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Il caso “bunga-bunga”: ecco la telefonata del premier.

«Conosciamo questa ragazza non portatela in un centro»
Berlusconi chiamò in questura per Ruby: è una parente di Mubarak, meglio affidarla a una persona di fiducia, di FIORENZA SARZANINI-corriere.it

Fu Silvio Berlusconi a dichiarare al capo di gabinetto della questura di Milano che Ruby era la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak. Fu lui, esponendosi in prima persona, a mentire sulla reale identità della giovane e a chiedere che fosse subito affidata al consigliere regionale del Pdl Nicole Minetti. Il testo della telefonata, così come è stato ricostruito dallo stesso funzionario Pietro Ostuni, è agli atti dell’inchiesta della magistratura che procede per favoreggiamento della prostituzione nei confronti della stessa Minetti, di Emilio Fede e di Lele Mora.

È il 27 maggio 2010, le 23 sono appena passate. Nella stanza del fotosegnalamento c’è Ruby, 17 anni, marocchina, fermata perché è stata denunciata da una sua amica per il furto di 3.000 euro. Lei cerca di difendersi, giura che quei soldi sono suoi. E quando le chiedono come mai è a Milano da sola, dice di essere in lite con la sua famiglia che vive a Messina. «Sono andata via, perché ho problemi con i miei genitori», chiarisce.

In un altro ufficio squilla il telefono del capo di gabinetto Pietro Ostuni. A chiamare è un uomo. Si qualifica come il caposcorta del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E subito chiarisce il motivo della telefonata: «So che da voi c’è una ragazza che è stata fermata. È una persona che conosciamo e dunque volevamo sapere che cosa sta succedendo». Fornisce le generalità della giovane, si informa su quanto è accaduto. Ostuni inizialmente resta sul vago. E allora il caposcorta è più esplicito: «Anche il presidente la conosce, anzi aspetta che adesso te lo passo». Il funzionario rimane incredulo. Capita spesso che le personalità chiamino il gabinetto delle questure sparse in tutta Italia per i motivi più disparati, ma certo non si aspettava di parlare con il capo del governo. E invece è proprio Berlusconi a chiarire la situazione. Il resoconto della sua telefonata è nelle relazioni di servizio che sono già state depositate agli atti dell’indagine.

«Dottore – spiega Berlusconi – volevo confermare che conosciamo questa ragazza, ma soprattutto spiegarle che ci è stata segnalata come parente del presidente egiziano Mubarak e dunque sarebbe opportuno evitare che sia trasferita in una struttura di accoglienza. Credo sarebbe meglio affidarla a una persona di fiducia e per questo volevo informarla che entro breve arriverà da voi il consigliere regionale Nicole Minetti che se ne occuperà volentieri». Ostuni chiarisce che la procedura di identificazione è ancora in corso, ma assicura che si provvederà al più presto. E subito dopo chiede di accelerare lo svolgimento della pratica. Poi avvisa i poliziotti che si stanno occupando della ragazza, dell’imminente arrivo della Minetti. Genericamente spiega che la questione interessa Palazzo Chigi. Non immagina che una funzionaria riferisca ai colleghi di questo «intervento». E invece la notizia fa presto a diffondersi. Soltanto il questore Vincenzo Indolfi viene informato che è stato Berlusconi in persona a chiamare, ma comunque si capisce che Ruby ha qualcuno «importante» che l’aiuta.

Qualche minuto prima della mezzanotte Minetti arriva in via Fatebenefratelli. Le viene spiegato che bisogna attendere il via libera del magistrato di turno al tribunale dei minori, la dottoressa Anna Maria Fiorilli. Nei casi di fermo di un minore, c’è l’obbligo di informare l’autorità giudiziaria del provvedimento e poi di attendere le sue decisioni circa la destinazione dell’indagato. Ed è quanto avviene anche quella sera, così come risulta proprio dalla relazione inviata al ministro dell’Interno Roberto Maroni. Al consigliere regionale viene comunque concesso di vedere la ragazza. Ruby le va incontro, l’abbraccia, la ringrazia per quanto sta facendo. Alle 2, esattamente otto ore dopo il fermo, la giovane marocchina torna libera. Agli atti rimane la firma di Nicole Minetti che dichiara di accettare il suo affidamento. Un impegno che – evidentemente – non ritiene di continuare ad onorare.

Una settimana dopo, il 5 giugno, Ruby litiga con una sua amica brasiliana. Interviene la polizia, la giovane viene portata in ospedale dove rimane qualche giorno. Al momento della dimissione la trasferiscono in questura proprio perché si tratta di una minorenne. Si decide di contattare il consigliere Minetti proprio perché possa andare a prenderla, visto che risulta affidataria. Ma per due volte la donna non risponde e a quel punto – dopo aver nuovamente contattato il magistrato per il “nulla osta”- arriva il provvedimento per trasferirla in una casa-famiglia a Genova. Nella sua informativa al ministro, Indolfi chiarisce che «nessun privilegio è stato concesso alla ragazza perché tutte le procedure sono state rispettate». Caso chiuso per il Viminale, come chiarisce in serata Maroni che si dice «pronto anche a riferirne in Parlamento». Ma l’indagine della procura di Milano è tutt’altro che conclusa. Moltissimi sono gli interrogativi ancora aperti.

Bisogna innanzitutto fare riscontri su chi effettivamente avvisò il presidente Berlusconi che Ruby era stata fermata ed era in questura per accertamenti: non è ancora escluso che abbia chiamato personalmente il caposcorta. In altre indagini sulle frequentazioni private del capo del governo, alcune ragazze avevano dichiarato di essere state autorizzate dallo stesso premier a contattare – in caso di necessità – direttamente il caposcorta o comunque qualcuno della segreteria. Una prassi che sarebbe stata seguita diverse volte e che anche Ruby potrebbe aver deciso di sfruttare quando ha compreso di trovarsi nei guai. E pure Nicole Minetti dovrà chiarire quale sia la reale natura del suo rapporto con Ruby, visto che prima accettò di firmare il decreto per l’affidamento della minore e poi decise di non occuparsene più.

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Riusciranno i nostri eroi a ritrovare la politica misteriosamente scomparsa in Italia?

In omaggio alla Festa del Cinema di Roma, e soprattutto in omaggio e solidarietà piena alla protesta sul “red carpet”delle maestranze del cinema italiano contro i tagli alla Cultura, questo articolo titola con la citazione di un famoso film di Ettore Scola:”Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”

In un’epoca in cui si celebrano le gesta del Cavaliere, tanto simpatico e spiritoso da intrattenerci con le sue vecchie e triviali barzellette dal calor razzista, dal sapor sessista, dalla banalità omofoba, e forse dalla demenza senile a proposito di tribù africane che sodomizzano i malcapitati col rito del bunga-bunga, codesta citazione filmica ci sembra, ahinoi!, pertinente.

Tanto più che secondo Emilio Fede, – che con l’impresario Lele Mora è uno dei protagonisti dei fatti giudiziari relativi alla minorenne marocchina, un’ inchiesta penale che potremmo intitolare “l’inchiesta bunga-bunga”- l’ interpretazione autentica della barzelletta del Cavaliere sarebbe che è proprio Sandro Bondi, Ministro della cultura, il bersaglio della protesta dei cineasti italiani, uno dei personaggi della storiella in questione, assieme a Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl. Insomma, dopo Gianni e Pinotto, i fratelli De Rege, Stanlio e Ollio , Ric e Gian, (Lele Mora&Fabrizio Corona) abbiamo un’altra coppia comica: Bunga&Bunga.

Il film di Scola ha un finale commovente: la tribù africana insegue fino alla spiaggia lo stregone fuggiasco (Nino Manfredi che, nella parte di Titino, altro non era che un ciarlatano che si faceva credere un potente sciamano), e intona verso la nave che avrebbe riportato Titino in Italia una litania ritmica, che alle orecchie di Titino sembrava suonare: “Titì non ce lascià”. Titino non resisterà allo strazio, e tuffandosi ritornerà a nuoto dalla tribù, unica, vera e genuina sponda affettiva.

Nell’Italia odierna, Silvio Berlusconi, il potente sciamano della politica, della finanza, della tv, della monnezza, del potere è incappato di nuovo in uno scandalo sessuale. Una metafora dell’impotenza affettiva.

Per la gioia della signora Veronica Lario, che dopo l’ennesima rottura delle trattative per raggiungere soddisfacenti accordi economici per il divorzio, conquista una nuova freccia al suo arco.

Per la disperazione della democrazia di un Paese che non sa più se ridere o piangere delle gesta del Cavaliere. E allora, dovremmo tutti insieme intonare una litania propiziatoria, per liberarci di questa noiosa ordalia: “ Cavaliè, te ne vuoi andà”. Gli italiani, grati, ringrazierebbero. Beh, buona giornata,

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Bunga-bunga.

di PIERO COLAPRICO e GIUSEPPE D’AVANZO-repubblica.it

Alla questura di Milano, nello stanzone del “Fotosegnalamento”, c’è solo Ruby R., marocchina. Dire “solo” è un errore, perché Ruby è molto bella e non si può non guardarla. Se ne sta sulla soglia, accanto alla porta, e attende che i due agenti in camice bianco eseguano il loro lavoro, ma è come se occupasse l’intera stanza. E’ il 27 maggio di quest’anno, è passata la mezzanotte e i poliziotti hanno già fatto una prova: la luce bianca, accecante, funziona alla perfezione. La procedura è rigorosa, nei casi in cui un minorenne straniero viene trovato senza documenti: finiti gli accertamenti sull’identità, se non ha una casa o una famiglia, sarà inviato, dopo aver informato la procura dei minori, in una comunità. È quel che gli agenti si preparano a fare, perché Ruby ha diciassette anni e sei mesi (è nata l’11 novembre del 1992) e all’indirizzo che ha dato, in via V., non ha risposto nessuno. Era anche prevedibile: ci abita un’amica che, dice Ruby, è una escort e se ne sta spesso in giro. All’improvviso, il silenzio dello stanzone si rompe. Una voce si alza nel corridoio. E, alquanto trafelata, appare una funzionaria. Chiudete tutto e mandatela via!, è il suo ordine categorico. Gli agenti sono stupiti. L’altra, la funzionaria, è costretta a ripetere: basta così, la lasciamo andare, fuori c’è chi l’aspetta!

Non è che le cose vanno sempre in questo modo, in una questura. La ragazza non ha i documenti. Per di più, il computer ha sputato la sua sentenza: l’anno prima Ruby si è allontanata – era il maggio del 2009 – da una casa famiglia a Messina, dove vivono i suoi. Anche il motivo per cui è finita in questura non è una bazzecola: è accusata di un furto che vale i due stipendi mensili dei poliziotti.

Le cose sono andate così. Qualche sera prima, una ragazza che ama la discoteca, Caterina P., va in un locale con due amiche. Ballano sino a tardi. Quando lasciano il “privé”, si ritrovano insieme a Ruby R. e tutt’e quattro s’arrangiano a casa di Caterina. La mattina dopo, mentre Ruby dorme come un sasso, o così sembra, le tre amiche vanno a fare colazione al bar sotto casa. Al rientro, Ruby non c’è più, e chi se ne importa. Ma mancano anche tremila euro da un cassetto e qualche gioiello. Caterina maledice se stessa. Non sa da dove sia piovuta quella ragazzina, non sa dove abita, non sa dove cercarla. Il caso l’aiuta. Il 27 maggio il sole è tramontato da un pezzo e Caterina passeggia in corso Buenos Aires, quando intravede Ruby in un centro benessere. Chiama subito il 113 e accusa la ladra. La volante Monforte è la più vicina e la centrale operativa la spedisce sul posto. Ruby viene presa e accompagnata al “Fotosegnalamento”. Con una storia come questa, ancora tutta da chiarire, come si fa a lasciarla andare?

Gli agenti lo chiedono alla funzionaria. La funzionaria scuote il capo. Dice: di sopra (dove sono gli uffici del questore) c’è il macello, Pietro Ostuni (è il capo di gabinetto) ha già chiamato un paio di volte e vedete (il telefono squilla) ancora chiama. E’ la presidenza del Consiglio da Roma. Dicono di lasciare andare subito la ragazza, pare che questa qui sia la nipote di Mubarak, non ci vogliono né fotografie, né relazioni di servizio. Tutti adesso guardano la ragazza. “E chi è Mubarak?”, chiede un agente. Il presidente egiziano, spiega con pazienza la funzionaria. Che intanto risponde all’ennesima telefonata del capo di gabinetto, per poi dire: forza ragazzi, facciamo presto, Ostuni ha detto a Palazzo Chigi che la ragazza è già stata mandata via.

L’ultimo affaire o scandalo che investe Silvio Berlusconi nasce dunque tra il primo piano e il piano terra di via Fatebenefratelli 11, in una notte di fine maggio. Ha come protagonista una minorenne, senza documenti, accusata di furto. E come canovaccio ha una stravaganza: la ragazza viene liberata per l’energica pressione di Palazzo Chigi, che sostiene sia “la nipote di Hosni Mubarak”. Che cosa c’entra la presidenza del Consiglio con una “ladra”? E perché qualcuno a nome del governo mente sulla sua identità? Quali sono stati gli argomenti che hanno convinto la questura di Milano a insabbiare un’identificazione, in ogni caso a fare un passo storto? Le anomalie di quella notte non finiscono, perché ora entra in scena un nuovo personaggio. Attende Ruby all’ingresso della questura.

E’ Nicole Minetti e ha avuto il suo momento di notorietà quando, igienista dentale di Silvio Berlusconi, a 25 anni è stata candidata con successo al Consiglio regionale della Lombardia. Nicole sa del “fermo” di Ruby in tempo reale da un’amica comune. Fa un po’ di telefonate, anche a Roma, e si precipita all’ufficio denunzie. Chiede di vedere la ragazza. Pretende di portarsela via. Dice che Ruby ha dei problemi e lei se ne sta occupando come una sorella maggiore, ma non riesce a superare il primo cortile della questura. Soltanto quando Palazzo Chigi chiamerà il capo di gabinetto, la situazione si farà fluida e il procuratore dei minori di turno, interpellato al telefono, autorizzerà l’affidamento di Ruby a Nicole e – ora sono quasi le tre del mattino del 28 maggio – le due amiche si possono finalmente allontanare.

Che cosa succede dopo lo spiegherà Ruby, ma in un interrogatorio che avviene due mesi più tardi: a luglio, quando l’affaire sminuzzato in questura si materializza. Prima al tribunale dei minori e, subito dopo, alla procura di Milano, dinanzi al pool per i reati sessuali. Una volta in strada Nicole, sostiene Ruby, chiama Silvio Berlusconi: è stato Silvio a dirle di correre in questura; è stato Silvio a raccomandarsi di tenerlo informato e di chiamare appena la cosa si fosse chiarita. Ora che è finita l’emergenza, Nicole spiega, ride alle carinerie del premier e poi passa il telefono direttamente a Ruby. Silvio mi dice così: non sei egiziana, non sei maggiorenne, ma io ti voglio bene lo stesso. Da allora non l’ho più visto, ma in questi mesi ci siamo sentiti ancora per telefono.

Ora bisogna spiegare quali sono i rapporti di Ruby con Silvio Berlusconi e non è facile, perché il loro legame viene ricostruito in un’indagine giudiziaria che deve chiarire (lo ha fatto finora soltanto parzialmente e in modo non esaustivo o definitivo) quando la giovanissima Ruby dice il vero e quando il falso. E’ un’inchiesta (l’ipotesi di reato è favoreggiamento della prostituzione) in cui il premier non è indagato, anche se gli indagati ci sono e sono tre: Lele Mora, Nicole Minetti, Emilio Fede. Anzi, il premier potrebbe diventare addirittura parte lesa, perché prigioniero di un ricatto, vittima di una calunnia o addirittura perseguitato da un’estorsione.

Per evitare gli equivoci molesti disseminati in questi giorni, conviene dire subito che dinanzi ai pubblici ministeri Ruby esclude di aver fatto sesso con il capo del governo. Come confessa di aver mentito a Berlusconi: gli ho detto di avere ventiquattro anni e non diciassette. Nicole sapeva che ero minorenne e poi anche Lele, Lele Mora, lo ha saputo. Ruby però racconta delle sue tre visite ad Arcore, delle feste in villa e delle decine di giovani donne famose o prive di fama – molte escort – che vi partecipano. La minorenne fa entrare negli atti giudiziari un’espressione inedita, il “bunga bunga”. Viene chiamata in questo modo l’abitudine del padrone di casa d’invitare alcune ospiti, le più disponibili, a un dopo-cena erotico. “Silvio (lo chiamo Silvio e non Papi come gli piacerebbe essere chiamato) mi disse che quella formula – “bunga bunga” – l’aveva copiata da Gheddafi: è un rito del suo harem africano”.

Ruby è stata interrogata un paio di volte a luglio, è però in un interrogatorio in agosto che esplicitamente comincia a raccontare meglio i suoi rapporti con Berlusconi, Fede, Mora e Nicole Minetti. Conviene darle la parola. Sostiene Ruby che poco più di un anno fa – era ancora in Sicilia – conosce il direttore del Tg4. Emilio Fede è il presidente e il protagonista della giuria di un concorso di bellezza. Come già è accaduto nell’autunno del 2008 con Noemi Letizia, il giornalista, 79 anni, è amichevole e affettuoso con Ruby. Si dà da fare per il suo futuro, presentandole Lele Mora. Le dice che Lele l’avrebbe potuta aiutare, se avesse avuto voglia di lavorare nel mondo dello spettacolo. Non è che la minorenne rimugini più di tanto quest’idea che estenua e tormenta quante ragazzine senz’arte né parte. E’ un’opportunità, non vuole perderla. Taglia la corda. Arriva a Milano. Cerca subito Lele.

Per cominciare, Mora la indirizza in un disco-bar etnico, ospitato in un sotterraneo sulla via per Linate. Ruby è una cubista. Dice: niente di trascendentale, anzi, la cosa più eccentrica che faccio è la danza del ventre, che ho imparato da mia madre. Dal quel cubo colorato, Milano è ancora più magnifica e scintillante. Manca tanto così alla trasformazione di Ruby R.. Ancora uno o due passi e la sua vita può farsi concretamente fortunatissima, soprattutto se c’è di mezzo il frenetico attivismo di Emilio Fede.

E’ il 14 febbraio, giorno di San Valentino. Ruby ha 17 anni e novantacinque giorni. Arriva a Milano dalla povertà e dalle minestre della comunità. In quel giorno, dedicato agli innamorati, entra ad Arcore, a Villa San Martino: è un bel colpaccio, per chi a tutti gli effetti può essere definita una “scappata di casa”. La minorenne la racconta, più o meno, così: mi chiama Emilio e, dice, ti porto fuori. Non so dove, non mi dice con chi o da chi. Passa a prendermi con un auto blu. Salgo, filiamo via scortati da un gazzella dei carabinieri verso Arcore. Non entriamo dal cancello principale, dove c’erano altri carabinieri, ma da un varco laterale. Vengo presentata a Silvio. E’ molto cortese. Ci sono una ventina di ragazze e – uomini – soltanto loro due, Silvio ed Emilio.
(Ruby fa i nomi delle ospiti. C’è intero il catalogo del mondo femminile di Silvio Berlusconi: conduttrici televisive celebri o meno note, star in ascesa, qualcuna celeberrima, starlet in declino, qualche velina, più di una escort, due ministre, ragazze single e ragazze in apparenza fidanzatissime, e Repubblica non intende dar conto dei nomi).

A Ruby quel mondo da favola resta impresso, anche per un piccolo dettaglio davvero degno di Cenerentola. Cenammo, ricorda, ma non rimasi a dormire. Dopo cena, andai via. Alle due e mezza ero già a casa. Con un abito bianco e nero di Valentino, con cristalli Swarovski, me l’aveva regalato Silvio. La seconda volta, continua il racconto di Ruby, vado ad Arcore il mese successivo. Andai con una limousine sino a Milano due, da Emilio Fede, e da lì, con un’Audi, raggiungemmo Villa San Martino. Silvio mi dice subito che gli sarebbe piaciuto se fossi rimasta lì per la notte. Lele mi aveva anticipato che me lo avrebbe chiesto. Mi aveva anche rassicurato: non ti preoccupare, non avrai avance sessuali, nessuno ti metterà in imbarazzo. E così fu. Cenammo e dopo partecipai per la prima volta al “bunga bunga”. (Questo “gioco”, onomatopeico e al di là del senso del grottesco, viene descritto da Ruby agli esterrefatti pubblici ministeri milanesi con molta vivezza, addirittura con troppa concreta vivezza. Si diffonde nelle modalità del sexy e maschilista cerimoniale che è stato raccontato da Mu’ammar Gheddafi e importato tra le risate ad Arcore. Ruby indica che cosa si faceva e chi lo faceva – un lungo elenco di nomi celebrati e popolari, in televisione o in Parlamento).

Io, continua Ruby, ero la sola vestita. Guardavo mentre servivo da bere (un Sanbitter) a Silvio, l’unico uomo. Dopo, tutte fecero il bagno nella piscina coperta, io indossai pantaloncino e top bianchi che Silvio mi cercò, e mi immersi nella vasca dell’idromassaggio. La terza volta che andai ad Arcore fu per una cena, una cosa molto ma molto più tranquilla. Quando arrivai Silvio mi disse che mi avrebbe presentata come la nipote di Mubarak. A tavola c’erano – sostiene – Daniela Santanché, George Clooney, Elisabetta Canalis.

Dice il vero, Ruby? O mente? E’ il rovello degli investigatori. Che hanno un quadro appena abbozzato sotto gli occhi: giovani donne, che Ruby definisce escort, sono contattate dal trio Lele, Emilio e Nicole per partecipare alle feste di Villa San Martino, dove qualche volta i party si concludono con riti sessuali che sono adeguatamente ricompensati dal capo del governo, con denaro contante o gioielli. Quanto è credibile il racconto di Ruby? Per venirne a capo, l’inchiesta deve innanzitutto dimostrare che la minorenne abbia davvero conosciuto Silvio Berlusconi e sia stata davvero ad Arcore. Ruby offre quel che le appaiono incontrovertibili conferme.
Mostra i gioielli avuti in regalo da Silvio Berlusconi: croci d’oro, collane, orecchini, orologi e orologi con brillanti (Rolex, Bulgari, Dolce&Gabbana, ma anche altri dozzinali con la scritta “Meno male che Silvio c’è” o con lo stemma del Milan), haute couture, un’auto tedesca. Ruby sostiene di aver ricevuto dal capo del governo più di 150mila euro (in contanti e in tre mesi) e soprattutto una promessa: Silvio assicurò che mi avrebbe comprato un centro benessere e mi invitò a dire in giro che ero la nipote di Mubarak. Così avrei potuto giustificare le risorse che non mi avrebbe fatto mancare.

Non c’è dubbio che ci sia un’incongruenza: nonostante la leggendaria generosità di Berlusconi, tanto denaro contante, tanti gioielli e promesse appaiono sproporzionati all’impegno di tre soli incontri. Ma qualche riscontro diretto alle parole di Ruby é stato afferrato. Il suo telefonino cellulare il 14 febbraio è “posizionato” nella “cella satellitare” di Arcore. Un paio di gioielli in suo possesso – è vero anche questo – sono stati acquistati da Silvio Berlusconi. Le indagini hanno accertato anche quanto rasentava l’incredibile: e cioè che le giovani donne ospiti di Villa San Martino, come alcuni degli indagati, usano, nei loro colloqui, l’espressione gergale e arcoriana del “bunga bunga”.

Sono conferme ancora insufficienti? Il capo del governo e gli indagati sono a conoscenza dell’indagine fin da quella prima notte di maggio in questura e la monitorano passo passo. Il premier, descritto molto inquieto, ha affidato a Nicolò Ghedini la controffensiva. Da settimane accade questo. Una segretaria di Palazzo Chigi convoca le giovani ospiti del premier in un importante studio legale di via Visconti di Modrone per affrontare, con Ghedini, la questione delle “serate del presidente”. Le ospiti di Villa San Martino non si sorprendono dell’invito, prendono nota con diligenza dell’ora e dell’indirizzo. Sono indagini difensive che, come è accaduto in altre occasioni – per il caso d’Addario, ad esempio – vorranno dimostrare che Silvio Berlusconi non ha nulla di cui vergognarsi; che quelle serate non hanno nulla di indecente o peccaminoso; che quella ragazza, la Ruby, è soltanto una matta o, forse peggio, una malandrina che sta ricattando il premier, magari delusa nel suo avido sogno di facile ricchezza.

Nonostante la sua contraddittoria provvisorietà, questa storia non ha solo a che fare con l’inchiesta giudiziaria, forse già compromessa da un’accorta fuga di notizie. Sembra più importante osservare ciò che si scorge di politicamente interessante: Berlusconi c’è “ricascato”. E qui incrociamo una questione che non ha nulla a che fare con il giudizio morale (ognuno avrà il suo), ma con la responsabilità politica. Dopo la festa di Casoria e le rivelazioni degli incontri con Noemi Letizia allora minorenne, dopo la scoperta della cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento, come Patrizia D’Addario, questo nuovo progressivo disvelamento della vita disordinata del premier, e della sua fragilità privata, ripropone la debolezza del Cavaliere. Il tema interpella, oggi come ieri, la credibilità delle istituzioni. Il capo del governo è ritornato a uno stile di vita che rende vulnerabile la sua funzione pubblica. Le sue ossessioni personali possono esporlo a pressioni incontrollabili.

Qualsiasi ragazzina o giovane donna che ha frequentato i suoi palazzi e ville e osservato le sue abitudini può, se scontenta, aggredirlo con ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere. Dove finiscono o dove possono finire le informazioni e magari le registrazioni e le immagini in loro possesso (Ruby racconta che spesso “le ragazze” fotografavano con i telefonini gli interni di Villa San Martino)? Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente il capo del nostro governo? È responsabile esporre il presidente del Consiglio italiano in situazioni così vulnerabili e pericolose per la sicurezza dell’istituzione che rappresenta? (Beh, buona giornata).

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Basta con gli sprechi della sanità pubblica: per un pugno sul muso si chiama un’ambulanza, si richiede un ricovero in un ospedale, si occupa un letto al pronto soccorso, si distolgono medici e infermieri per 60 minuti di ricovero.

Daniele Capezzone, portavoce nazionale del Pdl, è stato aggredito a pochi metri dalla sede di via dell’Umiltà da uno sconosciuto, che gli ha sferrato un pugno al viso e poi si è dileguato.

Lo riferisce Gregorio Fontana, deputato del Popolo della libertà tra i primi a soccorrere il collega insieme al coordinatore nazionale, Denis Verdini.

Capezzone è stato portato subito con l’ambulanza all’ospedale Santo Spirito, dove è stato dimesso circa un’ora dopo, conclusi tutti i controlli necessari. Raggiunto telefonicamente, dal portavoce del partito poche parole: “Sono stato aggredito, mi hanno dato un pugno…”.

Un pugno sul muso non è un bel gesto. A Capezzone, che ha preso un cazzottone tutta la comprensione.

Però, se il cerotto se lo fosse andato a comprare in farmacia, magari i soldini glieli prestava Verdini, non avremo sprecato il danaro pubblico dell’ambulanza, del ricovero e della degenza in un ospedale pubblico.

Magari c’era qualcuno che aveva più bisogno di lui di urgenti cure mediche. Magari, c’era qualcuno meno famoso, ma più bisognoso di urgenti attenzioni mass madiatiche. Beh, buona giornata.

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Lavoratori di tutto il mondo, unitevi per dire al vostro capo che non capisce un cazzo.

fonte: ilmessaggero.it
«Lei non capisce un c…». Dirlo al datore di lavoro si può. Almeno secondo una sentenza emessa dal giudice di Pace del Tribunale di Frosinone che si è appellato al «gergo comune» sdoganando quella che potrebbe essere considerata una frase ingiuriosa. E così infatti l’aveva interpretata il titolare di un’agenzia di sicurezza privata che durante un’animata discussione con un suo dipendente si ritrovo investito da un «Lei non capisce un c…» dove l’incipit della frase, un forbito Lei, strideva con la parola finale, dal significato diretto. Troppo diretto tanto che il titolare denunciò il suo dipendente per ingiurie. In primo grado arrivò la condanna ma il legale del dipendente, l’avvocato Nicola Ottaviani del foro di Frosinone, si appellò e ci fu l’annullamento per un vizio procedurale.

Il processo fu rimesso così al giudice di pace. Non solo ma la difesa ha argomentato che quella frase, seppur colorita, non può più essere considerata reato perchè «rientra nel gergo comune». E per avvalorare l’ipotesi difensiva l’avvocato si è appellato all’orientamento di circa due anni fa della Corte di Cassazione su un «vaffa….» considerato non più reato. Così ieri il giudice di Pace del Tribunale di Frosinone ha riconosciuto quella frase non ingiuriosa. (Beh, buona giornata).

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Fenomeni paraculi: se è tutto regolare, Berlusconi spieghi perché il suo avvocato Ghedini si è preoccupato per una trasmissione tv sulle sue proprietà immobiliari nell’Isola di Antigua.

Berlusconi, “Operazione Antigua”-Le ville e quegli affari off-shore-Milano, Lugano, Caraibi: triangolo da 20 milioni, passati attraverso la Banca Arner. Ignorate le norme antiriciclaggio: L’istituto di credito svizzero è al centro di un’inchiesta delle procure di MIlano e Palermo, di WALTER GALBIATI-repubblica.it

È il 20 settembre 2007 quando al Land register di Saint John, la capitale di Antigua, si presenta il signor Silvio Berlusconi. Con una riga il funzionario di turno cancella dal registro la società Flat Point e trasferisce la proprietà di un terreno di poco più di quattro acri all’illustre cittadino italiano. L’appezzamento si trova dalla parte opposta dell’isola. È una porzione di collina che scende fino al mare dove si apre una spiaggia di sabbia bianca, finissima. Gli abitanti di Willikies, un paesino che sorge lì vicino, la chiamano Pastrum, perché lì portavano a pascolare i loro animali. Non ne mancano nemmeno di selvatici, soprattutto scimmie. Da almeno quindici anni quei posti sono recintati. “È da molto tempo che questa costa è al centro di un progetto immobiliare, ma i lavori sono iniziati solo negli ultimi anni” spiega Hugenes, un pescatore del luogo. La baia si chiama Nonsuch Bay e va da un lembo di terra che quasi tocca la vicina Green Island, un paradiso meta delle gite dei turisti, a Flat Point, una punta piatta coperta da vegetazione caraibica. E Flat Point Devolopment Limited si chiama la società che si è presa in carico i terreni con l’obiettivo di sviluppare un imponente progetto turistico. Qui sorgerà, e in parte è già nato, l’Emerald Cove, un resort che nel nome riecheggia la nostra Costa Smeralda, il tratto di Sardegna, patria dei vip, e disegnata in gran parte dall’architetto Gianni Gamondi, l’architetto di Villa Certosa, la residenza sarda di Silvio Berlusconi, lo stesso architetto che curerà lo sviluppo per Flat Point.

Qualche tempo fa, era stato il gruppo Maltauro, una famiglia di costruttori vicentini a mettere gli occhi su Nonsuch Bay, ma non se ne fece mai nulla. Poi improvvisamente è arrivata la Flat Point, nel 2005 la macchina si è messa in moto, le pratiche si sono sbloccate e le case sono iniziate a crescere come funghi, una dietro l’altra, l’obiettivo è arrivare ad averne un centinaio. I reali beneficiari economici, tuttavia, si celano dietro una ragnatela di società schermate, una cortina offshore, che forse qui nel paradiso fiscale di Antigua non appare certo tanto esotica, ma che diventa tale in Italia, dove la società raccoglie la maggior parte dei suoi capitali. La sede della Flat Point è al 26 di Cross Street a St. John, il capitale è interamente controllato dalla Emerald Cove Engineering Nv, una società di Curacao (nelle Antille Olandesi, poste poco più a Nord di Antigua), a sua volta controllata dalla Kappomar sempre di Curacao. L’amministratore della Flat Point è Giuseppe Cappanera, mentre i fiduciari delle holding sono Carlo Postizzi, Giuseppe Poggioli e Flavio De Paulis. I primi sono rispettivamente un avvocato e un fiduciario che si muovono tra la Svizzera e l’Italia, mentre il terzo è un dipendente di Banca Arner. Di chi facciano gli interessi è un mistero, ma il coinvolgimento della banca elvetica, già commissariata e al centro di un inchiesta per riciclaggio delle procure di Milano e Palermo, getta qualche spiraglio di luce almeno su chi abbia convogliato del gran denaro verso la Flat Point.

Dal bilancio 2005 della società, emerge che Banca Arner ha finanziato per 6 milioni di dollari caraibici (circa 1,6 milioni di euro al cambio attuale) l’operazione sulla costa di Nonsuch Bay, ma il principale sponsor della scatola offshore sembra essere, come ricostruito da Banca d’Italia, il premier Silvio Berlusconi, da sempre legato a Banca Arner, non solo attraverso uno dei suoi storici fondatori Paolo Del Bue, ma anche per i suoi depositi nella sede di Corso Venezia a Milano: il conto numero uno è suo, mentre altri fanno capo alle holding della sua famiglia (per un totale di 50 milioni di euro) o a uomini del suo entourage.
Dai conti personali di Berlusconi accesi presso Banca Intesa e Monte dei Paschi di Siena sono partiti ingenti bonifici verso un conto di Flat Point aperto proprio presso la sede milanese di Banca Arner, la quale a sua volta ha girato gli stessi corrispettivi alla sede di Lugano. Oltre 1,7 milioni nel 2005, altri 300mila nel 2006, ma è nel 2007, l’anno in cui avviene il passaggio di proprietà del terreno di Nonsuch Bay che i movimenti di denaro salgono alle stelle. In tutto oltre 13 milioni di euro: a ridosso del 20 settembre, la data dell’atto del Land register, esattamente il 10 di quel mese, passano da Milano a Lugano 1,7 milioni di euro e un mese dopo altri 3,6 milioni. Nel 2008 ancora più di 6 milioni prendono il volo per la Svizzera. Un mare di soldi che si muovono, però, senza una corrispondenza tra le somme scritte nei contratti ufficiali depositati dalla Flat Point in banca e i bonifici. Gli importi appaiono molto elevati rispetto a quanto vi è di ufficiale. Nel bilancio della Flat Point i 29 acri di terreno su cui sorge lo sviluppo immobiliare sono stati iscritti per un valore di 2,7 milioni di dollari caraibici (poco più di 700mila euro), così come attestato dalla perizia del 2004 di Oliver F. G. Davis, un esperto immobiliare. Molto meno di quanto versato dai conti del premier. Berlusconi da solo muove oltre 20 milioni di euro e dai registri risulta aver acquistato solo 4 acri di terreno.

Rimane ambiguo anche il motivo per cui l’istituto elvetico abbia fatto passare quei soldi da Milano a Lugano senza bollare come sospetto il traffico di valuta. La normativa antiriciclaggio di Banca di Italia impone di segnalare i movimenti di denaro verso l’estero, soprattutto verso i Paesi offshore come la Svizzera, ma Banca Arner non se ne è mai curata. Di certo, però, ad Antigua i soldi in qualche modo devono essere arrivati, visto che le ville ci sono. Quella di Silvio Berlusconi spunta in cima alla collina, i pescatori la chiamano “il Castello” per la sua imponenza e per come domina dall’alto la zona. A fianco si trova quella di Andrij Shevchenko, l’ex calciatore del Milan e pupillo del premier. Poco più in là sorge quella di Lester Bird, l’ex primo ministro di Antigua, in carica fino al 2004, citato l’anno successivo in una causa legale per aver svenduto dei terreni dello Stato a dei gruppi privati. Al suo successore, Baldwin Spencer, Berlusconi aveva promesso di impegnarsi personalmente per aiutare la piccola isola caraibica a ridurre il debito internazionale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

Fenomeni paranormali: l’avvocato di Berlusconi protesta per una trasmissione televisiva non ancora andata in onda.

Niccolò Ghedini, deputato Pdl e legale del premier Berlusconi definisce “insussistenti e diffamatorie” le notizie su cui è costruita la puntata in un programma televisivo sull’acquisto di immobili ad Antigua da parte del presidente del Consiglio, Berlusconi. Il programma tv si chiama Report, diretto da Milena Gabbanelli. Il fenomeno paranormale è che la trasmissione televisiva non è ancora andata in onda.

Due domande: come fa il Ghedini a sapere di cosa si parla in un programma non ancora andato in onda? C’è un intelligence che fa vedere a lui, prima della messa in onda i programmi televisivi “sensibili” per la reputazione del suo cliente (Berlusconi Silvio)? Beh, buona giornata.

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democrazia Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La manifestazione della Fiom: da piazza San Giovanni verso lo sciopero generale, per un’Italia migliore di come la tv vorrebbe ancora rappresentarla.

La politica è una pagliacciata, ma l’Italia no. La personalizzazione della politica ha condotto diritti dentro la sua spettacolarizzazione. Così ridotta, la politica italiana va in scena ogni giorno, a grande richiesta dei palinsesti televisivi. E’ assolutamente farsesco che più i partiti sono scollati dalla realtà sociale del Paese, più si moltiplicano i talk show del cosiddetto approfondimento politico. C’è per tutti i gusti, spesso privi del buon gusto.

Ilva Diamanti scriveva giorni fa su Repubblica a proposito della tv dell’ansia, nella quale si fanno processi sommari in un salotto televisivo, si emettono sentenze in diretta, si dà la caccia ai colpevoli, comodamente seduti sulla poltrona di casa, col telecomando in mano: è successo col delitto di Cogne, fino a quello della povera Sarah. E’ sotto gli occhi di tutti, però che questo modo frettoloso e ciarliero di affrontare i problemi politici, economici e sociali, avendo come pulpito uno studio televisivo, non ha affatto portato bene al Paese.

La tele predicazione ha spostato consensi elettorali verso proposte spesso aberranti: xenofobia, sessismo, intolleranza, un ritorno dura al classismo hanno contrassegnato il dibattito politico dei nostri talk show. Col risultato, non solo di avvelenare i pozzi della coscienza collettiva, ma di fare del politicamente scorretto la misura del talento degli invitati. Colpi bassi, palesi falsificazioni, sicumera, continue provocazioni verbali sono gli ingrediente dei programmi tv.

I clown della politica italiana devono stupire, invece che convincere. Devono altercare, invece che ragionare. Devono insultare, invece che dialogare. E’ un cattivo costume indotto dalla personalizzazione fattasi spettacolarizzazione? Non solo. E’ una tecnica: ti concedo l’arena su cui sbranare l’avversario perché così tiro su l’audience. Contemporaneamente, ti concedo senza remore notorietà personale, utile per essere candidati, non solo in Parlamento, ma anche a qualche gustosa carica pubblica. Ecco allora che il confronto democratico fra schieramenti, la battaglie delle idee diventano un mero artificio spettacolare, per influire sui dati di ascolto, ma anche sui sondaggi di opinione.

E i problemi irrisolti del Paese? Quelli, come le stelle, stanno a guardare. E’ invalsa nel Paese la sensazione di un diffuso disimpegno da parte della stragrande maggioranza dei cittadini della Repubblica. Diciamo subito che questo è falso.

Dai pastori sardi, agli operai di Pomigliano, dagli studenti ai precari, dagli uomini e le donne del mondo della cultura e dello spettacolo, dai lavoratori stranieri e dei loro figli alle piccole imprese strangolate dalla crisi economica l’Italia vera c’è e si fa sentire: protesta, propone, immagina un Paese diverso da quello farsesco, che va in replica tutte le sere su tutte le tv. Il mainstream fatica a tenere fuori queste migliaia di persone impegnate nella difesa dei loro diritti. Ogni tanto le telecamere si occupano del Paese reale, e quei servizi vengono poi annegati di chiacchiere e interruzioni pubblicitarie. Forse succederà anche oggi, 16 per la manifestazione a favore della Fiom. Ciò che è importante, però, è che l’Italia migliore dei clown che vorrebbero rappresentarla c’è e si fa sentire, alla faccia dei palinsesti televisivi. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia Lavoro

“L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici.”

Oggi accadrà, di Maurizio Landini*-il manifesto

Quella di oggi sarà una grandissima giornata di lotta in difesa della democrazia, del contratto, dei diritti delle persone e del lavoro.
Abbiamo indetto questa manifestazione dopo l’accordo separato alla Fiat di Pomigliano, aprendo anche un dialogo con chi pensa che il nostro paese abbia bisogno di un cambiamento, che il lavoro deve tornare a essere un elemento centrale, che quello firmato a Pomigliano non può essere il modello, che il contratto nazionale va difeso per tutti e che far votare e decidere le persone è la condizione per ricostruire l’unità.

Con il ricatto che la Fiat ha voluto imporre a Pomigliano (se vuoi lavorare devi rinunciare alla dignità e ai diritti) è partito un attacco ai diritti del lavoro che non ha paragoni per gravità nella storia della nostra Repubblica. Non a caso la Confindustria ha chiesto di estenderlo a tutto il mondo del lavoro. Il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, la stessa Costituzione sono in discussione. Il recente accordo separato che prevede si possa derogare al contratto nazionale sempre, perché le deroghe possono essere attuate sia quando l’azienda è in crisi che quando investe per competere sui mercati, porta alla cancellazione del contratto nazionale, alla «guerra» tra imprese e quindi alla contrapposizione tra lavoratori. Questa scelta porta con sé l’idea che di fronte alla globalizzazione non c’è diritto che tenga e che lo sfruttamento e l’impoverimento ne siano conseguenze inevitabili. Un disegno supportato dalle modifiche alle leggi sul lavoro che il governo sta attuando (dall’arbitrato allo statuto dei lavori) alle vicende sui precari della scuola, dal blocco delle elezioni delle Rsu al contratto separato del pubblico impiego.

Quando noi diciamo che «il lavoro è un bene comune» intendiamo dire che il lavoro deve tornare a essere interesse generale di questo paese per dare una prospettiva ai giovani, alle donne, al fatto che non si può essere precari sempre e che la sicurezza del proprio lavoro e del proprio futuro serve anche a far funzionare meglio le imprese. Vuol anche dire porsi il problema di un diverso modello di sviluppo, che guardi alla qualità e all’innovazione dei prodotti e dei processi, alla valorizzazione del lavoro e alla sostenibilità ambientale e sociale.

Quella di oggi è anche una manifestazione per la legalità. L’estensione del sistema criminale in economia non ha precedenti e non riguarda solo il Sud, ma l’intero paese. In particolare, la frantumazione del processo lavorativo e il sistema di appalti e subappalti – purtroppo diventato la regola – permette sempre più all’illegalità di entrare strutturalmente nel sistema economico. Legalità per noi significa difesa del lavoro, la sua riunificazione e quella del processo produttivo, l’estensione dei diritti, l’applicazione della Costituzione come elementi non solo formali ma come valori che determinano la condizione di un cambiamento. Ed è in questo quadro che la libertà di informazione è elemento irrinunciabile non solo per la Fiom, ma per tutto il paese.

L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici. Non a caso abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare che chiede diventi un diritto il fatto che tutti gli accordi a qualsiasi livello – aziendale, nazionale, interconfederale – per essere validi debbano essere approvati dalla maggioranza delle persone coinvolte. Gli eventi di questi mesi indicano che questo è il tema decisivo per poter ricostruire un’azione unitaria; senza democrazia, cioè senza la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di poter decidere anche quando ci sono punti di vista diversi fra sindacati, non solo si mantiene una divisione, ma fa sì che siano le imprese a decidere di volta in volta con chi fare gli accordi, sulla base delle proprie convenienze.

Oggi siamo in piazza con tutti coloro che condividono e che difendono questi principi e questi valori. Questa grande giornata di lotta non è un punto di arrivo, perché una mobilitazione generale è assolutamente necessaria.
*segretario generale della Fiom
(Beh, buona giornata)

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Attualità democrazia Lavoro Leggi e diritto

Paolo Ferrero: “A questo punto si tratta di cambiare passo”.

La nostra proposta per la sinistra di alternativa
(da Liberazione di giovedì 14 ottobre 2010)

Il colloquio tra Bersani e Vendola dell’altro ieri ha finalmente superato lo scoglio delle primarie che aveva sin’ora reso impossibile il confronto politico. Questo incontro apre la fase della discussione tra le forze che vogliono costruire un accordo di governo. Bersani e Vendola hanno concordato come questa proposta di governo comprenda l’UdC e la proposta di modificare la legge elettorale con una governo di transizione. Adesso si tratta di costruire il fronte democratico che vada a oltre le forze che fanno l’accordo di governo. Abbiamo infatti sempre ritenuto che non vi siano le condizioni per un accordo di governo con le forze del centro sinistra – nella proposta di Bersani e Vendola comprendenti anche il centro – mentre riteniamo necessario dar vita ad una alleanza democratica che abbia l’obiettivo esplicito di sconfiggere Berlusconi, di difendere la costituzione , di mettere in campo essenziali misure di giustizia sociale e di modificare la legge elettorale in senso proporzionale.

A questo punto si tratta di cambiare passo e lavorare alla concretizzazione della nostra ipotesi politica.

In primo luogo la costruzione di una vera opposizione che porti alla caduta del governo Berlusconi. E’ infatti evidente che l’equilibrio instabile che regge questo governo può durare a lungo e produrre altri danni. Ogni giorno che passa questa maggioranza non fa altro che scaricare ulteriormente sulle spalle dei più deboli i costi di una crisi che morde sempre più pesantemente. Basti pensare al Disegno di legge sul lavoro che sostanzialmente introduce il contratto individuale di lavoro per tutti i nuovi assunti. Con questa misura che presto sarà in discussione alla Camera le giovani generazioni non saranno solo inchiodate ad un destino di precarietà ma si troveranno dentro una guerra tra poveri che non ha precedenti nel paese. Costruire l’opposizione, a partire dalla manifestazione del 16 ottobre che non deve essere un momento a se stante ma deve proseguire con la costruzione di iniziative di mobilitazione su tutto i territorio. Per noi la costruzione dell’opposizione è il punto propedeutico alla costruzione del fronte democratico

In secondo luogo il problema della costruzione del progetto e dell’unità della sinistra. A partire dalle prossime settimane si terrà il Congresso della Federazione della Sinistra che rappresenta un passo decisivo per l’aggregazione di una sinistra degna di questo nome, automa dal PD e con un proprio profilo strategico anticapitalista. A partire da questo processo noi lanciamo a tutte le forze di sinistra una sfida: per uscire dalla crisi non basta un movimento ma occorre un programma di alternativa. Noi proponiamo a tutte le forze di sinistra, a partire da quelle che saranno presenti alla manifestazione del 16 ottobre, di definire concordemente la piattaforma con cui avviare il confronto con il PD. Se la crisi è il frutto del neoliberismo, occorre una politica che rovesci questa politica economica: dalla redistribuzione del reddito all’intervento pubblico in direzione della riconversione ambientale dell’economia. Dal no alla guerra al finanziamento dello stato sociale, della scuola, della ricerca e dell’università.
(Beh, buona giornata).

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Attualità

Saluti comunisti.2/

Risposta a Sergio Boccadutri

Caro Sergio, come tu scrivi le rotture portano con sé un carico pesante di emotività. Che tu abbia deciso di lasciare il partito e conseguentemente l’incarico di tesoriere che hai ricoperto negli ultimi anni, non è cosa lieve per questa comunità. Non lo è dal punto di vista delle relazioni umane, che certo vanno comunque preservate. Non lo è rispetto al funzionamento del partito e alla necessità di trovare un sostituto al ruolo che hai ricoperto, con una correttezza che ti riconosciamo tutta. Né lo è per le motivazioni politiche che porti, molto dure.

Come ti ho scritto immediatamente dopo aver ricevuto la lettera, vorrei avere avuto un luogo in cui fosse possibile discutere. Questo è avvenuto per una delle questioni che tu poni ed a cui dai grande rilevanza nella lettera, ma mai, incredibilmente, per nessuna delle altre. Su Liberazione, sulla scelta di operare per il suo rilancio abbiamo avuto un dissenso esplicito, in più riunioni della segreteria. Il tentativo che il giornale sta facendo, ad oggi fruttuosamente – con una risposta assai significativa in termini di abbonamenti, sottoscrizioni, iniziative importanti come quelle degli artisti che hanno donato le loro opere – ci hanno indotto a pensare che delle due strade che sempre esistono per risanare un bilancio, andasse percorsa non quella dei tagli, ma quella di un rinnovato investimento di fiducia. Comunque su questo, si è per l’appunto discusso. Il contrasto di opinioni è stato esplicito, come lo è l’assunzione di responsabilità da parte della segreteria nell’aver scelto questa strada.

Ma sul resto? “La generosità antica di chi condivide un vincolo forte di appartenenza” come scrivi, non avrebbe dovuto comportare la possibilità per questa comunità di persone, per coloro con cui tu hai lavorato a fianco per mesi, di conoscere quello che era il tuo giudizio, la tua critica e il tuo dissenso, per quanto aspro fosse e di poter, di questo, discutere? Si possono dire molte cose di questo partito, ma non sicuramente che non sia un luogo democratico. Fino in fondo. Un luogo con molti limiti, ma in cui tutti possono dire quello che pensano. Un luogo in cui, in virtù esattamente della scelta che abbiamo fatto di “gestione unitaria”, nessuno viene espulso dalla segreteria o estromesso dagli incarichi che ricopre, quale che sia la sua distanza e la sua critica rispetto alla linea di maggioranza. Una cosa non piccola, con i tempi che corrono, pesantemente segnati dalla riduzione plebiscitaria della politica. Un’idea della democrazia faticosa, ma praticata con coerenza.

E da quale documento e da quale affermazione di quale dirigente hai tratto il giudizio che l’obiettivo perseguito sia, “la meccanica autopromozione” del gruppo dirigente, accusato di stare in piedi solo per la “speranza.. di riempire quelle caselle”, cioè come si capisce dalla lettera, di occupare qualche posto in Parlamento? Che ci sia l’obiettivo di riportare il Partito, la Federazione, la sinistra di alternativa in Parlamento è evidente ed esplicito. E certo converrai: non credo di dover argomentare come l’estromissione della sinistra dai massimi livelli istituzionali sia uno dei dati che segnano drammaticamente il quadro politico esistente. Ma da quale dichiarazione o da quale comportamento ti senti autorizzato a trarre il giudizio che esprimi? Alle elezioni europee, che abbiamo affrontato con la speranza di riuscire ad eleggere una rappresentanza istituzionale, il segretario di Rifondazione, sollecitato a candidarsi da moltissime parti, ha rifiutato di farlo, per lavorare a tempo pieno al partito e perché questo era evidentemente incompatibile con la presenza che pure speravamo di conquistare a Bruxelles. Invece si è candidato – scelta discutibile certo- in una situazione difficilissima alle scorse regionali. In Campania, dove l’alleanza con il centrosinistra, che pure abbiamo costruito in molte altre realtà, era impraticabile per il profilo inaccettabile del candidato del PD. In una situazione in cui era quasi impossibile sperare di essere eletti, ma si trattava piuttosto di dare una mano in una condizione difficilissima e evidentemente “testimoniale”. E più di un membro della segreteria ha rifiutato “collocazioni” istituzionali alle scorse regionali. Nuovamente si potranno dire molte cose, ma non che non vi sia una tensione costante ad informare i propri comportamenti ad una etica della politica che è l’opposto del cinismo privatistico della propria autocollocazione.

E perché non ci hai mai dato la possibilità di parlare con te di “politica alta” come la chiami? Non so cosa vuoi dire con questo. Penso si tratti della nostra proposta politica complessiva. Non è così difficile da comprendere. Si compone di tre elementi connessi tra loro. Il primo è la necessità di un’alleanza elettorale larga per poter mandare a casa Berlusconi e difendere la Costituzione, con un accordo su alcuni punti anche sul terreno sociale, ma senza la riproposizione di un accordo organico di governo per cui non vediamo ad oggi le condizioni. Un alleanza in cui sia possibile conquistare anche l’obiettivo di liberare il paese, attraverso una legge elettorale proporzionale, da un maggioritario che in questi anni ha garantito tanto lo strapotere di Berlusconi, quanto la distruzione della sinistra. Il secondo è la necessità di costruire percorsi che uniscano una sinistra autonoma dal PD, sui contenuti e nel vivo delle relazioni sociali, ponendo fine alla lunga stagione delle divisioni. Il terzo nodo è la costruzione di un movimento duraturo: conflitto, progetto e partecipazione, indispensabili per qualsiasi prospettiva di alternativa. Si potrà dire che è difficile. Ma è politica. Per noi è la proposta più giusta e più realistica. Senz’altro più giusta di quella di chi dice che è indifferente se al governo ci sta Berlusconi o il centrosinistra. Ed anche più realistica di chi pensa sia possibile, oggi, un’alleanza organica di governo.

Ci sono cose su cui io credo tu abbia parzialmente ragione. E’ troppo forte la divisione per appartenenze pregresse, che è cosa diversa dalla dialettica sempre legittima tra diverse posizioni politiche. E’ troppo il tempo che consuma, ed il tempo che abbiamo è una risorsa preziosa, da spendere per cambiare il mondo. E la Federazione della Sinistra – che non è solo un cartello elettorale – ha certamente bisogno di usare il prossimo congresso come un’occasione di apertura ai conflitti sociali, alle energie intellettuali e alla passione politica che vive nella nostra società. Si poteva discuterne.

C’è un’ultima cosa che voglio dirti. Forse per il ruolo che svolgo, insieme ai tanti limiti e alle tante inadeguatezze di questo partito, vedo anche altro. Vedo circoli e federazioni che da mesi stanno lavorando per la mobilitazione del 16 ottobre, e lo fanno nei territori, con delegate e delegati, lavoratrici e lavoratori, con cui faticosamente hanno ricostruito una relazione, a partire dalle tante vertenze in difesa dei posti di lavoro. Vedo un partito che si è generosamente speso insieme a tanti altri per raccogliere le firme per i referendum sull’acqua pubblica. O le pratiche straordinarie delle Brigate di Solidarietà di cui tanti nostri compagni e compagne sono parte importante, che sono riuscite ad organizzare a Nardò un campo di solidarietà e autorganizzazione dei lavoratori agricoli migranti, che è un’esperienza unica.

Va tutto bene dunque? No, non va tutto bene. Ma certo tutte/i noi meritavamo un po’ di più che non apprendere, via mail, i tuoi giudizi e le tue scelte.

Con la speranza di incontrarsi nuovamente e il suggerimento che mi sento di darti. Un ruolo, qualsiasi ruolo in un partito politico, certo nel nostro – compreso quello di tesoriere – non è un compito ragionieristico in cui si chieda ad una persona di rinunciare a quello che pensa, di autocensurarsi. L’esercizio faticoso della democrazia è diritto e io credo, anche dovere, di tutte e tutti. Ogni giorno.

Roberta Fantozzi
(Beh, buona giornata)

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Attualità

Saluti comunisti.1/

12 ottobre 2010

Al segretario nazionale del Prc
Alla segreteria nazionale del Prc
Ai compagni e alle compagne del Comitato politico nazionale del Prc
Ai compagni e alle compagne della Direzione nazionale del Prc

Ai compagni e alle compagne di Rifondazione comunista

e p. c.
Alle lavoratrici e ai lavoratori di Liberazione

Care compagne e cari compagni,

ho deciso di lasciare il nostro partito e quindi di conseguenza rassegno le dimissioni da tesoriere del Partito della Rifondazione comunista.

Sento il dovere di comunicarvelo per rispetto del nostro Partito, nel quale sono cresciuto, umanamente prima ancora che politicamente, moltissimo. Nel corso di questi anni ho sempre sentito le responsabilità che mi avete affidato come un impegno etico e politico verso l’organizzazione che, insieme a tante altre e altri, abbiamo generosamente provato a costruire. Per me è sempre stato un onore poter essere utile al partito che, ancora diciottenne, scelsi per la mia militanza politica. Nel corso degli anni ho dato tutto me stesso per corrispondere alla fiducia che mi avevate accordato, in particolare negli anni in cui ho svolto il ruolo di tesoriere del partito. Dopo la sconfitta del 2008 e la conseguente uscita dal Parlamento delle nostre rappresentanze, ho moltiplicato ogni sforzo per far vivere, non solo sopravvivere, la nostra organizzazione autonomamente, come è necessario e giusto che viva un’organizzazione di comuniste e comunisti. Ogni mia scelta, sempre operata di concerto con i gruppi dirigenti, ha avuto come unica finalità quella di rendere più autonoma e forte la voce di Rifondazione comunista. Ho trovato la generosità antica di chi condivide un vincolo forte di appartenenza e, quindi, il mio primo ringraziamento e saluto va a tutte e tutti quelli che lavorano quotidianamente per far funzionare il partito. Un saluto particolare lo riservo a chi, con me, ha condiviso la fatica e lo stress di trovare le risorse umane ed economiche per continuare. Per la pazienza con la quale hanno dovuto sopportare anche i miei ritmi, va a Licia e a Mauro – per me fonti inesuribili di confronto e arricchimento di idee – ad Alessandra e a Alberto – che con pazienza hanno spesso sopportato le mie intemperanze – a Lucia e a Marco dell’amministrazione del giornale che ho purtroppo conosciuto tardi, tutto l’affetto e la riconoscenza per un lavoro che non avrei potuto altrimenti realizzare. C’è un saluto che non posso più fare, quello alla carissima e dolcissima Barbara Giadresco, che fu insostituibile motore del nostro collettivo, forte nella sua fragilità, capace di infondere in tutti noi una fiducia nel futuro che spero mi accompagni tutta la vita.

È proprio il grande legame che ho conservato verso le donne e gli uomini del nostro partito che mi ha fatto scegliere di continuare la militanza pur quando non condividevo alcune scelte del gruppo dirigente. E non ho mai sentito come impedente, né per la mia militanza né per la mia responsabilità di tesoriere, l’avere opinioni anche radicalmente difformi dalla linea maggioritaria legittimamente sostenuta dal segreteria nazionale. Ho, piuttosto, sempre interpretato la delicatezza del mio ruolo come un punto di esposizione forte, sia internamente che esternamente, dal quale non potesse mai venire una propensione partigiana. Ogni volta che effettuavo una scelta, la mia unica preoccupazione è stata quella di garantire il bene del partito, e attraverso questo la garanzia che ogni sua parte, sia stata un territorio o piuttosto un’articolazione politica interna, se ne sentisse garantita. Posso dirvi, in tutta coscienza, che è sempre stato così. Anche, nella delicatissima responsabilità di amministratore unico di Liberazione, tendendo ad un risanamento che tenesse conto delle professionalità presenti nel giornale e del diritto dei lettori a poter avere una fonte di informazione non omologata, nonostante le politiche di taglio di fondi pubblici, liberticide quante altre mai, decise dal governo più antisociale della storia repubblicana del nostro paese.

So di averci messo, da amministratore del partito, il massimo impegno fino all’ultimo giorno, con tutti i miei limiti, provando sempre a dare una risposta ai problemi e alle questioni delle compagne, dei compagni e dei territori. Ho poi scelto di non indugiare oltre nella riflessione e di dare seguito ai miei intendimenti oggi, senza ulteriori rinvii, anche per tutelare il partito, che tra breve avrà un Cpn: la sede statutaria dove potere eleggere il nuovo tesoriere, al quale sin d’ora porto i miei auguri di buon lavoro e per il quale mi rendo disponibile in ogni momento al passaggio di consegne.

E’ l’onestà intellettuale ad impormi le dimissioni. Se infatti non condivido più nulla del partito non posso più continuare a svolgere serenamente il mio ruolo. Specularmene lo stesso vale per il partito che non può consentirsi di far rivestire un ruolo chiave come il mio a chi non sia più convinto della sua utilità politica.

Il deficit di linea politica è dovuto senza dubbio alcuno al frazionismo. Non più soltanto un fenomeno della vita politica del nostro partito, ma addirittura come metodo della sua gestione, “dal centro alla periferia”. Dopo un gran parlare di “gestione unitaria”, dopo l’allargamento della segreteria oltre la maggioranza congressuale di Chianciano, dopo ancora le relazioni e i documenti sul superamento delle aree, ancora il partito non è condotto da una linea unitaria, ma da un delicato quanto nauseante equilibrio interno. E dato che ormai tante compagne e tanti compagni lo sostengono candidamente dietro al triste motto “primum vivere deinde filosofare”, penso che sia davvero la morte (della politica) pensare che è importante “eleggere una truppa di parlamentari e poi si vedrà”, che “l’obiettivo è il 2,1%”, una ben misera prospettiva. E’ forse proprio questa tenue speranza che tiene in piedi quell’equilibrio, forse la speranza che sia il gruppo dirigente a riempire quelle caselle. Non posso che augurare a chi la pensa così buona fortuna, esattamente come la si augura a chi gioca al lotto. Anche se non credo che quel poco di partito che ancora vive – e si affatica – sui territori consentirà la meccanica autopromozione di chi ha grandi responsabilità nell’aver devastato una delle più grandi esperienze politiche della sinistra degli ultimi quindici anni.

Alle compagne e ai compagni convinti che rimanendo nel partito sia possibile fare una battaglia politica e cambiare le cose, rispondo che non ne ho voglia. Per me politica significa battaglia di idee per cambiare la società. Se devo usare le mie energie preferisco farlo per una esperienza politica tesa a modificare qualcosa di più che il gruppo dirigente di un partito smarrito.

Il gruppo dirigente si è dimostrato completamente inadeguato nella gestione del partito. La modalità assunta di concentrare e sottoporre al controllo minuzioso da parte della segreteria nazionale ogni aspetto della vita interna del partito, è soltanto il segno dell’incapacità di fare e proporre iniziativa politica come leva del rafforzamento e della costruzione del partito stesso.
Se ciò produce risultati neutri il più delle volte, con l’unica frustrazione dell’autonomia e della responsabilità di ciascuno verso il proprio incarico, in un caso ha prodotto e produrrà risultati disastrosi che metteranno in gravissima difficoltà – nonostante gli sforzi fatti in questi anni di contenimento assoluto della spesa – il partito stesso. Sto parlando della vicenda Liberazione. Complice anche la Direzione nazionale che non ha voluto guardare i numeri, la gravità è stata nella superbia e nell’approccio così superficiale tenuti in una situazione economica tanto delicata, anzi disastrosa per il partito, a tutti nota dopo la sconfitta del 2008. Se prima si è trattato di un errore, dopo i risultati delle elezioni europee e poi ancora di quelle regionali è stato diabolico perseverare.
Prima tra tutte la responsabilità è del Direttore e poi del Segretario nazionale che lo ha voluto assecondare in tutto e per tutto, quindi anche della segreteria che non ha saputo o voluto intervenire.
Era già evidente alla fine del 2008 – e lo dissi – che non tenere strette le redini del bilancio di Liberazione, avrebbe significato condannare il Partito ad un lento, inesorabile dissanguamento economico. Assistere da tesoriere a questa idiozia è troppo, davvero. Soprattutto quando – in nome della continuità della rifondazione comunista – ci sono oltre 70 dipendenti del partito in cassa integrazione e si tagliano completamente le risorse per l’attività politica sui territori.

La motivazione del disastro economico fu una delle leve contro il precedente direttore e la precedente gestione, ma esattamente oggi come allora si fa ciò che si rimproverava agli altri.

Esattamente, perché farsi vanto di una riduzione della perdita dovuta in grandissima parte al dimezzamento del costo del lavoro per mezzo degli ammortizzatori sociali, è un grave errore di prospettiva. Significa essere miopi. Peggio: ha significato sprecare per due anni l’occasione dello stato di crisi per avviare una profonda modificazione del giornale, per portarlo a dei livelli di compatibilità economica. Ribadire ancora che il generoso sforzo che in questi ultimi mesi hanno compiuto decine e decine di compagni in sostegno al giornale possa risollevare le sorti del giornale è il frutto di una manifesta incompetenza, per carità nella massima buona fede.

Anche la federazione della sinistra, se in un primo tempo aveva l’ambizione di rappresentare un processo verso la riunificazione della sinistra, oggi non è più che un mini cartello elettorale, un involucro protettivo (che però non produce neppure questo effetto per lo scarso interesse che suscita nel paese) che un luogo dove investire energie. Inoltre, la forma della federazione fa inevitabilmente contare di più i gruppi dirigenti delle singole parti che la base e gli iscritti, che mi paiono destinati ad assumere l’ingiusto ruolo di spettatori, in una fase che, al contrario, necessiterebbe la piena partecipazione di tutte e tutti. Divisioni, spaccature sono all’ordine del giorno, alla vigilia di un congresso che si annuncia ancora come un’altra falsa partenza. Il tempo è scaduto e continuare con riposizionamenti e giochetti tattici è dannoso oltre che senza alcun senso, se non quello di garantirsi un piccolo, quanto illusorio, spazio personale.
Mi piacerebbe approfondire qualche argomento di più squisita natura politica, politica “alta”, intendo, cosa che nelle mie vesti ho spesso tralasciato in luogo pubblico per occuparmi con maggiore impegno dei compiti che mi sono stati assegnati, e forse anche per un certo pudore, o per la consapevolezza dei miei limiti. E mi piacerebbe farlo anche in virtù del momento così delicato per tutta la sinistra, dove ogni scelta può determinarne la scomparsa definitiva per un lunghissimo periodo, o la sua incredibile (e forse persino insperata) rinascita.
Ma, come si sarà inteso, io di politica alta, dalle nostre parti, non ne vedo più. Anzi, faccio fatica a volte persino a scorgere la politica terra terra.
Spero sia per mio difetto.

E’ invece impossibile nascondere, a me stesso per primo, l’enorme carico di emotività che ogni rottura porta con sé. Sono riuscito nel tempo a tenere distinto il giudizio politico da quello personale, e non sarà certo adesso che cambierò.
Per questo chiudo queste poche righe come ho cominciato, di nuovo salutando con sincero affetto tutte le compagne e i compagni coi quali ho lavorato fianco a fianco in Direzione nazionale, e quelli che ho incontrato nelle federazioni e nei circoli. A tutte e tutti loro, a partire da quelli di Palermo, con cui ho passato la parte più importante della mia vita politica, rimarrò sempre legato da un affetto che supera le diverse opinioni politiche. E’ tutto questo che soprattutto mi mancherà.

Con la speranza, essendo la politica fatta anche di corsi e ricorsi, di incontrarsi nuovamente.

Fraternamente,

Sergio Boccadutri

(Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro

16 ottobre 2010, manifestazione a sostegno della FIOM: istruzioni per l’uso.

Piazza della Repubblica
CONCENTRAMENTO ALLE ORE 13:30
(Piazzale dei Cinquecento antistante il Museo Nazionale Romano)
Regioni: Abruzzo; Alto Adige; Calabria; Campania; Lazio; Lombardia; Marche; Molise; Sicilia; Trentino;
Umbria.
Le zone per i parcheggi dei pullman delle regioni che si recheranno al concentramento di piazza della
Repubblica (ESEDRA) sono:
ANAGNINA, CINECITTA’, SUBAUGUSTA.
Il percorso del corteo che partirà da Piazza della Repubblica sarà il seguente: Piazza della Repubblica, Via
delle Terme di Diocleziano, Via G. Amendola, Via Cavour, Piazza dell’Esquilino, Via Liberiana, Piazza Santa
Maria Maggiore, Via Merulana, Largo Brancaccio, Viale Manzoni, Viale Emanuele Filiberto per concludere il suo
percorso a Piazza di Porta San Giovanni.
Piazzale dei Partigiani
CONCENTRAMENTO ALLE ORE 13:30
(Piazzale dei Partigiani antistante la stazione Ostiense)
Regioni: Basilicata; Emilia Romagna; Friuli Venezia Giulia; Liguria; Piemonte; Puglia; Sardegna; Toscana;
Valle D’Aosta; Veneto.
Le zone per i parcheggi dei pullman delle regioni che si recheranno al concentramento di Piazzale dei
Partigiani (OSTIENSE) sono nelle adiacenze delle fermate della metro EUR FERMI ed EUR PALASPORT.
Il percorso del corteo che partirà da Piazzale dei Partigiani sarà il seguente: Piazzale dei Partigiani, Piazza
di Porta San Paolo, Via della Piramide Cestia, Viale Aventino, Piazza di Porta Capena, Via di San Gregorio, Via
Celio Vibenna, Via Labicana, Viale Manzoni, Via Merulana, Piazza di Porta San Giovanni.

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Attualità democrazia Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

About 16 ottobre 2010.

SI AI DIRITTI, NO AI RICATTI, IL LAVORO E’ UN BENE COMUNE
La cultura è un punto strategico fondamentale per una società realmente democratica. Da essa dipende la formazione della coscienza critica del cittadino, dunque la sua reale libertà e capacità di incidere nello sviluppo sociale del Paese.
Cultura, bene comune come l’acqua, non privatizzabile, diritto fondamentale come la salute. A tutti va garantito l’accesso alla produzione e alla fruizione della cultura.
Cultura, risorsa economica. E’ ormai riconosciuto il suo valore strategico anche sul piano economico: ogni euro investito in cultura ne restituisce sul territorio da quattro a sette.

Il governo Berlusconi ha tagliato drasticamente i fondi ad essa destinati in funzione di una politica che la considera esclusivamente una merce. Una politica che privatizza il sapere, legando la conoscenza all’impresa e la cultura al mercato. Oggi rischiano di chiudere l’ottanta per cento dei teatri e delle fondazioni lirico-sinfoniche; il cinema vede più che dimezzata la sua produzione; rischiano la chiusura migliaia d’imprese del settore e dell’indotto sparse sul nostro territorio nazionale.

Al contrario di quanto avviene nel resto dell’Europa, i lavoratori italiani della cultura e dello spettacolo non possono contare sul riconoscimento sociale della propria professione. L’assenza di ammortizzatori sociali, il diffuso lavoro nero, la dilagante disoccupazione e sottoccupazione li hanno trasformati in cittadini invisibili. Invisibili ed inutili. Lavoratori privi di ammortizzatori sociali, la cui professione spesso non è neanche riconosciuta come tale.
Un Paese che non tutela la cultura e coloro che vi lavorano è un Paese senza futuro.

In questi ultimi anni il lavoro è stato reso precario, è stato svalorizzato sul piano del salario, attaccato come diritto. Difendere il lavoro vuol dire superare la precarietà, riconquistarlo come diritto fondamentale della vita democratica del nostro paese.
Il lavoro è un bene comune, deve tornare a rivestire un ruolo d’interesse generale. L’attacco subìto dalla cultura in questi ultimi dieci anni ha reso possibile parcellizzare e demonizzare una reale cultura del lavoro.

La manifestazione del 16 Ottobre, ponte ideale con le manifestazioni della scuola dell’8 Ottobre, vuole rilanciare l’idea di un Paese dove sia possibile un diverso modello di sviluppo che ponga al centro i diritti, la cultura, la qualità e l’innovazione della produzione.
Una speranza aperta nel cuore della società:

LAVORO DIRITTI SAPERI CULTURA

ADESIONI

CANIO CALITRI, segretario generale Fiom Lazio – CLAUDIO AMATO, Fiom Lazio – FABIO PALMIERI, Fiom Lazio – ETTORE TORREGIANI, Fiom Lazio

SIMONE AMENDOLA, regista – CARMINE AMOROSO, regista – PIER PAOLO ANDRIANI, sceneggiatore – GIORGIO ARLORIO, sceneggiatore – SILVIA BARALDINI, giornalista – GLAUCO BENIGNI, giornalista Rai e scrittore – MAURO BERARDI, produttore cinematografico – LUCA BIGAZZI, direttore della fotografia – FRANCESCA BLANCATO, operatrice teatrale – BENEDETTA BUCCELLATO, autrice teatrale e attrice – LUCILLA CATANIA, artista – FRANCESCA COMENCINI, regista – MICHELE CONFORTI, regista – ANDREA D’AMBROSIO, regista – GIORDANO DE LUCA, sceneggiatore – CARLA DEL MESE, insegnante e regista – MARCO DENTICI, scenografo – GIOVANNI DI PASQUALE, produttore cinematografico – MARCO FERRI, copywriter – CARLA FRACCI, ballerina – MARCO GAFFINI, artista – BEPPE GAUDINO, regista – VLADIMIRO GIACCHÈ, vicepresidente dell’Associaz. politico-culturale Marx XXI – ANSANO GIANNARELLI, regista – ROBERTO GIANNARELLI, regista – GABRIELE GIUSTINIANI, ricercatore Università di Roma La Sapienza – VALERIA GOLINO, attrice – ROBERTO GRAMICCIA, scrittore – MARCELLO GRASSI, già docente Università di Roma La Sapienza – GIOVANNI GRECO, compagnia “La Differenza” – SABINA GUZZANTI, regista e attrice – RANIERO LA VALLE, giornalista – MARIA LENTI, scrittrice – GIANCARLO LIMONI, artista – ANTONIO LOMBARDI, artista – MARICETTA LOMBARDO, fonico – ADELE LOTITO, artista – FABIOMASSIMO LOZZI, regista – MARIO LUNETTA, scrittore – SILVIA LUZZI, attrice di prosa – SALVATORE MAIRA, regista – LUCIO MANISCO, giornalista – CITTO MASELLI, regista – GERARDO MASTRODOMENICO, attore – BRUNO MELAPPIONI, scenografo e pittore – ALESSIO MELCHIORRE RICCI, musicista (Après La Classe) – BEPPE MENEGATTI, regista teatrale – PAOLO MODUGNO, regista – MARIO MONICELLI, regista – CARMELA MORABITO, docente Università di Roma Tor Vergata – ROBERTO MOREA, scenografo – RAUL MORDENTI, docente Università di Roma Tor Vergata – FRANCO MULAS, artista – LAURA MUSCARDIN, regista – DIEGO OLIVARES, regista – CLAUDIO PALMIERI, artista – CLAUDIA PEIL, artista – ROBERTO PERPIGNANI, montatore – ULDERICO PESCE, autore, regista e attore teatrale – GIANFRANCO PICCIOLI, produttore cinematografico – PAOLO PIETRANGELI, regista e cantautore – FLORIANA PINTO, regista – VALERIO PISANO, artista – ROSALIA POLIZZI, regista – PASQUALE POZZESSERE, regista – MARCO POZZI, regista – GIUSEPPE PRESTIPINO, già docente Università di Siena – MARCO PUCCIONI, regista – ANDREA PURGATORI, giornalista e sceneggiatore – FAUSTO RAZZI, compositore – CLOTI RICCIARDI, artista – GIANLUCA RIGGI, autore teatrale e direttore artistico teatro Furio Camillo – RENZO ROSSELLINI, produttore cinematografico – ALESSANDRO ROSSETTI, sceneggiatore – NINO RUSSO, regista – BARBARA SALVUCCI, artista – ANTONIA SANI, Associazione per la scuola della Repubblica – MASSIMO SANI, regista – PASQUALE SCIMECA, regista – SILVIA SCOLA, sceneggiatrice e autrice teatrale – ETTORE SCOLA, regista – CLARA SERENI, scrittrice – GIANNI SERRA, regista – STEFANO TASSINARI, scrittore – BRUNO TORRI, critico cinematografico – ALESSANDRO TRIONFETTI, poeta – STEFANIA TUZI, ricercatore Università di Roma La Sapienza – BARBARA VALMORIN, attrice – DAVIDE VITERBO, musicista (Radiodervish) – DOMENICO ZIPARO, musicista (Il Parto delle Nuvole Pesanti) – VITTORIO VIVIANI, attore

ANAC – ASSOCIAZIONE NAZIONALE AUTORI CINEMATOGRAFICI
A.p.T.I. – ASSOCIAZIONE PER IL TEATRO ITALIANO
COMITATO DEI CITTADINI DEL TEATRO DEL LIDO DI OSTIA
FIDAC – FEDERAZIONE ITALIANA DELLE ASSOCIAZIONI CINEAUDIOVISIVE

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Attualità Società e costume

Questa è la storia solitaria dell’uomo che morì sette anni fa.

L’incredibile storia di Dante Nencioni, morto e dimenticato in casa per 7 anni
Nessuno ha mai suonato alla porta del pensionato, stroncato da un malore e rimasto cadavere nella sua villa di Frascati- di Marida Lombardo Pijola-ilmessaggero.it

Questa è la storia di un uomo senza storia. Un uomo rimosso dalla memoria di ogni consimile incrociato negli otto decenni in cui ha vissuto. Un uomo che non ha lasciato traccia negli affetti e nei ricordi di nessuno. Che si è lasciato alle spalle solo morti, o abbandoni, o indifferenza, o rancori, o labilità della memoria, o sciatterie dell’attenzione degli esseri umani verso gli altri esseri umani.

Nessuno può dire può dire come sia andata davvero, la vita di Dante Nencioni, in questa storia che va oltre la solitudine e l’indifferenza, in un non-luogo dove una vita può evaporare in una bolla vuota, eludere la memoria e i sentimenti, precipitare nel buco del nulla. Infatti non era nulla per nessuno, quel pensionato fiorentino, vissuto a Frascati per vent’anni, morto da solo a ottant’anni -presumibilmente nel 2003, per cause ignote – e rimasto per i successivi sette a deperire, come una cosa oltraggiata dall’umidità dell’altrui smemoratezza, sul pavimento del bagno di una villa isolata nella zona più prestigiosa di Frascati, che il tempo ha trasformato in un ossario.

Nessun parente. Soltanto due nipoti acquisiti, di Firenze, che appena si ricordano di lui. Due decenni a Frascati, eppure nessuno sa niente di lui. Un fantasma. Solo un’immagine sfocata nella memoria lunga di un paio di anziani che abbiamo rintracciato. «Massì, ”l’ingegnere”, simpatico, la renna e il cashemirino, la station wagon, distinto, capelli tinti, denti rifatti con gli impianti, molti soldi, parlava di aprire un Bingo a Roma, di andare a vivere in un residence». «Diceva, mi pare, di una figlia lontana con cui aveva litigato, e di una moglie divorziata e poi morta. Scendeva in piazza ogni tanto a prendere il caffè».

Eppure nessuno lo ha cercato, nessuno ha chiesto o si è mai chiesto di lui. Nessuno ha mai bussato per avere sue notizie al cancello di via Enrico Fermi 34, alto, massiccio, dissuasivo, così da inibire ogni sbirciata. Quattrocento metri quadri immersi in un giardino tutto arruffato dalle erbacce. Il tempo ha consegnato quegli ambienti, un tempo eleganti e rifiniti, all’avidità di una muffa implacabile, che si è accanita come un predatore su quella casa, su quel corpo, su quella morte, come, in precedenza, doveva aver divorato quella vita.

Perciò questa è una storia che si svolge in una terra di mezzo, dove la vita di un anziano può consumarsi in un silenzio irreparabile e perfetto come la morte, e può sfibrarsi come gli asciugamani ridotti a fili penduli che hanno vigilato sul corpo di Dante Nencioni come sinistre sentinelle funerarie. E chi lo sa se ha misurato l’entità diabolica del vuoto, Dante, già impiegato all’Agenzia delle Entrate di Roma, divorziato dal ’95, per l’anagrafe senza figli, mentre si accasciava sul pavimento del suo bagno, forse già privo di vita, o forse soltanto intrappolato in un malore che non avrebbe avuto alcun soccorso e alcun conforto. Sarebbe rimasto lì per altri anni, se l’acqua sputata dai tubi sgangherati dei suoi impianti non avesse indotto qualcuno ad avvertire i vigili urbani.

Nessuno di coloro che sono entrati in quella casa potrà dimenticare mai quello che ha visto. L’impatto con qualcosa di ancora più sinistro della devastazione che il degrado aveva minuziosamente prodotto sui mobili antichi di valore, le boiseries, i dipinti, le porcellane preziose, il buddha dorato quasi a grandezza naturale, il laboratorio con gli attrezzi da bricolage per lavorare il ferro e il legno, disposti in meticolosa simmetria. C’era qualcosa, in quell’abitazione, di ancora più inquietante delle ossa abbandonate tra la doccia e il lavandino come un mucchietto di rifiuti. Quell’ordine irreale, quei documenti archiviati e conservati nei faldoni con la pignoleria di un notaio, quei libri, corsi d’inglese ed enciclopedie, disposti in fila perfetta sugli scaffali. E in giro nessuna foto. E nella posta nessuna lettera, nessuna cartolina, nulla che non fosse un rendiconto, una bolletta, una pubblicità. E quella penna a sfera, quegli occhiali, quell’orologio d’acciaio sistemati in fila perfetta sul tavolino davanti al caminetto, accanto ad una copia chiusa di ”Porta Portese”. E quelle armi, regolarmente detenute, custodite con cura in una cassapanca. E quell’Alfa, protetta con devozione dai teli nel garage. E quel vuoto. E quella sensazione di asfissia.

Visitando quella casa il capitano dei carabinieri Marcello Sermoneta si è lasciato rinfrancare dal sollievo ripensando ai suoi cento metri quadri caotici, affollati da figli e da cani; il suo capo Giuseppe Iacoviello, che ha 31 anni, ha riflettuto sul fatto che prima o poi sarà ora di farsi una famiglia; a Barbara Luciani, comandante dei vigili del fuoco, si è stretto il cuore pensando alla sua bimba di 3 anni, che non ha fratelli. La solitudine produce solitudine. E neanche il postino, mentre nella cassetta si ammucchiavano all’inverosimile carteggi sterili da parte di entità neutre e sconosciute, ha pensato di insistere. Suonare due volte. Il postino non lo fa mai, si sa. Gli altri nemmeno. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Il prossimo 16 ottobre il mondo del lavoro si ribella. E il mondo della cultura e della comunicazione potrebbero riscoprire che ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.

di Marco Ferri-3dnews, inserto settimanale del quotidiano Terra.

Se agli intellettuali di questo nostro Paese torna in mente la classe operaia, vuol dire che siamo a una svolta epocale.

Il prossimo 16 Ottobre 2010 forse non sarà il 5 marzo del 1943, quando gli operai del Nord fecero sciopero, decretando storicamente, di fatto l’inizio della fine del Fascismo.
Però lo schieramento odierno di molte personalità di scienza e di cultura al fianco degli operai assume, nell’Italia di oggi, un’importanza straordinaria.

Tuttavia, potrebbe esserci qualcosa di più: la rinnovata saldatura sociale tra gli operai, la società civile, gli intellettuali, gli studenti e chi più ne ha più ne metta è un notizia che fa bene all’animo democratico di un Paese che troppe angherie ha dovuto subire.

Fosse anche per un giorno solo, il 16 ottobre, appunto, il desiderio razionale di un cambiamento dei rapporti di produzione potrebbe significare la voglia di rovesciare non solo una compagine di governo, ma prefigurare una prospettiva completamente nuova della società italiana

Comunque, qui non si tratta più di dare scampoli di visibilità mediatica al lavoro e alle sue sofferenze; qui non si tratta più di mandare qualche telecamera sul tetto di una fabbrica, su cui, per farsi vedere dall’opinione pubblica sono saliti operai ingiustamente perseguitati da questa o quella azienda; qui non si tratta più dare conto, tra un gossip e l’altro, di operai che crepano, come mosche sul loro posto di lavoro.

Qui si tratta di rompere i recinti del mainstream: le contraddizioni tra capitale e lavoro non sono gestibili con un politica compassionevole. La verità, nuda e cruda è che siamo di fronte a una specie di moderna soluzione finale: elimina i lavoratori, così elimini il lavoro.

Il prossimo 16 ottobre il mondo del lavoro si ribella. E il mondo della cultura e della comunicazione potrebbero riscoprire che ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.
Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Lavoro Media e tecnologia

Camilleri: tutti in piazza con gli operai il 16 ottobre.

da MICROMEGA
Andrea Camilleri: “Mi appello a tutti gli italiani di buona volontà, perché ce ne sono tanti: che si sveglino, che scendano in piazza con noi il 16 ottobre. La Fiom sta difendendo i diritti dei lavoratori e la dignità del lavoro. Con i diktat del modello Pomigliano Marchionne dà un cospicuo contributo al mutamento della democrazia italiana in una dittatura strisciante. Oggi, chi non osa minimamente dire il proprio pensiero insieme agli altri, finisce per dare una mano a questo governo”. Beh, buona giornata.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/video-appello-di-andrea-camilleri-tutti-in-piazza-con-la-fiom-il-16-ottobre/

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Lavoro Leggi e diritto

Quale pensione per i precari italiani? L’Inps mentisce sapendo di mentire.

da- blitzquotidiano.it

Al precario non far sapere, altrimenti nel suo piccolo si “incazza di brutto”. Ci hanno pensato sopra a lungo all’Inps e alla fine hanno scelto di “oscurare” il dato. Una censura per motivi di ordine pubblico come ha spiegato il presidente Antonio Mastrapasqua: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. La “simulazione” di cosa? Di quanto un “parasubordinato”, cioè un lavoratore precario prenderà di pensione tra qualche decennio dopo aver versato per una vita i relativi contributi. Il risultato sarebbe invariabilmente una pensione inferiore al minimo, roba da poche centinaia di euro al mese. Quindi meglio “oscurare”.

Oscurare dove? Ma sul sito dell’Inps ovviamente. E anche nei quattro milioni di lettere che lo stesso Inps sta per inviare a domicilio agli altrettanti precari italiani che versano contributi previdenziali. L’Inps nelle settimane scorse ha scritto anche ai lavoratori a tempo indeterminato. Una lettera in cui si spiega come fare per apprendere dal web quanto hanno versato e quanto incasseranno come pensione. La lettera che arriva ai precari è invece una lettera “muta”, non rimanda ad alcuna consultazione possibile. Il precario non può sapere perché, per ammissione dello stesso Inps, è meglio che non sappia. Quindi al precario si dice quanto paga ma si nasconde quanto “rendono” i suoi contributi. Precario dunque neanche avvisato, visto che in nessun caso, conti alla mano, può essere salvato. (Beh, buona giornata).

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Attualità Salute e benessere Scienza

La Chiesa Cattolica sempre contro la scienza. Fin dai tempi di Galileo Galilei, il Vaticano eppur non si muove.

Lo scherzo da preti del Nobel a Edwards,da il-non-senso-della-vita, blog di Giorgio Odifreddi-repubblica-it
Oggi è stato assegnato il premio Nobel per la medicina a Robert Edwards, per «lo sviluppo della fertilizzazione in vitro». Cioè, per intenderci, per la tecnica di fecondazione assistita che permette alle coppie sterili, che sono ben il dieci per cento di tutte le coppie, di non arrendersi e avere comunque figli «in provetta».

Le ricerche di Edwards erano cominciate negli anni ‘50, ma solo il 25 luglio 1978 egli potè annunciare al mondo la nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita con la nuova tecnica e partorita con un cesareo. Da allora, circa quattro milioni di bambini sono nati in tal modo, e alcuni di essi sono già diventati genitori a loro volta: in particolare, la stessa Brown, che ha avuto un figlio in maniera «naturale».

Prima di Edwards, la fecondazione assistita era già stata sperimentata con successo nei conigli. Ma negli uomini presentava problemi particolari, e per poterla realizzare Edwards dovette capire meglio il processo di maturazione dell’ovulo, il modo in cui gli ormoni lo regolano, il periodo in cui esso diventa fecondabile, e le condizioni di attivazione dello sperma.

Nel 1969 egli riuscí a fecondare artificialmente il primo ovulo, ma non ad attivarne la divisione cellulare. Uní allora i suoi sforzi a quelli del ginecologo Patrick Steptoe, e quest’ultimo sviluppò una tecnica di ispezione delle ovaie mediante uno strumento ottico. Fu cosí possibile prelevare ovuli che erano già maturati nelle ovaie, e la loro fecondazione artificiale questa volta funzionò: i due scienziati ottennero cosí il primo embrione a otto cellule, pronto per essere reimpiantato nell’utero.

Immediatamente si scatenerano le polemiche. Le ricerche di Edwards e Steptoe persero i finanziamenti pubblici, ma furono salvate da successive donazioni private di fondi. Nove anni dopo, nel 1978, furono infine coronate dal successo. Nel 1986 erano ormai 1.000 i bambini nati con la nuova tecnica. E oggi essa, migliorata e raffinata, è diventata di uso comune nei paesi civili.

Non nel nostro, ovviamente, che civile non è per tanti motivi, compreso questo. Per chi se lo fosse dimenticato, infatti, il 19 febbraio 2004 il Parlamento italiano ha promulgato l’infame Legge 40, sulle «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita». E il 12 e 13 giugno 2005 gli elettori italiani hanno fatto fallire i quattro referendum che erano stati proposti per migliorarne l’obbrobrio.

A parte i sedicenti e ossimorici «cattolici adulti», guidati da Romano Prodi, la quasi totalità dei cattolici, immaturi per definizione, si adeguò infatti ai diktat del cardinal Ruini e dell’allora nuovo papa Benedetto XVI, astenendosi. Con loro si schierò uno sparuto gruppo di altrettanto sedicenti e ossimorici «scienziati» aderenti al Comitato Scienza e Vita, coordinato da Bruno Dallapiccola e Paola Binetti.

La quasi totalità dei laici, compresa ad esempio la Federazione delle Chiese Evangeliche, espressione dei protestanti italiani, seguí invece, senza successo, l’appello alla ragionevolezza dei nostri due premi Nobel per la medicina, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini. Il che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il problema dell’Italia non è la religione, e neppure il Cristianesimo: è soltanto il Cattolicesimo, cosí come lo intendono la Chiesa e il Vaticano. E il Nobel di oggi a Edwards (non a Steptoe, che è morto nel 1988) non fa che confermarlo.

Oggi è stato assegnato il premio Nobel per la medicina a Robert Edwards, per «lo sviluppo della fertilizzazione in vitro». Cioè, per intenderci, per la tecnica di fecondazione assistita che permette alle coppie sterili, che sono ben il dieci per cento di tutte le coppie, di non arrendersi e avere comunque figli «in provetta».

Le ricerche di Edwards erano cominciate negli anni ‘50, ma solo il 25 luglio 1978 egli potè annunciare al mondo la nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita con la nuova tecnica e partorita con un cesareo. Da allora, circa quattro milioni di bambini sono nati in tal modo, e alcuni di essi sono già diventati genitori a loro volta: in particolare, la stessa Brown, che ha avuto un figlio in maniera «naturale».

Prima di Edwards, la fecondazione assistita era già stata sperimentata con successo nei conigli. Ma negli uomini presentava problemi particolari, e per poterla realizzare Edwards dovette capire meglio il processo di maturazione dell’ovulo, il modo in cui gli ormoni lo regolano, il periodo in cui esso diventa fecondabile, e le condizioni di attivazione dello sperma.

Nel 1969 egli riuscí a fecondare artificialmente il primo ovulo, ma non ad attivarne la divisione cellulare. Uní allora i suoi sforzi a quelli del ginecologo Patrick Steptoe, e quest’ultimo sviluppò una tecnica di ispezione delle ovaie mediante uno strumento ottico. Fu cosí possibile prelevare ovuli che erano già maturati nelle ovaie, e la loro fecondazione artificiale questa volta funzionò: i due scienziati ottennero cosí il primo embrione a otto cellule, pronto per essere reimpiantato nell’utero.

Immediatamente si scatenerano le polemiche. Le ricerche di Edwards e Steptoe persero i finanziamenti pubblici, ma furono salvate da successive donazioni private di fondi. Nove anni dopo, nel 1978, furono infine coronate dal successo. Nel 1986 erano ormai 1.000 i bambini nati con la nuova tecnica. E oggi essa, migliorata e raffinata, è diventata di uso comune nei paesi civili.

Non nel nostro, ovviamente, che civile non è per tanti motivi, compreso questo. Per chi se lo fosse dimenticato, infatti, il 19 febbraio 2004 il Parlamento italiano ha promulgato l’infame Legge 40, sulle «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita». E il 12 e 13 giugno 2005 gli elettori italiani hanno fatto fallire i quattro referendum che erano stati proposti per migliorarne l’obbrobrio.

A parte i sedicenti e ossimorici «cattolici adulti», guidati da Romano Prodi, la quasi totalità dei cattolici, immaturi per definizione, si adeguò infatti ai diktat del cardinal Ruini e dell’allora nuovo papa Benedetto XVI, astenendosi. Con loro si schierò uno sparuto gruppo di altrettanto sedicenti e ossimorici «scienziati» aderenti al Comitato Scienza e Vita, coordinato da Bruno Dallapiccola e Paola Binetti.

La quasi totalità dei laici, compresa ad esempio la Federazione delle Chiese Evangeliche, espressione dei protestanti italiani, seguí invece, senza successo, l’appello alla ragionevolezza dei nostri due premi Nobel per la medicina, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini. Il che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il problema dell’Italia non è la religione, e neppure il Cristianesimo: è soltanto il Cattolicesimo, cosí come lo intendono la Chiesa e il Vaticano. E il Nobel di oggi a Edwards (non a Steptoe, che è morto nel 1988) non fa che confermarlo.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Media e tecnologia

Colpo Grosso: Paolo Romani ministro dello Sviluppo. Esulterebbe Maurizia Paradiso, se sapesse che Magic America è più importante di Magic Italia.

IL CASO-Sviluppo, Romani giura da ministro
Il premier lascia l’interim dopo 5 mesi-Dopo 153 giorni Berlusconi si decide alla nomina, dopo le ripetute pressioni del Colle e le lamentele degli industriali. Ma il dicastero è stato smembrato. Il gelo di Napolitano durante la cerimonia
di MATTEO TONELLI-repubblica.it

Stavolta è vero. Silvio Berlusconi ha nominato il nuovo ministro dello Sviluppo. Dopo 153 giorni di interim e vane promesse, il Cavaliere e Paolo Romani, attuale viceministro alle Comunicazioni, sono saliti al Quirinale per il giuramento. Un giuramento svoltosi nel gelo del rapporto fra premier e capo dello Stato. Le formalità, ridotte all’essenziale, sono durate pochi minuti, il tempo di leggere la formula del giuramento. Berlusconi si è presentato puntuale e ha atteso in piedi insieme a Gianni Letta ed al candidato ministro. Tutte spie, si ragiona in ambienti parlamentari dei dubbi del Capo dello Stato su questa nomina ma anche della presa di distanza del Colle dalle ultime esternazioni del Cavaliere, comprese quelle sulla magistratura. Il presidente della Repubblica è arrivato cinque minuti dopo, si è scusato per il ritardo e ha invitato a procedere senz’altro. Poi ha stretto la mano al neo-ministro, gli ha augurato “buon lavoro”, ha salutato Berlusconi e lo ha congedato.

Si chiude così una vicenda che si è trascinata per cinque mesi, portandosi dietro uno strascico velenoso di polemiche e problemi irrisolti. Per 153 giorni, infatti, la poltrona lasciata vacante dopo l’addio traumatico di Claudio Scajola, 1 è stata “occupata” dal premier. Lo stesso che, ciclicamente, davanti alle continue sollecitazioni, rispondeva spostando in avanti l’orizzonte temporale della scelta. “La prossima settimana avrete la nomina” è stato il ritornello ripetuto più volte nonostante le sollecitazioni del Colle, degli industriali e delle opposizioni. 2

Eppure all’inizio sembrava una questione destinata a chiudersi in breve tempo. Dopo le dimissioni di Scajola il Cavaliere dava l’impressione di voler chiudere la partita alla svelta. Anche perché la crisi economica assegnava (e assegna) un ruolo più che attivo allo Sviluppo. E così il 4 maggio maggio il premier assicura: “L’interim sarà breve e sarà un incarico limitato nel tempo. È un incarico diciamo così, tecnico. Durerà giorni”. Ma la partita si complica rapidamente e diventa una partita che il premier fa fatica a sbrogliare. Meglio, allora, far passare del tempo. Ma quel vuoto di potere, nonostante le continua assicurazioni del Cavaliere sulla sua assoluta capacità di occuparsi del dicastero, si nota eccome. Lo nota Giorgio Napolitano, che più di una volta ne segnala l’urgenza. Lo nota l’opposizione che accusa il governo di disinteressarsi di un ruolo centrale in un momento di crisi economica. E lo notano anche gli industriali, che di un ministro del genere hanno bisogno come il pane.

Dopo l’interim il premier riceve una serie di “no grazie” di peso. Il primo è quello del presidente della Ferrari Luca Cordero di Montezemolo. Il secondo tentativo è ancor più plateale. Il 27 maggio, all’assemblea annuale della Confindustria, il premier, dal palco, si lascia andare: “Volete che Emma Marcegaglia diventi ministro?”. La risposta è il gelo della sala e l’imbarazzo del presidente. Uno schiaffo per il premier che replica stizzito: “Allora non potete lamentarvi..”. Passa il tempo e la poltrona restra vacante. Anche perché sfuma il tentativo (informale) di piazzarci il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Dopo due industriali e un sindacalista, Berlusconi pensa bene di fare una nomina ministeriale. Non quella delle Attività produttive, però. Bensì quella di Aldo Brancher, ministro per l’Attuazione del federalismo (che sarà costretto a lasciare sull’onda delle polemiche per i suoi processi in corso).

Si va avanti così. Con le tensioni sociali che crescono e le situazioni di difficoltà che si moltiplicano. Ci vorrebbe un referente nel governo. Ma non c’è. Scoppia il caso Pomigliano, protestano i minatori del Sulcis. ma Berlusconi non molla l’interim. Repubblica decide di far partire un contatore dei giorni senza ministro. Le opposizioni si scuotono. L’Idv scrive a Napolitano che non manca di far sentire la sua voce. «L’istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico e del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob…» dice il capo dello Stato.

Poche ore dopo Berlusconi prova a correre ai ripari. E ripete: “La prossima settimana procederemo alla nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo Economico…”. Sembra fatta. Ma non è così. Agosto si apre senza il ministro 3. Le opposizioni insorgono e dal Colle trapela una noteva irritazione. Comincia a circolare il nome di Paolo Romani, attuale viceministro delle Comunicazioni, un passato nelle aziende del Cavaliere. Ma i suoi legami con l’editoria (che lui circoscrive al passato) gli mettono il piombo sulle ali.

Passa l’estate e i contrasti con i finiani esplodono. Le indiscrezioni dicono che dietro allo stallo ci sia l’intenzione del premier di “calmare” i fedelissimi del presidente della Camera affidando il dicastero ad un loro uomo. Vero o falso che sia, non se ne fa nulla. Persino il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti è costretto ad ammettere 4: “Serve un ministro”. L’ad della Fiat, Sergio Marchionne, è lapidario: “Il ministro? Lo aspettiamo anche noi”.

Si arriva così al voto di fiducia per il governo. Berlusconi la ottiene e torna a promettere: “Lunedì avrete il nuovo ministro”. 5Stavolta è vero. Dopo 154 giorni è fumata bianca. Sul tavolo Romani troverà il dossier nuclare, la legge sulla concorrenza, quella sul made in Italy e le tante crisi aziendali ancora aperte. E risentirà le parole di Berlusconi che, in Senato, rivendicava l’ottimo lavoro fatto. Sarà, ma in questi mesi il ministero è stato, silenziosamente, smembrato: la manovra 2011 gli ha sottratto 900 milioni di fondi di dotazione, i fondi Ue e Fas sono stati trasferiti al ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto, i circa 800 milioni di fondi per il turismo sono passati direttamente sotto la gestione di Michela Vittoria Brambilla, l’Istituto per la Promozione Industriale è stato soppresso. Colpi di scure che fanno dire al segretario del Pd Pier Luigi Bersani, “che dopo aver cercato per tanto tempo un ministro, adesso si corre il rischio di non trovare più il ministero”.

(04 ottobre 2010) © Riproduzione riservata (Beh, buona giornata).

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