti economici complessivi che gravano sulle tasche dei cittadini italiani, nel periodo compreso tra il 2000 ed il 2014, anno quest’ultimo in cui dovrebbero terminare gli effetti delle misure economiche prese in quest’ultima legislatura, ciascun italiano, al fine di correggere il nostro deficit pubblico, si sarà sobbarcato un costo totale di 6.178 euro”.

La Cgia ha ricostruito, a partire dal 2000, gli effetti economici delle manovre correttive approvate dai vari Governi che si sono succeduti in questi ultimi 12 anni. “E’ interessante notare – osserva il segretario Giuseppe Bortolussi – che dal 2008 le manovre correttive sono pluriennali. In pratica esplicano i loro effetti in più anni. Nel 2011, ad esempio, si sovrappongono i risultati di 10 provvedimenti presi precedentemente che producono degli effetti economici sui nostri conti pubblici per un importo totale pari a 77 miliardi di euro. Purtroppo le brutte notizie non terminano qui”.

“Nei prossimi anni – conclude Bortolussi – le cose non miglioreranno di molto. Anzi, nel 2013, anno in cui è previsto il pareggio di bilancio, la dimensione delle misure prese in questi ultimi anni raggiungerà il livello record di 84 miliardi di euro per un costo, finalizzato a migliorare la correzione del deficit, pari a 1.302 euro pro capite”.
La Cgia spiega che gli importi dei provvedimenti presi in esame in questi ultimi 12 anni sono stati rivalutati a prezzi costanti 2010. Inoltre, si è ipotizzato che la manovra economica da 25 miliardi che il nuovo governo Monti presenterà nelle prossime settimane, sia destinata interamente alla correzione del deficit pubblico. (Beh, buona giornata)
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L’euro brucia?

(fonte: repubblica.it)

Le “banche preparano un piano di emergenza per il crollo dell’euro”. E’ questo lo scenario descritto in un editoriale di The New York Times. “Al crescente coro di osservatori che teme che il crollo dell’eurozona sia a portata di mano, Angela Merkel ha risposto a chiare lettere: è uno scenario che non potrà mai verificarsi. Ma alcune banche non ne sono più così sicure” si legge nell’editoriale. “In particolare – continua – perchè la crisi del debito sovrano ha minacciato di investire la stessa Germania questa settimana, quando gli investitori hanno iniziato a mettere in dubbio il rango di principale pilastro della stabilità europea del Paese”.

“Ieri, Standard & Poor’s – ricorda Nyt – ha ridimensionato il rating del Belgio da AA+ ad AA, evidenziandone l’impossibilità di ridurre in tempi rapidi il fardello del debito. Le agenzie di rating hanno inoltre avvertito che la Francia potrebbe perdere il suo rating AAA se le proporzioni della crisi aumentassero. Giovedì erano inoltre stati abbassati i rating di Portogallo e Ungheria, accostati a spazzatura. Mentre i leader europei sostengono che non ci sia ancora bisogno di approntare un piano B, alcune delle principali banche mondiali, ed i loro supervisori, stanno predisponendo proprio questo”.

“Non possiamo essere, e non lo siamo, compiacenti su questo fronte”, ha affermato Andrew Bailey, funzionario dell’Autorità dei Servizi Finanziari della Gran Bretagna. “Non dobbiamo ignorare la prospettiva di un allontanamento disordinato di alcuni Paesi dall’eurozona” ha aggiunto.

“Banche come Merrill Lynch, Barclays Capital e Nomura – continua l’editoriale de The New York Times – hanno diffuso una cascata di rapporti questa settimana che esaminano la possibilità di un crollo dell’eurozona”. “La crisi finanziaria dell’eurozona è entrata in una fase ben più pericolosa” hanno scritto venerdì gli analisti della Nomura. “A meno che la Banca Centrale Europea intervenga per aiutare dove i politici hanno fallito, un collasso dell’euro al momento sembra più probabile che possibile” ha detto la banca.

“I principali istituti finanziari britannici, come Royal Bank of Scotland, stanno predisponendo piani di emergenza nel caso l’impensabile viri verso la realtà, hanno indicato i loro supervisori giovedì”, riporta ancora l’editoriale di Nyt. “Le authority degli Stati Uniti -c ontinua ancora l’editoriale – stanno incalzando le banche americane come Citigroup ed altri istituti, a ridurre l’esposizione verso l’eurozona. In Asia, le autorità di Hong Kong hanno intensificato il monitoraggio dell’esposizione delle banche straniere e nazionali alla luce della crisi europea”.

“Ma le banche dei grandi paesi dell’eurozona che solo recentemente sono stati infettati dalla crisi non sembrano essere così agitate. Banche in Francia e Italia in particolare, – si legge ancora nell’editoriale de The New York Times – non starebbero creando piani di backup, affermano i banchieri, per la semplice ragione che essi hanno concluso che è impossibile che l’euro possa crollare. Sebbene banche come Bnp Paribas, Sociètè Gènèrale, UniCredit ed altre hanno recentemente scaricato decine di miliardi di euro di debito sovrano europeo, il pensiero è che ci sono pochi motivi per fare di più”. “Mentre negli Stati Uniti vi è chiaramente una visione che l’Europa può naufragare, qui, crediamo che l’Europa deve rimanere così com’è” ha detto un banchiere francese, riassumendo il pensiero delle banche francesi.

“Così nessuno dice, Abbiamo bisogno di un ripiego” ha detto il banchiere, che non era autorizzato a parlare pubblicamente”. “Quando Intesa Sanpaolo, la seconda banca più grande d’Italia, ha valutato diverse situazioni in preparazione per il suo piano strategico 2011-13 a marzo scorso, nessuna – continua l’editoriale – si basava sul possibile crollo dell’euro”, e “anche se la situazione si è evoluta, non abbiamo rivisto il nostro scenario per tenere conto di questo” ha detto Andrea Beltratti, presidente del consiglio di amministrazione della banca” si legge ancora su The New York Times.

“Mr. Beltratti – prosegue il giornale – ha detto che le banche sarebbero le ‘prime del branco’ in caso di nervosismo crescente sull’euro, e che Intesa Sanpaolo è stata “molto attenta” dal punto di vista della liquidità e del capitale. Nella tarda primavera, la banca ha alzato il suo capitale da cinque miliardi di euro, uno dei maggiori incrementi in Europa”.

“Mr. Beltratti – riferisce ancora l’editoriale – ha detto che l’Italia, come l’Unione europea, potrebbe adottare una serie di misure politiche che potrebbero tenere a bada la crisi della moneta unica. Io certamente mi sentivo più sicuro pochi mesi fa, ma mi sento ancora ottimista”. “I leader europei di questa settimana hanno dichiarato di essere più determinati che mai a mantenere la moneta unica in vita, specialmente con le elezioni più importanti che si profilano in Francia l’anno prossimo ed in Germania nel 2013. Se non altro, – conclude l’editoriale – la signora Merkel ha detto che avrebbe raddoppiato i suoi sforzi per spingere l’Unione verso una maggiore unità fiscale e politica”.
(beh, buona giornata)

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3DNews/UNA GRAPHIC NOVEL PER RICORDARE MARIA GRAZIA CUTULI.

di Barbara Leone

Una vita dedicata al giornalismo. In Dove la Terra Brucia è narrata l’intera vicenda professionale di Maria Grazia Cutuli, giornalista del Corriere della Sera rimasta uccisa in un agguato in Afghanistan, sulla strada tra Jalalabad e Kabul, il 19 novembre 2001.

Il libro, realizzato da Giuseppe Galeani e Paola Cannatella, catanesi come Maria Grazia ed edito da Rizzoli Lizard, si presenta come una graphic novel che, partendo dal 26 ottobre 2001, giorno del 39esimo compleanno della giornalista, racconta il cammino percorso da Maria Grazia per diventare la grande inviata di guerra che è stata. Frequenti flash back rimandano all’inizio della carriera della giornalista che nel 1986 fu costretta a lasciare Catania, città in cui era molto difficile fare informazione a livello professionale, per trasferirsi a Milano dove, prima di approdare al Corriere lavorò per Epoca, rivista per cui, in cambio delle ferie, cominciò a fare trasferte all’estero.

Fil rouge del racconto è l’etica professionale del giornalismo, caratteristica che ha sempre contraddistinto Maria Grazia. Non mancano descrizioni particolareggiate del carattere della reporter, rese possibili grazie alla viva collaborazione della famiglia Cutuli. Sullo sfondo della narrazione una dettagliatissima ricostruzione delle fasi della guerra afghana, molto utile a chi voglia documentarsi dal punto di vista storiografico. Un lavoro durato due anni quello di Galeani e Cannatella, fatto di decine di interviste ad amici e colleghi di Maria Grazia oltre che ad un’opera di approfondimento della realtà afghana.

Un modo per raccontare, senza fronzoli, la storia di una professionista che per amore della verità ha rischiato la vita.
Ma Maria Grazia Cutuli non rivive solo nel fumetto. Per iniziativa della Fondazione a lei dedicata e di cui è presidente Mario Cutuli, fratello della giornalista, è uscita a fine ottobre un storia epistolare: Maria Grazia Cutuli, libro scritto con passione, intelligenza e curiosità da una collega dell’inviata catanese, Cristina Pumpo. Il volume, inserito nella collana

Maria Grazia Cutuli
(il cui ricavato verrà devoluto alla Onlus “La Città del Sole”), è dedicato alla scrittura di viaggio al femminile.

Tra il carteggio privato e numerose fotografie viene raccontata la storia di una giovane donna che ha dedicato tutta la sua vita alla passione: un viaggio che Maria Grazia ha deciso di intraprendere contro tutto e tutti, dettato da inquietudine, curiosità e forte determinazione, ragioni contro le quali ogni reticenza avrebbe perso.
La Fondazione “Maria Grazia Cutuli” ha fatto sua la volontà della giornalista di essere concretamente vicina all’uomo: quest’anno, il decimo dalla morte dell’inviata, è stata completata ed inaugurata la scuola elementare di Herat, in Afghanistan, già in funzione da sette mesi.

Un progetto dal costo di 150mila euro interamente versati dalla Fondazione. A completamento della scuola verrà realizzata una struttura polifunzionale dal valore di 20mila euro, fondi donati dalla Provincia regionale di Catania mentre grazie ad altri 10mila euro devoluti dall’Ance Catania verrà costruita una biblioteca. A Maria Grazia Cutuli è dedicato anche un “Premio Internazionale di Giornalismo”, diviso in sei sezioni, giunto quest’anno alla sua settima edizione. Angela Rodicio (stampa estera), Claudio Monici, Domenico Quirico, Elisabetta Rosaspina, Giuseppe Sarcina (stampa italiana) e Fabrizio Villa (giornalista siciliano emergente) i nomi dei giornalisti premiati lo scorso 24 ottobre da Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere. Ad Emma Lupano è andato il premio per “Miglior Tesi di Dottorato” mentre i premi per la “Migliore Tesi Triennale” e “Specialistica” sono stati assegnati, rispettivamente, a Clelia Passafiume e Andrea de Georgio.

Tra le altre iniziative a settembre e ottobre si è tenuto il quarto “Corso di Perfezionamento in Giornalismo per Inviati in Aree di Crisi”, realizzato in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata”, il Ministero della Difesa e la Croce Rossa Italiana: 170 ore di lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per insegnare agli aspiranti inviati come deve comportarsi un giornalista quando si trova in un’area di crisi. Un progetto sostenuto, così come gli altri, da una grande volontà: che Maria Grazia e la sua passione continuino a vivere.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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3DNews/APICELLA, L’USIGNOLO DELL’ IMPERATORE.

http://m.youtube.com/#/watch?desktop_uri=http%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DMXRv_gDrG5A&v=MXRv_gDrG5A&gl=IT

di Giulio Gargia

Un’antica favola cinese racconta di un imperatore che amava talmente il canto del suo usignolo da cadere in depressione quando questi morì. E, nonostante gliene portassero decine e decine, lui non ritrovava mai la purezza di quel canto che lo metteva di buon umore.
Silvio Berlusconi, che certo si sente un gradino più su di un imperatore Ming, al posto dell’usignolo, per rallegrarsi dopo i tristi consigli dei ministri, usa la canzone napoletana. Lo fa, in particolare, da quando ha assunto alle sue dipendenze il chitarrista Mariano Apicella, che ormai lo segue quasi sempre nei suoi spostamenti, anche in veste di titolare degli Esteri. Certo è che lo ha seguito nelle vacanze dell’ultimo Capodanno, e in queste estive.

Apicella conobbe il presidente del Consiglio l’anno scorso all’Hotel Royal di Napoli, dove lavorava facendo quella che si chiama “la posteggia”, ovvero cantando tra i tavoli del ristorante dell’albergo. Le sue qualità canore hanno evidentemente colpito il premier, che da allora lo ha cooptato nella sua corte. Con il compito di accreditare agli italiani, dopo il presidente operaio, il presidente poeta.
Per di più, in napoletano. E non è finita qua, perché si sa com’è il Berluska: punta in alto. Perciò, se l’operazione dovesse andare bene, la prossima telefonata se la aspettino gli eredi di Salvatore Di Giacomo. ‘Nu pianoforte ”e notte è una bella canzone, ma non c’è nulla che non si possa migliorare.
Se ci mette le mani Silvio…

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In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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I casi di Grecia e Italia hanno fatto scuola: la Ue è autorizzata a scavalcare le sovranità nazionali.

Arriva la tutela dell’Eurozona. Ispettori Ue per Paesi in difficoltà
Il ‘six pack’ approvato dall’Unione prevede la nascita a livello nazionale di un ‘Consiglio indipendente di bilancio’ autonomo e con il compito di monitorare l’applicazione delle regole di bilancio. La Commissione europea deciderà se inviare ispettori che raccomanderanno gli aiuti finanziari

Un Paese dell’Eurozona con problemi di stabilità potrà essere sottoposto alla “vigilanza rafforzata” della Commissione Ue che poi invierà regolarmente ispettori che verificheranno l’operato e proporranno al Consiglio di ‘raccomandare’ aiuti finanziari. Secondo due regolamenti che saranno varati mercoledì, rappresentanti dei Paesi sotto tutela potranno essere invitati a riferire al Parlamento Ue, così come esponenti della Commissione potranno andare a spiegare la situazione ai Parlamenti nazionali.

Il nuovo giro di vite sul controllo dei conti pubblici nazionali e sui piani destinati ad assicurare la loro sostenibilità, si spiega nei due provvedimenti, deriva dalla necessità di applicare in concreto e in dettaglio la riforma della governance economica sancita nel cosiddetto ‘six pack’ da poco approvato dall’Ue. Oltre a prevedere la nascita a livello nazionale di un ‘Consiglio indipendente di bilancio’ – totalmente autonomo dalle autorità preposte e con il compito di monitorare l’applicazione delle regole di bilancio – i provvedimenti in arrivo fissano il calendario delle politiche fiscali.

Entro il 15 aprile dovrà essere presentato il programma di bilancio a medio termine, per il 15 ottobre dovrà arrivare la bozza della legge finanziaria, la Commissione potrà presentare le sue osservazioni entro il 30 novembre e per il 31 dicembre la legge di bilancio dovrà essere approvata. Se un Paese soggetto a un programma di aggiustamento dei sui conti dimostrerà un’insufficiente capacità amministrativa e altri problemi nell’applicazione del programma stesso – si legge ancora nei testi dei provvedimenti – “dovrà chiedere” assistenza tecnica alla Commissione.

La Commissione potrà anche proporre al Consiglio che deciderà a maggioranza qualificata di dichiarare “inadempiente” un Paese che non ha saputo mantenere gli impegni presi. Esponendolo così, si ricorda nella proposta di regolamento, al rischio di sospensione del versamento dei fondi strutturali, sociali, di coesione, per lo sviluppo rurale e per le politiche marittime.
(Beh, buona giornata).

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