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Attualità

30 mila soldati nelle città italiane sono tre volte di quelli impegnati nelle missioni all’estero.

“Vorrei ricordare al presidente del Consiglio che i nostri militari svolgono una preziosissima ed insostituibile funzione nelle missioni all’estero nelle quali sono impegnati, altro che fare la guardia nel deserto dei Tartari! E 30 mila militari, tre volte tanto quelli che sono adesso impegnati in missioni internazionali, per il controllo delle citta’ sarebbe una misura senza precedenti, costosissima e da Stato d’assedio”. Marco Minniti dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità

Ministro della Difesa o caporale di giornata?

“Plauso e pieno sostegno al presidente Berlusconi per aver lanciato e illustrato la proposta di voler aumentare progressivamente fino a dieci volte il numero delle pattuglie miste nei quartieri a rischio di un maggior numero possibile di citta'”. Ignazio La Russa dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità

Sulla sicurezza il governo gioca alla guerra.

 « C’è una proposta di Maroni condivisa dal ministro La Russa di aumentare di dieci volte il numero dei militari che invece di essere un esercito che sta a fare la guardia nei confronti del deserto dei Tartari sarà utilizzato per combattere l’esercito del male. Credo che faremo bene a portare avanti questa proposta che è del premier». Berlusconi dixit.  Prima si tagliano i fondi alle forze dell’ordine, poi si vogliono riempire le strade di militari. Sulla sicurezza, il governo gioca  alla guerra. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

La tolleranza zero, il boomerang lanciato in campagna elettorale torna indietro e colpisce in pieno il governo di destra.

Lo sceriffo senza stelladi MARCELLO SORGI da lastampa.it
Chissà se il ministro Maroni e il sindaco Alemanno un filo di pentimento non ce l’avranno per il modo in cui finora si sono occupati di sicurezza. Due stupri in due giorni – tre dalla fine dell’anno – nella Capitale non sono solo «fatti gravissimi», come li ha definiti il governo. Con tutto quel che sta capitando in Italia, tra criminalità, ordine pubblico e immigrazione clandestina, sono un chiaro segno che la strada per rendere il Paese sicuro è ancora lunga.E ai successi, innegabili, di questi primi mesi di vita dell’esecutivo, si accompagnano duri richiami e durissime smentite della realtà. Maroni, ieri, annunciando un più forte utilizzo dei militari a difesa delle città, ha detto che con questo il Viminale intende aprire la «fase due» del piano per la sicurezza. Ora, senza nulla togliere all’impegno del ministro dell’Interno, non è che gli effetti della «fase uno» siano stati così positivi.

La sicurezza, la paura di vivere in città dove è pericoloso aggirarsi la sera, restano in cima alle preoccupazioni dei cittadini. La prontezza con cui è stato catturato Giuseppe Setola, il boss dei casalesi sfuggito una prima volta attraverso le fogne, non vuol dire che la camorra sia stata sconfitta. La linea dura annunciata e praticata contro l’immigrazione clandestina non ha evitato l’ingorgo del cosiddetto centro di accoglienza di Lampedusa, dove attualmente ben 1800 disperati venuti dal mare sono ristretti in celle che potrebbero contenerne meno della metà.

Né sta dando migliori risultati il negoziato e l’irrigidimento dei rapporti con la Romania, per arginare il fiume di criminalità che quotidianamente – e purtroppo regolarmente, dato che si tratta di un giovane partner della Comunità europea – riversa sulle nostre strade. La sensazione degli addetti ai lavori è che un flusso di ritorno si sia stabilito, ma che a tornare siano i romeni che trovano lavoro nel loro Paese d’origine, mentre restano qui quelli che non hanno voglia di lavorare.

Non è migliore il bilancio del primo cittadino di Roma: Gianni Alemanno, che con un’abile campagna sulla sicurezza e con uno spregiudicato uso politico di uno stupro avvenuto proprio nei giorni che precedevano il voto, s’è ritrovato a sorpresa sindaco di Roma battendo Rutelli, fa adesso i conti con lo stesso odioso tipo di reato che non sono riuscite a sradicare né la strategia anticrimine né la «tolleranza zero» annunciate in campagna elettorale.

Benché gravissimi, i due stupri avvenuti ieri e mercoledì alle porte di Roma non sono tali da mettere in discussione l’impegno di Alemanno per la sicurezza. Finora, anzi, il primo cittadino della Capitale ha cercato in tutti i modi di avvicinarsi al modello del «sindaco sceriffo» che era piaciuto ai suoi elettori. Appena eletto, aveva fatto saltare la testa del prefetto Carlo Mosca, che si era schierato contro le schedature degli extracomunitari. Durissimo con gli immigrati clandestini, s’era poi recato di persona nelle baraccopoli, all’ombra delle quali spesso nascono gli episodi di violenza più sordida. Poi ha proibito la vendita di alcolici da portare per strada, ripulendo così, da giovani avariati, alcune delle più belle piazze del centro, e riducendo anche il numero delle risse tra ubriachi. Ancora, ha ottenuto dal governo 700 soldati per pattugliare le vie più malfamate della città. Inoltre, incurante delle polemiche, ha voluto affiancare ai vigili urbani un limitato, ma molto specializzato, dipartimento, guidato da un generale ex agente segreto rotto a tutte le esperienze, come l’ex direttore del Sisde Mario Mori.

Con tutto ciò, sarà la sfortuna, sarà che una megalopoli come Roma non è controllabile fino in fondo, il sindaco e il suo apparato di sicurezza si son beccati due stupri in due giorni e tre in tre settimane. Naturalmente questo incide sulle reazioni dei cittadini e sul nervosismo dei loro amministratori: i romani, anche ad onta del loro tradizionale scetticismo, erano stati convinti con una campagna martellante che la nuova amministrazione avrebbe messo a posto la situazione. Ma a malincuore, dopo pochi mesi, hanno dovuto rendersi conto che non è così.

Anche se ieri il primo dei tre stupratori (una bestia, che aveva abusato di una ragazza ventenne in un cesso chimico di una festa-rave) è stato arrestato e fatto confessare, la sequela di stupri ha lasciato molta impressione. È terribile che in una città che vive in movimento, ventiquattr’ore su ventiquattro, una donna non possa sentirsi sicura quando torna a casa. A volte, basterebbe solo migliorare l’illuminazione delle strade, che al buio diventano luoghi ideali per gli agguati. Ma soprattutto, è penoso – sia detto per inciso – che un problema serio come quello della sicurezza, invece di essere affrontato con la serietà e i tempi che richiede, a meno di un anno dalla fine della campagna elettorale, diventi ancora motivo di scontro, tra il sindaco sceriffo che ha perduto la stella e i suoi oppositori caduti poco prima sullo stesso fronte. (Beh, buona giornata)

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

C’è del marcio in Italia se un quotidiano della Danimarca aveva pubblicato lo scorso dicembre un reportage da Lampedusa, completamente ignorato da quasi tutta la stampa nostrana.

di Mads Frese –  «Information», Copenhagen

Sull’isola italiana di Lampedusa c’è un cimitero delle barche. Centinaia di barche da pesca e altre piccole imbarcazioni sono state negli anni trascinate a terra e accatastate le une sulle altre. Le barche sono ancora piene di scarpe, vestiti e bottiglie vuote. Nella parte interna degli scafi sono rimasti gli escrementi secchi dei migranti.
Nei primi otto mesi del 2008, il numero di immigrati che passano da Lampedusa è aumentato del 60 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Eppure sulla strada principale di Lampedusa, l’unico centro abitato dell’isola, non vi è alcuna traccia degli oltre 23.000 emigranti che nel corso del 2008 sono arrivati nel centro di accoglienza per i rifugiati dell’isola. Non vi è praticamente alcun contatto tra locali e immigrati, che al loro arrivo vengono trasportati direttamente al centro di prima accoglienza e dopo un paio di giorni vengono imbarcati su aerei o navi e trasferiti in altri centri di accoglienza in varie zone dell’Italia continentale. Si ha l’impressione che questo sia, paradossalmente, il luogo meno multietnico di tutta Europa.

Sebbene i vari locali pubblici e gli alberghi dell’isola incrementano le proprie entrate grazie alla presenza di oltre 600 poliziotti e soldati che svolgono durante l’anno l’attività di pattugliamento via terra, mare e aria, il sindaco Bernardino de Rubeis sostiene che i 6.000 residenti nel suo comune sono le vere vittime.
“L’igiene è minacciata”, ha detto in occasione di un incontro presso la sede del piccolo municipio.
Il sindaco, che appartiene al Movimento per l’Autonomia – l’equivalente nell’Italia meridionale del partito di estrema destra federalista Lega Nord –
aveva dichiarato al quotidiano italiano la Repubblica che ” la carne dei negri puzza anche quando è lavata “. Egli spiega ora che il giornale lo ha rappresentato a torto come un razzista, riportando le sue dichiarazioni al di fuori del contesto originale.
“Queste sono persone che non sono abituate ad usare la carta igienica”, chiarisce il De Rubeis e continua:
“Sono costretti a vivere e a puzzare come animali”.
Affissi sulla parete, alle spalle del sindaco, un crocifisso e le immagini del papa e della Vergine Maria, e sulla sua scrivania un offerta per l’acquisto del filo spinato per recintare il centro di prima accoglienza.
” Scappano – ha detto – tre li ho bloccati per strada”.

La reception
Ai piedi del paese c’è un porticciolo, affollato di pescherecci, delimitato da un molo chiuso dalla guardia costiera italiana. Il molo pullula di persone che svolgono le attività di soccorso e di giornalisti. Non appena la barca attracca al molo si vedono tanti volti africani, tutti diversi gli uni dagli altri: somali, sudanesi, maghrebini, egiziani. La maggior parte sono giovani tra i 15 ei 25 anni, ma ci sono anche donne e bambini piccoli.
Una donna nordafricana in stato di gravidanza che non si regge in piedi deve essere aiutata a scendere a terra.
La maggior parte sono a piedi nudi e non trasportano bagagli. Nonostante la evidente stanchezza, molti i sorrisi di sollievo. Alcuni baciano la terra nella quale sono sbarcati. Si stima che almeno 20.000 rifugiati hanno perso la vita nel canale di Sicilia negli ultimi 15 anni, ma non esistono dati certi.
La maggior parte si radunano sulla costa libica e la traversata dura minimo due giorni. Grazie all’agenzia di frontiera dell’Unione europea FRONTEX, la guardia costiera viene avvisata non appena un’imbarcazione non identificata viene individuata in acque territoriali italiane. I pescherecci più grandi vengono scortati fino all’arrivo in porto, mentre gli immigrati che intraprendono il viaggio su piccole imbarcazioni vengono trasferiti sulle motovedette della Guardia Costiera in alto mare.
Dopo lo sbarco Medici Senza Frontiere effettua un rapido controllo sullo stato di salute già al molo di approdo, e quindi i rifugiati vengono fatti salire su degli autobus e trasferiti nel centro di accoglienza.

L’ignoranza e il razzismo
La nuova struttura che ospita il centro di accoglienza, che è il più grande del suo genere in tutta Europa, è ben nascosta in una valle al centro dell’isola. Un’unica strada che dal centro conduce ad un alto cancello.
Il centro di accoglienza ha la capacità di 840 posti, ma a causa dei numerosi sbarchi degli ultimi giorni gli ospiti sono più del doppio. Materassi lungo il recinto e sotto gli alberi dimostrano che in molti hanno dormito all’aperto.
Mentre Federico Miragliotta, che è il direttore di Lampedusa Accoglienza, la società privata che opera su mandato del Ministero degli Interni italiano, ci porta in giro e ci illustra con grande rigore e professionalità il decoro dei luoghi e del cibo, non soffermandosi troppo sugli immigrati, come se questi fossero ad un campo estivo . La maggior parte sono vestiti in tuta da jogging, che è stata loro consegnata all’arrivo. Bambini che giocano felici con i giocattoli distribuiti dalle organizzazioni umanitarie, mentre le donne fanno la coda di fronte a due cabine telefoniche in attesa di chiamare i loro familiari.
“Alcuni hanno impiegato diversi anni per arrivare a Lampedusa, e per la prima volta da lungo tempo – o forse da sempre – non sono costretti a preoccuparsi della loro sicurezza o a procurarsi del cibo “, afferma Laura Rizzello, operatrice della delegazione della Croce Rossa nel centro. Un numero crescente di profughi arrivano affetti da gravi sofferenze fisiche e psicologiche a causa della guerra e della tortura, situazioni che, a suo dire, i politici europei ignorano:
“Non si dovrebbe definire l’immigrazione come un problema, ma piuttosto come un fenomeno. Parlare di immigrazione per ragioni economiche dimostra una mancanza di conoscenza e una visione razzista del fenomeno. Equivale a nascondersi dietro un filo d’erba”, afferma Laura Rizzello.
E continua:
“E viene davvero da piangere se si considera che quanti attraversano il Mediterraneo a rischio della vita, sono fermamente convinti che i paesi europei difendano i diritti umani universali. Chi parla di recintare il centro di accoglienza col filo spinato, dimentica che le ragioni dell’immigrazione di massa sono cambiate. La maggior parte non migrano per cercare un lavoro, ma fuggono da guerre e persecuzioni “.

Bambini scomparsi
E le statistiche confermano la tesi di Laura Rizzello. La maggior parte degli immigrati che arrivano a Lampedusa provengono dalla Nigeria, dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dal Sudan. Secondo le cifre del ministero degli interni italiano, sette immigrati su dieci avrebbero titolo per richiedere asilo politico in Italia, ma molti scelgono di evitare la battaglia con la burocrazia italiana e non sono alla ricerca di un permesso di soggiorno, dice Laura Rizzello.
In realtà essi mirano solo a rimanere al centro di accoglienza per due giorni prima di essere trasportati nei centri di detenzione sul territorio italiano. Ma poiché tutti i centri di detenzione in Italia sono attualmente sovraffollati, restano qui, in media, una settimana, come spiega Laura Rizzello.
La maggior parte di coloro che non vengono rispediti direttamente nel loro paese di origine in forza di accordi bilaterali di rimpatrio, finiscono per lavorare in nero per 20 euro al giorno nelle imprese agricole ed industriali d’Italia. Alcune donne finiscono sulla strada costrette a prostituirsi, mentre una parte degli uomini vengono reclutati da organizzazioni criminali. Qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica ha rivelato che si sono completamente perse le tracce di almeno un terzo dei 1.400 minori “non accompagnati”, giunti quest’anno a Lampedusa ed affidati a delle case-famiglia.

Missili e doni
Fino al 1986, pochissimi avevano sentito parlare di Lampedusa. Ma poi la Libia sparò due missili contro la base radar degli Stati Uniti sull’isola. I missili andarono a finire in mare, ad oltre due chilometri dalla costa di Lampedusa, ma l’aggressione di Muammar Gheddafi ebbe l’effetto di portare alla ribalta questa piccola isola, fino ad allora poco più che un puntino su qualsiasi mappa. Da allora i turisti hanno cominciato ad arrivare in massa ed a portare prosperità sull’isola. Con conseguente raddoppio della popolazione di questa piccola comunità di pescatori.
Laura Rizzello crede che la storia si stia ripetendo con i grandi flussi migratori che negli ultimi anni hanno portato l’isola nuovamente alla ribalta .
“I numerosi turisti scelgono l’isola non solo per il mare, ma anche con la speranza di scattare qualche foto agli immigrati”, ha detto.
Il Sindaco Bernardino de Rubeis, tuttavia, ritiene che il fenomeno dell’immigrazione abbia danneggiato l’immagine dell’isola e costituisca una minaccia per la fiorente industria del turismo.
“L’accordo con Gheddafi non funziona”, ha detto, riferendosi ad un accordo che il precedente governo italiano ha concluso con la Libia nel dicembre 2007 ed avente ad oggetto il pattugliamento congiunto delle coste libiche.
Gheddafi, in effetti, ha sfruttato il cambio di governo della scorsa primavera in Italia per tentare di ottenere qualcosa di più sostanzioso. Alla fine di agosto Silvio Berlusconi ha visitato la Libia ed ha elargito 500 milioni di dollari per finanziare la sorveglianza elettronica delle coste e dei confini meridionali della Libia con il Niger, il Ciad e il Sudan.
Secondo alcuni osservatori la frontiera sarebbe solo un pretesto: il finanziamento, che Berlusconi ha concesso a Gheddafi in nome dei contribuenti italiani, deve essere piuttosto visto come una sorta di pagamento per la protezione delle grandi aziende italiane che operano in Libia. L’Italia non è autosufficiente nel campo della produzione di energia elettrica ed è quindi fortemente dipendente dal petrolio libico. Di contro, appare legittimo mettere in dubbio la reale volontà di arginare la marea di profughi, che è funzionale al rafforzamento della competitività in Italia, per esempio nell’industria agricola.
Ma dopo la visita di Berlusconi in Libia, i media italiani hanno scelto di minimizzare il problema, che ora è in gran parte scomparso dai telegiornali, nonostante l’aumento del flusso.

Affollamento
Il sindaco è preoccupato per l’aumento del numero dei rifugiati.
“L’isola rischia una vera e propria crisi”, ha detto Bernardino de Rubeis.
“Non si deve dimenticare che l’isola vive principalmente di turismo, e, pertanto, dobbiamo essere in grado di garantire ai turisti sicurezza. Non può continuare così”, dice il sindaco, che sogna dei grandi alberghi sulla piccola isola dove la popolazione già adesso aumenta di dieci volte nei mesi estivi, e i turisti sono ammassati in quattro spiagge come aringhe in un barile.
Ogni anno, grazie ai finanziamenti statali e regionali, oltre 50 milioni di euro affluiscono nelle casse del comune di Lampedusa. Il Consiglio comunale è attualmente impegnato nei colloqui per la redazione del bilancio per il 2009, e sebbene il centro di accoglienza non comporti alcun costo per il comune, ma offra solo garanzie di posti di lavoro e di reddito per molti abitanti dell’isola, il sindaco punta ad ottenere il massimo dell’attenzione sui presunti disagi creati dal flusso di immigrati. Ha scelto di giocare al rialzo e ora chiede al governo, come compensazione per l’onere del fenomeno, che l’isola venga dichiarata porto franco.
Il comune ha già rifiutato un’offerta dell’Alto Commissario per i rifugiati, relativo al finanziamento di un ampliamento del piccolo aeroporto e ad una campagna pubblicitaria per l’isola. Invece, si è preferito richiedere un risarcimento di 200 milioni di euro da parte del governo di Roma per gli abitanti di Lampedusa. Così da far passare l’immagine di un’isola costretta ad affrontare un problema tanto al di sopra delle sue possibilità da spingere le persone a scegliere di concentrarsi esclusivamente sui possibili benefici economici e ad ignorare tutto il resto. (Beh, buona giornata).

[Articolo originale di Mads Frese]

Traduzione da information.dk: admin@ItaliadallEstero.info

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Attualità Popoli e politiche

La protesta dei migranti si salda alla protesta dei cittadini di Lampedusa. Clamoroso fallimento delle politiche sull’immigrazione del governo.

da repubblica.it

Fuga di massa dal centro di prima accoglienza tra gli applausi dei residenti a Lampedusa. Tutti i migranti ospiti del Cpa (Centro di prima accoglienza) poco dopo le 10 hanno forzato i cancelli d’ingresso, sono riusciti ad aggirare i controlli delle forze dell’ordine e sono fuggiti. Oltre mille si sono diretti in corteo verso la piazza del municipio di Lampedusa gridando slogan: “Libertà, aiutateci”. Gli extracomunitari hanno sfilato lungo la strada senza essere bloccati dalla polizia che li ha, invece, affiancati lungo il percorso senza intervenire.

Gli oltre mille immigrati sono arrivati davanti al municipio accolti dagli applausi dei lampedusani. Gli extracomunitari gridano “Libertà” e “Grazie Lampedusa” e chiedono di poter lasciare il centro, di essere trasferiti nei centri di permanenza temporanea (Cpt) di Brindisi e di poter raggiungere le loro famiglie, molte delle quali sono in Francia, in Germania e nel Nord Italia.

Sul palco allestito nella piazza, a dare il benvenuto ai migranti c’è l’ex sindaco Totò Martello, leader del comitato che si oppone alla realizzazione di un nuovo centro nell’isola. Nello stesso momento i residenti avevano infatti cominciato una nuova giornata di protesta con presidio davanti al municipio per consegnare le schede elettorali contro la realizzazione di un nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie) degli immigrati progettato dal ministero dell’Interno.

“Non vogliamo tornare nel cpa. Noi restiamo qui”. Centinaia di migranti fuggiti dal centro, riuniti in piazza insieme ai cittadini, si rifiutano di tornare nella struttura di accoglienza. L’ex sindaco Martello li invita a rientrare. “Siamo insieme a voi – dice – vogliamo che vi trasferiscano negli altri centri italiani, ci batteremo perchè possiate lasciare Lampedusa, ma ora dovete rientrare nel centro”. I migranti, però, continuano a ribadire che non lasceranno la piazza e che la loro protesta sarà pacifica.

La fuga dal Cpa è l’epilogo di giornate di tensione che hanno interessato la struttura dove sono stipate 1.300 persone a fronte di una capienza di 800 posti. Già all’alba si era registrata la fuga di circa 300 immigrati. Polizia e carabinieri avevano immediatamente avviato posti di blocco per rintracciare tutti i fuggitivi. Anche ieri alcuni migranti si erano allontanati dal centro, ma erano stati poi rintracciati dalle forze dell’ordine e fatti rientrare.

Gli immigrati lamentano di essere trattati “in modo poco dignitoso”. “Abbiamo freddo – dice un africano giunto a Lampedusa dalla Tunisia – io ho bisogno dell’insulina, ma non ce n’è. Siamo qui da oltre 30 giorni”.

I residenti protestano invece contro le scelte del Viminale. Dopo il corteo e il sit-in davanti al centro di prima accoglienza organizzati ieri, giornata di sciopero generale, questa mattina i cittadini si sono dati appuntamento davanti al municipio. Ieri sera, durante una seduta straordinaria del consiglio comunale, si era dato vita a un coordinamento per pianificare le ulteriori iniziative di protesta.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Obama non ha usato il web. Non è entrato in rete, ha fatto rete. Obama ha vinto perché ha cambiato il web.

“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha dietto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca lascia intendere la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni che potrebbe trasformanre la nostra vita quotidiana e, contemporaneamente, la società globale.

 A cominciare dalla comunicazione. La logica della partecipazione e della condivisione dei contenuti dovrebbe essere resa possibile su vasta scala, come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama. E’ un fatto nuovo. Nessuna organizzazione o azienda può pensare di restare fuori da queste sfide. Ma stare al passo con i tempi non è così semplice come può sembrare. Secondo  Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione Università Iulm e prorettore dell’ateneo, Obama si è distinto non per l’uso esclusivo dei social media, bensì per aver messo in atto una comunicazione politica basata su un adeguato mix di media innovativi e classici. A differenza dei suoi principali competitor, la Clinton prima e McCain poi, che hanno condotto la loro campagna seguendo schemi molto più tradizionalistici.

In realtà, Barak Obama è stato lungimirante e si è  appropriato con successo del territorio simbolico e valoriale della parola chiave ‘change’, ha fatto leva sulle emozioni profonde degli elettori, spingendoli a diventare soggetti attivi e interattivi di un progetto. Ed ha anche ottenuto la partecipazione spontanea di artisti e designer che hanno realizzato per lui magliette, poster e video di alta qualità.

In altre parole, Obama si è trasformato in un simbolo, ma anche in un  logo, un brand, che trasmette un messaggio fortissimo: la speranza nel cambiamento.

In Italia, ad esempio, durante l’ultima campagna elettorale il Pd ha tentato di fare propria questa strategia, ma invece di comprendere la forza del concetto “change”, ha fatto proprio “yes, we can”,  tradotto in “si può fare”. Un equivoco, più che un errore: è suonato nelle orecchie degli elettori come una affermazione autoreferenziale, ego riferita alla nascita delPd e non un nuovo progetto di paese cui partecipare con entusiasmo. Il risultato di queste equivoco non è solo nelle urne elettorali, ma è diventata un fatto politico. Oggi in Italia nessuno pensa che il Pd sia stata una vera innovazione, né che Veltroni ne sia il simbolo.

 D’altra parte, i discorsi di Obama hanno incarnato il desiderio di cambiamento americano, e i prodotti audiovisivi a lui riconducibili si sono distinti per un’elevata qualità sia della grafica sia del contenuto.

Senza contare  l’uso sapiente e consapevole dei social media: i progetti web di Obama hanno avuto la forza di incoraggiare le persone a diventare, esse stesse, parte del cambiamento, innescando meccanismi di condivisione e partecipazione che hanno portato i sostenitori di Obama a usare i social network in piena autonomia per incontrarsi e organizzare sia eventi sia raccolte fondi.

Un’esperienza vincente come quella di Obama insegna che il web non è un semplice spazio virtuale dove sparare messaggi, per entrare nel mondo dei new media non basta mettere un banner su qualche sito o aprire un blog, perché su Internet non basta esserci, bisogna esserne parte: occorre diventare un nodo, un anello, della Rete stessa. Anzi, bisogna saper essere il bandolo della matassa  della  rete stessa. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Bombe al fosforo, armi a microonde e al plasma? Che armi sono state usate nell’Operazione Piombo Fuso?

di Fernando Termentini – da www.paginedidifesa.it

La battaglia a Gaza è terminata ma ancora molte fonti di informazione, ricorrendo anche ad immagini di repertorio degli scontri, ripropongono il problema di armi al fosforo bianco.
Munizionamento illuminante al fosforo sicuramente è stato utilizzato nel corso degli scontri, anche bombe d’aereo o proietti di artiglieria pesante, ma affermare con decisione che questo particolare materiale sia stato usato su larga scala per scopi offensivi, potrebbe essere forse azzardato e comunque semplicistico.

A Gaza le operazioni militari sono state caratterizzate da episodi tattici di combattimento degli abitati come ormai avevamo dimenticato dalla fine del secondo conflitto mondiale, a stretto contatto con la popolazione civile e in zone densamente abitate. In queste condizioni utilizzando munizionamento a caricamento speciale come gli ordigni illuminanti caricati con il fosforo bianco, diventa difficile gestire la ricaduta al suolo delle gocce incandescenti, concentrandole su obiettivi areali come, ad esempio, un bunker o una postazione avversaria.

In queste condizioni, quindi, si potrebbe verificare che qualcuno o qualcosa possa essere colpito da fosforo che brucia e che non è possibile spegnere con l’acqua. In questo caso però le parti di materiale che brucia lascerebbe tracce profonde su qualsiasi cosa venisse a contatto.

Le immagini che sono arrivate dal teatro di guerra non confermano in maniera incontrovertibile queste ipotesi, né lasciano pensare a un uso estensivo e generalizzato di fosforo bianco né contro i combattenti né contro la popolazione palestinese.

Se, invece, come sembra, molti dei feriti e molti cadaveri presenterebbero (la forma ipotetica è d’obbligo non disponendo di riscontri certi) lesioni la cui origine non è sicura e non riconducibile a quelle provocate dalle armi normalmente utilizzate, come vaste bruciature, tessuti scarnificati e mummificazione dei tessuti molli, allora si potrebbe pensare che forse siano state utilizzate ancora armi a microonde e/o al plasma.

Strumenti che dovrebbero essere stati sperimentati in Iraq, in Libano e forse anche in occasione della prima guerra del Golfo, contro le truppe irachene in fuga da Kuwait City. Armi che invece dei proiettili sparano fasci di energia più o meno potente. Sistemi a suo tempo studiati e realizzati per conto dell’amministrazione americana fin dai tempi della presidenza Clinton per disporre di efficaci dispositivi anti-sommossa non letali (l’arma Sceriffo costruita dall’industria americana Raytheon), successivamente trasformate in vere e proprie armi offensive agendo sulla potenza irradiata.

La materia colpita da queste armi perde istantaneamente tutta la componente liquida e si accartoccia diminuendo di volume. Fenomeno che aumenta in maniera esponenziale quando l’obiettivo è un uomo. Cadaveri rimpiccioliti con i tessuti molli mummificati, le parti ossee scollate e gli indumenti praticamente indenni. Condizioni che hanno caratterizzato molti cadaveri trovati a Falluja dopo i combattimenti casa per casa e in Libano nel corso della guerra del 2006.

A Gaza, peraltro, sembra che la scorsa estate, organi istituzionali della Sanità palestinese, riferendosi alla tipologia delle lesioni di molti feriti fra i manifestanti, hanno ipotizzato l’uso da parte degli israeliani di armi non convenzionali. In quella occasione si parlò seppure in modo superficiale di persone con gravi effetti ustionanti, con feriti o cadaveri quasi fusi con muscoli e organi interni distrutti. Di fatto, tessuti prosciugati dell’acqua, come avviene sulle sostanze organiche sottoposti all’azione delle microonde.

Sistemi del tipo la pistola Taser capace di uccidere a otto metri di distanza irradiando energia elettrica di oltre 60.000 volt, diffusissima in Usa e anche in Francia. Armi corte che nei combattimenti negli abitati, negli spazi stretti, nei cunicoli, nei locali sotterranei e di notte potrebbero essere molto più efficaci rispetto alle armi convenzionali.

Molto più sicuri anche per chi le ha in dotazione, in quanto si abbatte il rischio dei colpi di rimbalzo ricorrente quando si opera in locali stretti e circondati da mura, pericolosi anche per le truppe amiche. Sistemi sicuramente più selettivi nella scelta del bersaglio rispetto ad armi leggere automatiche o a bombe a mano offensive.

Un’ipotesi di cui si è già scritto in occasione della guerra in Libano e forse più condivisibile sul piano tecnico rispetto a ipotesi che invece fanno riferimento all’uso generalizzato per scopi offensivi di munizionamento al fosforo bianco.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

La riforma del modello contrattuale: il sindacato deve rappresentare gli interessi dei lavoratori presso le imprese o gli interessi delle imprese presso i lavoratori?

dichiarazione di Fabrizio Tomaselli

coordinatore nazionale SdL intercategoriale

 

La sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl dell’accordo quadro che riforma il modello contrattuale invigore apre un nuovo ciclo nelle relazioni sindacali in questo Paese.

L’intesa sancisce il passaggio dalla filosofia “concertativa” che ha caratterizzato l’azione sindacale di Cgil-Cisl e Uil negli ultimi due decenni, ad una letteralmente “collaborazionista”.

Finisce in soffitta il contratto nazionale unico di categoria e l’idea stessa di rivendicare condizioni

salariali almeno in linea con l’aumento del costo della vita. Il tutto a favore di un ipotetico secondo livello di contrattazione “differenziato” per posto di lavoro.

 

L’intesa prevede tra l’altro che i contratti abbiano durata triennale sia per la parte economica che per quella normativa, ritardando di fatto il recupero salariale oggi fissato ogni 2 anni. Gli incrementi salariali saranno basati su un indice di inflazione prevista molto più bassa di quella reale e depurati dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati: la benzina potrà così schizzare alle stelle senza che il salario venga adeguato.

 

La produttività in più si trasformerà tutta in profitto per i padroni.

Siamo ben oltre la tradizionale politica della mediazione al ribasso tanto cara ai sindacati firmatari e anche alla Cgil! Il piano inclinato che tante volte abbiamo denunciato non poteva che portare a questa situazione. Le responsabilità della Cgil rispetto alla situazione con cui oggi ci troviamo a fare i conti sono enormi e sconcerta un po’ il risveglio “sorpreso” della Confederazione di Epifani se pensiamo al comportamento tenuto dalla stessa in Alitalia.

 

Il “modello CAI” – accordi separati firmati senza sentire il parere dei lavoratori e contro la volontà di organizzazioni sindacali fortemente rappresentative tra i lavoratori – viene riproposto oggi al livello di accordo quadro generale da Cisl, Uil e Ugl.

 

SdL intercategoriale non ci sta e continuerà la lotta già intrapresa con gli scioperi nazionali del 17 ottobre e del 12 dicembre 2008 per rivendicare veri aumenti salariali ed il ripristino della scala mobile. Non resta che …. rimboccarci le maniche ed opporci a quest’accordo! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Crisi dei quotidiani: il piano del NYT è vendere il grattacielo di Piano.

(Fonte: repubblica.it)

Il New York Times è con l’acqua alla gola e invece di ipotecare il nuovo grattacelo realizzato da Renzo Piano a fine 2007 (come annunciato ai primi di dicembre) il gruppo ha deciso di fare cassa vendendo la sede.

Affossata dal crollo della raccolta pubblicitaria (-21,2% nel solo mese di novembre 2008) il quotidiano più prestigioso d’America, ma solo il terzo per diffusione (1 milione di copie in media), ha annunciato di essere in fase di “avanzate trattative” per cedere al gruppo immobiliare W.P. Carey e Co. i 19 piani sui 52 dell’intero edificio dove lavorano i giornalisti e l’amministrazione del giornale.

Il Nyt resterà in affitto nello stesso edificio sull’Ottava Avenue con il diritto di riacquistare gli spazi entro 10 anni. Il gruppo ‘The Times. Co.’, che edita anche ‘Boston Globe’ e l’ ‘International Herald Tribune’, possiede il 58% del grattacielo. L’8 dicembre aveva annunciato di voler accendere un’ipoteca per 225 milioni di dollari con cui avrebbe fatto fronte a un debito di 400 in scadenza a maggio di quest’anno. Oggi la svolta senza fornire particolare sull’entita’ dell’operazione.

Lunedi’ il magnate delle tlc messicano Carlos Slim, che gia’ possiede il 6,9% del gruppo, aveva fornito al Nyt una linea di credito di 250 milioni di dollari che non sono bastati a tamponare la falla. All’inizio dell’anno pur di aumentare la raccolta pubblicitaria il Nyt aveva fatto cadere l’ultimo tabu’ accettando inserzioni pubblicitarie in prima pagina: una pratica comune in Italia e in altre testate Usa ma il Times era rimasto finora immune da tutto cio’ che non fosse “una notizia degna di essere pubblicata”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Leggi e diritto

Primo sì del Senato al federalismo: “non è questo il momento adatto per fare un salto nel buio di tale portata.”

IL COMPROMESSO VIRTUOSO

di Fabio Scacciavillani da lavoce.info

Una politica economica efficace dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi, in termini di ammortizzatori sociali e riduzioni di imposte, controbilanciato da risparmi strutturali nel medio periodo. Risultato che si può ottenere aumentando gradualmente l’età pensionabile già dal 2009 e riducendo i privilegi di cui godono ancora troppe categorie. Ma esistono le condizioni politiche per un simile compromesso? Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future.

L’articolo di Luigi Guiso del 3 dicembre 2008 coglie con molta efficacia le deficienze della politica economica del governo. Non so se Tremonti sia rimasto folgorato sulla via di Maastricht, dopo le regalie alla Cai e l’abolizione dell’Ici, ma in ogni caso il problema della sostenibilità del debito pubblico tenderà ad aggravarsi per le ripercussioni della crisi internazionale.

CONSEGUENZE DELLA CRISI

I governi che in tutto il mondo stanno accollandosi le passività del settore finanziario e tentano di sostenere l’economia reale con stimoli fiscali, immetteranno sul mercato una tale valanga di titoli da rendere lecito il dubbio se esista oggi al mondo un massa di risparmio sufficiente a coprire questo fabbisogno, a tassi ragionevoli. I paesi con forti surplus di partite correnti e quindi di risparmio, in primis Cina e paesi del Golfo arabico, devono fronteggiare i loro problemi interni e non saranno in grado di assorbire trilioni di dollari (o di euro) di nuovo debito pubblico. Per attirare risparmio i tassi a lunga dovranno, prima o poi, risalire dai livelli di oggi. Per di più gli investitori saranno estremamente selettivi con gli emittenti sovrani. Già oggi gli spread sul debito pubblico italiano sono a livelli preoccupanti, e dunque non è il caso di aggravare la posizione già precaria dei nostri conti pubblici, (visto anche il persistente nervosismo che accompagna le aste di bond in alcuni paesi di Eurolandia).
Il punto cruciale, tuttavia, come sottolineava Guiso, è che “il governo non ha né una politica fiscale proporzionata al ciclo che si sta attraversando né una politica fiscale di stabilizzazione strutturale per il medio termine adeguata al gravissimo indebitamento del paese”. In altri termini, una politica economica efficace e non estemporanea dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi controbilanciato da risparmi certi e strutturali nel medio periodo.

RIVEDERE IL SISTEMA PENSIONISTICO

Esiste un modo efficace e credibile per conseguire questo equilibrio inter-temporale: rivedere il sistema pensionistico. Una tale scelta certo richiederebbe notevole coraggio politico, dati i precedenti, ma i tempi e la gravità della crisi potrebbero indurre alla ragionevolezza. Gli oltranzismi potrebbero essere superati se si legasse questa riforma a un taglio robusto delle imposte dirette e a una estensione degli ammortizzatori sociali per chi ne è sprovvisto. L’aumento graduale dal 2009 dell’età pensionabile per arrivare ai livelli prevalenti nel resto d’Europa, nel giro di due o tre anni ad esempio, si potrebbe realizzare in tempi brevi. In seguito, si potrebbe procedere a eliminare i privilegi di cui ancora godono molte categorie e infine rivedere formule e coefficienti in modo da assicurare da subito l’equilibrio tra contributi e benefici. Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future, ma quantomeno contribuisca a pagare il conto.
Sembrerebbe che il sindacato si renda conto della gravità della situazione, visto che suoi autorevoli esponenti lanciano allarmi sui 400mila posti di lavoro precari a rischio immediato, e i molti altri il cui contratto scadrà nel 2009, quando la recessione dispiegherà gli effetti più gravi. Quindi si potrebbe azzardare che oggi esistano le condizioni politiche favorevoli a un compromesso, se al sindacato stesse effettivamente a cuore la situazione dei precari, e di tutti i lavoratori che rischiano il posto, e non si arroccasse nella difesa di un sistema pensionistico insostenibile. Oltretutto, la crisi non risparmierà certo chi è protetto dallo Statuto dei lavoratori. Quando le aziende falliscono non c’è articolo 18 che tenga.
Un ultima postilla sul federalismo fiscale e l’equilibrio dei conti pubblici: non è questo il momento adatto per fare un salto nel buio di tale portata. L’attuazione dei principi vaghi e contraddittori approvati dal governo rischia di innescare un contenzioso di durata imprevedibile tra vari pezzi dello Stato e di conseguenza introduce una forte incertezza circa le ripercussioni sul bilancio dello Stato. Non sembra proprio il caso di intestardirsi. (Beh, buona giornata). 

 

 
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Media e tecnologia Società e costume

” Il web resta ancora confinato a una cassa di risonanza dell’agenda setting dettata da altri media.”

di Francesco De Carlo – Megachip.info

A che serve il web? A far circolare le idee, catturare l’attenzione dei consumatori, promuovere beni e servizi, soddisfare le fantasie erotiche di giovani e meno giovani. Tanti modi di utilizzare uno strumento oramai divenuto centrale nelle abitudini dei cittadini di buona parte del pianeta. Ma quali sono i contenuti più popolari? Qual è l’argomento più discusso? Quale il personaggio più cliccato?

Una recente indagine di Liquida, un portale aggregatore della blogosfera, ci offre uno spunto per ragionare sul tipo di consumo del web fanno le masse attraverso un’analisi semantica di 600mila post contenuti in più di 10mila blog.
Il giornalista Massimo Russo ha riportato la ricerca (http://massimorusso.blog.kataweb.it/cablogrammi/2009/01/19/berlusconi-e-il-piu-citato-dai-blog-ecolalia-dei-media/) che ha preso in esame l’ultimo quadrimestre 2008.

Interessanti i dati relativi alle prime 10 posizioni. Dunque la parola più cliccata è “Berlusconi” (9.807 volte) e certo non può considerarsi una grossa notizia. Stacca di gran lunga “Obama” (7.951) e soprattutto “Veltroni” (3.863) che chiude la top ten, leccandosi, ancora una volta, le ferite. Prima considerazione: nonostante la grande attenzione del leader del Pd (e naturalmente del suo beniamino statunitense) per il web, è Silvio Berlusconi, imperatore televisivo, a dominare la scena. Certo andrebbe affrontata anche la prospettiva qualitativa, quella che descrive come si parla di questi soggetti. Ma l’evoluzione dei mezzi di comunicazione è stata accompagnata da un credo, empirico più che teorico: bene o male, l’importante è che se ne parli. Il Presidente del Consiglio ha fatto e farà di tutto per dimostrare l’incrollabile fede in questo principio.

Tra le prime dieci parole, oltre ad altre due keyword politiche (Partito Democratico, quinta, e Gelmini, settima) spiccano Windows, Facebook e Iphone. E questo potrebbe spiegarsi innanzitutto con la connaturata tendenza dei media a parlare di se stessi. È chiaro, peraltro, che gli utenti di internet sono i più interessati a tali tematiche, spesso ignorate dagli altri media tradizionali.
Terza considerazione. Tutte o quasi le parole della top ten sono marchi. Che si tratti di un brand politico o commerciale il consumatore resta il protagonista del processo comunicativo, costantemente bombardato da messaggi chiaramente pubblicitari, ma anche disposto a sfruttare gli spazi più liberi della discussione per trattarne i diversi aspetti.

In conclusione, si può dire che il web resta ancora confinato a una cassa di risonanza dell’agenda setting dettata da altri media (interessante la parte dell’analisi dedicata ai temi dell’attualità). L’interattività permette sì la possibilità di discutere liberamente, ma gli argomenti restano sempre gli stessi. Questo per dire che a qualche tempo dalla sua esplosione internet ancora non ha sicuramente espresso a pieno le sue potenzialità, in termini di organizzazione del dissenso, capacità di condizionare le decisioni pubbliche, possibilità di disegnare scenari alternativi e porli al centro di un progresso culturale che accompagni quello tecnologico.

Forse manca solo un po’ di coraggio, forse un po’ di immaginazione, ma nel 2009 scoprire che Maria de Filippi è più cliccata di Roberto Saviano e Simona Ventura di Marco Travaglio, dà il senso e la misura di quanta strada c’è ancora da fare. Anche se i tanti segnali di una involuzione intellettuale del pubblico scoraggiano ogni forma di ottimismo: più il consumo di web si diffonde più viene utilizzato dagli strati sociali affezionati al trash televisivo e non c’è da stupirsi se nelle prossime classifiche le parole legate all’impegno civile troveranno sempre meno spazio. (Beh, buona giornata).

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“Un salutare pugno nello stomaco, perché una cosa è leggere frettolosamente un titolo di giornale che ti comunica, mentre bevi il caffé, che 450 bambini sono stati uccisi dagli attacchi in pochi giorni, un’altra è vederli, questi bambini.”

 I NUOVI ITALIANI  di Corrado Giustiniani da ilmessaggero.it
  La guerra dei bambini in tv: ha ragione Michele Santoro
pubblicato il 19-01-2009 alle 14:03
 
Non credo di uscire dal seminato de “I nuovi italiani” se dico la mia sulla puntata di Annozero intitolata “La Guerra dei bambini”, che tante polemiche ha suscitato nei confronti del conduttore Michele Santoro. Non esco dal seminato, perché in studio o in collegamento con Santoro c’erano diversi “nuovi italiani”, immigrati palestinesi ma anche giovani israeliani che vivono nel nostro paese. E poi perché la sfida della convivenza fra religioni diverse è una delle più complesse che si pongono in tutti i paesi di immigrazione, Italia compresa, e quella guerra è un letale controspot alla convivenza.

Intanto, sono convinto che molti giornalisti che hanno scritto di quella puntata, non l’abbiano vista attentamente. Non c’è da stupirsi che questo accada. Annozero va in onda in diretta, e alla nove di sera i giornalisti dei quotidiani sono impegnati nella chiusura della prima edizione, difficile che abbiano due ore di tempo da dedicare tutte a Santoro, a meno che non vi siano state polemiche politiche preventive, che suscitano una particolare attesa proprio per quella puntata. Così, a informarli sono per lo più le agenzie di stampa, che nei loro servizi riportano le battute più salienti dei personaggi intervenuti. Credo, soltanto per fare un esempio fra i tanti possibili, che potrebbe non aver visto Annozero Giovanni Valentini, saggista e commentatore di cose televisive, autore su Repubblica di un fondo, dal titolo “La parabola del tribuno tv”, che a me è parso squilibrato ed esageratamente livoroso nei confronti di Santoro: se l’avesse seguita con attenzione, avrebbe certamente montato il suo ragionamento in modo diverso. Visionando la cassetta della trasmissione o  la registrazione su Internet della stessa, vi sarebbe la possibilità di dare il giorno successivo un giudizio più pertinente e obiettivo. Ma per pigrizia si tralascia quest’incombenza. Anche perché decidere di fare un passo indietro sarebbe comunque imbarazzante.

Giovedì 15 gennaio ero libero, e ho potuto vedere a casa mia, dall’inizio alla fine, la puntata sulla guerra di Gaza. Quasi nessuno ha colto che il vero valore aggiunto della trasmissione stava in uno straordinario reportage iniziale che mostrava i cadaveri dei bambini uccisi dalle bombe, e il trasporto in barella dei corpicini dilaniati ma rimasti ancora in vita. Filmati e interviste da lasciare senza respiro, realizzati da un giornalista arabo che, ha spiegato Santoro, collabora anche con l’agenzia Ansa. Mi è rimasto impresso il racconto di un ragazzo rimasto senza famiglia e gli occhi sbarrati di una bambina sdraiata per terra. Parlava a monosillabi, con una grande garza in testa, a coprire la ferita profonda causata da una scheggia. Sembrava il servizio di un grande network internazionale, la Bbc, o anche la Cbs, qualcosa insomma assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato.

Un salutare pugno nello stomaco, perché una cosa è leggere frettolosamente un titolo di giornale che ti comunica, mentre bevi il caffé, che 450 bambini sono stati uccisi dagli attacchi in pochi giorni, un’altra è vederli, questi bambini. La spessa corteccia di indolenza e cinismo che tutto ci fa accettare, perché in fondo non succede a noi, o addirittura perché “mors tua vita mea” (pensiamo solo alla richiesta effettuata a Gheddafi di non farci arrivare più barconi di migranti: decida lui se decimarli a fucilate, torturarli, o farli morire di sete nel deserto) all’improvviso si squarcia, perché si mette in atto un processo di immedesimazione: quel bambino che vedi, e se è ancora in vita senti, potrebbe essere tuo figlio. Non è forse l’immedesimazione che crea la solidarietà, vera anima di ogni società democratica? Non è, per chi ci crede, il “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” uno dei principi fondanti del cristianesimo, che quando ci fa comodo siamo orgogliosi di sbandierare come nostra religione? E non è il documentare senza paura, l’essere testimoni diretti, sul campo, il vero, profondo valore del giornalismo?

Di quel reportage che valeva, da solo, l’intera trasmissione, si sono dette cose pazzesche. Che “strumentalizzava le emozioni” e che trasformava “il dramma in drammaturgia”. Ma andiamo avanti. Finito il filmato, si apre il dibattito. Ci sono in studio, oltre a Santoro e a Marco Travaglio, Lucia Annunziata, una scrittrice israeliana, un esperto di guerra, una giornalista palestinese che da molti anni vive in Italia, un giornalista di Al Jazira. Un parterre, come si vede, composito e sufficientemente equilibrato. Proprio all’Annunziata viene data per prima la parola. E ha il tempo di dire tutto quello che pensa: un contributo così lungo che a un certo punto sente quasi il bisogno di scusarsi (“sto per finire”). Dura per l’esattezza 5 minuti e 30 secondi, un’eternità per la televisione, e sarà il primo di ben tre interventi. Osserva tra l’altro, la giornalista ex-presidente della Rai, che «è molto difficile parlare come terzi, mi scuso se dipano l’emozione dalla razionalità, Israele dimostra di non saper far bene la guerra, non ci possiamo dividere dicendo chi ha torto e chi ha ragione…»

Il confronto si apre agli altri interlocutori, e poi si allarga a giovani palestinesi che vivono in Italia, attraverso un collegamento esterno con Corrado Formigli, ma ci sono anche giovani ebrei in studio, a cominciare da Tobia Zevi. Margherita Granbassi introduce una ragazza israeliana, che entra in vivace polemica con una palestinese. A questo punto Lucia Annunziata interviene per la seconda volta, per tre minuti: «Michele non sono d’accordo  su come stai conducendo il dibattito, non si possono far parlare così due ragazze» e sostiene che dalla trasmissione dovrebbe venir fuori «un punto di vista italiano».

Un punto di vista italiano? Non hanno diritto a dire la loro dei giovani che vivono le loro reciproche cause, israeliana e palestinese, non per sentito dire, ma come stimmate su cui è impressa tutta la loro esistenza? E perché mai? E il punto di vista italiano, non viene forse arricchito da “nuovi italiani” come quei giovani? L’obiettivo di quella trasmissione non era fare la storia della questione palestinese a partire dal 1948, e la Annunziata aveva comunque avuto ampio spazio per esprimere il suo pensiero, attaccando, giustamente, i terroristi di Hamas e il loro rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele. C’erano, è vero, più ragazzi palestinesi che ebrei. Ma a nessuno è stata tolta la parola. La proposta più bella e innovativa è venuta fra l’altro da una ragazza religiosamente meticcia, se così possiamo dire, in quanto figlia di padre palestinese e madre ebrea: ha proposto uno scambio di famiglie, per un’estate, fra ragazzi delle due diverse religioni.

Ma il bello deve ancora venire. Lucia Annunziata interviene per la terza volta: «Michele ti disturbo…Non mi piace come hai condotto finora la trasmissione al 99,9 per cento». Dunque, non salvava niente. Ma come può, ragiono io, un collega contestare professionalmente un altro, in diretta, davanti a milioni di persone? Un atteggiamento eticamente e deontologicamente sbagliato. Se voleva, glielo diceva dopo, a riflettori spenti. E se la ferita era così grave da non sanarsi, a mente fredda poteva chiedere a Giulio Anselmi, il direttore de “La Stampa” di cui Lucia è editorialista, di poter scrivere una riflessione sul tema. 

Il conduttore ha fatto male a perdere le staffe. Ma attenzione, rivediamo la sua frase-chiave, quella che ha causato il plateale abbandono del posto da parte di Lucia Annunziata. «Sei venuta a fare l’ospite? E allora dì quello che pensi. Stai acquisendo dei meriti nei confronti di qualcuno? No, e allora fai il tuo lavoro e dì quello che vuoi». I giornali hanno riportato questa domanda, con successiva negazione e invito a parlare, come una gravissima offesa senza punti interrogativi, e non hanno tenuto conto di quella professionale che Santoro aveva ricevuto. Se l’avessi subita io, incassare mi sarebbe stato difficile, lo confesso. Il conduttore, in realtà, è uscito fuori dai gangheri soprattutto dopo che l’Annunziata se n’è andata, e ha commesso degli errori, mettendosi contro tutti.

E’ una cronaca diversa, cari amici, da quella che avete letto su altri media e che ha fornito assist per interventi pro-Annunziata all’universo mondo, dall’ambasciatore israeliano a Pippo Baudo. Magari anche io, per dare il succo, avrò forzato alcuni passaggi. Ma la democrazia di Internet sta nel fatto che potete rivedervi la trasmissione e giudicare con la vostra testa. Un’ultima cosa. Quello stesso giovedì 15 gennaio, all’ora di pranzo, ero in macchina e sentivo alla radio, sul secondo programma Rai, Barbara Palombelli che aveva in studio due esperti, il professor Israeli e un altro. Entrambi di parte israeliana, senza contraddittorio. Uno dei due diceva che i bambini muoiono unicamente perché Hamas li usa come scudi umani, a protezione dei terroristi. Questa trasmissione, però, non ha fatto scandalo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

La Rai condanna “La guerra dei bambini” di Michele Santoro. Ecco la lettera di Santoro al cda della Rai.

* Gentile Presidente, gentili Consiglieri *

Non è mia abitudine replicare a chi commenta le nostre trasmissioni e
ritengo, anche in questa circostanza, di non rinunciare a questo mio
comportamento. Tuttavia nel florilegio di dichiarazioni che hanno fatto
seguito ad Annozero, a volte assumendo le forme del linciaggio, sono
completamente scomparsi i contenuti del nostro lavoro. Siamo stati definiti
terroristi, portavoce di Hamas, giornalisti spazzatura. Senza che questi
insulti suscitassero adeguate reazioni.

Eppure siamo il più seguito appuntamento informativo della televisione
italiana in prima serata, con introiti pubblicitari che ci consentono il
completo autofinanziamento senza far ricorso al canone, permettendo di
destinare risorse importanti alle altre attività del servizio pubblico.
Siamo anche tra le trasmissioni meglio posizionate della Rai, tra le poche
seguite in prevalenza dal nord del Paese e dalle fasce più acculturate. Vi
invito a leggere lo studio pubblicato questa settimana dalla Sipra per
vedere quanto poco felice ed approssimativa sia la descrizione di Annozero
come un programma populista e pericoloso per la democrazia, dal momento che
a guardarlo non e’ un esercito di sempliciotti ma una fetta di opinione
pubblica che ricorre a molte fonti per informarsi.

Personalmente considero l’intervento dell’Ambasciatore dello Stato
d’Israele, Gideon Meir, una grave interferenza nella libertà d’espressione
del nostro Paese. Ma non gliene faccio una colpa. La responsabilità ricade,
piuttosto che sulla politica di quel governo, sul difetto di liberalismo del
sistema politico italiano e della categoria alla quale appartengo, che non
reagisce adeguatamente a queste clamorose invasioni di campo.

Repubblica ha pubblicato un intervento di David Grossman, che si concentra
sulle caratteristiche dell’ultima rappresaglia israeliana, lasciando sullo
sfondo le ragioni storiche che hanno prodotto il conflitto. Ho realizzato
molte trasmissioni sui rapporti tra Stato d’Israele e palestinesi e posso
rassicurare il nostro Presidente – che di queste cose si è occupato
sicuramente meglio di me quando era Direttore de l’Unità: niente può
scatenare una rissa in uno studio televisivo quanto l’evocazione della
Storia. Ricorrere all’approccio storico avrebbe sicuramente consentito ai
sostenitori di Hamas (assenti nel parterre) di mettere in discussione
l’esistenza dello Stato d’Israele. Con la nostra impostazione, unica
trasmissione, abbiamo potuto affrontare l’argomento in prima serata,
decidendo (proprio come Grossman) di parlare dei bambini e della possibilità
di fermare il massacro, domandandoci se fossero necessari quei corpi
straziati per restituire sicurezza allo Stato di Israele.

Sono accusato di essere fazioso. Ma a quale fazione apparterrei? Ad una
piccolissima fazione che conta qualche centinaio di aderenti. Se qualcuno
avesse chiesto a quei bambini: “Preferireste vivere?”, cosa avrebbero
risposto? “Certo che sì”. Bene, io la penso esattamente come loro.

Su quanto è avvenuto ho trovato su Internet un’ analisi di un giornalista de
“Il Messaggero” che non conosco, Corrado Giustiniani. L’unico che ha rivisto
il documento “La guerra dei bambini” minuto per minuto. Vi allego il suo
scritto insieme alla trascrizione completa del programma. Così potrete
controllare comodamente che l’insulto più grave è quello che mi è stato
rivolto affermando: “La trasmissione, come l’hai impostata finora, scusate
ma questo è il mio lavoro farlo, non entro nel merito, è al 99,9%, eccetto
la voce della ragazza di prima, tutta mirata…”.

Un insulto gratuito, assolutamente non giustificato da quello che era stato
trasmesso fino a quel momento. Contate le parole, classificatele pure a
seconda di quello che dicono. Soffermatevi poi sulla frase pronunciata da
Lucia Annunziata quando gli animi erano calmi: “Faccio una parte
assolutamente da stronzissima”. Cosa voleva dire? Che parte voleva fare?
Fornite voi una spiegazione plausibile, visto che lei avrebbe potuto dire
tutto quello che voleva sull’argomento trattato, ragioni storiche comprese.
Purtroppo, siccome siamo scomodi per il sistema politico, è invalsa
l’abitudine di entrare nel nostro studio non per discutere o argomentare ma
per insultarci. Tanto non si rischia niente. Io questo non l’ho tollerato la
scorsa settimana e non lo tollererò nelle settimane a venire.

Tra le tante menzogne scritte su di noi ce n’e’ una insopportabile: avremmo
addebitato la morte dei bambini soltanto alla responsabilità dello Stato di
Israele. Vi prego di leggere almeno questo stralcio di dialogo tra me e la
scrittrice israeliana Manuela Dviri all’inizio della nostra trasmissione,
traendone le dovute conclusioni.

*DVIRI*
*E quando guardo queste immagini sento una grande pesantezza, mi sembra che
sia tornato il tempo della retorica, delle parole vuote, che, della
stupidità umana. Siamo tutti assassini, sono un’assassina anch’io*

*SANTORO*
*Siamo tutti responsabili e tutti impotenti, insomma*

*DVIRI*
*Tutti, siamo tutti responsabili, tutti impotenti, io sono un’assassina,
siamo tutti degli assassini, siamo degli assassini dei bambini del Darfur,
del Congo, della Palestina, anche dei bambini israeliani che sono morti in
questi anni. Siamo tutti degli assassini. Io sono un’assassina.*

*SANTORO*
*Non abbiamo fatto abbastanza per evitare tutto questo*

*DVIRI*
*Non abbiamo fatto nulla. Non facciamo nulla.*

Infine qualcuno di voi ha ritenuto di dover ricordare che siamo in onda
grazie ad una sentenza della magistratura. Ma dovrebbe dedurne che solo
grazie ad una sentenza della magistratura la Rai può oggi venderci come un
prodotto pregiato del listino della Sipra. Tuttavia, prendete pure le vostre
decisioni editoriali serenamente e a prescindere. L’importante è che siano
rispettose delle leggi e dei contratti in essere. Io credo di aver lavorato,
da 25 anni a questa parte, con coscienza, serietà e producendo grandi
profitti per l’Azienda.

Per il resto, buon lavoro

*Michele Santoro*

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

La Rai condanna “La guerra dei bambini” di Michele Santoro.

Per il cda della Rai, la trasmissione di Anno Zero del 15 gennaio sui bombardamenti israeliani a Gaza, che ha già scatenato una furiosa polemica, «ha peccato di intolleranza e faziosità». Come è noto, Lucia Annunziata aveva abbandonato la diretta, accusando Santoro di non fare una trasmissione “equidistante” tra le posizioni filo israeliane e quelle filo palestinesi.

 

 

In ambienti vicini la redazione di Anno Zero si fa notare che quanto è accaduto ha un paio di risvolti un poco singolari. Essi riguarderebbero: a) la volontà di chiudere per sempre il programma, manifestata già prima della messa in onda della puntata “incriminata”(Santoro avrebbe ricevuto una telefonata tre giorni prima, nella quale lo si informava di questa volontà); b) uno degli invitati alla trasmissione avrebbe declinato l’invito un paio d’ore prima della messa in onda, adducendo motivi di salute; c) pare che lo stesso abbia però lasciato la sera stessa un post it recante parole di ringraziamento, sul portone d’ingresso della giornalista che aveva abbandonato la trasmissione. C’è anche chi ha notato che mentre Lucia Annuziata si alzava e si toglieva il microfono per andarsene dallo studio, avrebbe detto:”io stavolta non farò niente”. La cosa verrebbe interpretata come se la giornalista fosse a conoscenza del proposito di chiudere il programma.

 

Più volte la giornalista aveva detto “scusate se faccio la stronza”. Anche qui si vorrebbe vedere una sorta di “ti sto aiutando a non farti chiudere e tu per tutta risposta mi tratti pure male”. Insomma, una sorta di “eccesso colposo di buona volontà” male interpetato da Santoro, che perdendo poi le staffe in diretta non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, fino al clamoroso abbandono della trasmissione. Comunque, va rilevato che, nonostante presunti bigliettini e la pubblica telefonata di “solidarietà” da parte di Fini, Lucia Annunziata ha mantenuto uno stretto riserbo sulla vicenda, sottraendosi a ogni ulteriore polemica diretta, la qual cosa è un punto a suo favore. Chi l’ha criticata per il suo comportamento in trasmissione, non ha preso in considerazione che quello che ha detto lo pensasse davvero, tanto da agire di conseguenza.

 

 

Si tratta di gossip? Di dietrologie? Di un processo alle intenzioni? Di una delle solite “teorie del complotto”? Fatto sta che la reazione politica nei confronti di Santoro è stata immediata e ben orchestrata: come ricorderete, il la è stato dato con una durissima dichiarazione del presidente della Camera, alla quale hanno fatto subito coro le dichiarazioni dell’apparatnik del centro-destra.

 

Fino alla presa di posizione del cda della Rai di oggi. Al di là di ogni ulteriore commento relativo a questa ultima polemica contro la tv pubblica, che vede ancora una volta al centro Michele Santoro, resta il fatto sconcertante che il cda della Rai abbia sostenuto la tesi per cui “il Consiglio sottolinea che nel suo complesso l’informazione della Rai sul conflitto è completa ed equilibrata”. Come sarebbe potuta esserlo se agli inviati Rai, come a tutti i corrispondenti stranieri è stato vietato l’ingresso nella Striscia di Gaza? Come potevano essere completi ed equilibrati i servizi trasmessi al di qua del confine con Gaza, costringendo gli inviati a mostrare da lontano i fumi che si alzavano nelle città bombardate? Perché la Rai non ha protestato contro il governo israeliano per l’embargo della stampa internazionale, quella italiana compresa?

 

 

Ha scritto Corrado Giustiniani, sul blog “I nuovi italiani” (ilmessaggero.it): “Giovedì 15 gennaio ero libero, e ho potuto vedere a casa mia, dall’inizio alla fine, la puntata sulla guerra di Gaza. Quasi nessuno ha colto che il vero valore aggiunto della trasmissione stava in uno straordinario reportage iniziale che mostrava i cadaveri dei bambini uccisi dalle bombe, e il trasporto in barella dei corpicini dilaniati ma rimasti ancora in vita. Filmati e interviste da lasciare senza respiro, realizzati da un giornalista arabo che, ha spiegato Santoro, collabora anche con l’agenzia Ansa. Mi è rimasto impresso il racconto di un ragazzo rimasto senza famiglia e gli occhi sbarrati di una bambina sdraiata per terra. Parlava a monosillabi, con una grande garza in testa, a coprire la ferita profonda causata da una scheggia. Sembrava il servizio di un grande network internazionale, la Bbc, o anche la Cbs, qualcosa insomma assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato.”

 

 

Mi pare che questo sia il succo di tutta la vicenda. Si sono scagliati contro Santoro, perché “la guerra dei bambini”, come era intitolata la puntata di Anno Zero “incriminata” di “intolleranza e faziosità” era “assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato”. Questa è la verità. Piaccia o non piaccia. Al di là delle alchimie politiche, al di fuori delle dietrologie. Alla verità importa un fico di piacere a qualcuno. Non ha bisogno di equidistanze, di moderazione, di equilibrio. E’ la verità, il suo ruolo è essere scomoda e irritante. Se no, che verità sarebbe? 

La trasmissione di chiamava “la guerra dei bambini”, non “chi ha ragione: Israele o Hamas?”. Aveva un taglio giornalistico preciso e molto chiaro. Dunque, non si trattava di spiegare il conflitto, ma di guardare dentro un conflitto che ha ammazzato centinaia e centinaia di bambini. Questa semplice, quanto terribile verità, raccontata senza troppi fronzoli è stata  però artatamente offuscata dalle polemiche, a cominciare da quella esplosa proprio in trasmissione. Sarebbe bene che sia Annunziata che Santoro, a mente fresca, passate le polemiche, riflettessero su questo. Sempre che, nel frattempo a qualcuno non venga in mente davvero di azzerare Anno Zero. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Diamo una mano al quotidiano.

Mentre in Italia è stata annunciata una partership tra il Gruppo Espresso e la Rcs per dare vita a una piattaforma comune per la raccolta pubblicitaria sul web, arriva dagli Usa una brutta notizia per i quotidiani americani.

 

Google ha deciso di  eliminare, a partire dal prossimo 28 febbraio Print Ads, un programma per vendere la pubblicità sui quotidiani perché non rende abbastanza..Il programma, era nato per agevolare gli inserzionisti nelle strategie multi-piattaforma (web e stampa). Lo riferisce Giovanni Gagliardi da New York, per repubblica.it.

“Non abbiamo avuto un impatto significativo nei profitti per i nostri quotidiani partner”, ha ammesso il portavoce di Google Brandon McCormick. “Speravamo che Print Ads potesse creare un nuovo canale di entrate per i quotidiani, ma invece il prodotto non ha avuto l’impatto che speravamo”, aggiunge la stessa società attraverso il suo blog.

Print Ads fu lanciato da due anni ed era stato progettato per aiutare i quotidiani a fare soldi attraendo gli inserzionisti di Google affinché si espandessero verso la carta stampata. Vi erano state coinvolte 807 testate, inclusi il New York Times, New York Post, The Boston Globe, Chicago Tribune, The Washington Post, San Francisco Chronicle, San Jose Mercury News e Los Angeles Times

La situazione economica e finanziaria della stampa americana è andata via via aggravandosi negli ultimi anni. Secondo la Newspaper Association of America, il mercato pubblicitario statunitense, quasi esclusiva fonte di reddito per la stampa Usa, si era già molto ridotto negli ultimi anni, passando dai 48,7 miliardi di dollari  di fatturato del 2000 ai 42,2 miliardi di dollari del 2007.

 

La situazione è andata aggravandosi e la decisione di Google non è certo un bel segnale. Ne è una riprova, ad esempio, la decisione del New York Times di mettere in vendita lo storico palazzo dove ha sede la redazione, nonché la scelta di concedere spazi pubblicitari anche in prima pagina. A poco vale la rassicurazione secondo cui Google “resta comunque impegnata a lavorare con gli editori nello sviluppo di nuove strade per aumentare le entrate, distribuire e aggregare contenuti e attrarre nuovi lettori online”.

 

Anche in da noi sembra ci sia una nuova sensibilità sulla questione della sopravvivenza della carta stampata. A parte la già citata partneship tra il Gruppo Espresso e la Rcs, è stata recentemente espressa la volontà da parte di Upa di attivare più attenzione alla pubblicità sulla stampa italiana.“Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell’innovazione dei loro prodotti”, ha detto di recente Lorenzo Sassoli de Bianchi. (vedi “La pubblicità italiana e la carta stampata”, pubblicato il 15 gennaio in “Beh,buona giornata”). Lodevole intenzione a cui bisognerebbe dare seguito con atti concreti. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

“Molti non americani dicevano, un po’ per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l’impatto del paese sugli affari mondiali.”

L’inaugurazione di Barack Obama, oltre a molte altre pietre miliari (il primo presidente nero della storia americana) segna anche un evento rivoluzionario nella storia dei media mondiali. Grazie alla Rete, che è entrata nelle vite quotidiane di milioni di persone in tutto il mondo solo negli ultimi anni, e grazie alla centralità assoluta degli Stati Uniti in questo particolare momento, essendo l’unica superpotenza di un mondo fortemente globalizzato, l’elezione e l’inaugurazione di Obama sono diventate un evento mondiale come nessun’altra elezione americana era mai stata prima d’ora.

Bisogna tornare forse al giubileo della regina Vittoria, il cinquantesimo anniversario del suo regno, quando la Gran Bretagna regnava su metà del pianeta in una sorta di globalizzazione ante litteram, per trovare una cerimonia politica nazionale che ha avuto un seguito tanto ampio. I sovrani di tutta Europa, undici primi ministri coloniali e numerosi maharaja indiani parteciparono a quell’evento, che fu seguito dalla neonata stampa quotidiana, di ogni parte del mondo.

Ma l’elezione di Obama naturalmente è qualcosa di diverso, che mescola elementi della cultura contemporanea della celebrità con forme nuove e innovative di democrazia partecipativa e sentimenti profondi, emotivi, potremmo dire quasi religiosi. “Un incantesimo che aprirà una nuova America” recitava oggi il titolo del quotidiano britannico The Guardian.

Molti non americani dicevano, un po’ per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l’impatto del paese sugli affari mondiali.
I giovani francesi, tedeschi e italiani hanno seguito la candidatura di Obama e hanno esultato per le sue vittorie come se alle elezioni nazionali avesse vinto il loro partito. Io guardo costantemente le pagine Facebook di italiani – giovani e vecchi – con obamerie varie, simboli e messaggi, come se lui fosse uno “di casa”. In un esempio di transfert estremo, la leader dei socialisti francesi, Ségolène Royal, avrebbe detto che la sua campagna aveva “ispirato” Obama e che lui aveva copiato le sue tattiche, suscitando una certa dose di ilarità e ridicolo in Francia. “Evidentemente c’è stato un problema di traduzione e Obama ha frainteso i suoi insegnamenti, perché lui ha vinto”, ha commentato un lettore sul sito di Le Monde. Un editorialista del Times londinese ha scritto: “Domenica sera ho sognato Barack Obama. Milioni di persone lo sognano”.

Obama è diventato una specie di test delle macchie di Rorschach universale, dove ognuno vede quello che vuole vedere. Al tempo stesso, assistere alla curiosa coreografia dell’inaugurazione di Obama – per molti non americani è la prima volta – potrebbe produrre uno shock. Il giuramento sulla bibbia di Lincoln, i riferimenti a Dio, la lunga preghiera che ha preceduto il discorso del neopresidente, lo sfrontato patriottismo e il sentimento sublime di una finalità nazionale specificamente americana sembrano qualcosa di profondamente estraneo per molti europei. Oltre a esporre elementi familiari del suo programma, Obama ha fatto riferimenti specifici alla grandezza dell’America, a Dio e ai padri fondatori.

La religione civile di Barak

di ALEXANDER STILLE da repubblica.it

Quello a cui stanno assistendo è una tradizione retorica peculiare ma importantissima, appropriatamente definita la “religione civile dell’America”. Secoli di guerre di religione hanno bandito Dio dal discorso pubblico in gran parte dell’Europa, e il flagello del fascismo ha reso il nazionalismo qualcosa di molto controverso sul vecchio continente: per questo la liturgia civica americana sembra qualcosa di arcaico ed estraneo. (Un articolo su queste pagine, appena qualche giorno fa, sottolineava l’assenza della religione civile in Italia.)
Più di quarant’anni fa, il sociologo americano Robert Bellah scrisse un saggio fondamentale intitolato La religione civile in America, partendo dai numerosi riferimenti a Dio e a un fine superiore presenti nel discorso inaugurale di John Kennedy.

Kennedy iniziò con queste altisonanti parole: “Oggi non assistiamo alla vittoria di un partito, ma alla celebrazione della libertà, che simboleggia una fine, oltre che un inizio, che esprime il rinnovamento, oltre che il cambiamento. Eppure le stesse convinzioni rivoluzionarie per cui i nostri antenati hanno combattuto sono ancora in forse in tutto il mondo, la convinzione che i diritti dell’uomo non vengono dalla generosità dello Stato ma dalla mano di Dio”.
Essendo situate generalmente all’inizio e alla fine del discorso, queste pennellate religiose potrebbero essere liquidate come specchietti per le allodole, ammiccamenti agli elettori religiosi bisognosi di rassicurazione. Invece, Bellah sosteneva che rivestivano un ruolo centrale nel discorso di Kennedy e nel linguaggio politico americano fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza di Jefferson: “Noi consideriamo manifeste tali verità, e cioè che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi diritti c’è la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.

Abramo Lincoln, il presidente preferito da Obama, era intriso del linguaggio di Jefferson e di quello della Bibbia quando creava la retorica pregnante della guerra civile americana, che fornì il carburante emotivo per la guerra, per salvare l’unione, abolire la schiavitù, ma anche promuovere la riconciliazione nazionale dopo la fine del conflitto. “Con malizia verso nessuno, con carità verso tutti”, disse Lincoln nel suo secondo discorso inaugurale. Martin Luther King usò il linguaggio jeffersoniano e la cadenza biblica per radunare milioni di persone in difesa della causa dei diritti civili.

Naturalmente, come riconosce Bellah, la religione civile dell’America non sempre è stata usata a fin di bene. È stata usata come giustificazione per il Manifest Destiny [la “missione” degli Stati Uniti di espandersi nel continente americano], la guerra contro il Messico e per la negazione dei diritti civili e politici degli indiani. Ovviamente, George Bush ha usato una sua forma di religione civile con i suoi discorsi sull'”asse del male” e la sua affermazione che la libertà era un diritto divino che l’America aveva il dovere di diffondere in tutto il mondo.
Ma considerando la profonda forza emotiva di questo linguaggio, e alla sua capacità di fissare le priorità nazionali – la guerra alla povertà, la corsa alla Luna, i diritti civili – Obama è sempre stato estremamente abile nell’attingere al filone jeffersonian-lincolnian-kennedian-martinlutherkinghiano di questa tradizione. Il nuovo presidente cerca di sfruttare la forza di questa tradizione per contrastare la versione più nazionalistica usata da Bush, e per metterla al servizio del suo nuovo e diversissimo programma.  (Beh, buona giornata).
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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Attualità Popoli e politiche

“Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio».”

Il presidente ragazzo

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

L’apparizione di Obama, non solo nel paesaggio americano ma nel mondo, conferma qualcosa che ciascuno di noi sa: basta una persona forte, e il paesaggio d’un tratto può cambiare.Una personalità che crede intensamente nel bene comune senza vacillare né badare a interessi particolari può rimettere in moto quel che pareva immobile, nella società e ai suoi comandi. Può ridar senso alla parola, quando sembrava che essa l’avesse perso e che il ritiro nel silenzio fosse la scelta meno indecorosa. Obama ha messo fine a questa stagnazione. Ha vinto proponendo la speranza, che sorge inaspettata proprio quando la passione ottimistica si spegne e – così ha detto il nuovo Presidente alla cerimonia d’insediamento, ieri – l’inverno è profondo. Forse il momento Obama è qui: nella parola da lui ritrovata. Ma non è solo questo. Perché una grande personalità si imponga, perché vinca tanti ostacoli, occorre che il momento stesso, indipendentemente dalla persona, abbia una sua intensità irresistibile. Occorre il tifone più letale, perché nasca un grande capitano che porti in salvo il bastimento: senza tifone il capitano MacWhirr di Joseph Conrad sarebbe restato nel grigiore, pur essendo portato al comando. Il profondo inverno rivela l’eccellenza dello statista e al tempo stesso lo fa nascere.Dicono che Obama pensava da tempo a candidarsi, ma che non riteneva giunta l’ora. Se ha forzato i tempi è perché ha fiutato che questo non era forse il suo momento ma di sicuro era il momento più grave della storia recente americana: e che da tale momento lui era chiamato, quale che fosse la sua maturità personale. Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio». Scrive Michiko Kakutani, critico letterario del New York Times, che Obama, per i libri che l’ispirano, ha un senso tragico della storia e delle ambiguità umane, ed è refrattario all’incoscienza ottimista delle ultime amministrazioni.

Quel che è accaduto nel 2008 conferma l’inverno descritto da Obama. Il tracollo finanziario testimonia di una fragilità americana che molte amministrazioni hanno ignorato: dell’assenza di un «occhio vigile» sugli spiriti animali del mercato. Le guerre che continuano in Medio Oriente certificano che Washington ha fallito, in quella che riteneva essere la sua funzione: egemonizzare il mondo e rifarlo da capo, spegnendo chi fomenta conflitti. Bush e i neo-conservatori avevano nutrito questo susseguirsi di bolle: l’illusione che gli Stati Uniti fossero gli unici a poter capire e aggiustare le storture dell’umanità. L’arroganza di tale illusione, unita a ignoranza e a una mancanza di curiosità abissale, a cominciare dal clima e dal rapporto con l’Islam. Non a caso, elencando antiche virtù dell’America, Obama ha citato ieri quella che tanto le è mancata: la curiosità. Questo è il grande freddo che il Presidente ha di fronte: non gli incidenti di un impero paragonabile all’antica Roma, ma le rovine di una folie de grandeur che da tempo non fa i conti con la realtà.

Il senso tragico della storia, se davvero anima Obama, lo aiuterà enormemente. Poiché si tratta di andare sino in fondo, nell’esplorare la notte. Le guerre contro il terrore non portano frutti, né in Iraq né in Afghanistan. In Asia urge più della guerra un negoziato vasto fra Pakistan, Afghanistan, India, aggiungendo Iran, Cina, Russia. È stato quantomeno azzardato far credere a piccoli nazionalismi (Georgia, Ucraina, Israele) che potevano tutto, perché alle spalle avevano il gigante Usa.

Sapere che la storia è tragica non vuol dire vederla nera, senza vie d’uscita. L’acme della tragedia non consiste nella nemesi punitiva ma nella catarsi, capace di purificare l’uomo che apprende la propria colpa e i propri limiti. Per l’America è qui il compito: smettere la forza irresponsabile, aprire (dice Obama) una «nuova era di responsabilità». Da secoli essa vorrebbe essere il faro sopra la collina: un sogno condiviso dal Presidente afro-americano. Ma anche la sfiducia verso gli Usa nel frattempo s’è fatta globale. Anche in questo «il mondo è cambiato e urge cambiare con lui». L’America è a un bivio. La sua idea di sovranità nazionale assoluta, che non riconosce autorità sopra di sé, si è rivelata fallace, minacciosa. Non è detto che Obama sia all’altezza di un così enorme momento storico: il momento in cui l’America, se cosciente, scopre il post-nazionalismo europeo; in cui riconosce che il multipolarismo non è un malvagio disegno cinese, russo o europeo, essendo ormai la realtà. Ma di certo il momento gli consente di guardare alto e lontano. È la sua occasione. È il Tifone terribile che può travolgerlo, o innalzarlo e renderlo grande. (beh, buona giornata) 

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Attualità Popoli e politiche

“La buona notizia, per l’America, è che probabilmente Obama è l’uomo giusto per gestire questo difficilissimo momento: più che un commander-in-chief dovrà essere un persuader-in chief.”

La festa senza festa

di Massimo Gaggi da corriere.it

 

«Che la forza sia con te» gli ha detto, fissandolo negli occhi, il vescovo episcopale T.D. Jakes. Mancavano tre ore al giuramento e le famiglie Obama e Biden, con pochi altri intimi, erano nella chiesetta di St. John, a due passi dalla Casa Bianca, per la funzione mattutina. Dopo aver invocato l’aiuto di Dio, Jakes ha spiegato che le sfide che attendono il nuovo presidente sono talmente dure da indurlo a citare — come avrebbe fatto il figlio quattordicenne del vescovo — non le Sacre Scritture, ma Guerre Stellari: «Questo è il momento delle decisioni difficili, non della correttezza e della buona educazione. Tu vedrai la luce, ma prima dovrai sentire il calore delle fiamme». Obama non si è scomposto: lo sa già da tempo.

Incassati i voti che gli hanno consentito di battere McCain, la sua retorica della speranza nelle ultime settimane si è trasformata in appello al coraggio degli americani, alla loro capacità di stringere i denti, di riscattarsi nei momenti più difficili. E ieri, nel giorno trionfale dell’incoronazione, il primo presidente nero d’America ha completato il percorso oratorio col quale ha portato il Paese dai gioiosi giorni della speranza alla nuova era delle responsabilità. La speranza non è stata sepolta: il cambiamento nel quale si può credere ( change we can believe in) è sempre in cima all’agenda presidenziale. Ma il suo cielo è metallico, zeppo di nuvole, non più l’orizzonte sereno, disegnato con colori pastello, del logo elettorale di Obama.

Il leader democratico vuole riconquistare la fiducia del mondo scossa da anni di iniziative di politica estera unilaterali e costellate di errori. Spiega, quindi, che «la potenza da sola non basta a proteggerci se non la usiamo con prudenza, se non convinciamo il mondo della giustezza della nostra causa». Ma per Obama, come per Bush, gli Stati Uniti sono «una nazione in guerra contro una rete di forze che le hanno scatenato contro odio e violenza». Non può, quindi, tentennare o fare passi indietro. Quanto all’economia, è gravemente indebolita dall’avidità e dall’irresponsabilità di alcuni, ma anche dall’incapacità collettiva di fare scelte difficili e di preparare il Paese per una nuova era.

Sarà Obama, ora, a traghettarlo, ma avverte che il viaggio sarà penoso e pieno di insidie. Il presidente non lo ha detto esplicitamente ieri nel discorso d’insediamento, ma ha già spiegato che, dopo i costosi interventi pubblici a sostegno dell’economia che verranno attivati nei prossimi mesi e che porteranno inevitabilmente il debito pubblico a livelli molto pericolosi, verrà il momento del «dimagrimento» della spesa federale: ci saranno massicci tagli alla spesa sociale, soprattutto alle pensioni e a Medicare, la sanità pubblica per gli anziani il cui costo è enormemente cresciuto sotto la presidenza Bush. Sarà lo stesso modello di sviluppo a cambiare: più Stato non solo perché oggi il settore privato è fermo, ma perché col calo dei redditi da lavoro, la disoccupazione, la riduzione del valore delle case e dei patrimoni finanziari e la necessità di ricominciare a risparmiare dopo decenni di indebitamento «selvaggio», per molto tempo le famiglie non potranno tornare ad essere il motore della crescita economica. Un’altra scommessa temeraria per Obama, presidente di una nazione di individualisti. Forse anche per questo ha affidato l’invocazione che ha preceduto il giuramento al reverendo Warren, il pastore che dal 2002 veste i panni del profeta della fine dell’egocentrismo.

«La nostra è sempre la nazione più grande — ha detto ieri Obama agli americani— ma la grandezza non è un dono: bisogna conquistarsela». Insomma una festa, quella di ieri, con poco da festeggiare. Forse anche per questo non si è conclusa, come avveniva da decenni, con uno spettacolo di fuochi d’artificio. La buona notizia, per l’America, è che probabilmente Obama è l’uomo giusto per gestire questo difficilissimo momento: più che un commander-in-chief dovrà essere un persuader-in chief. «Dai tempi di Reagan non c’è stato in America un altro persuasore così efficace», dice Sean Wilentz, storico delle presidenze Usa che insegna a Princeton. E dai tempi di Roosevelt, quelli della Grande Depressione, nessuno si è trovato a dover fronteggiare devastazioni economiche e crisi internazionali così gravi. Obama è preoccupato ma anche consapevole della sua forza. Entra alla Casa Bianca con un livello di consenso senza precedenti (il 78%), mentre anche il 58% degli americani che hanno votato per McCain pensano che il leader democratico farà bene. E, comunque, di sognatori in giro ne sono rimasti pochi: un’indagine Gallup indica che più della metà degli americani pensa che tra un anno la situazione economica sarà peggiore di quella attuale. Tra le sue file cominciano ad affiorare i delusi, ma per adesso Obama ha un grosso capitale politico da spendere. Mentre i repubblicani — l’opposizione che dovrebbe tagliargli la strada — sono segnati da divisioni profonde come non se ne vedevano da quando Barry Goldwater perse malamente le elezioni del 1964. (Beh, buona giornata).

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“….e perché un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti.”

Barak Obama, Washington, 20 Gennaio 2009 (da repubblica.it)

OGGI mi trovo di fronte a voi, umile per il compito che ci aspetta, grato per la fiducia che mi avete accordato, cosciente dei sacrifici compiuti dai nostri avi. Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nostra nazione, e per la generosità e la cooperazione che ha mostrato durante questa transizione.

Quarantaquattro americani hanno pronunciato il giuramento presidenziale. Queste parole sono risuonate in tempi di alte maree di prosperità e di calme acque di pace. Ma spesso il giuramento è stato pronunciato nel mezzo di nubi tempestose e di uragani violenti. In quei momenti, l’America è andata avanti non solo grazie alla bravura o alla capacità visionaria di coloro che ricoprivano gli incarichi più alti, ma grazie al fatto che Noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali.

Così è stato finora. Così deve essere per questa generazione di americani.

E’ ormai ben chiaro che ci troviamo nel mezzo di una crisi. La nostra nazione è in guerra contro una rete di violenza e di odio che arriva lontano. La nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell’irresponsabilità di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacità di compiere scelte difficili e preparare la nostra nazione per una nuova era. C’è chi ha perso la casa. Sono stati cancellati posti di lavoro. Imprese sono sparite. Il nostro servizio sanitario è troppo costoso. Le nostre scuole perdono troppi giovani. E ogni giorno porta nuove prove del fatto che il modo in cui usiamo le risorse energetiche rafforza i nostri avversari e minaccia il nostro pianeta.

Questi sono gli indicatori della crisi, soggetti ad analisi statistiche e dati. Meno misurabile ma non meno profonda invece è la perdita di fiducia che attraversa la nostra terra – un timore fastidioso che il declino americano sia inevitabile e la prossima generazione debba avere aspettative più basse.

Oggi vi dico che le sfide che abbiamo di fronte sono reali. Sono serie e sono numerose. Affrontarle non sarà cosa facile né rapida. Ma America, sappilo: le affronteremo.

Oggi siamo riuniti qui perché abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l’unità degli intenti rispetto al conflitto e alla discordia.

Oggi siamo qui per proclamare la fine delle recriminazioni meschine e delle false promesse, dei dogmi stanchi, che troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.

Siamo ancora una nazione giovane, ma – come dicono le Scritture – è arrivato il momento di mettere da parte gli infantilismi. E’ venuto il momento di riaffermare il nostro spirito tenace, di scegliere la nostra storia migliore, di portare avanti quel dono prezioso, l’idea nobile, passata di generazione in generazione: la promessa divina che tutti siamo uguali, tutti siamo liberi e tutti meritiamo una possibilità di perseguire la felicità in tutta la sua pienezza.

Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro, o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama.

Sono stati invece coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose – alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà.

Per noi, hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita.

Barak Obama, Washington, 20 Gennaio 2009 (da repubblica.it)

Per noi, hanno faticato in aziende che li sfruttavano e si sono stabiliti nell’Ovest. Hanno sopportato la frusta e arato la terra dura.
Per noi, hanno combattuto e sono morti, in posti come Concord e Gettysburg; in Normandia e a Khe Sahn.
Questi uomini e donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato finché le loro mani sono diventate ruvide per permettere a noi di vivere una vita migliore. Hanno visto nell’America qualcosa di più grande che una somma delle nostre ambizioni individuali; più grande di tutte le differenze di nascita, censo o fazione.

Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo la nazione più prospera, più potente della Terra. I nostri lavoratori non sono meno produttivi rispetto a quando è cominciata la crisi. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari di quanto lo fossero la settimana scorsa, o il mese scorso o l’anno scorso. Le nostre capacità rimangono inalterate. Ma è di certo passato il tempo dell’immobilismo, della protezione di interessi ristretti e del rinvio di decisioni spiacevoli. A partire da oggi, dobbiamo rialzarci, toglierci di dosso la polvere, e ricominciare il lavoro della ricostruzione dell’America.

Perché ovunque volgiamo lo sguardo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede un’azione, forte e rapida, e noi agiremo – non solo per creare nuovi posti di lavoro, ma per gettare le nuova fondamenta della crescita.

Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche e le linee digitali che alimentano i nostri commerci e ci legano gli uni agli altri. Restituiremo alla scienza il suo giusto posto e maneggeremo le meraviglie della tecnologia in modo da risollevare la qualità dell’assistenza sanitaria e abbassarne i costi.

Imbriglieremo il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche.
E trasformeremo le nostre scuole, i college e le università per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi. Possiamo farcela. E lo faremo.

Ora, ci sono alcuni che contestano le dimensioni delle nostre ambizioni – pensando che il nostro sistema non può tollerare troppi grandi progetti. Costoro hanno corta memoria. Perché dimenticano quel che questo paese ha già fatto. Quel che uomini e donne possono ottenere quando l’immaginazione si unisce alla volontà comune, e la necessità al coraggio.

Quel che i cinici non riescono a capire è che il terreno gli è scivolato sotto i piedi. Gli argomenti politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non sono più applicabili. La domanda che formuliamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funzioni o meno – se aiuti le famiglie a trovare un lavoro decentemente pagato, cure accessibili, una pensione degna. Laddove la risposta sia positiva, noi intendiamo andare avanti. Dove sia negativa, metteremo fine a quelle politiche. E coloro che gestiscono i soldi della collettività saranno chiamati a risponderne, affinché spendano in modo saggio, riformino le cattive abitudini, e facciano i loro affari alla luce del sole – perché solo allora potremo restaurare la vitale fiducia tra il popolo e il suo governo.

La questione di fronte a noi non è se il mercato sia una forza del bene o del male. Il suo potere di generare benessere ed espandere la libertà è rimasto intatto. Ma la crisi ci ricorda che senza un occhio rigoroso, il mercato può andare fuori controllo e la nazione non può prosperare a lungo quando il mercato favorisce solo i già ricchi. Il successo della nostra economia è sempre dipeso non solo dalle dimensioni del nostro Pil, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di estendere le opportunità per tutti coloro che abbiano volontà – non per fare beneficenza ma perché è la strada più sicura per il nostro bene comune.

Quanto alla nostra difesa comune, noi respingiamo come falsa la scelta tra sicurezza e ideali. I nostri Padri Fondatori, messi di fronte a pericoli che noi a mala pena riusciamo a immaginare, hanno stilato una carta che garantisca l’autorità della legge e i diritti dell’individuo, una carta che si è espansa con il sangue delle generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo, e noi non vi rinunceremo in nome di qualche espediente. E così, per tutti i popoli e i governi che ci guardano oggi, dalle più grandi capitali al piccolo villaggio dove è nato mio padre: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che sia alla ricerca di un futuro di pace e dignità, e che noi siamo pronti ad aprire la strada ancora una volta.

Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carriarmati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. Al contrario, sapevano che il nostro potere cresce quanto più lo si usa con prudenza. La nostra sicurezza emana dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e del ritegno.

Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta dai principi, possiamo affrontare le nuove minacce che richiederanno sforzi ancora maggiori – una cooperazione e comprensione ancora maggiori tra le nazioni. Cominceremo a lasciare responsabilmente l’Iraq alla sua gente, e a forgiare una pace duramente guadagnata in Afghanistan. Con i vecchi amici e i vecchi nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda. Non chiederemo scusa per il nostro stile di vita, né ci batteremo in sua difesa. E a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere infranto. Voi non ci sopravviverete, e noi vi sconfiggeremo.

Perché noi sappiamo che il nostro retaggio “a patchwork” è una forza e non una debolezza. Noi siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e induisti e non credenti. Noi siamo formati da ciascun linguaggio e cultura disegnata in ogni angolo di questa Terra; e poiché abbiamo assaggiato l’amaro sapore della Guerra civile e della segregazione razziale e siamo emersi da quell’oscuro capitolo più forti e più uniti, noi non possiamo far altro che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno, che le linee tribali saranno presto dissolte, che se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa; e che l’America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace.

Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società – sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno.

Alla gente delle nazioni povere, noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campagne e per pulire i vostri corsi d’acqua; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quelle nazioni, come la nostra. che godono di una relativa ricchezza, noi diciamo che non si può più sopportare l’indifferenza verso chi soffre fuori dai nostri confini; né noi possiamo continuare a consumare le risorse del mondo senza considerare gli effetti. Perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso.

Se consideriamo la strada che si apre davanti a noi, noi dobbiamo ricordare con umile gratitudine quegli americani coraggiosi che, proprio in queste ore, controllano lontani deserti e montagne. Essi hanno qualcosa da dirci oggi, proprio come gli eroi caduti che giacciono ad Arlington mormorano attraverso il tempo. Noi li onoriamo non solo perché sono i guardiani della nostra libertà, ma perché essi incarnano lo spirito di servizio: una volontà di trovare significato in qualcosa più grande di loro. In questo momento – un momento che definirà una generazione – è precisamente questo lo spirito che deve abitare in tutti noi.

Per tanto che un governo possa e debba fare, alla fine è sulla fede e la determinazione del popolo americano che questa nazione si fonda. E’ la gentilezza nell’accogliere uno straniero quando gli argini si rompono, la generosità dei lavoratori che preferiscono tagliare il proprio orario di lavoro piuttosto che vedere un amico perdere il posto, che ci hanno guidato nei nostri momenti più oscuri. E’ il coraggio dei vigili del fuoco nel precipitarsi in una scala invasa dal fumo, ma anche la volontà di un genitore di nutrire il proprio figlio, che alla fine decidono del nostro destino.

Forse le nostre sfide sono nuove. Gli strumenti con cui le affrontiamo forse sono nuovi. Ma i valori da cui dipende il nostro successo – lavoro duro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo – tutto questo è vecchio. Sono cose vere. Sono state la forza tranquilla del progresso nel corso di tutta la nostra storia. Quel che è necessario ora è un ritorno a queste verità. Quel che ci viene chiesto è una nuova era di responsabilità – il riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo un dovere verso noi stessi, la nostra nazione, il mondo, doveri che non dobbiamo accettare mugugnando ma abbracciare con gioia, fermi nella consapevolezza che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, così importante per la definizione del carattere, che darsi completamente per una causa difficile.

Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.

Questa è la fonte della nostra fiducia – la consapevolezza che Dio ci ha chiamato a forgiare un destino incerto.

Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo – perché uomini, donne e bambini di ogni razza e di ogni fede possono unirsi nella festa in questo Mall magnifico, e perché un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti.

Perciò diamo a questa giornata il segno della memoria, di chi siamo e di quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno in cui l’America è nata, nel più freddo dei mesi, una piccola banda di patrioti rannicchiati intorno a falò morenti sulle rive di un fiume ghiacciato. La capitale era stata abbandonata. Il nemico avanzava. La neve era macchiata di sangue. Nel momento in cui l’esito della nostra rivoluzione era in dubbio come non mai, il padre della nostra nazione ordinò che si leggessero queste parole al popolo:

“Che si dica al futuro del mondo… che nel profondo dell’inverno, quando possono sopravvivere solo la speranza e la virtù… Che la città e la campagna, allarmate da un pericolo comune, si sono unite per affrontarlo”.
America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, ricordiamo queste parole senza tempo. Con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli dicano che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti. E con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l’abbiamo consegnato intatto alle generazioni future. (Beh, buona giornata)

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