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Attualità democrazia

Continua, come un incendio estivo il falò della reputazione del premier italiano.

Il nome di Graziana Capone – nota alle cronache anche come “la Angelina Jolie di Bari” – è spuntato a luglio nell’inchiesta pugliese su Gianpaolo Tarantini, e sul suo ruolo di reclutatore di presenze femminili per le cene a Palazzo Grazioli o Villa Certosa. Lei aveva ammesso subito l'”amicizia” col premier, negando però risvolti mercenari: “Non tutti sono in vendita”, aveva scritto su Facebook. Ma adesso, intervistata da Novella 2000, Graziana si mostra molto più prodiga di particolari. Raccontando la sua infatuazione per il “presidente”, che paragona addirittura a Cristo: come Gesù, spiega, “lui dice ‘Lasciate che i fanciulli vengano a me'”…

Per il resto, nella lunga chiacchierata col giornale di gossip, la giovane donna rivendica – come aveva già fatto coi cronisti di Repubblica qualche settimana fa – il suo ruolo di favorita di Papi (“ma io non lo chiamo così”, precisa): “Nel posto più vicino al cuore, alle sue cene, lui vuole me”. Forse perché, aggiunge “somiglio a Veronica Lario”. Un paragone, questo, che sembra non imbarazzare affatto la volitiva ventiquattrenne. Protagonista, secondo quanto emerso a margine dell’inchiesta barese, di un week end al centro Messegué di Todi, chiuso ai clienti “normali”, e interamente a disposizione sua, del premier e di altre due ragazze.

E varie settimane dopo queste rivelazioni la linea seguita da Graziana è la stessa: lei e Silvio sono legati da una bella, affettuosa amicizia. Che continua, e che continuerà: “Magari sarò la nuova Veronica”, azzarda. Poi spiega: “Quello col presidente è un rapporto assiduo, ci sentiamo moltissimo al telefono”. Lei stessa lo definisce “un grande seduttore, eccome se lo é”; anche se, facendo un piccolo passo falso rispetto alla difesa a tutto campo del Cavaliere, ammette di non aver portato alle cene berlusconiane sua sorella più piccola “perché tendo a preservare le persone che amo”.

Ma non è solo un gran seduttore, Silvio, nelle parole della Capone. Visto che a un certo punto i suoi toni si fanno quasi mistici: interpellata sul perché lui si circondi sempre di giovani, specie di sesso femminile, spiega che il suo è una sorta di evangelico “lasciate che i fanciulli vengano a me. Il presidente , come Gesù, dà ai giovani un’idea di concretezza, trasmette energia”. Segue ulteriore citazione religiosa: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Forse è per quest’aura di santità, di autorevolezza, quasi di infallibilità che la ventiquattrenne confessa candidamente a Novella di aver chiesto a lui il “permesso” di dare l’intervista.

Non con tutti, però, Graziana è così prodiga di belle parole. Ad esempio, passando a Patrizia D’Addario, sembra di precipitare dal paradiso berlusconiano al girone dei peggiori peccatori: “Lei è l’angelo caduto all’inferno, io sono Alice nel Paese delle meraviglie”. Anche verso Tarantini non è tenera: “Non mi ha mai convinto”. E infine una frecciatina a Manuela Arcuri: “Per la cena di Natale a Palazzo Grazioli Tarantini la chiamò: ma lei faceva la capricciosa, diceva ‘non so’… Avrebbe voluto un invito diretto del presidente”.

Quanto al futuro, la Capone dice che non le spiacerebbe una nomina a ministro. Ma può anche darsi che finirà a fare l’attrice, il magistrato o l’avvocato: “Ma solo per sostituire Ghedini”, puntualizza.

La smentita serale. E dopo le 21, quattordici ore dopo l’arrivo di Novella 2000 nelle edicole e otto ore dopo la pubblicazione dei contenuti sul nostro sito, Graziana Capone ha rilasciato un comunicato attraverso il suo addetto stampa: “Le mie dichiarazioni apparse su Novella 2000 e rilanciate dal sito di Repubblica sono state ampiamente travisate. Mai ho pronunciato alcuna delle frasi riportate, né in particolare mi sono paragonata o proposta a sostituire Veronica Lario. Nè mai, ovviamente, ho paragonato il presidente Berlusconi a Gesù. Si è trattato di una chiacchierata in cui sono stati toccati più argomenti, ma non mi riconosco assolutamente nel contenuto dell’articolo”. Ma Candida Morvillo, direttore di Novella 2000, conferma tutto: “Peccato che dall’ampia documentazione audio in nostro possesso si possano ascoltare, dalla viva voce della signorina in questione, le frasi che, forse complice un colpo di sole ferragostano, l’intervistata ritiene di non aver mai pronunciato”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Società e costume

Cari vescovi italiani, eccovi ripagati per il vostro tiepido atteggiamento nei confronti del presidente del consiglio.

Silvio Berlusconi si fa intervistare da uno dei suoi giornali, il settimanale Chi. E replica all’Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani. Nell’intervista Berlusconi afferma: “Mai partecipato a festini, mai frequentato minorenni”.
Rispondendo alle critiche dell’Avvenire Berlusconi dice: “Sono anche loro caduti nel tranello delle calunnie contro di me, prendendo per vere notizie false”. E dunque “io non ho mai intrattenuto ‘relazioni’ con minorenni e non ho mai organizzato ‘festini’. Ho partecipato soltanto a cene certamente simpatiche, ma assolutamente ineccepibili sul piano della moralità e dell’eleganza. E non ho mai invitato consapevolmente a casa mia persone poco serie”.
Cari vescovi italiani, eccovi ripagati per il vostro tiepido atteggiamento nei confronti di quei comportamenti che turbano le coscenze dei vostri fedeli, oltre che di gran parte dell’opinione pubblica, “se dio vuole” non solo italiana. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

Dopo la Innse di Milano, ora tocca al Lasme di Melfi: la calda estate della classe operaia italiana.

Melfi/ Ferrero esprime solidarietà ai lavoratori del Lasme, un’azienda in crisi. “La lotta dell’Innse sia da esempio”-blitzquotidiano.it

Paolo Ferrero esprime solidarietà ai lavoratori del Lasme, un’azienda in crisi che si trova vicino Melfi, in Basilicata. «Quanto accade alla Lasme, ci parla ancora una volta di come in Italia la politica e il padronato intendano affrontare la crisi – ha detto il segretario di Rifondazione Comunista – riversando i suoi costi sempre e solo sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori. Sono ben 174 i lavoratori a cui è stato comunicato che rischiano il posto di lavoro».

Continua Ferrero, affermando che «la Lasme, in gran segreto, nelle ultime settimane, si era trasformata in S.r.l. con l’evidente intento ad aggirare alcuni degli obblighi previsti per la messa in liquidazione di una società per azioni».

Per l’esponente di Rifondazione «sembra, a prima vista, una storia industriale come tante: una famiglia industriale che arriva nel Mezzogiorno grazie agli incentivi statali e regionali, apre la sua azienda, si avvantaggia della diversificazione contrattuale e, alla prima occasione, chiude per spostare la produzione altrove».

«Il sostegno del partito della Rifondazione comunista non è solo un fatto formale – ha concluso Ferrero – Stiamo partecipando con i lavoratori al presidio permanente organizzato per impedire al padrone di portarsi via i macchinari. La lotta dell’Innse non è che un esempio di quello che i lavoratori italiani possono fare: la crisi se la paghino i padroni». (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Sport

Prime vittime della guerra di Rai e Mediaset contro Sky:oscurata via satellite l’amichevole della Nazionale azzurra in Svizzera.

Labirinto tv, il telespettatore paga la guerra di Rai e Mediaset a Sky di ANTONIO DIPOLLINA-Repubblica.

Perché non si vede la partita? L’estate dello scontento televisivo vive di repliche infinite e di colpi di mano: che aprono interrogativi pesanti sull’immediato futuro, quando la gente tornerà dalle vacanze e sarà a casa. La domanda iniziale è risuonata l’altra sera. Se la sono posta quei telespettatori che da tempo sono abituati a guardarsi i canali principali (da Raiuno a Canale 5, da Raitre a La7, quelli in chiaro, insomma) attraverso il decoder di Sky. Un decoder che hanno in casa perché pagano regolare abbonamento per i canali di Murdoch, ma attraverso il quale è sempre stato più che comodo guardarsi Rai e Mediaset: primo perché basta accendere il decoder, secondo perché sono i primi che si trovano in lista, dal 101 in giù, terzo perché in digitale si vede meglio. Qualcuno nel tempo ha direttamente rinunciato all’antenna terrestre. Altri, in alcune zone, non ricevono il vecchio segnale terrestre-analogico e il decoder di Sky ha rappresentato la soluzione ottimale. Ma non finale.

L’altra sera la Rai ha oscurato via satellite l’amichevole della Nazionale azzurra in Svizzera. Sabato aveva fatto lo stesso con Inter-Lazio trasmessa da Pechino. Il giorno dopo un noto allenatore di serie A è stato intervistato dalla Gazzetta e ha risposto: posso dirvi quello che mi è sembrato leggendo i giornali, perché sono nella casa al mare, qui c’è solo la parabola e la partita non si vedeva.

Questa tendenza compulsiva all’oscuramento nasce in casa Rai in piena guerra tra colossi: Rai e Mediaset hanno stretto un patto di ferro in chiave anti-Sky. Si sono fatti la loro piattaforma satellitare che si chiama Tivusat. Qui sta il primo inghippo: secondo il contratto di servizio, l’altra sera la Rai – che ha l’obbligo di trasmettere su tutte le piattaforme, satellite compreso – in teoria non poteva oscurare la partita. Ma come ha spiegato – in veste imprecisata, ma comprensibile ai più – il viceministro alle comunicazioni Paolo Romani in una lettera al Corriere della sera, quello non vuol mica dire che Rai deve trasmettere su Sky. Infatti in teoria l’altra sera la partita è andata anche sul satellite, appunto per Tivùsat. Il punto è che per ricevere Tivusat serve un apposito decoder che al momento è più introvabile di un Gronchi rosa: e che inoltre costa circa cento euro – particolare questo che viene stranamente fatto passare sotto traccia nelle dichiarazioni ufficiali. Il decoder in questione è nettamente alternativo a quello di Sky: lo si compra, a patto di trovarlo, e si vedono via satellite tutti i canali Rai e tutti quelli Mediaset, compresi quelli trasmessi solo in digitale terrestre. L’invito è chiaro: avete il vecchio decoder e guardavate lì soprattutto Rai e Mediaset? Mollatelo, ne abbiamo uno noi nuovo di zecca e senza pagare abbonamenti.

Tecnicamente, il nuovo decoder serve per assicurare la visione dei canali Rai e Mediaset anche nelle zone dove è difficile la ricezione del digitale terrestre, ossia del sistema destinato a soppiantare del tutto in pochi mesi il vecchio analogico.

Qui stanno altri inghippi: prima di tutto si ammette che il digitale terrestre non è e non sarà mai ricevibile alla perfezione in tutte le zone di un paese piuttosto bizzarro dal punto di vista del territorio. Secondo, se qualcuno avesse avuto intenzione di abbonarsi a Sky perché in quel modo avrebbe visto “anche” i canali Rai e Mediaset, adesso ha un’alternativa molto conveniente a disposizione. Terzo, pare, si dice, che tutto sia l’anticamera per far sparire del tutto i canali Rai e Mediaset dal decoder di Sky (dove, nelle dichiarazioni più o meno ufficiali, si limitano a dire che la cosa gli farà più o meno il solletico: chissà).

Ma attenzione, lo scenario non è indolore per nessuno: i canali Rai e Mediaset sono molto visti attraverso Sky e la pubblicità va di conseguenza (per dire, nella lettera Paolo Romani dichiara secco che non c’è contraddizione, i canali in chiaro di Rai e Mediaset possono stare benissimo sia sul decoder Sky che su quello nuovo Tivùsat). E questo come atto finale di una guerra non dichiarata ma abbondantemente nelle cose e che fa accapponare la pelle a un paese molto attento ai conflitti di interesse (si scherza, eh): ovvero la santa alleanza Rai e Mediaset per arginare l’ascesa della pay tv di Murdoch, o quanto meno per infilare più spilloni possibili nelle possenti carni del colosso di derivazione australiana. Infine, pare, si dice, attraverso il nuovo decoder sat, un giorno la Rai – per ora unica assente – potrà sedersi anch’essa al banchetto della tv a pagamento.

E qui siamo al nostro povero telespettatore, al momento perlopiù ignaro nonché sdraiato in spiaggia. L’oscuramento di Svizzera-Italia via sat può anche essere stato poca cosa (l’Auditel ha comunque registrato quattro milioni e settecentomila spettatori, con il 30% di share), ma il segnale è quello: a settembre, quando si torna a pieno regime, non ci sarà una zona del paese uguale a un’altra, e forse uno spettatore uguale a un altro. Ognuno dovrà fare i conti con quello che riesce a vedere nella propria zona, con i progressivi passaggi al digitale terrestre, e con quello che vuole vedere: nonché con ciò che gli sarà consentito guardare senza correre a comprarsi nuovi decoder, fare nuovi abbonamenti o rinnovarli alle varie pay-tv – a fine agosto il calendario del calcio propone già il derby di Milano, in contemporanea assoluta con il momento di massimo rientro dalle vacanze: ci sarà da divertirsi.

I tre decoder in contemporanea (quello Sky, quello del digitale terrestre, quello nuovo Tivusat) in realtà non servono a nessuno, a meno di non essere particolarmente pazzi. Ma tecnicamente qualcuno che volesse avere davvero tutti i canali a disposizione potrebbe provarci. Nella situazione migliore ci sono i telespettatori di poche pretese, che vogliono solo i canali in chiaro e abitano in zone fortunate dove la ricezione del digitale terrestre è perfetta – ma bisogna avere il decoder dtt o un tv di ultima generazione. All’altro capo ci sono gli spettatori che da anni guardano tutto attraverso il decoder di Sky, che dovranno trovare soluzioni di volta in volta o definitive. In mezzo, altre tipologie di consumo e propensioni, di zone già raggiunte dal digitale, di zone dove non si vedrà mai e così via, ognuno a trovarsi una soluzione, tutti fondamentalmente vittime del casino stellare che sembrerebbe una guerra evoluta e moderna tra grandi operatori tv e che nella realtà è una cosa piccola e confusa, che potrà andare a regime solo in tempi medio-lunghi. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia

“Accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere a che punto siamo?”

L’ossessione permanentendi GIUSEPPE D’AVANZO-Repubblica

L’Egocrate è ossessionato. Diventa isterico, quando lo si contraddice con qualche fatterello o addirittura con qualche domanda. Se non parli il suo linguaggio di parole elementari e vaghe senza alcun nesso con la realtà; se non alimenti le favole belle e stupefacenti del suo governo; se non chiudi gli occhi dinanzi ai suoi passi da arlecchino sulla scena internazionale; se non ti tappi la bocca quando lo vedi truccare i numeri, il niente della sua politica e addirittura le sue stesse parole, sei “un delinquente”, come ha detto di Repubblica qualche giorno fa.

O la tua informazione è “giornalismo deviato”: lo ha detto di Repubblica, ieri. Che al Prestigiatore d’affari e di governo appaia “deviato” questo nostro giornalismo non deve sorprendere e non ci sorprende. È “naturale”, come la pioggia o il vento, che il monopolista della comunicazione giudichi il nostro lavoro collettivo una “deviazione”. Lo è in effetti e l’Egocrate non sa darsene pace: ecco la sua ossessione, ecco la sua isteria. Deviazione – bisogna chiedersi, però – da quale traiettoria legittima? Devianza da quale “ordine” conforme alla “legge”? E qual è poi questa “legge” che Berlusconi ritiene violata da un giornalismo che si fa addirittura “delinquenza”? La questione merita qualche parola.

Il potere e il destino di Berlusconi non si giocano nella fattualità delle cose che il suo governo disporrà o ha in animo di realizzare, ma soltanto in un incantato racconto mediatico. Egli vuole poter dire, in un monologo senza interlocutori e interlocuzione e ogni volta che lo ritiene necessario per le sue sorti, che ha salvato il mondo dal Male e l’Italia da ogni male. Esige una narrazione delle sue gesta, capace di creare – attraverso le sinergie tra il “privato” che controlla e il “pubblico” che influenza – immagini, umori, riflessi mentali, abitudini, emozioni, paure, soddisfazioni, odi, entusiasmi, vuoti di memoria, ricordi artefatti.

Berlusconi affida il suo successo e il suo potere a questa “macchina fascinatoria” che si alimenta di mitologie, retorica, menzogna, passione, stupidità; che abolisce ogni pensiero critico, ogni intelligenza delle cose; che separa noi stessi dalle nostre stesse vite, dalla stessa consapevolezza che abbiamo delle cose che ci circondano. Mettere in dubbio questa egemonia mediatica che nasconde e, a volte, distrugge la trama stessa della realtà o interrompere, con una domanda, con qualche ricordo il racconto affascinato del mondo meraviglioso che sta creando per noi, lo rende isterico.

È una “deviazione” – per dire – ricordare che non si ha più notizia dei mutui prima casa e della Robin tax o rammentare che dei quattro “piani casa” annunciati, è rimasto soltanto uno, e soltanto sulla carta. È una “deviazione” ripetere che non è vero che “nessuno è stato lasciato indietro”, come non è vero che i nostri “ammortizzatori sociali” siano i “migliori del mondo”. È “criminale” chiedere conto a Berlusconi della realtà, delle sue menzogne pubbliche, delle sue condotte private che disonorano le istituzioni e la responsabilità che gli è stata affidata. Lo rende ossessivo che ci sia ancora da qualche parte in Italia la convinzione che la realtà esista, che il giornalismo debba spiegare “a che punto stanno le cose” al di là della comunicazione che egli può organizzare, pretendere, imporre protetto da un conflitto di interessi strabiliante nell’Occidente più evoluto.

Nessuna sorpresa, dunque, che l’Egocrate ritenga Repubblica un giornale di “delinquenti” indaffarati a costruire un’informazione “deviata”. Più interessante è chiedersi se, ammesso che non l’abbia già fatto, il governo voglia muovere burocrazie sottomesse – queste sì, nel caso, “deviate” – contro questa “deviazione” – e deviazione deve apparirgli anche una testimonianza contro di lui di una prostituta che ha pagato o l’indagine di un pubblico ministero intorno ai suoi comportamenti. È un fatto che Berlusconi esige e ordina che la Rai si pieghi nei segmenti ancora non conformi, come il Tg3, a quel racconto incantato della realtà italiana. Ancora ieri, Berlusconi – mentendo a gola piena e manipolando le circostanze – ha tenuto a dire che “è inaccettabile che la televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, sia l’unica tv al mondo ad essere sempre contro il governo”.

Sarà questa la prossima linea di frattura che attende un paese rassegnato, una maggioranza prigioniera dell’Egocrate, un’opposizione arrendevole. Lo si può dire anche in un altro modo: accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere “a che punto siamo”? Se questa è la prossima sfida, i dirigenti i lavoratori della Rai, del servizio radiotelevisivo sapranno mettere da parte ambizione, rampantismo, congreghe e difendere la loro “missione” pubblica, la loro ragione di essere? Per quanto riguarda Repubblica, Berlusconi può mettersi l’anima in pace: faremo ancora un’informazione deviata dall’ordine fantastico, mitologico che vuole imporre al Paese.
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi morde Murdoch.

Conti in rosso per Rupert Murdoch, News corp perde 203 mln di dollari-repubblica.it

Brutte notizie per l’impero mediatico di Rupert Murdoch. Nel quarto trimestre fiscale, News Corp registra una perdita netta di 203 milioni di dollari, la solida performance delle divisioni di trasmissioni via cavo (+39%) è stata annullata dal crollo delle entrate pubblicitarie. Un anno prima il gruppo, che controlla tra gli altri il Wall Street Journal e le emittenti televisive Fox, aveva registrato un utile di 1,13 miliardi di dollari. Il giro d’affari è calato dell’11% a 7,6 miliardi di dollari, mentre le entrate del settore tv, inclusa Fox, scendono del 27%. Il gruppo si aspetta una modesta ripresa nei prossimi mesi.

Per quanto riguarda Sky Italia, nel quarto trimestre fiscale la piattaforma digitale ha riportato utili per 155 milioni di dollari, in calo di 57 milioni rispetto ai 212 milioni dell’anno scorso. Per l’intero anno fiscale Sky ha registrato profitti per 393 milioni di dollari, in calo di 26 milioni dai 419 milioni dell’anno scorso. Rupert Murdoch, amministratore delegato del gruppo, nel corso della conference call per commentare i risultati si è detto “non preoccupato”. Il numero di abbonati è cresciuto di 235.000 unità nel corso dei 12 mesi, portando il totale alla fine del quarto trimestre a 4,8 milioni. Negli ultimi tre mesi dell’anno la crescita del giro d’affari è stata ridotta dallo slittamento dei dati relativi agli introiti derivati dai programmi calcistici, che in parte saranno iscritti nel bilancio del primo trimestre fiscale.

I risultati del gruppo per l’intero anno fiscale 2009 sono stati comunque in linea con le previsioni, che la società aveva rivisto per due volte al ribasso a causa del perdurare della crisi economica e della recessione globale. Rupert Murdoch è tornato sull’idea di rendere a pagamento tutti i siti di news del gruppo. L’accesso al Wall Street Journal è già in parte gratuito e in parte a pagamento. Il magnate australiano non è sceso nel dettaglio dell’operazione ma ha detto che questa misura potrebbe essere introdotta a metà del 2010. “Un’industria che regala i suoi contenuti – dice – sta cannibalizzando la sua capacità di fare buon giornalismo”.

Murdoch ha anche detto che potrebbe rompere l’alleanza con Amazon sul lettore digitale Kindle, se non si arriverà ad una rinegoziazione degli accordi. Il tycoon si è detto scontento delle relazioni tra Kindle e i lettori online dei suoi giornali, lasciando anche trapelare la possibilità di un accordo tra News Corp e Sony. (beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: contro Sky, Mediaset spinge la Rai ad autoinfliggersi “un danno emergente e un lucro cessante”.

Pacco dono per Mediaset di GIOVANNI VALENTINI-Repubblica.

Stupito, irritato, amareggiato. Il Capo dello Stato ha tutto il diritto di esprimere la propria delusione sulla “rottura annunciata” fra la Rai e Sky che priverà l’azienda pubblica di un ricavo di oltre cinquanta milioni di euro all’anno, in seguito al trasferimento dei canali Raisat su una nuova piattaforma satellitare. E in particolare, ha ragione Giorgio Napolitano a lamentarsi delle modalità con cui è maturato il fallimento della trattativa: una decisione per così dire unilaterale che la direzione generale ha praticamente imposto – come un diktat – a tutto il Consiglio di amministrazione.

In quanto custode e garante della Costituzione, il presidente della Repubblica non può evidentemente disinteressarsi di quel servizio pubblico su cui s’imperniano nel nostro Paese principi fondamentali come il pluralismo e la libertà d’informazione, sanciti solennemente dall’articolo 21. Anzi, con tutto il rispetto che si deve alla sua figura e alla sua persona, è lecito pensare che un intervento più tempestivo sarebbe valso forse a impedire o magari a prevenire un tale esito.

Danno emergente e lucro cessante, avevamo avvertito su questo giornale nelle settimane scorse, mentre già si preparava la rottura. Danno emergente: perché il prossimo bilancio della Rai s’impoverirà di questa cospicua entrata finanziaria e staremo a vedere che cosa avrà da eccepire in proposito la Corte dei Conti. Lucro cessante: perché, oltre a perdere l’audience e quindi la pubblicità raccolta attraverso la pay-tv, ora l’azienda di viale Mazzini dovrà sostenere “pro quota” l’onere della nuova piattaforma di Tivùsat. E tutto ciò, in buona sostanza, per fare un favore o un regalo a Mediaset nella sfida della concorrenza con Sky, come ha riconosciuto – tardivamente – perfino il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Sergio Zavoli.

Si dà il caso, così, che l’ex segretario generale della presidenza del Consiglio, appena trasferito alla direzione della televisione pubblica, non trovi di meglio che confezionare subito un pacco-dono per l’azienda televisiva privata che fa capo allo stesso presidente del Consiglio. Un voto di scambio o una partita di giro, si potrebbe anche dire. Naturalmente, a spese del cittadino contribuente, telespettatore e abbonato alla Rai. Come già a suo carico era stata la multa di oltre 14 milioni di euro inflitta dall’Autorità sulle comunicazioni a viale Mazzini per la nomina dell’ex direttore generale, Alfredo Meocci, insediato alla guida dell’azienda dal centrodestra nonostante la palese incompatibilità con il precedente mandato di commissario nella medesima Authority.

Con buona pace del presidente Garimberti e dei consiglieri di minoranza, siamo dunque alla definitiva subordinazione della Rai agli interessi e alle convenienze di Mediaset. Un’azienda di Stato, la più grande azienda culturale del Paese, che via via si trasforma in una filiale, una succursale, una dépendance del Biscione. Già omologata al ribasso sul modello della tv commerciale, quella della volgarità e della violenza, delle veline e dei reality fasulli, adesso la tv pubblica si allea e si associa con il suo principale concorrente sotto il cielo tecnologico della tv satellitare.

Sarà verosimilmente proprio di fronte a questo scempio che il centrosinistra, risvegliandosi da un lungo e ingiustificabile letargo, s’è deciso finalmente a riproporre con forza la questione irrisolta del conflitto d’interessi: prima, con una dichiarazione di guerra del segretario reggente del Pd, Dario Franceschini, il quale ha annunciato bellicosamente che su questa materia (e speriamo anche su altre) il suo partito non resterà più fermo e silente; poi, addirittura, con una proposta di legge presentata da Walter Veltroni e sottoscritta da tutte le opposizioni, sostenuta dal contributo di un esperto costituzionalista come l’ex presidente della Rai, Roberto Zaccaria. Meglio tardi che mai, dobbiamo ripetere. Ma che cosa avevano fatto nel frattempo Veltroni e Franceschini per risolvere l’anomalia di un presidente del Consiglio che controlla direttamente tre reti televisive private e indirettamente anche le tre reti pubbliche? E pensare che c’è ancora qualche illustre professore che esorta il Pd a emanciparsi dall’influenza di “alcuni giornali” (quanti e quali?), mentre una maggioranza di governo condiziona impunemente giornali, telegiornali e giornali radio.
Nel regno del conflitto d’interessi, la rottura fra la Rai e Sky diventa la prova regina di un’occupazione “manu militari” di tutto il sistema dell’informazione. Un attentato al pluralismo, alla libertà d’opinione. E anche questa, purtroppo, si rischia di apprezzarla solo quando la si perde. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Quei 21 miliardi di buoni motivi del consenso al governo Berlusconi.

Berlusconi vince perchè spende. In un anno 21 miliardi di spesa pubblica in più nelle tasche degli italiani-blitzquotidiano.it

Berlusconi vince perché…Perché è simpatico, perché è abile, perché sa fare comunicazione, perché ha in mano la televisione, perché non c’è alternativa, perché l’alternativa che c’è stata ha fatto fiasco, perché c’è un piccolo Berlusconi in ogni italiano… Per tanti perché che ogni giorno sono nei giornali italiani e stranieri e compaiono in parole e pensieri dell’Italia che discute e chiacchiera di politica. Tra i tanti, tantissimi perché però ne manca uno. Uno bello grosso e forte: Berlusconi vince perché spende.

Governa da un anno e in un anno la spesa pubblica “corrente”, cioè i soldi che la mano pubblica immette nelle tasche degli italiani, non tutti ma quasi, è cresciuta di 21 miliardi di euro. Ventun miliardi di spesa in più. Non per fare ponti, strade, laboratori, aziende. No, 21 miliardi cash, usciti dal portafoglio pubblico e destinati ai privati portafogli. Ventun miliardi in più spesi da uno Stato tra i più indebitati del mondo nel pieno della crisi economica peggiore da quasi un secolo.

Quattro dei ventuno miliardi di spesa aggiuntiva hanno avuto la forma di stipendi: più stipendi e stipendi aumentati, quelli pubblici. Da 171 a 175 miliardi la spesa per stipendi tra il 2008 e il 2009. Scontiamone due per dinamica inflattiva, ne restano tre proprio di maggior spesa. Berlusconi e il suo governo dunque per gli stipendi pubblici hanno speso di più di prima.

Altri cinque dei ventuno sono di maggior spesa per “consumi intermedi”, cioè quello che l’Amministrazione Pubblica spende per funzionare. Sono soldi che vanno ai fornitori, alle aziende, ai professionisti. Da 128 a 133 miliardi tra il 2008 e il 2009. Nonostante i lamentati, programmati e annunciati tagli, tre miliardi al netto dell’inflazione spesi in più dalla mano pubblica per pagare aziende e imprese.

Nove miliardi in più di spesa per le pensioni: da 223 a 232. Diciamo che qui il governo non c’entra: aumentano i pensionati e aumenta la spesa. Ma il governo c’entra eccome nei quattro più quattro miliardi in più di spesa per “altre prestazioni sociali” (da 54 a 58) e per “altre spese correnti” (da 57 a 61). Rileggiamo: quattro, più cinque, più nove, più quattro, più quattro fa 26 miliardi di spesa aggiuntiva. E allora perché 21? Perché cinque miliardi il governo li ha guadagnati spendendo di meno per pagare gli interessi sul debito (effetto calo dei tassi). Somma e sottrai, fanno appunto 21 miliardi immessi nelle tasche degli italiani.

Quali italiani e soprattutto come? A Palermo quasi 230 milioni di euro per pagare i debiti e gli stipendi della municipalizzata che male pulisce la città ma molta gente impiega e remunera. A Catania 150 milioni per mantenere in piedi la rete di assunzioni e iniziative che avevano portato il Comune alla bancarotta. A Roma 500 milioni per pagare, tra l’altro, l’inefficiente sistema di trasporti urbano. E 14 milioni a Parma per l’Autorità europea della sicurezza alimentare e 12 milioni per la società di navigazione dei laghi Como, maggiore e Garda. E 49 milioni per la Tirrenia che è l’Alitalia del mare, anzi peggio. Sono solo esempi, maglie di una rete che avvolge tutta la penisola. Una rete di spesa che tiene in piedi molte cose: aziende, stipendi, consulenze, consenso e governo.

Berlusconi vince perché spende, l’Italia più o meno incassa. Qual è dunque mai il problema? Che c’è mai di strano nel fatto che Berlusconi voglia spendere ancora di più e abbia appena chiesto a Tremonti di trovare altri miliardi per il Sud? Un paio di problemi ci sarebbero. Il primo è che è spesa “corrente”, cioè soldi che alleviano il presente ma non costruiscono futuro. Sul futuro infatti la spesa pubblica diventa avara, avarissima. E’ spesa all’insegna del pochi (meglio molti), maledetti (diciamo invocati) e subito. Il secondo problema è che è spesa immemore del passato: il nostro debito pubblico che prima o poi qualcuno dovrà cominciare a pagare. Nessuno Stato può vivere in eterno col 120 per cento di debito sulla ricchezza prodotta. Anche se quello Stato, anche se quella “gente” lo vuole e lo vota, il resto del mondo lo impedisce, semplicemente non garantendo più per il suo debito. Ma passato e futuro interessano poco la pubblica opinione: oggi è oggi, il resto… E oggi è Berlusconi che spende, il resto, tutto compreso, proprio tutto, è un perché ma non il vero perché. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Società e costume

Le pupe del papi.

Da C di Carfagna a M di Matera le baciate dall’amicizia di Silvio di ANTONELLO CAPORALE-Repubblica.

Il passato e il presente. Come eravamo, anzi dove eravamo, e dove siamo arrivate. C’è sempre un momento della vita in cui è possibile fare un bilancio e ai lettori di Gente, l’attrice Elena Russo, sdraiata come una tigrotta all’ingresso del salotto, nel dicembre dello scorso anno confida: “Ho finalmente realizzato un sogno. Comprarmi una casa”. Elena è stata anche testimonial del governo italiano nella vittoriosa campagna napoletana contro l’immondizia.
Elena e Camilla, Evelina e Antonella. Forse Selvaggia, sicuramente Barbara, Virginia, Chiara, Francesca… Letterine, nella classificazione televisiva anche letteronze, che hanno attraversato il cerchio di fuoco del potere, hanno goduto dell’amicizia di Silvio e in qualche modo sono state premiate.

Fanciullesca e anche parecchio drammatica la confessione telefonica di Evelina Manna a Berlusconi: “Io credo nel mondo dei sogni… con te”. La risposta del premier, purtroppo piuttosto concretista: “C’è anche il mondo dei giornali… I giornalisti sguazzano nella merda. Ti do questo consiglio: non farti trovare”. A Evelina è andata così così. Certo, si è aggiudicata una parte ne “I sette giorni della sposa”, e le sue capacità artistiche potranno in futuro essere ancora premiate. Però è niente rispetto a quello che Barbara Matera ha ottenuto: un seggio europarlamentare dopo tre avvincenti esperienze televisive tutte sviluppate in verticale: da letterina silente a “letterata” di Chiambretti e infine letteronza della Gialappa’s. La politica nel cuore. Tra i quindici e i ventuno secondi la durata della sua performance oratoria. Tradita dall’emozione (ma era il primo comizio in piazza) non dall’urna. Barbara oggi è l’onorevole Matera. Tiè!

Micro e macro. E’ un saliscendi di attese e traguardi mancati o raggiunti. Mara Carfagna, per esempio, era valletta della Domenica del villaggio (“In tre anni di lavoro comune non l’ho mai sentita pronunziare una sola parola di politica, neanche, che so: piove, governo ladro”, sintetizzò sorpreso Davide Mengacci, il conduttore del programma di Retequattro). Oggi chi lo ricorda più? Mara è un fior di ministro: consapevole, rigorosa, sempre in prima fila. Nella vita ci vuole talento per sfondare. Anche un pizzico di fortuna.
Camilla Ferrante fu bollata da Agostino Saccà, al tempo re della fiction Rai, un po’ “strappona”. L’aveva però segnalata Berlusconi. La Rai alla fine le concesse una parte in Incantesimo, la soap per cui l’intero Parlamento si mobilitò a difesa, e si è capito anche perché. Le carriere, i dolori, lacrime e gioie di una relazione emozionante, tra l’altro assai bene raccolte nell’istant book “Papi, uno scandalo politico” (Chiarelettere), firmato da Travaglio, Gomez e Lillo, raccontano dell’Italia contemporanea, delle vite di tante giovani e avvenenti ragazze che hanno avuto la ventura di frequentare Palazzo Grazioli. A ciascuna il suo. Sembra però confermata, scorrendo curricula e dichiarazioni a futura memoria, la proverbiale generosità berlusconiana.

Se Barbara Montereale, in ordine cronologico tra le ultime visitatrici della dimora, ha goduto – oltre alla farfallina – di un pensierino da diecimila euro cash, Virginia Sanjust di Teulada, bellissima e ascetica, ha legittimamente occupato per anni il vasto appartamento di Campo dei Fiori, ora di proprietà del Capo, e persino ottenuto, senza mai avanzare alcuna pretesa, un contratto di consulenza con l’ufficio stampa di Palazzo Chigi. C’è da dire che Virginia ha rifiutato di passare alla cassa (“Non ho mai lavorato lì”). I giornali e il giornalismo, dopo le soap, sono la meta prediletta.
Francesca Pascale, del club napoletano “Silvio ci manchi”, ha trovato rifugio dopo la laurea nella segreteria del sottosegretario Francesco Giro e consolazione al consiglio provinciale di Napoli. Chiara Sgarbossa, ex valletta brunetta del Lotto alle otto, ha puntato al consiglio provinciale di Padova. Di Silvia Trevisan, già miss muretto di Alassio, si sono purtroppo perse le tracce. Senza tralasciare la recente e fin troppo nota Noemi Letizia, che comunque ambirebbe all’Isola dei famosi, altre da via del Plebiscito sono atterrate sull’isola. Aida Yespica, per esempio. Altre ancora, ma qui si valuti un fondo di persistente criterio meritocratico, sono state deviate in reality meno nobili. Francesca Lodo comunque ha raggiunto la Fattoria. Dite che è poco? (Beh, buona giornata).

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Le prossime mosse del papi.

La campagna d’autunno del Cavaliere azzoppato di GIUSEPPE D’AVANZO-Repubblica.

Il Cavaliere, per levarsi dai guai degli scandali politici e sessuali in cui s’è cacciato da solo, ci ha provato – prima – con una comunicazione sovrabbondante, ipertrofica. Televisione, interviste, maquillage familiare con foto a colori del Figlio Marito Padre Nonno così amorevole, così italiano. Non ha funzionato. Le menzogne erano così assordanti che gli sono scoppiate in mano. Cilecca. Dunque, cambio di marcia e di strategia. Il flusso verbale, le patetiche e quotidiane battute sulle minorenni, le grottesche vanterie da “santo puttaniere” sono state archiviate e sostituite dal silenzio, autoimposto e imposto. Gioco comodo perché, come ha scritto il Financial Times ieri, “Berlusconi guida un regime costruito sul suo impero mediatico che include il controllo delle televisioni nella quasi totalità e di buona parte della stampa scritta. Anche la Rai, la tv di Stato, ha evitato di seguire in maniera adeguata il caso di Patrizia D’Addario sul suo canale principale”. Ora anche la strategia del silenzio appare inadeguata. E’ utile a nascondere all’opinione pubblica domestica quanto siano disonorevoli le sue condotte private e vulnerabile il suo agire pubblico.
Oscura la catastrofe della sua reputazione all’estero, che finisce col travolgere anche la credibilità del Paese tutto intero, ma non muta di un’acca uno stato delle cose che – Berlusconi sa – peggiorerà in autunno.

Ecco perché, prima di dileguarsi per una decina di giorni chi lo sa dove e chi lo sa perché, il premier sta organizzando truppe, generali e piani per la “campagna di autunno”. Oggi la crisi di Berlusconi la si può ricostruire così: il capo del governo, nell’Occidente euroamericano, è un’anatra zoppa. L’establishment internazionale attende la sua uscita di scena, prima o poi. Nel cortile di casa non va meglio, nonostante l’opposizione se ne stia in un angolo a guardarsi l’ombelico. I comportamenti di Berlusconi hanno pregiudicato molto seriamente la sua influenza nel mondo cattolico e i buoni rapporti con le gerarchie ecclesiastiche. Anche il Papa ha mostrato di condividere le severe critiche dell’Avvenire e dei vescovi piovute sul capo del premier.

In autunno, questa scena può diventare ancora più avversa di quanto lo sia oggi. Cominciamo dall’economia reale. È vero, ci sono micro-segnali di ripresa, ma come spiegano osservatori e protagonisti, “si stanno accumulando gli effetti di una recessione lunga e i prossimi mesi saranno inevitabilmente critici” (Corrado Passera). Molte piccole imprese, a settembre, saranno scomparse e con loro decine di migliaia di posti di lavoro. Dal punto di vista personale, per Berlusconi, non va meglio. In settembre, le inchieste di Bari su prostituzione e droga che vedono imputato Gianpaolo Tarantini, il giovane amico del presidente, potrebbero trovare una prima discovery. Potrebbero essere rese pubbliche le conversazioni tra il Cavaliere e il suo ruffiano (anche dieci al giorno). La Consulta potrebbe dichiarare incostituzionale la legge che lo rende immune e consegnarlo di nuovo ai giudici di Milano per la corruzione del testimone David Mills. La nuova legge sulle intercettazioni potrebbe svelare agli italiani come il capo del governo svenda la sicurezza di tutti per proteggere se stesso e i traffici del ceto dirigente legando le mani alla magistratura e imbavagliando la stampa.

Il tableau giustifica le preoccupazioni del Cavaliere. Come scrive Slavoj Zizek, Berlusconi avrà anche “la maschera da pagliaccio” ma solo per nascondere “un potere spietatamente efficiente” (London Review of Books e Internazionale, 24 luglio). È l’efficienza di una macchina di potere che il premier vuole mettere a punto prima dell’autunno. A cominciare da quel segmento che, nella sua avventura politica, è sempre stato decisivo, vitale: la comunicazione. È tutto quel che gli serve, in fondo. Con una comunicazione manipolata e truccata, Berlusconi elimina la verità effettuale delle cose (la crisi economica, l’immobilismo del governo); incuba le paure del Paese (“immigrati”, “complotto eversivo”, “comunisti”); trasforma l’ordinario in “miracolo” e ogni difficoltà o stallo in “emergenza nazionale”; sommerge il Paese di parole inutili e immagini ludiche; tiene gli italiani in uno stato di minorità che impedisce loro di andare, con qualche spirito critico e consapevolezza, oltre le emozioni e l’immaginazione. È questa difesa mediatica, è questo “miracolismo mediatico” che il capo del governo, protetto dal suo conflitto di interessi, vuole consolidare, rendere aggressivo e dominante, più di quanto oggi non lo sia, in attesa di isolare e colpire i suoi avversari o i non conformi con leggi ah hoc, manovre di potere, e magari le mosse di burocrazie sottomesse (Murdoch è soltanto il primo della lista degli “ostili”, selezionata nelle riunioni segrete di questi giorni).

Il Cavaliere militarizza subito il fronte della comunicazione, quindi. Via Mario Giordano, il povero direttore del Giornale assoggettato quanto basta, ma senza alcun peso specifico. Che arrivi Vittorio Feltri da Libero, un “peso massimo”. Che Clemente Mimun, direttore del Tg5, si adegui alla bisogna e all’esempio di Augusto Minzolini, direttore del Tg1. E se non se la sente, che lasci la seggiola a Maurizio Belpietro, quello sì che sa il fatto suo quando si tratta di menar le mani che poi a Panorama si troverà un altro “picchiatore” per dirigerlo. È con questo “pacchetto di mischia” (Minzolini, Feltri, Belpietro, Mimun) che il capo del governo vuole “militarizzare” la comunicazione e deformare il racconto della realtà. Può farlo certo in casa sua in assenza di una legge sul conflitto di interessi, ma è legittimo che lo faccia anche in quella casa di tutti che è il servizio pubblico radiotelevisivo? Può farlo senza che gli organi di garanzia tecnici, politici e istituzionali muovano un ciglio e trovino la forza di profferire parola? Sappiamo che Paolo Garimberti è in Viale Mazzini come “presidente di garanzia”, meno si comprende che cosa e chi stia garantendo. Non certo il telespettatore italiano che non ha saputo nulla e nulla saprà di quanto in Italia e all’estero accade al capo del governo. Sappiamo naturalmente che esiste una “Commissione parlamentare per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi”, presieduta da Sergio Zavoli, meno si può dire del suo lavoro di vigilanza, ieri passiva dinanzi alla lottizzazione, oggi taciturna e impotente dinanzi alla “militarizzazione” della Rai.

Siamo così oltre il livello di guardia per un’ordinata democrazia che forse anche il presidente della Repubblica dovrebbe guardare in questi affari. A meno di non volersi rassegnare, già dall’autunno, a quella che appare a Mario Perniola la migliore definizione di comunicazione: a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing, “una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa niente” (Macbeth).
(Beh, buona giornata).

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