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Attualità

C’ è chi propone “Per la democrazia”, una lista unica della sinistra alle prossime elezioni europee.

Europee: nuovo appello
per una lista unica

Per una lista unica della sinistra, da ilmanifesto.it
La democrazia italiana è in pericolo. La legge sulla sicurezza voluta dalla maggioranza ha privato dei diritti fondamentali più elementari – alla salute, all’alloggio, ai ricongiungimenti familiari, alle rimesse alle famiglie dei loro guadagni – centinaia di migliaia di stranieri che vivono e lavorano in Italia. Sta per essere varato un federalismo che dividerà l’Italia tra regioni ricche e regioni povere, rompendo, di fatto, il patto costituzionale dell’uguaglianza sul quale si è retta fino ad oggi l’unità della Repubblica. Nel pieno di una crisi economica, la cui gravità non ha precedenti, il governo ha perseguito la rottura dell’unità sindacale e l’emarginazione del sindacato più rappresentativo.
Strumentalizzando l’emozione per il dramma di Eluana Englaro, il Presidente del Consiglio ha aperto uno scontro istituzionale con la magistratura e con il Presidente della Repubblica; ha provocato una spaccatura del paese sui temi della laicità dello Stato, della dignità della persona e della sua autodeterminazione; ha tentato di rompere gli equilibri istituzionali, minacciando di rivolgersi direttamente al popolo per cambiare la Costituzione qualora non sia riconosciuto il suo potere illimitato e incontrollato quale incarnazione della volontà popolare. Paura, razzismo, odio per i diversi, disprezzo per i deboli, infine, sono i veleni quotidianamente iniettati nella società dalle politiche e dalla propaganda del governo quali fonti inesauribili di consenso.
Una simile emergenza costituzionale rende insensate le attuali divisioni della sinistra, le quali rischiano, in presenza dell’attuale sbarramento del 4% alle prossime elezioni, di provocarne la definitiva irrilevanza. C’è d’altro canto uno specifico fattore di crisi della democrazia che, congiuntamente alle vocazioni populiste dell’attuale maggioranza, sta determinando il collasso della democrazia rappresentativa: la crescente occupazione delle istituzioni pubbliche da parte dei partiti e la sostanziale confusione dei secondi con le prime. Ne è conseguita la trasformazione dei partiti, da luoghi di aggregazione sociale e di elaborazione dal basso di programmi e di scelte politiche, in costose oligarchie costantemente esposte alla corruzione e al malaffare. Solo l’introduzione, purtroppo inverosimile, di una rigida incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali, cioè tra rappresentati e rappresentanti, sarebbe forse in grado di restaurare la distinzione e, con essa, il rapporto di rappresentanza e di responsabilità dei secondi rispetto ai primi, e così di restituire i partiti, quali organi della società anziché dello Stato, al loro ruolo costituzionale di strumenti della partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Le prossime elezioni del Parlamento europeo offrono tuttavia alle forze disgregate della sinistra un’occasione irripetibile per mettere in atto questo principio e, insieme, una prospettiva di superamento delle loro attuali divisioni. Non si tratta di concordare alleanze, o coalizioni o fusioni di gruppo dirigenti. Si tratta più semplicemente ma ben più efficacemente, di costruire una lista unica della sinistra, “Per la democrazia”, dalla quale restino esclusi i dirigenti dei partiti, che pure sono invitati a promuoverla insieme al più ampio arco di forze e movimenti della società civile. Una simile lista varrebbe a dare voce e rappresentanza ad un’ampia fascia di elettori – non meno del 10% dell’elettorato – che non si riconoscono nel Partito democratico e neppure nei tanti frammenti alla sua sinistra, dalle cui rivalità interne e dalle cui competizioni e rivendicazioni identitarie risulterebbe tuttavia al riparo. E, soprattutto, essa varrebbe – in un momento come l’attuale, di pericolosa deriva populista, razzista, autoritaria e anticostituzionale del nostro sistema politico – a riaffermare, nel nostro paese, l’esistenza di una forza democratica e di sinistra, intransigente nella difesa della Costituzione e dei suoi valori di uguaglianza, di libertà e di solidarietà. (Beh, buona giornata)
Alessandra Algostino, Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Pasquale Beneduce, Maria Luisa Boccia, Michelangelo Bovero, Paolo Cacciari, Lorenza Carlassarre, Bruno Cartosio, Marcello Cini, Maria Rosa Cutrufelli, Giorgio Dal Fiume, Claudio De Fiores, Donatella della Porta, Ornella De Zordo, Alfonso Di Giovine, Peppino Di Lello, Piero Di Siena, Mario Dogliani, Angelo D’Orsi, Ester Fano, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Pino Ferraris, Lia Fubini, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Marina Graziosi, Pietro Ingrao, Cristiano Lucchi, Giulio Marcon, Alfio Mastropaolo, Tecla Mazzarese, Guido Ortona, Valentino Parlato, Valentina Pazzè, Mario Pianta, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi, Alessandro Portelli, Enrico Pugliese, Carla Ravaioli, Rossana Rossanda, Cesare Salvi, Francesco Scacciati, Ermanno Vitale, Aldo Tortorella, Danolo Zolo, Grazia Zuffa
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Attualità Finanza - Economia

La crisi economica che in Italia non c’é.

«Vorrei qui sottolineare che il mio Paese si trova in una situazione relativamente migliore rispetto a quello che i miei colleghi hanno riferito dei loro Paesi», ha sottolineato Berlusconi nel corso di una conferenza stampa congiunta con gli altri leader.

L’Italia è in una situazione migliore, ha sottolineato Berlusconi, «perché ha un sistema bancario solido, le banche italiane non sono state coinvolte dai titoli tossici, le famiglie italiane sono delle famiglie risparmiatrici e ogni italiano che perde il lavoro ha una totale assistenza sanitaria e percepisce il 70% di quella che è la sua principale retribuzione». Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Natura Popoli e politiche

Greenpeace al vertice di Berlino: “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.

(fonte:ilmmessaggero.it)

Durante il vertice di Berlino trenta attivisti di Greenpeace hanno accompagnato i leader europei mostrando uno striscione su scritto “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.

Greenpeace – informa una nota – chiede a Berlusconi e gli altri leader europei riuniti oggi a Berlino per i preparativi del prossimo G20, che facciano il massimo per sostenere con urgenza un “New Deal” verde per risolvere sia la crisi economica che la crisi climatica che minacciano il Pianeta. «Nel tentativo di salvare l’economia, i nostri leader hanno l’opportunità di sviluppare un piano di stimolo per creare centinaia di migliaia di posti di lavoro verdi per fronteggiare i cambiamenti climatici. Se invece l’Europa sceglierà un futuro energetico sporco e pericoloso, puntando su carbone e nucleare, gli impatti del riscaldamento globale faranno sembrare le difficoltà economiche di oggi insignificanti», afferma Karsten Smid, della campagna sul clima di Greenpeace.

La prossima Conferenza ONU sui cambiamenti climatici di Copenhagen – a dicembre – sarà un appuntamento storico che non deve essere disatteso. Greenpeace chiede al l’Unione europea di prepararsi a questo appuntamento investendo in una ripresa verde dell’economia, e impegnando circa 35 miliardi di euro all’anno per aiutare le economie in via di sviluppo a ridurre le proprie emissioni di gas serra, proteggere le foreste tropicali e mettere in atto misure di adattamento. Questa cifra rappresenta la quota europea di un fondo mondiale di 110 miliardi di euro all’anno, da oggi al 2020, che tutti i Paesi industrializzati dovrebbero contribuire a creare per trovare un accordo a Copenhagen. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Il nuovo segretario del Pd: “Non è mediatico, telegenico, imprenditore, anziano, potente, ricco. Cattolico ma non teodem. Rispetto agli altri leader del Pd: non è un ex.”

di ILVO DIAMANTI da repubblica.it

Penso che Dario Franceschini abbia un profilo adatto a guidare il Partito Democratico. Il più lontano dal modello-Berlusconi. E dal gruppo dirigente che ha guidato il Pd e i partiti da cui proviene. Rispetto a Berlusconi, è proprio l’opposto. Non è mediatico, telegenico, imprenditore, anziano, potente, ricco. Cattolico ma non teodem. Rispetto agli altri leader del Pd: non è un ex. Al massimo: dirigente del Movimento Giovanile della Dc. La sua ascesa politica avviene attraverso il Partito Popolare e quindi: la Margherita, l’Ulivo e il PD. Insomma una storia vissuta dentro la seconda Repubblica. Non è neppure un capo corrente o un cospiratore. Insomma: non è un Caimano e neppure uno Scorpione. Ma neanche un Americano.

Se guardiamo ai suoi predecessori del centrosinistra, l’unico a cui può essere accostato è Prodi. Non perché gli somigli. Prodi era assai più coinvolto nella storia della prima Repubblica (per quanto da tecnico; e poi, non è una colpa). Ma per immagine. Prodi, tuttavia, è anche l’unico – mai dimenticarlo – che abbia sempre vinto contro Berlusconi. Magari di poco, pochissimo. Con un pareggio vittorioso. Ma non importa: lui, almeno, contro Berlusconi non ha mai perso. Anche perché è così diverso e alternativo rispetto al Cavaliere. Come Prodi, peraltro, Franceschini sullo schermo viene male. Uno dalla faccia onesta e bonaria, che meno va in tivù meglio è. (Anche se, a differenza di Prodi, in tivù ci va fin troppo. Dovrebbe auto-limitarsi). Perché i buoni in questa stagione politica non van di moda. Nemmeno gli onesti. Però da lui compreresti un’auto e anche una bici usata. Anche se è determinato e duro la sua parte. Altrimenti uno non diventa segretario del Pd, il secondo partito italiano. Il primo del centrosinistra, fino ad oggi.
Franceschini, insomma, ha tutto per sfidare Berlusconi. Perché è lo specchio dell’Altra Italia. Quella che oggi è all’opposizione. Minoranza precaria. Ma, forse, con una rappresentanza più adeguata potrebbe anche cambiare. Comunque, riuscire a competere. Giocarsela. E’ già avvenuto anche poco tempo fa. Nel 2006 destra e sinistra, almeno, erano pari.

Ieri, peraltro, Franceschini ha fatto un discorso serio e – ancora una volta – onesto. Ma rischia di pagare il vizio d’origine, come non abbiamo mancato già di osservare. Il modo in cui è stato designato. Da un’assemblea costituente eletta a sua volta per costituire il Pd, ma non per funzionare da organismo congressuale. Per eleggere il segretario, per quanto provvisorio. Una ratifica, insomma, arrivata dopo che Franceschini è stato “nominato” dal suo predecessore, con il consenso – magari non entusiasta – degli altri leader. Quasi una cooptazione ad opera dei soliti noti. Per cui anche se ha la biografia e la faccia giusta, ha seguito un percorso sbagliato. Ma per questo rischia di avere un futuro corto. Lui insieme al Pd. Franceschini dovrebbe, per questo, ascoltare il suo unico avversario di questa occasione: Arturo Parisi. E soprattutto la voce di tanti elettori del Pd. Promuovere una consultazione popolare vera, nei prossimi mesi. Non le primarie, che servono a selezionare il candidato a una carica istituzionale: il premier, il sindaco, il governatore. Ma una consultazione ampia quanto le primarie. Chiamiamole “primarie congressuali” da svolgere a fine aprile. Aperte a tutti coloro che si riconoscano nel Pd. E intendano votare il segretario e gli organismi del partito. Disposti, al tempo stesso, a iscriversi, pagando una tessera low cost, ma comunque impegnativa: 8 o 10 euro, ad esempio. Un congresso vero ma largo e ampio come le primarie. In cui si misurino tutti coloro che davvero intendono guidare il Pd. Senza rete. Prima della tornata di elezioni europee e comunali di giugno. Non c’è tempo? Ma chi l’ha detto…

Comunque, queste “primarie congressuali” funzionerebbero da campagna elettorale mobilitando simpatizzanti e volontari in tutto il paese. Permetterebbero il confronto e la verifica intorno ai temi topici: la bioetica, le alleanze, la crisi, la sicurezza… Franceschini avrebbe ottime possibilità di vincerle, tanto più se avesse il coraggio di sfidare tutti, apertamente. Ribellandosi al destino di leader “secondario”, come lo descrive la matita acuminata di Giannelli sul Corriere di oggi. Lui, segretario provvisorio e precario, quasi uno specchio di questo paese precario e provvisorio, dove soprattutto i giovani sono attesi da un futuro precario e provvisorio quanto il suo. Faccia quel che gli altri dirigenti e l’assemblea del Pd non hanno avuto il coraggio di fare. Lasci da parte la paura di votare. Ha tutti i requisiti per spiccare il volo. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto

Razzismo in Italia? Quattro righe in cronaca.

da ilmessaggero.it

ROMA (21 febbraio) – Bottiglie incendiarie contro un negozio di prodotti alimentari gestito da romeni a Roma. È accaduto la scorsa notte nella periferia della capitale, a Tor Bella Monaca. Contro la serranda del negozio, che vende prodotti tipici romeni, un gruppo di giovani ha lanciato due bottiglie incendiarie che hanno annerito la saracinesca.

Ad avvisare la polizia è stato un abitante della zona che ha notato i giovani lanciare le bottiglie. Quando gli agenti sono arrivati hanno trovato la serranda annerita, i vetri delle bottiglie ed un forte odore di benzina.

Nel retrobottega dormiva il titolare del negozio, un romeno di 48 anni, che non si era accorto di nulla. Si occupano delle indagini il commissariato Casilino e la Digos della questura di Roma. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

La mappa delle “ronde” in Italia.

da unita.it

Il ministro dell’Interno Roberto  Maroni lo ha detto a chiare lettere: le ronde già esistono. Non  da ieri, ma da almeno dieci anni, ci sono i City Angels,  esportati da Milano in tutto il centro-nord e decine di associazioni-costole leghiste che al motto “Tegn dur” imperversano nell’entroterra lombardo-veneto. E cominciano ad esserci, anche, timide iniziative che An  mette in campo per non perdere la “bandiera” della difesa della  sicurezza proprio con la Lega (a Torino come a Venezia), ronde  della “Destra” di Francesco Storace alla periferia di Roma  contro quello che definisce un «provvedimento da cartoon del  governo», nonchè operazioni più o meno utili da parte dei  sindaci – di destra e sinistra – costretti, tutti quanti, ad  inseguire le paure dei cittadini.

E purtroppo, nel panorama  italiano, non mancano semplici gruppi di cittadini  autocostituitisi in seguito a fatti di cronaca – l’ultimo dopo  lo stupro avvenuto nel parco della Caffarella a Roma – che  finiscono sempre, o quasi sempre, per picchiare il primo immigrato a portata di mano.  I primi, ormai storici, furono i City Angels, nati a Milano  nel febbraio del 1995 come «filiale» dei Guardian Angels di  New York. «Noi ci limitiamo a vigilare contro scippi e borseggi  avvertendo la polizia in caso di pericolo – va spiegando da anni  il fondatore Marco Furlan – ma diamo anche una mano a chi è in  difficoltà, distribuendo pasti a barboni o assistendo i tossici».

L’accoppiata rigore e solidarietà ha funzionato e  oggi gli Angeli sono presenti in diverse città italiane, da  Brescia a Padova, da Bologna a Pescara. Così come sono ormai  una realtà le ronde “made in Lega”.  Gli antesignani furono le “Ronde padane”, nate a Voghera nel 1997: «stavamo raccogliendo  le firme per chiedere una maggiore presenza della polizia nel  centro storico – raccontò allora uno dei fondatori, Gigi Fronti  – quando ci venne in mente che noi stessi potevamo fare la  nostra parte formando squadre che, disarmate, girassero per la  città». Numeri ufficiali su che consistenza abbiano le ronde  padane non ce ne sono mai stati, ma un leghista come  Mauro Borghezio, già dieci anni fa, parlava di circa 8mila  persone: «da Cuneo e Trieste sono una quarantina i comuni coinvolti, anche grandi come Modena, Torino e Monza».

E se al sud di ronde non c’è traccia – fallita dopo meno di  un mese l’esperienza barese delle ‘ronde antibullì – in quello  che fu il Veneto bianco e in Lombardia è un fiorire di  iniziative contro gli spacciatori, gli ambulanti, il degrado. A  Chiarano, ad esempio, entroterra trevigiano e soprattutto regno  dello sceriffo Gentilini, le ronde funzionano dal 2006. I  volontari si sono riuniti in una vera e propria associazione, “Veneto Sicuro”, e ora il prossimo passo è quello di arrivare  ad un coordinamento a livello provinciale. E anche in città  medio grandi come Brescia, già da qualche tempo, circolano  gruppi di cittadini che vigilano sul territorio. Anche con diversi intenti.

È il  caso di Firenze, dove dalla primavera scorsa su iniziativa  dell’assessore alla sicurezza Cioni, quello dell’ordinanza anti lavavetri, operano le “sentinelle anti degrado”: 600 tra  pensionati e commercianti, che aiutano i vigili urbani a  segnalare le situazioni di degrado. Ed è il caso di Genova,  dove il sindaco Marta Vincenzi ha istituto i “volontari per il  presidio civile”, ex appartenenti alle forze dell’ordine che si  occupano della vigilanza nei luoghi pubblici. Tipologie di i,pegno civile, ben diverse dai “rondisti” col patentino.  Cosa verrà ora che le ronde hanno ricevuto la patente di  legittimità non è dato sapere. È però evidente che dai nonni  vigili alle ronde leghiste il problema è sempre lo stesso: una  percezione di insicurezza che va ben al di là dei dati e delle  statistiche reali. (Beh, buona giornata).

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Attualità Pubblicità e mass media

Ecco i manifesti di Current censurati dal presidente dell’Atac.

http://current.com/items/89835233/le_immaginidicurrentcensuratearoma.htm 

(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Tra i due litiganti, il terzo perde il posto.

Il Governatore della Banca d’Italia:

Le ripercussioni sull’occupazione non si sono ancora pienamente manifestate; gli indicatori disponibili per i mesi più recenti prefigureranno un netto deterioramento”. “La caduta della domanda può colpire con particolare intensità le fasce deboli e meno protette, i lavoratori precari, i giovani, le famiglie a basso reddito”.

Il Ministro dell’Economia:

Sull’allarme del numero uno di Bankitalia arriva a distanza la replica di Tremonti. Che in una conferenza all’Aspen dice che “il governo ha da tempo gestito nei termini che poteva e doveva problema: pochi giorni fa abbiamo siglato con le Regioni un importante accordo sugli ammortizzatori sociali, siamo convinti di aver visto per tempo i fenomeni e di averli gestiti nel modo migliore”.

Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia

“La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti.”

di Francesco Giavazzi da corriere.it

 Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni. Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione. (Beh, buona giornata)

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Attualità

“Dal New York Times alla Süddeutsche Zeitung, da Le Monde al Guardian o El País. Tutti si son domandati, candidamente, come mai tanto clamore sul caos nel Pd e quasi nulla sull’evento per loro sostanziale: la condanna di Mills.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Vale la pena osservare il naufragio dell’opposizione italiana con l’aiuto d’un terzo occhio, più ingenuo forse ma più vero: l’occhio che ci guarda da fuori. Perché il nostro sguardo s’è come consumato col tempo, se ne sta appeso alla noia, è al tempo stesso astioso e non severo, collerico e passivo. Non credendo possibile cambiare la cultura italiana dell’illegalità, siamo da essa cambiati. Se qualcuno riscrivesse le Lettere Persiane di Montesquieu, racconterebbe il nostro presente come i due principi Usbek e Rica videro, nel 1700, la Francia di Luigi XIV: con stupore, senso del ridicolo, e realismo. È quello che i giornali stranieri hanno fatto negli ultimi giorni: dal New York Times alla Süddeutsche Zeitung, da Le Monde al Guardian o El País. Tutti si son domandati, candidamente, come mai tanto clamore sul caos nel Pd e quasi nulla sull’evento per loro sostanziale: la condanna di Mills. Come mai Veltroni addirittura si scusava, mentre il capo del governo ­ protetto da una legge che lo immunizza ­ avallava il più singolare dei paradossi (il corrotto c’è, ma non il corruttore).Chi fuori Italia si interroga ha poco a vedere con la sinistra salottiera o giustizialista criticata da Veltroni. Naturalmente c’è caos, nel partito nato dalle primarie del 2007. Ma soprattutto c’è incapacità di fare opposizione, di dire quel che si pensa su laicità, testamento biologico, sicurezza, immigrazione, giustizia, per non urtare gli apparati che compongono il nuovo-non nuovo ancor ieri esaltato all’assemblea che ha eletto Franceschini segretario provvisorio. Il partito democratico non è nato mai, e oggi è chiaro che alle primarie 3 milioni di italiani hanno eletto il leader di un partito senza statuto, senza iscritti, in nome del quale si è distrutto il governo Prodi per poi lasciare l’elettore solo. Arturo Parisi lo spiega bene a Fabio Martini: «Quando un partito si costituisce come somma di apparati, assumendo come premessa la continuità di una storia e di un gruppo dirigente, ogni scelta rischia di essere o apparire come l’imposizione di una componente sull’altra e quindi di mettere a rischio la sopravvivenza del partito». Solo un «partito nuovo, fatto di persone che decidono ex novo, democraticamente» può riuscire (La Stampa, 18-2). Solo un’analisi spietata di errori passati: i siluramenti di Prodi, la fretta di presentarsi da soli, le intese con Berlusconi quando questi parve finito nell’autunno 2007.

Veltroni ha giustamente difeso, mercoledì, il «tempo lungo, quello in cui si misura il progetto (…) che deve convincere milioni di esseri umani». Ma lui per primo ha tolto tempo al tempo, ha avuto fretta d’arrivare, di esserci. Non è un errore di anziani ma di cacicchi, che della politica hanno una visione patrimoniale. L’Ulivo cancella i cacicchi: è stato quindi seppellito. I cacicchi vogliono il potere, senza dire per quale politica: lo vogliono dunque nichilisticamente, al pari delle destre. Come scrive Gustavo Zagrebelsky: lo vogliono «come fine, puro potere per il potere» (la Repubblica 9-2). Per questo il Pd non ha un leader, che rappresenti l’opposizione nella società e sia sovrano sulle tribù. Anche qui Parisi ha ragione: non di facce nuove e giovani c’è bisogno (ci sono giovani vecchissimi), perché «in politica le generazioni che contano sono le generazioni politiche». Si capisce bene lo scoramento di Veltroni: le correnti del Pd e Di Pietro lo hanno logorato. Ma non l’avrebbero logorato se il suo sguardo si fosse interamente fissato sul fine, che non era il potere partitico ma la risposta a Berlusconi. Se Di Pietro non fosse stato bollato, ogni volta che parlava, di giustizialismo.

Naufragi analoghi si son già visti in Europa, conviene ricordarli. Il socialismo francese, prima di Mitterrand, era assai simile. La Sfio (Sezione francese dell’internazionale operaia) fu per decenni un’accozzaglia di partitelli incapaci d’opporsi a De Gaulle. Oscillavano fra il centro e il marxismo, un giorno erano colonialisti l’altro no, volevano e non volevano ampie coalizioni. Erano perpetuamente in attesa, assorti nel rinvio della scelta: proprio come ieri all’assemblea Pd, che ha rinviato primarie e nomina d’un vero leader («Perché Bersani non si candida segretario oggi, e invece rinvia?», ha chiesto Gad Lerner). Sempre c’era un segretario a termine, guatato da falsi amici. La parabola fu tragica: nel ’45 avevano il 24 per cento dei voti, nel ’69 quando Defferre sindaco di Marsiglia si candidò alle presidenziali precipitarono al 5.

È a quel punto che apparve Mitterrand: non mettendosi alla testa d’un partito ormai cadavere, ma creando una vasta Federazione a partire dalla quale s’impossessò della Sfio e di tutti i frammenti e club. Anche la Sfio era un accumulo di clan in lotta. Mitterrand guardò alto e oltre: l’avversario non era questo o quel clan, ma De Gaulle e poi Pompidou. In una decina d’anni costruì un Partito socialista, lo rese più forte del Pc, portò l’insieme della sinistra al potere.

Prodi ha fatto una cosa simile, battendo Berlusconi due volte. Anch’egli edificò inizialmente una federazione (Ulivo, Unione): è stata l’unica strategia di sinistra che ha vinto. Mentre non è risultata vincente né coraggiosa l’iniziativa veltroniana di correre da solo, liberandosi dell’Unione. A volte accade che si frantumi un’unione per riprodurne una ancor più frantumata. Veltroni osserva correttamente che «Berlusconi ha vinto una battaglia di “egemonia” nella società. L’ha vinta perché ha avuto gli strumenti e la possibilità di cambiare ­ dal mio punto di vista di stravolgere ­ il sistema dei valori e persino le tradizioni migliori» in Italia. Ma che vuol dire «avere strumenti»? Berlusconi ha le tv ma Soru ha ragione quando dice che su Internet la sinistra «ha già vinto, anzi stravinto». Quel che occorre è «lavorare in profondità ­ sulla cultura degli ignoranti, sulle coscienze dei qualunquisti ­ e battere l’incultura del nichilismo aprendo dappertutto sezioni di partito e perfino case del popolo». Berlusconi da tempo inventa realtà televisive, ma è anche sul territorio che lavora.

Per questo è così importante il terzo sguardo. Perché da fuori si vedono cose su cui il nostro occhio ormai scivola: l’illegalità, il fastidio di Berlusconi per ogni potere che freni il suo potere, il diritto offeso degli immigrati, la fine del monopolio statale sulla sicurezza con l’introduzione delle ronde. Perché fuori casa fanno impressione più che da noi certi tristi scherzetti: sui campi di concentramento, su Obama, sulle belle ragazze stuprate, sulla gravidanza di Eluana, su Englaro che «per comodità» si disfa della figlia, sui voli della morte in Argentina: voli concepiti dall’ammiraglio argentino Massera, membro con Berlusconi della P2 di Gelli.

Veltroni ha lasciato senza rappresentanza molti italiani d’opposizione, e il suo monito non è generoso («Non venga mai in nessun momento la tentazione di pensare che esista uno ieri migliore dell’oggi»). Per chi si sente abbandonato c’è stato uno ieri migliore, e la sensazione è che da lì urga ripartire: dalle cadute di Prodi, inspiegate.

Come nell’Angelo Sterminatore di Buñuel, è l’errore inaugurale che va rammemorato. In un aristocratico salotto messicano, a Via della Provvidenza, un gruppo di smagati signori non è più capace, d’un tratto, d’uscire dal palazzo. È paralizzato dal sortilegio della non volontà, o meglio della non-volizione. Sfugge alla prigione volontaria quando ripensa al modo in cui, giorni prima, si dispose nel salotto. È vero, appena scampato s’accorge che liberazione non è libertà: anche il vasto mondo è una gabbia, tutti come pecore affluiscono in una Cattedrale oscura. Ma almeno i naufraghi hanno sentito una brezza, e in quella Cattedrale potrebbero anche non entrare, e fuori dal Palazzo il mondo è un poco più vasto. (Beh, buona giornata)

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Le ronde: “Nuove milizie, nelle quali i volontari dei partiti di governo e gli uomini dello Stato si fondono e si confondono. Come avveniva nel regime fascista.”

di GAD LERNER da repubblica.it

 UN governo estremista e irresponsabile introduce d’urgenza nel nostro ordinamento le ronde dei cittadini, nonostante le perplessità manifestate dalle stesse forze di polizia, accampando la più ipocrita delle motivazioni: lo facciamo per contenere la furia del popolo. Spacciano le ronde come freno alla “giustizia fai-da-te”, cioè alle ormai frequenti aggressioni di malcapitati colpevoli di essere stranieri o senza fissa dimora.

Ma tale premura suona come una cinica beffa: la violenza, si sa, è stata fomentata anche dai messaggi xenofobi di sindaci e ministri. Il decreto governativo giunge come una benedizione delle camicie verdi padane e delle squadracce organizzate dalla destra romana. Propone agli italiani di militarizzarsi nell’ambito di un “Piano straordinario di controllo del territorio” fondato sul concetto di “sicurezza partecipata”. I benpensanti minimizzeranno, come già hanno fatto con le “classi ponte” per i bambini stranieri, i cancelli ai campi rom, l’incoraggiamento a denunciare i pazienti ospedalieri sprovvisti di documenti regolari. Cosa volete che sia? Norme analoghe sono in vigore altrove, si obietta. Mica vorremo passare per amici degli stupratori? Così, un passo dopo l’altro, in marcia dietro allo stendardo popolare della castrazione chimica, cresce l’assuefazione all’inciviltà. La promessa del grande repulisti darà luogo a sempre nuove misure che lo stesso Berlusconi fino a ieri dichiarava inammissibili.

Il presidente del Consiglio era dubbioso anche sulle ronde, ma si è lasciato trascinare dai leghisti per istinto: forza e marketing non sono forse le materie prime del suo potere suggestivo? Poco importa se ciò lo pone in (momentanea) rotta di collisione con il Vaticano, che denuncia “l’abdicazione dallo stato di diritto”. A lui la Chiesa interessa come potere, non come Vangelo: si adeguerà. Quanto al distinguo del presidente Napolitano, gli viene naturale calpestarlo: come prevede la forzatura berlusconiana della costituzione materiale del Paese.


Il capo del governo concede che gli stupri sono in calo del 10% nella penisola. Ma più della statistica vale per lui il “grande clamore suscitato da recenti episodi”. Per la verità nel novembre 2007, dopo l’omicidio con stupro della signora Reggiani a Tor di Quinto, fu posseduto dal medesimo impazzimento mediatico anche il centrosinistra, guidato all’epoca dal sindaco di Roma. Mal gliene incolse.

La destra populista invece trova nell’insicurezza il suo principale fattore di radicamento territoriale. Prospetta la riconquista dell’ambito esterno al domicilio privato, vissuto da tanti come ostile. Le parole “ronda”, “squadra”, “pattuglia”, “perlustrazione” – un incubo negli anni della violenza politica – vengono adesso sdoganate come potere calato dall’alto per guidare il popolo. Nuove milizie, nelle quali i volontari dei partiti di governo e gli uomini dello Stato si fondono e si confondono. Come avveniva nel regime fascista.

Lunedì scorso all'”Infedele” una giornalista rumena ha provocato un senatore leghista: “Noi le abbiamo conosciute già, le vostre ronde. Si chiamavano “Securitate””. Lungi dall’offendersi per tale paragone con le squadracce comuniste di Ceausescu, il senatore leghista le ha risposto: “All’epoca in Romania c’era molta meno delinquenza”.

Ora anche il governo minimizza. Le ronde saranno disarmate (a differenza di quanto previsto nella prima versione, bocciata al Senato). Mentre la Lega esulta, gli altri cercano di ridimensionarle a contentino simbolico, poco rilevante nella gestione dell’ordine pubblico. Fatto sta che è sempre l’estremismo a prevalere. Berlusconi si era opposto pubblicamente anche al rincaro della tassa sul permesso di soggiorno. Si sa com’è finita. La Gelmini aveva dichiarato che per i bambini stranieri prevede corsi di lingua pomeridiani anziché classi separate. Ma i leghisti stanno per riscuotere le classi separate. Tutte le peggiori previsioni si stanno avverando. La prossima tappa, c’è da scommetterci, saranno le normative differenziali sull’erogazione dei servizi sociali (agli italiani sì, agli stranieri no, e pazienza se pagano anche loro le tasse); seguirà il distinguo nei sussidi di disoccupazione (c’è la crisi, non possiamo mantenere gli stranieri, e pazienza se hanno versato i contributi). Fantascienza? Ha davvero esagerato “Famiglia Cristiana” denunciando il ritorno al tempo delle leggi razziali?

Le ronde dei volontari guidate dagli ex funzionari di polizia annunciano un clima di guerra interna che non si fermerà certo agli stupratori e agli altri delinquenti. Quale che sia la volontà del presidente del Consiglio, cui la situazione sta già sfuggendo di mano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

A proposito dei due commenti a “L’atac di Roma contro la tv di Al Gore: il carattere (tipografico) della censura.

Se quanto affermato da i due commenti a “L’atac di Roma contro la tv di Al Gore:  il carattere (tipografico) della censura” è vero, le affermazioni del presidente dell’Atac sono campate in aria: la campagna non era panificata sugli autobus, ma era un’ affissione nella Metro della Capitale. Dunque, le valutazioni circa la difficoltà di capire gli annunci da parte dei cittadini di Roma sono una versione di fantasia da parte del presidente degli autobus di Roma.

E’ di fantasia anche l’idea che la campagna in oggetto potesse turbare l’ordine pubblico, prova ne è la rettifica del Campidoglio: “nella scelta non ha avuto un ruolo il problema della sicurezza.”

Delle argomentazioni a supporto della censura contro Current Tv rimarrebbe solo il riferimento alla città di Roma ” che è sede della Chiesa cattolica”.

Sul punto, vale la pena citare le parole di Tommaso Tessarolo, general manager di Current Italia: “Peccato che chi ha preventivamente censurato la nostra campagna non si sia neanche preso la briga di capire a cosa si riferisse: è il lancio del nostro VANGUARD, una puntata dedicata ad un PRETE UCCISO DALLA CAMORRA”.

Qui il presidente dell’Atac l’ha fatta proprio grossa: vorrebbe lasciar a intendere che alla Chiesa cattolica avrebbe dato fastidio una campagna pubblicitaria per un reportage sull’uccisione di un sarcedote da parte della Camorra?

A questo punto è chiaro che la decisione di censurare la campagna pubblicitaria è stata presa con troppa superficialità.

Sarebbe meglio ripensarci e permettere la campagna. Ci guadagnerebbero tutti: chi l’ha ideata (Cookies ADV), chi l’ha commissionata (Current Italia), chi l’ha pianificata (la concessionaria di pubblicità); chi incassa il budget (l’Atac).

Ci guadagnebbere anche la Chiesa,  perché il programma tv rende omaggio al sacrificio di uno dei suoi figli, che ha perso la vita per insegnare il rispetto della legalità.

Ci guadagnerebbe il Campidoglio, facendo un gesto “politically correct”, riparatore nei confronti di una emittente, fondata da Al Gore, premio Nobel per la Pace, che ha scelto l’Italia come uno dei paesi in cui trasmettere i suoi programmi televisivi.

Infine, ci guadagnerebbro i cittadini della Capitale, i quali proprio non si meritano di essere trattati come “gente che non ha il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, mentre i cittadini di Milano invece sì. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

Le ronde e il Vaticano: qui lo dico, qui lo nego.

Detto:

“L’istituzione delle ronde rappresenta – per il segretario del pontificio consiglio dei Migranti, monsignor Agostino Marchetto – una abdicazione dello Stato di diritto. Non è la strada da percorrere”.

Contraddetto:

Quando la Santa Sede ”intende esprimersi autorevolmente”, lo fa usando ”mezzi propri e modi consoni”, come ”comunicati, note e dichiarazioni”; ”ogni altro pronunciamento non ha lo stesso valore”. Lo ricorda, con una dichiarazione, il direttore della Sala Stampa padre Federico Lombardi, per il quale ”non di rado i mezzi di informazione attribuiscono al ‘Vaticano’, intendendo con ciò la Santa Sede, commenti e punti di vista che non possono esserle automaticamente attribuita”.

Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

L’Atac di Roma contro la tv di Al Gore: il carattere (tipografico) della censura.

Il presidente dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma ha bloccato l’uscita di una campagna pubblicitaria favore di Current Tv(*), pianificata sui bus della Capitale. Si tratta di scene di sesso? Di droga? Di rock’n roll? Macché: è una semplice campagna, composta da due soggetti, a favore di “Vanguard”, un nuovo programma televisivo di Current Tv, il canale satellitare fondato da Al Gore. La campagna  invita semplicemente alla visione del programma. In uno  dei soggetti si vede la foto di una bibbia trapassata da tre proiettili, e reca il titolo:” Vanguard: i martiri della camorra”; nell’altro soggetto si vede un mitra kalashnikov, col manico a stelle e strisce e reca il titolo:”la guerra segreta all’Iran”. 

Tutto qui, direte voi? No, c’è di più. Perché il presidente dell’Atac non ha resistito a esprimere giudizi  professionali sulla comunicazione.“I manifesti non vanno bene per dei mezzi in movimento, la gente non ha  il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, dice il presidente degli autobus romani.

Fantastico: cari pubblicitari adesso vi insegno io come si fa. Si fa che mi do una bella zappa sui piedi, parlando male della pubblicità sugli autobus “che la gente non ha il tempo di fermarsi a leggere.” Scusi, signor presidente degli autobus romani: non le viene i sospetto che parlare male della pubblicità sui mezzi pubblici significa danneggiare gli introiti che Atac raccoglie attraverso la pubblicità dinamica?

Insomma, Machiavelli diceva il che il fine giustifica i mezzi, Tafazzi sosterebbe che i mezzi (pubblicitari) non giustificano i fini (economici).

Non pago, il presidente degli autobus romani dispensa lezioni di grafica: “I caratteri sono troppo piccoli per poterli leggere quando l’autobus è in movimento.” Cari ragazzi di Cookies Adv, (l’agenzia che ha ideato la campagna): non vi hanno censurato la campagna, solo il carattere tipografico che avete usato nei layout.

In una nota il Campidoglio, l’azionista di riferimento dell’Atac dice: “La campagna utilizzava immagini inopportune e non adatte a essere apposte sui mezzi pubblici.” La qual cosa non si capisce, visto che la campagna sarà on air sui mezzi pubblici di Milano a partire dal prossimo 26 febbraio.

Cosa c’ha di speciale Roma che non può tollerare una campagna pubblicitaria per Current TV che invece può essere vista dai milanesi?

Presto detto: “Immagini pesanti, inopportune, possono offendere la sensibilità dei cittadini, peraltro in un momento di grave tensione sociale, e per di più in una città come Roma che è la sede  della Chiesa Cattolica”. Parola del presidente degli autobus romani. Eccola, allora, tutta intera “la scomoda verità”, tanto per parafrasare  il titolo del famoso documentario di Al Gore, vincitore di un Oscar, il film e di un Nobel, l’autore.

Si è trattato molto semplicemente di un eccesso colposo di buona volontà da parte dell’azienda dei trasporti pubblici e del Comune di Roma.  Il solito, inutile, grottesco eccesso di zelo, di cui spesso la creatività è vittima in Italia. “Nella scelta non ha avuto nessun ruolo il problema della sicurezza” , ha tenuto a precisare il Campidoglio. Come a dire: niente paura, è solo censura. Beh, buona giornata.

 

(*) Current è attualmente visibile negli Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Italia in oltre 58 milioni di case attraverso i partner di distribuzione Comcast (Canale 107), Time Warner, DirecTV (Canale 366), Dish Network (Canale 196), BSkyB (Canale 193) e Virgin Media Cable (Canale 155) e Sky Italia (canale 130). Le trasmissioni italiane sono partite l’8 maggio 2008. Nella primavera 2009 sarà on air anche il quarto paese del network: il Canada.

Secondo il co-fondatore Hyatt: “Si tratta di portare l’Internet intelligente in TV, non la TV stupida sugli schermi di Internet”.

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Attualità Leggi e diritto

La sicurezza: è aumentata la criminalità o è diminuita la legalità?

di LUCA RICOLFI da lastampa.it
Periodicamente l’opinione pubblica si allarma per il problema della criminalità e della violenza. I giornali soffiano sul fuoco. Il governo tenta di fare qualcosa (è di ieri l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto anti-stupri). Maggioranza e opposizione tirano acqua ai rispettivi mulini. Quando al governo c’è la sinistra e all’opposizione c’è la destra, il copione è già scritto: la sinistra minimizza e la destra drammatizza. Quando invece, come oggi, i ruoli di governo e opposizione sono invertiti, il copione va in crisi. La sinistra vorrebbe cavalcare la paura, ma non può farlo perché i suoi riflessi condizionati buonisti le suggeriscono di sdrammatizzare. La destra, per contro, vorrebbe tanto drammatizzare, ma deve trattenersi perché è al governo e teme di essere considerata responsabile di quel che succede. Dopo i recenti casi di stupro a danno di donne italiane e straniere siamo dunque tornati a farci le solite domande. La criminalità è in aumento? Gli stranieri delinquono di più degli italiani? I romeni hanno una speciale vocazione per i reati di violenza sessuale? O sono tutte «percezioni»? Sull’andamento della criminalità non si può dire molto. Con i dati finora disponibili (non definitivi e fermi al 1° semestre 2008) possiamo solo fissare qualche punto. La criminalità è aumentata molto subito dopo l’indulto: +15,1% in un anno, fra il primo semestre 2006 e il primo semestre 2007. Nel primo semestre del 2008 è diminuita rispetto al 2007, presumibilmente a causa dell’elevato numero di «indultati» recidivi, liberati e poi riacciuffati dalle forze dell’ordine. Ma la diminuzione non è stata sufficiente a compensare l’impennata del 2007, cosicché due anni dopo l’indulto il numero di delitti era un po’ maggiore di quello pre-indulto. Per esempio abbiamo più rapine (+4,9%), più omicidi volontari consumati (+7,7%), più truffe e frodi informatiche (+10,7%). In breve: le carceri sono strapiene, esattamente come lo erano prima dell’indulto (60 mila detenuti), e il numero di delitti è un po’ maggiore di allora. Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara.

Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi. Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche – lo straniero che stupra un’italiana, l’italiano che stupra una straniera – e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce: l’assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all’uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese. Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che – anche qui – il divario si sta allargando: l’ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio relativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004). Infine, i romeni. In base ai pochi dati fin qui resi pubblici, la loro propensione allo stupro risulta circa 17 volte più alta di quella degli italiani, e una volta e mezza quella degli altri stranieri presenti in Italia. Lo stupro non è però il reato in cui i romeni primeggiano rispetto agli altri stranieri. Nella rapina sono 2 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 15 volte rispetto agli italiani), nel furto sono 3-4 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 42 volte rispetto agli italiani). Nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose, invece, sono leggermente meno pericolosi degli altri stranieri, ma comunque molto più pericolosi degli italiani (7 e 5 volte di più rispettivamente). Si può discettare all’infinito sul perché il tasso di criminalità degli stranieri, anche regolari, sia così più alto di quello degli italiani. Razzisti e xenofobi diranno che l’alta propensione al crimine di determinate etnie dipende dai loro usi e costumi, se non dal loro Dna.

Ma la spiegazione più solida, a mio parere, è tutta un’altra: se gli stranieri delinquono tanto più degli italiani non è perché noi siamo buoni e loro cattivi, ma perché i cittadini stranieri che arrivano in Italia non sono campioni rappresentativi dei popoli di provenienza. Con la sua giustizia lentissima, con le sue leggi farraginose, con le sue carceri al collasso, l’Italia è diventata la Mecca del crimine. Un luogo che, oltre a una maggioranza di stranieri per bene, attira ingenti minoranze criminali provenienti da un po’ tutti i Paesi, e così facendo crea l’illusione prospettica dello straniero delinquente. Perciò hanno perfettamente ragione gli italiani che hanno paura degli immigrati, ma hanno altrettanto ragione gli stranieri onesti che si sentono ingiustamente guardati con sospetto. I cittadini italiani privi di paraocchi ideologici non possono sorvolare sul fatto che uno straniero è dieci volte più pericoloso di un italiano. Ma farebbero ancor meglio a rendersi conto che ogni comunità straniera è costituita da due sottopopolazioni distinte: gli onesti attirati dalle opportunità di lavoro, e i criminali attirati dalla debolezza delle nostre istituzioni. Il problema è che le due sottopopolazioni non si possono distinguere a occhio nudo, e quindi – in mancanza di segnali che consentano di separarle – la diffidenza diventa l’unico atteggiamento razionale. Un atteggiamento che non si supera con lezioncine di democrazia, tolleranza e senso civico, ma solo rendendo l’Italia un paradiso per gli stranieri di buona volontà e un inferno per i criminali, stranieri o italiani che siano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Lo Stato e la Chiesa: “Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie sul suolo italiano?”

di MICHELE AINIS da lastampa.it
Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».

La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato. Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa. Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.

La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo. (Beh, buona giornata)

michele.ainis@uniroma3.it

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Fermiamo l’emendamento D’Alia.

da byoblu.com

L’Abruzzo è andato. La Sardegna… andata! La rete farà presto la stessa fine.

Quante volte da queste stesse pagine abbiamo ripetuto «La Cina è vicina». Forse solo una maniera di esorcizzare le nostre paure, ma non ci credevamo veramente. Se passa l’emendamento D’Alia alla Camera, invece, questa volta l’Art. 21 della Costituzione diventerà un cimelio da collezionisti, e l’Italia sarà il primo paese occidentale ad allinearsi alla Cina e alla Birmania in quanto a libertà di espressione. Dopo la censura dei siti di scommesse, dopo il caso ThePirateBay – rientrato temporaneamente solo per un vizio di forma – il Governo potrà oscurare su indicazione del Ministro degli Interni i blogger che non si allineano a Mediaset, alla Rai e ai maggiori quotidiani nazionali.

Farlo sarà di una banalità sconcertante: basterà incaricare servizi segreti, lobby, logge massoniche o semplici attivisti di nascondere tra le pagine di un blog commenti realizzati ad arte che possano ricadere in qualche modo nei casi previsti dall’Apologia di Reato. Lo si fa di notte. La mattina seguente si fa una segnalazione formale al Ministero degli Interni, e Maroni dirama agli internet provider il dictat: filtrare l’indirizzo IP e il nome di dominio del blog incriminato. Non importa se avete i server alla Casa Bianca, nell’ufficio di Obama, o in Bielorussia. Il filtraggio avviene in Italia, sui DNS – i domain name servers – del vostro fornitore di connettività. A meno che non sappiate impostarvi un proxy anonimo, o sappiate come puntare a domain name server alternativi, dite addio alle voci indipendenti della rete. Data la cultura digitale degli italiani, gli esiti sarebbero certi.

In Italia la guerra dell’informazione ha due soli schieramenti: il duopolio RaiSet, governato dal PDL-PDmenoElle voluto da Gelli nel suo Piano di Rinascita Democratica , e la Rete. Davide contro Golia. Chi ha provato a fare l’Obama de noi artri, a fare campagna elettorale su internet, ha perso. Ha perso Carlo Costantini in Abruzzo. Ha perso Renato Soru in Sardegna.
Il motivo è semplice. Negli USA l’80% della popolazione è online. Quasi la metà degli americani tra 12 e i 40 anni legge un blog, e in rete si informa perfino un quarto dei settantenni. Sto dicendo che un quarto dei nonni americani legge un blog! Mio padre non sa usare neppure il mouse…

In Italia, i navigatori sono poco meno di 28 milioni, ovvero il 58,5% della popolazione (dati audiweb). Solo il 12% legge un blog (fonte eurostat): parliamo del 7% degli italiani, 3.360.000 persone. Negli states invece l’informazione indipendente in rete viene letta da un americano su tre. Ecco perché Obama ha vinto.
Da noi c’è ancora troppo squilibrio. Nel solo mese di gennaio, la media degli ascolti in prima serata di tutte le reti Rai è stata di 11.505.638 telespettatori. Mediaset ha fatto meglio: 11.087.401. Più di 22 milioni di persone divise tra Vespa e Mentana (fonte Auditel), il quale si è licenziato perchè non trovava giusto non poter fare la maratona Englaro. Io, diversamente, me ne sarei invece andato perchè non si può parlare del conflitto di interessi o del Discepolo 1816, ma sono opinioni.
 
Se stai leggendo, sei uno di quei fortunati 3.360.000 italiani che si informano anche sui blog. Sei la nostra speranza. Puoi ancora raccontarlo agli altri. Se l’emendamento del Senatore D’Alia dovesse passare anche alla Camera, digitando www.byoblu.com potresti ritrovarti a leggere un messaggio del tuo provider, che ti informa che il sito è stato oscurato perchè non rispetta la normativa italiana in materia di libertà di espressione.

La strada della libertà è lunga, ma possibile. Dove possa condurre non è ancora così ovvio, tuttavia è chiaro da dove deve partire: dallo stralcio dell’Art.50 bis. Se passa, un giorno racconterete ai vostri figli cosa poteva essere internet, che non è mai diventato.

Questa è l’ultima frase della Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio, di John Perry Barlow, che Leonardo Facco cita molto opportunamente nel suo contributo video di apertura del post. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Nel futuro dei mass media più web e meno tv: chi non innova è perduto.

di Marco Ferri da ilmessaggero.it

Nel futuro dei mass media c’è scritto sempre meno giornali, sempre più internet e la tv perderà terreno. Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale, sostiene che nel giro di un paio d’ anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri. Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva.

Le stime dicono di una riduzione dei fatturati della pubblicità fra il 5 e il 10%, nel primo semestre del 2009. Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa. Le previsioni che riguardano i grandi giornali americano sono brutte.

Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal , divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009.

Il ragionamento di Sorrell si fa più fosco quando egli affronta l’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

E per quanto riguarda l’Italia? Forse, dice Sorrell la televisione riuscirà a mantenere, in termini di introiti, quote di mercato superiori rispetto alla media degli altri paesi, ma la tendenza è la stessa. Infatti, secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di Sorrell: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.

Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza.

A partire dagli anni Ottanta, l’avvento sulla scena di grandi holding che hanno fatto della comunicazione un formidabile fattore di business ha radicalmente cambiato il rapporto tra la pubblicità e i mass media. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.

Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.

Secondo l’opinione corrente, molto diffusa in Italia, giornali e i giornalisti sarebbero chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Ecco allora che si è dato vita a nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, si è cercato di incrementare l’offerta di un servizio.

«Tutto questo non basta», dice Hans-Rudolf Suter, il capo di Stz in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: «La faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura -continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale ?) o chiudere lo Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo». E conclude: «Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali».

Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.

Tuttavia i lettori italiani dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola. Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani «i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole».

Qui a quanto pare c’è il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza.

Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, a parere di Sorrell è forse oggi il miglior “marchio” di servizi online al mondo.

I giornali italiani perdono copie, diffusione e raccolta pubblicitaria, ma hanno una buona presenza non solo sul territorio ma anche sul web, testimoniata da un elevato e crescente numero di “visitatori unici” quotidiani. Un know- how che permetterebbe loro di occupare uno spazio inedito nel fornire ottimi servizi on line. Ne hanno le capacità, le competenze, ma soprattutto l’autorevolezza che deriva dalla reputazione storica delle testate.

La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacchiate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani.

Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.

Tutte le crisi impongono scelte. In quella attuale, chi non innova è perduto. (Beh, buona giornata).

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Crisi del Pd. Scalfarotto: “Se il partito ci propone una soluzione che conferma in blocco la vecchia classe dirigente, noi dobbiamo avere il coraggio di sfidarla, proponendo la nostra visione della società.”

di Francesco Costa da unita.it

«Io, francamente, tutti questi giovani non li vedo. Per questo, mio malgrado, devo continuare a svolgere la mia funzione». Con queste parole un autorevole dirigente della sinistra rispose qualche tempo fa alla domanda di rito sul rinnovamento e il ricambio della classe dirigente. Difficile dargli torto, specie perché raramente i giornali e le televisioni si occupano di raccontare le storie dei tanti trentenni e quarantenni che fanno politica sul territorio e che rappresentano la classe dirigente del futuro. Stamattina l’Unità l’ha fatto. Abbiamo provato a mettere in una stanza un gruppo di belle speranze del partito, una fetta di quella generazione che è attesa da un’assunzione di responsabilità ormai non più rimandabile. Attorno al tavolo, pungolati dalle domande del direttore, hanno dibattuto sulle sorti del Pd e del paese Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd in Lombardia; Marta Meo, membro dell’esecutivo del Pd veneto e responsabile questione settentrionale; Giuseppe Provenzano, ventenne, membro dell’esecutivo del Pd siciliano e responsabile questione meridionale; Diego “Zoro” Bianchi, blogger di particolare successo nonché regista e protagonista delle clip “Tolleranza Zoro”, nel programma di Raitre “Parla con me”; Ivan Scalfarotto, già candidato alle primarie del 2005 e oggi membro della costituente nazionale del Pd; Tania Groppi, costituzionalista; Marco Simoni, docente universitario alla London School of Economics; Roberto Gualtieri, docente universitario e vicedirettore dell’Istituto Gramsci. Al tavolo anche quattro parlamentari del Pd: Francesco Boccia, Federica Mogherini, Sandro Gozi e Anna Paola Concia.

Cos’è successo
La prima domanda è d’obbligo: dove è inciampato il progetto del Pd? Ci sono state probabilmente difficoltà nell’elaborazione di una linea politica coerente e appropriata a interpretare le sfide di questo periodo storico. «Il Pd è nato su una riflessione – ha detto Giuseppe Provenzano – che forse è sbagliata: l’esistenza del cittadino-elettore attivo. Le persone sono innanzitutto portatrici di interessi materiali, prima ancora che di valori: interessi a cui dare risposta». Gualtieri ha un’idea simile: «L’impianto del Lingotto aveva tre limiti: un’impostazione economica eccessivamente mercatista, un’idea politologica che guardava implicitamente al presidenzialismo, una gestione leaderistica della democrazia interna che ha prodotto la paralisi burocratica». Altri invece lamentano non tanto un impianto deficitario quanto la mancata realizzazione delle promesse del Lingotto. Secondo Civati, l’azione del Pd in questi mesi è stata «come le punizioni di Del Piero: prima che parta sai già dove andrà a finire. Noi ci siamo raccontati più volte come dovrebbe essere questo partito, ma poi è sempre mancata la realizzazione di quelle cose». Scalfarotto punta l’indice sulle responsabilità di una classe dirigente «responsabile di un fallimento enorme. Il centrosinistra si identifica da vent’anni esclusivamente come la controparte di Berlusconi». Ecco che anche loro si dividono, uno pensa; ecco la solita sinistra che si divide su tutto e che non decide mai. Invece, in maniera anche abbastanza imprevedibile, nessuno al tavolo ha voglia di litigare. Secondo Marco Simoni, infatti, il problema del partito non viene dalla presenza di idee diverse. «Ci troviamo paradossalmente in un partito che in presenza di più linee politiche ha preferito la ricerca di un unanimismo suicida, piuttosto che di un dibattito franco». Rilancia Sandro Gozi: «Le primarie dovevano essere il momento del dibattito e del confronto tra più linee. Di fatto sono state una competizione taroccata, e il giorno dopo le forze che sostenevano Veltroni hanno cominciato a dividersi e litigare». «Prendete Renzi», dice Diego Bianchi: «io ho poche cose in comune con lui, ma dal punto di vista del metodo c’è solo da fargli un applauso. E’ un bravo amministratore, uno che ha un curriculum, che invece di aspettare il suo turno ha deciso di sparigliare il tavolo». Civati: «Dopo le dimissioni, in un quarto d’ora si è formato il solito unanimismo. Fare l’assemblea nazionale subito senza convocare prima la direzione è sbagliato: è stato fatto di tutto per evitare che venisse fuori una discussione vera. Ho sentito persino qualcuno dire che dobbiamo discuterne noi, perché gli elettori sono impreparati». Il problema non sono tanto le divisioni, quindi, quanto l’aver avuto come primo obiettivo la necessità di non risolverle, di non trovare un terreno comune. Ne è venuto fuori, dice Boccia, «un partito diverso da quello di cui l’Italia aveva bisogno». Vale a dire? Un partito «autonomo dalle chiese, autonomo dai sindacati, concentrato sulla centralità della persona, capace di regolare i mercati, piuttosto che subirli». Più chiaro di così.

Dove andremo
Il dibattito arriva così all’assemblea costituente convocata e alle decisioni che dovrà prendere. Eleggere Franceschini perché traghetti il partito al congresso o eleggere il nuovo segretario attraverso le primarie, magari a metà aprile? Federica Mogherini teme «una discussione impostata sul metodo e sulla procedura, piuttosto che sulla sostanza». Al tavolo sono tutti concordi: serve un confronto serio. Il congresso però è impossibile: «Il tesseramento è stato portato avanti a macchia di leopardo, gli iscritti di fatto non ci sono». «Il momento di confronto oggi può essere rappresentato solo dalle primarie», dice Simoni. Qualcuno dice che non c’è abbastanza tempo per organizzare le primarie. «Tutti alibi», dice Gualtieri, «l’assemblea è sovrana: non esistono vincoli temporali o logistici». Ma fare le primarie durante la campagna elettorale non rischia di nuocere al partito?, si chiede qualcuno. Risponde Simoni: «Tutt’altro, anzi: le primarie possono fare uscire il partito dalle polemiche in cui si è avvitato e dare vitalità dal dibattito. Ci permetterebbero di entrare nel merito delle questioni, dando tra l’altro visibilità e pubblicità gratuita ai candidati e al partito». «Torneremmo a interpretare la base esclusa dal dibattito di questi mesi», dice Diego Bianchi. «Le primarie oggi mi sembrano l’unica soluzione per coinvolgere la gente». Anche perché, ammonisce Simoni, «andare alle europee con un leader pro tempore è un suicidio politico senza precedenti: dopo ci troveremmo davanti un partito liquefatto».

Non torniamo indietro
Concordano tutti: il Pd non può liquefarsi. Nessuno vuole sentir parlare di scissione: il paese ha bisogno di un’opposizione che faccia il suo mestiere. Tania Grossi, costituzionalista: «Il fallimento del progetto del Pd sarebbe un pericolo per la democrazia, perché crea un vuoto nell’opposizione. La nostra democrazia è una democrazia dei partiti e i partiti rimangono un architrave indispensabile per il funzionamento della democrazia». Quali le sfide del partito, quindi? «Ripartire dal lavoro e non dal consumo», dice Gualtieri. Civati: «Decisione e cittadinanza». Meo: «Crisi economica ed Europa». Boccia: «Centralità della persona e diritti». Concia: «Diritti sociali e diritti civili». Mogherini: «Ripartire dalla società, non rinunciare al ruolo di guida della politica». Impressiona la sintonia nell’analisi, nonché la capacità di non dividersi sugli slogan, di toccare il merito delle questioni, di parlare un linguaggio asciutto. In una parola: contemporaneo.

Che fare
La discussione prosegue e a un certo punto – in modo del tutto spontaneo – i dodici al tavolo smettono di parlare con la redazione e iniziano a discutere tra loro. «La nostra generazione ha una grandissima responsabilità», dice Paola Concia: «serve forza e coraggio di stare in prima fila senza reti e senza tutori». Scalfarotto è ancora più perentorio: «con questa classe dirigente abbiamo chiuso e se alla veneranda età di quarant’anni non siamo pronti a prenderci le responsabilità, abbiamo chiuso anche noi. Se il partito ci propone una soluzione che conferma in blocco la vecchia classe dirigente, noi dobbiamo avere il coraggio di sfidarla, proponendo la nostra visione della società». Le divisioni programmatiche non possono risolversi sul terreno del compromesso continuo, bensì in una competizione chiara, che coinvolga gli elettori e rilanci il partito. Federica Mogherini e Francesco Boccia raccontano di un documento – «Non torniamo indietro» – scritto subito dopo le dimissioni di Veltroni e già sottoscritto in rete da oltre un migliaio di costituenti del partito e semplici elettori. Domani, durante la riunione dell’assemblea costituente, quel documento potrebbe diventare qualcosa di più. (Beh, buona giornata).

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Crisi del Pd: “prolungare l’agonia o incidere il bubbone? “

 

di Michele Salvati da corriere.it

 

Sabato 21 febbraio, domani, è convocata alla Fiera di Roma l’Assemblea Costituente del Partito Democratico per «adempimenti statutari a norma dell’articolo tre, comma due», come dice l’unico punto dell’ordine del giorno. Traduco: avendo Veltroni dato le dimissioni prima della fine del suo mandato, l’assemblea si riunisce per decidere se «eleggere un nuovo segretario per la parte restante del mandato ovvero determinare lo scioglimento anticipato dell’assemblea stessa». In questo secondo caso, l’elezione di un nuovo segretario e di una nuova assemblea devono avvenire secondo la complicata procedura dell’articolo 9: la presentazione e una prima selezione delle candidature a segretario, e dei membri dell’assemblea a lui collegati, davanti agli iscritti al partito, e poi l’elezione-ballottaggio mediante primarie cui partecipano tutti gli elettori registrati in un apposito albo.
Traduco ancora l’alternativa: prendere tempo nominando un reggente o cercare subito un nuovo segretario legittimato dal voto popolare? Uno più malizioso di me ritradurrebbe: prolungare l’agonia o incidere il bubbone? Come capita in molti casi che riguardano persone, in scelte dolorose che alcuni lettori avranno purtroppo dovuto compiere per i loro cari, ci sono buoni motivi sia per l’una che per l’altra soluzione. L’agonia, il prendere tempo, potrebbe condurre a continue sofferenze e alla morte, ma anche ad una guarigione o ad una stabilizzazione della malattia: fuor di metafora, ad una ripresa dei consensi o ad una stabilizzazione delle perdite già subite — la discesa al 24/25% — nelle prossime elezioni europee.

Si aggiunga che le dimissioni di Veltroni hanno colto il partito di sorpresa e in molte realtà impreparato rispetto agli adempimenti statutari previsti (liste di iscritti e albi di elettori); che devono essere scelti nelle prossime settimane i candidati per le elezioni europee e in alcune realtà anche per importanti elezioni locali.

Un complicato processo elettorale, il tempo che assorbirebbe, i conflitti che susciterebbe nel partito, interferirebbero pesantemente con le campagne elettorali, dando agli elettori un’immagine di affanno e di disunione. Altro che stabilizzazione della malattia! I consensi potrebbero calare di molto, se pure al termine del processo di elezione del segretario e dell’assemblea esisterà ancora un Partito Democratico capace di raccoglierli. Tutto comprensibile, tutto ragionevole. Ma di ragionevolezza, in situazioni di emergenza, si può anche morire. Se un segretario con un’investitura plebiscitaria si è sentito soffocato dalla cupola dei capi-corrente, come può il suo vice — persona che stimo ma che non ha ricevuto un’investitura popolare — riuscire a stabilizzare o a rilanciare il partito nell’immagine degli elettori?

Sarebbe soltanto il portavoce delle mediazioni — sulle candidature, sulla linea politica da adottare in parlamento e nelle realtà locali, sull’immagine del partito — che i capi-corrente raggiungono nelle segrete stanze, e così apparirebbe agli elettori. Il Pd è nato da un grande progetto: dalla convinzione che un sistema bipolare — in cui i partiti non fanno e disfano i governi in parlamento, ma sono gli elettori a sceglierli — è un sistema più democratico di quello della Prima Repubblica, dove avveniva il contrario; e dalla scommessa che era possibile fondere in un partito vero, con un’anima e una forte identità, le tradizioni riformistiche laiche e cattoliche la cui passata divisione tanti danni aveva prodotto alla società e all’economia di questo Paese.

È del tutto legittimo, forse persino ragionevole, non credere in questo progetto, come non ci credono Tabacci e Casini, o non ci credono Ferrero o Vendola. Ma costoro stanno in altri partiti, mentre molti che la pensano nello stesso modo sono influenti capi-corrente del Partito Democratico: esattamente come i leader dell’Udc e del Prc, non credono né al bipolarismo, né alla possibilità di fusione. Non ci credono e, tramite continue polemiche e pretesti — e soprattutto esasperando il conflitto laici-cattolici — inducono anche il popolo di centrosinistra a non crederci. Di qui la confusione, la mancanza di identità. Di qui lo smottamento dell’elettorato, uno smottamento che si accentuerebbe con una reggenza assediata da capi-corrente. Credo che gli elettori, il popolo di centrosinistra, abbia diritto ad un chiarimento. Non voglia aspettare di essere «rimandato a ottobre». Un ottobre dove si troverà di fronte un’altra pappa plebiscitaria preconfezionata dai capi-corrente, com’è stata quella di Veltroni, che però, almeno, al progetto credeva.

Naturalmente un congresso è rischioso: rischio di spaccatura o rischio, ancor peggiore, di mancato chiarimento. Ma ai politici è sempre bene ricordare l’apologo brechtiano del Gotama Budda e della casa in fiamme: «Maestro — accorrono trafelati i discepoli — la casa è in fiamme ma gli abitanti non vogliono uscire: perderebbero i loro beni e poi fuori fa freddo». Risponde il Budda: «Chi non si accorge del pericolo, merita di morire». (Beh, buona giornata).

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