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Proteste e movimenti in tutta Europa:”è indispensabile comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi.”

di ALAIN TOURAINE (traduzione di Elisabetta Horvat) -la Repubblica.

TRA i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados, dal titolo del pamphlet di Stephane Hessel, pubblicato in Francia con un successo eccezionale, che si misura in milioni di copie. La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’ opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.

In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finoraè preminente la volontà di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’ insegna delle assemblee generali delle università francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna.

In Grecia l’ opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’ Europa e dall’ Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messoa repentaglio l’ esistenza stessa dell’ euro. Se è vero che l’ opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.

È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’ idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazionie le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’ espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.

Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità dell’ azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’ inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità. La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.

Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’ importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’ impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto-e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.

Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità d’ azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.

Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’ intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale.

Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale,a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato?

Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni. Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’ essere rivoluzionari, data l’ estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’ azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’ azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissionia catena,o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà far rinascere in quei Paesi la capacità d’ azione politica solo se ad animarla non sarà la paura del nemico, ma la volontà di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico.

In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.

Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità della democrazia; in altri termini, qui la priorità va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici.

Se anche in futuro il movimento sarà animato dalla volontà di far riconoscere le libertà politiche, vedrà rafforzate le sue opportunità di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà incerto e minacciato. In Libia l’ iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario.

Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’ opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’ abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’ azione di rottura col sistema europeo. (Beh, buona giornata).

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Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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Appello di Giorgio Cremaschi e altri: 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.

Dobbiamo fermarli
5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° ottobre a Roma

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.

Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile.

La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.

Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale.

L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati.

L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.

Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.

La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.

Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.

Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.

Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.

Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.

Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.

Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

Vincenzo Achille (studente AteneinRivolta Bari)
Claudio Amato (segr. Gen. Fiom Roma Nord)
Adriano Alessandria (rsu Fiom Lear Grugliasco)
Fausto Angelini (lavoratore Comune di Torino)
Davide Banti (Cobas lavoro privato settore igiene urbana)
Imma Barbarossa (femminista, docente di liceo in pensione)
Giovanni Barozzino (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Giovanna Bastione (disoccupata)
Alessandro Bernardi (comitato acqua, Bologna)
Sergio Bellavita (segr. naz. Fiom)
Sandro Bianchi (ex dirigente Fiom)
Ugo Bolognesi (Fiom Torino)
Salvatore Bonavoglia (Rsu Cobas scuola normale superiore Pisa)
Laura Bottai (impiegata, Filt-Cgil Arezzo)
Massimo Braschi (rsu Filctem TERNA)
Paolo Brini (Comitato Centrale Fiom)
Stefano Brunelli (rsu IRIDE Servizi)
Fabrizio Burattini (direttivo naz. Cgil)
Sergio Cararo (direttore rivista Contropiano)
Carlo Carelli (rsu Unilever, direttivo naz. Filctem Cgil)
Massimo Cappellini (Rsu Fiom Piaggio)
Francesco Carbonara (Rsu Fiom Om Bari)
Paola Cassino (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Stefano Castigliego (Rsu Fiom Fincantieri Marghera – Venezia)
Francesco Chiuchiolo (rsa ARES)
Eliana Como (Fiom Bergamo)
Danilo Corradi (dottorando Università “Sapienza” – Roma)
Gigliola Corradi (Fisac Verona)
Giuseppe Corrado (Direttivo Fiom Toscana)
Giorgio Cremaschi (pres. Comitato centrale Fiom)
Dante De Angelis (ferroviere Orsa)
Riccardo De Angelis (rsu Telecom Italia coord. lav. autoconvocati Roma)
Paolo De Luca (FP Cgil Comune di Torino)
Daniele Debetto (Pirelli Settimo Torinese)
Emanuele De Nicola (segr. Gen. Fiom Basilicata)
Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani)
Francesco Doro (Rsu OM Carraro Padova, CC Fiom)
Valerio Evangelisti (scrittore)
Marco Filippetti (Comitato Romano Acqua Pubblica)
Andrea Fioretti (rsa Flmu Cub Sirti coord. lav. autoconvocati Roma)
Roberto Firenze (rsu Usb Comune di Milano)
Eleonora Forenza (ricercatrice universitaria)
Delia Fratucelli (direttivo naz. Slc Cgil)
Ezio Gallori (macchinista in pensione, fondatore del Comu)
Evrin Galesso (studente AteneinRivolta Padova)
Giuliano Garavini (ricercatore universitario)
Michele Giacché (Fincantieri, Comitato Centrale Fiom)
Walter Giordano (rsu Filctem AEM distribuzione Torino)
Federico Giusti (Rsu Cobas comune di Pisa)
Paolo Grassi (Nidil)
Simone Grisa (segr. Fiom Bergamo)
Franco Grisolia (CdGN Cgil),
Mario Iavazzi (direttivo nazionale Funzione Pubblica Cgil)
Tony Inserra (Rsu Iveco, Comitato Centrale Fiom)
Antonio La Morte (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Massimo Lettieri (segr. Flmu Cub Milano)
Francesco Locantore (direttivo Flc Cgil Roma e Lazio)
Domenico Loffredo (delegato Fiom Pomigliano)
Pasquale Loiacono (rsu Fiom Fiat Mirafiori)
Francesco Lovascio (sindacalista Usb Livorno)
Mario Maddaloni (rsu Napoletanagas, direttivo naz. Filctem Cgil)
Eva Mamini (direttivo naz. Cgil)
Anton Giulio Mannoni (segr. Camera del lavoro di Genova)
Maurizio Marcelli (Fiom nazionale)
Gianfranco Mascia (giornalista)
Armando Morgia (Roma Bene Comune)
Antonio Moscato (storico)
Massimiliano Murgo (Flmu Cub Marcegaglia Buildtech, coord. lav. uniti contro la crisi Milano)
Alessandro Mustillo (studente universitario, Roma)
Stefano Napoletano (rsu Fiom Powertrain Torino)
Antonio Paderno (rsu Fiom Same Bergamo)
Alfonsina Palumbo (dir. Fisac Campania)
Alberto Pantaloni (rsu Slc Cgil Comdata, assemblea lav. autoconvocati Torino)
Marcello Pantani (Cobas lavoro privato Pisa)
Massimo Paparella (segreteria Fiom Bari)
Emidia Papi (esecutivo naz. Usb)
Pietro Passarino (segr. Cgil Piemonte)
Matteo Parlati (Rsu Fiom Cgil Ferrari)
Angelo Pedrini (sindacalista Usb Milano)
Licia Pera (sindacalista Usb Sanità)
Alessandro Perrone (Fiom-Cgil, coord. cassintegrati Eaton Monfalcone)
Marco Pignatelli (lavoratore Fiom licenziato Fiat Sata Melfi)
Antonio Piro (rsu Cobas Provincia di Pisa)
Ciro Pisacane (ambientalista)
Rossella Porticati (Rsu Fiom Piaggio)
Pierpaolo Pullini (Rsu Fiom Fincantieri Ancona)
Mariano Pusceddu (rsu Alenia Caselle-Torino, direttivo Fiom Piemonte)
Stefano Quitadamo (Flmu Cub Coordinamento cassintegrati Maflow di Trezzano S/N – Milano)
Margherita Recaldini (rsu Usb Comune di Brescia)
Giuliana Righi (segr. Fiom Emilia Romagna)
Bruno Rossi (portuale, in pensione, Spi-Cgil)
Franco Russo (forum “diritti e lavoro”)
Michele Salvi (rsu Usb Regione Lombardia)
Antonio Saulle (segreteria Camera del Lavoro Trieste)
Marco Santopadre (Radio Città Aperta)
Antonio Santorelli (Fiom Napoli)
Luca Scacchi (ricercatore università, segreteria FLC Valle d’Aosta, direttivo reg. Cgil VdA)
Massimo Schincaglia (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Yari Selvatella (giornalista)
Giorgio Sestili (studente AteneinRivolta Roma)
Giuseppe Severgnini (Fiom Bergamo)
Nando Simeone (coord. lav. autoconvocati, direttivo Filcams Cgil Lazio)
Luigi Sorge (Usb Fiat Cassino)
Francesco Staccioli (cassintegrato Alitalia, esecutivo Usb Lazio)
Enrico Stagni (direttivo Cgil Friuli Venezia Giulia)
Antonio Stefanini (direttivo FP Cgil Livorno)
Alessia Stelitano (studente AteneinRivolta Reggio Calabria)
Alioscia Stramazzo (rsa Azienda Gruppo Generali)
Antonello Tiddia (minatore Sulcis Filctem-Cgil)
Fabrizio Tomaselli (esecutivo naz. Usb)
Luca Tomassini (ricercatore precario Cpu Roma)
Laura Tonoli (segreteria Filctem-Cgil Brescia)
Cleofe Tolotta (Rsa Usb Alitalia)
Franca Treccarichi (direttivo FP Cgil Piemonte)
Arianna Ussi (coordinamento precari scuola Napoli)
Luciano Vasapollo (docente università La Sapienza)
Paolo Ventrice (rsu IRIDE Servizi)
Antonella Visintin (ambientalista)
Emiliano Viti (attivista Coord. No Inceneritore Albano – RM)
Antonella Clare Vitiello (studente Ateneinrivolta Roma)
Nico Vox (Rsu Fp-Cgil Don Gnocchi, Milano)
Pasquale Voza (docente Università di Bari)
Anna Maria Zavaglia (insegnante, direttivo nazionale Cgil)
Riccardo Zolia (Rsu Fiom Fincantieri Trieste)
Massimo Zucchetti (professore Politecnico Torino)

Per adesioni mail a:
– g.cremaschi@fiom.cgil.it
– burattini@lazio.cgil.it
– marco.santopadre1@tim.it

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Vanno male i consumi, scende il livello di fiducia dei consumatori. La tempesta perfetta non accenna a diminuire: l’online non salva la pubblicità.

Secondo i risultati della ricerca “Nielsen Global Online Consumer Confidence” nel secondo trimestre 2011 la fiducia dei consumatori globali è scesa al minimo in sei trimestri. “Non ci sono state sufficienti notizie positive per ispirare fiducia nei consumatori online a livello mondiale nel secondo trimestre”, ha affermato Venkatesh Bala, Chief Economist The Cambridge Group, Nielsen. “Dati economici deboli, inflazione e performance produttive rallentate in Asia, l’intensificazione del debito in Europa e la continua instabilità politica in Medio Oriente, oltre all’aumento delle spese domestiche negli US, hanno influenzato la già scarsa fiducia dei consumatori. Le speranze di una piena ripresa economica nei prossimi 12 mesi si sono indebolite nel secondo trimestre e i consumatori di tutto il mondo sono rimasti legati a una mentalità di recessione.”

Il Nielsen Global Consumer Confidence Index, dal 2005 misura la fiducia di oltre 31.000 consumatori internet in 56 Paesi del mondo, le maggiori preoccupazioni e le intenzioni di spesa. Livelli di fiducia sopra e sotto 100 indicano il livello di ottimismo e pessimismo. Nell’ultima ricerca condotta tra il 20 maggio e il 7 giugno 2011, a livello mondiale la fiducia dei consumatori online è scesa di tre punti indice, da 92 a 89 – il livello più basso dal quarto trimestre 2009. Negli Stati Uniti la fiducia è scesa di cinque punti indice posizionandosi a 78, di due punti inferiore agli 80 registrati nel primo semestre del 2009, al culmine della recessione globale. Il livello di fiducia in Europa (74 punti indice) è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al trimestre precedente anche se i consumatori europei rimangono i più pessimisti al mondo con differenze nei vari Paesi.

In Italia l’indice di fiducia ha subito una leggera flessione, 55 punti indice rispetto ai 57 del trimestre precedente, dopo la diminuzione importante verificatasi proprio nel primo trimestre 2011 (-14 punti indice). I principali fattori sono legati ad un trend negativo in termini di prospettive di lavoro e di finanze personali per i prossimi 12 mesi. Il 42% dei consumatori italiani (rispetto al 39% del trimestre precedente) ritiene infatti che le prospettive di lavoro del Paese saranno in peggioramento nei prossimi 12 mesi; per quanto riguarda invece le proprie prospettive finanziarie la percentuale passa dal 21 al 23%. Economia e posto di lavoro rimangono per gli italiani le maggiori preoccupazioni mentre il timore della guerra, che aveva subito un picco nel secondo trimestre (8% +7 punti percentuali rispetto al 4^ trimestre 2010) torna a preoccupare in misura minore (2%). La già modesta percentuale di coloro che nel trimestre precedente pensavano di poter uscire dalla recessione si è ulteriormente ridotta. Oggi solo il 15% degli italiani pensa che il nostro Paese uscirà dalla recessione nei prossimi 12 mesi. Si consolida la percentuale di chi non riesce più a risparmiare (circa ¼ della popolazione) e per cercare di rimanere all’interno del proprio budget di spesa gli italiani continuano a spostarsi sull’acquisto di prodotti grocery più economici.

Anche se ancora al di sotto della media europea (74), l’aumento di 8 punti dell’indice di fiducia in Francia (da 61 a 69), è stato il risultato della crescita economica dell’1% nel primo trimestre, la crescita più significativa per il Paese dal secondo trimestre 2006. Lo scatto della crescita economica in Francia all’inizio dell’anno ha superato le aspettative e il governo prevede una crescita del 2% entro la fine dell’anno. Questa fiducia ha contagiato i consumatori francesi: uno su tre (il 33%) si aspetta che le proprie finanze personali per il prossimo anno siano buone/ottime, rispetto al 25% del primo trimestre 2011. In Grecia, la crisi economica, la crescita del debito e le diffuse proteste interne hanno determinato un ulteriore calo della fiducia dei consumatori di quattro punti nel secondo trimestre 2011 posizionando così il Paese come il più pessimista del mondo con un livello di fiducia pari a 41 punti.

Rispetto al trimestre precedente le regioni del Medio Oriente, Africa e dell’Asia Pacifico hanno registrato il massimo declino, rispettivamente di 12 e 9 punti indice, confermando il trend di un anno fa. I più grandi cali di fiducia nel secondo trimestre sono stati registrati in Egitto (-10) e Arabia Saudita (-11), che avevano goduto dei maggiori incrementi nel primo trimestre 2011, ma che mostrano trend coerenti con lo scorso anno. “In Egitto, l’ottimismo post-rivoluzione è stato sostituito da una visione più realistica della situazione del Paese e da una maggiore consapevolezza delle condizioni economiche del periodo”, ha affermato Ram Mohan Rao, Managing Director, Nielsen Egitto. “In Arabia Saudita l’ondata di ottimismo del primo trimestre, dovuta all’introduzione di denaro aggiuntivo nel mercato da re Abdullah, è stato attenuato in quanto i consumatori hanno subito l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dell’inflazione immobiliare dovuti alla maggiore liquidità sul mercato” ha dichiarato Arslan Ashraf, Managing Director, Nielsen Arabia Saudita.

I consumatori indiani (126 punti indice), nonostante un calo di cinque punti su base trimestrale, sono i più positivi rispetto alle prospettive di lavoro e alle finanze personali e il loro livello di fiducia è sempre stato il più alto dal 2005. “Una serie di fattori stanno influenzando i consumatori indiani: nonostante siano i più ottimisti del mondo, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei prezzi del carburante e un clima di incertezza dell’economia mondiale influenzano una visione positiva”, ha affermato Justin Sargent, Managing Director, Nielsen India.

8 su 14 mercati in Asia Pacifico hanno registrato un calo nel secondo trimestre, con valori più alti in Australia (-8 punti) e Singapore (-6 punti). L’indice di fiducia in Australia è in diminuzione dal terzo trimestre 2010. “Le famiglie australiane sono state colpite duramente da un aumento generale dei prezzi ” ha dichiarato Chris Percy, Managing Director, Nielsen Pacifico. “Le inondazioni dello scorso gennaio inoltre hanno limitato la raccolta di frutta e verdura e hanno avuto effetti sui costi di produzione causando un aumento dei prezzi degli alimentari. L’aumento dei prezzi erode i bilanci famigliari e stringere la cinghia è la norma per molte famiglie australiane.”

Malesia, Nuova Zelanda, Filippine e Corea del Sud registrano un aumento di fiducia mentre Hong Kong rimane stabile. La fiducia dei consumatori cinesi è scesa di tre punti su base trimestrale posizionandosi a 105 ed è di quattro punti al di sotto della percentuale registrata un anno fa (109). “Il lieve calo della fiducia dei consumatori in Cina è dovuto all’inflazione, che rimane un problema importante nella mente dei consumatori. Nonostante l’inflazione in aumento negli ultimi tre mesi, non ci sono segnali di rallentamento dei consumi anche quelli discrezionali. La continua forza dei consumi interni è un riflesso del continuo ottimismo generale dell’economia trainato dalla crescita dei livelli di reddito”, ha dichiarato Karthik Rao, Managing Director, Nielsen Gretear China.

“I dati del secondo trimestre evidenziano che i consumatori pensano ancora alla recessione, stanno stringendo la cinghia e contenendo le spese dopo gli ultimi 12 mesi di lento miglioramento” ha affermato Bala. “Secondo l’ultima ricerca, le intenzioni di allocazione di consumo sono diminuite rispetto a tre mesi fa a livello globale in tutti gli ambiti discrezionali: investimenti in borsa, acquisto di abbigliamento, vacanze e aggiornamento della tecnologia”.

Il 58% dei consumatori a livello globale ritiene di essere ancora in una fase di recessione e di questi, più della metà (il 51%) pensa che lo sarà ancora tra un anno. In Asia Pacifico la percentuale di coloro che ritengono di essere ancora in recessione è del 45% rispetto al 37% del primo trimestre 2011. In Medio Oriente e Africa la recessione economica è un dato di fatto per il 74% degli intervistati online – con un incremento di nove punti rispetto a tre mesi fa.

Dodici mesi fa, il 35% dei consumatori online a livello mondiale riteneva che fosse un buon momento per comprare le cose di cui avevano bisogno, nel secondo trimestre del 2011 però questa percentuale è scesa al 27%. In America si è passati dal 27 al 20% e in Asia Pacifico dal 40 al 32%. A livello mondiale un numero sempre maggiore di consumatori si sente a corto di liquidi. L’aumento dei prezzi alimentari è stato ancora una delle principali preoccupazioni dei consumatori globali, superando l’economia come la preoccupazione principale per il secondo trimestre consecutivo. Il 31% dei consumatori ha dichiarato di non avere denaro rimanente dopo aver coperto le spese essenziali, il 25% in Medio Oriente, Africa e il 22% in Europa.(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia Popoli e politiche Teatro

Cresce il dibattito al Teatro Valle occupato. Ecco l’intervento di BIFO.

Far saltare il dispositivo Maastricht e poi? di Franco Berardi (BIFO)-teatrovalleoccupato.it

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.

Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono gli ipocriti occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di una stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa e della privatizzazione economica e della corruzione. L’inizio di una rivolta destinata a convergere con quella europea.

Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.

La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.

Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.

Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?

Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.

L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.

L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.

In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.

Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:

Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.

Naturalmente quegli stessi obiettivi si potrebbero perseguire adottando strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.

L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.

Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima, maggioritaria della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.

Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, mentre pure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.

Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.

Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè un prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana come un automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetersi. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.

Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.

A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.

La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.

Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.

L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, armarla. Essa si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Da dove viene chi ha compiuto la strage di Oslo.

di CARLO BONINI-laRepubblica

Per raccontare la tenebra da cui è uscito Anders Behring Breivik e che altri come lui incuba, per definire il bolo di odio che avvelena la Norvegia e un pezzo di Europa, bisogna dimenticare la storia del Novecento e le sue categorie politiche.

E convincersi che persino parole come “Destra”, “Fascismo”, “Nazismo” possono risultare vuote, quantomeno inadatte. Bisogna immaginare una subcultura nazionalista contagiosa, cresciuta all’ombra di un Pantheon impazzito che tiene insieme la Bibbia e il rock Black Metal, il Compasso e le Crociate, il “paganesimo Odinista” con le sue reminiscenze di miti nibelungici. Tolkien con John Stuart Mill. Che ha in odio i religiosamente diversi – musulmani ed ebrei – i socialmente assistiti, i padroni della globalizzazione mercatista (le banche), la solidarietà marxista e laburista. Ugo Maria Tassinari, tra i più attenti studiosi dell’evoluzione delle destre in Italia e in Europa, spiega: “Lo sterminio di Oslo è l’espressione di un integralismo nero da terzo Millennio. Che esalta l’identità, nell’odio della modernità. E che ha rimesso al centro la Croce. Si badi bene, non il cattolicesimo. Ma un cristianesimo declinato in chiave ideologicamente violenta, intollerante”.

Non è storia di ieri. Ma di almeno un decennio, ormai. Almeno in Norvegia. Dove a metà degli anni ’90 si fa strada un uomo che organizza “conferenze antisioniste”, parla con l’enfasi del messia e la violenza verbale dell’angelo vendicatore: Alfred Olsen. Il tipo, descritto come “mentalmente instabile” e che ha per altro legami di nascita con l’Italia, battezza il “Movimento di Resistenza Popolare. L’alternativa Cristiana”. Ne definisce il manifesto. Dove, tra l’altro, si legge: “È necessario lottare contro il capitalismo di stato marxista, iI capitalismo liberale, la massoneria e altre idee anti-cristiane. Combattere l’infiltrazione di agenti stranieri nel nostro governo. Opporre la disseminazione di propaganda razzista-sionista in occidente, propaganda tesa a influenzare i cittadini contro la tradizione cristiana. Svelare e combattere la propaganda sovversiva nella scuola, nella stampa, nella radio, nella televisione, nel cinema e nella educazione in genere”. Sono parole che trovano terreno fertile, soprattutto che suonano familiari, perché incrociano una subcultura giovanile nera che, in Norvegia, proprio in quegli anni, la metà dei ’90, e di lì in avanti, si divide tra forme di neointegralismo cristiano e un neopaganesimo satanista che pesca a piene mani nel mito della fratellanza di sangue tra i popoli di origine germanica.

Di questa seconda “famiglia nera” è massimo interprete Varg Vikernes, cantante di “black metal”. Nel 1991 ha fondato il progetto musicale “Burzum” (termine che significa “tenebra” e che Vikernes mutua dal “Signore degli anelli” di Tolkien) e ha assunto il nome d’arte di “Conte Grishnackh” (anche questo ispirato alla letteratura di Tolkien). Il “Neo-Volkish Heaten Front”, formazione neonazi, lo adotta e ne succhia la popolarità. Anche da galeotto, perché Vikernes finisce in carcere per aver ucciso Oystein Aarseth, suo compagno di band. Dietro le sbarre, “il Conte” si fa filosofo e comincia a mettere mano a un manifesto che battezza “Vargsmal”, “il discorso del lupo”, dove il mito di Odino incrocia le fondamenta ideologiche del Nazismo, l’abbraccio ai temi dell’eugenetica diventa appassionato e il Paganesimo viene declinato in pochi e riconoscibili valori: “lealtà, coraggio, saggezza, disciplina, amore, onestà, intelligenza, bellezza, responsabilità, salute, forza”. Vikernes finisce di scontare la pena nel maggio di due anni fa, ma appena sei anni prima, durante un breve permesso di uscita dal carcere, si fa sorprendere in fuga su un’auto rubata dove la polizia trova un fucile semiautomatico da guerra, una pistola, numerosi coltelli, maschere antigas, un sistema di rilevamento di posizione gps e tute mimetiche.

Tutto ciò che si muove fuori da questo perimetro “iniziatico” e “suprematista” bianco (da questo punto di vista c’è più di un’assonanza tra l’orrore di Oslo e la strage di Oklaoma City di Timothy Mc Veigh, 19 aprile 1995, 168 i morti), sia nella sua declinazione “cristiana”, che in quella “pagana”, non ha diritto di cittadinanza politica. Neppure se si tratta di partiti di destra come il “Fremskritt Partiet”, il Partito del Progresso. Colpevoli di una “correttezza politica” che ne snatura l’afflato ideologico e mistico.

“Evidentemente c’è uno specifico nord-europeo in quel che è accaduto e accade in Norvegia – spiega ancora Tassinari – ma non c’è dubbio che una parte almeno di questa eco nera che in generale definirei scandinava, ha in questi anni contagiato buona parte dell’Europa, dove assistiamo a dinamiche molto simili con il progressivo distacco e polverizzazione di culture di destra xenofobe che assumono quasi il tratto di sette, esercitando una forte attrazione su chi, i più giovani, vive lo smarrimento di un tempo difficile, socialmente ed economicamente”. Qualche sigla. In Italia, con “Militia Christi” e “Forza Nuova”. In Inghilterra, con l’English Defence League (EDL). In Olanda, con il movimento xenofobo “Partito della Libertà” guidato da Geert Wilders e la “Dutch defence league”. In Francia, con la “Ligue Francaise de Defence”. Per non dire dei Paesi dell’ex Blocco sovietico e della ex Yugoslavia, dove la pressione nazionalistica resta fortissima e diventa un significativo moltiplicatore di ricerca identitaria.

Quella cui il “Conte” Vikernes, dal carcere, invitava i suoi adepti. Con queste parole: “È giunto il momento di bandire il fantasma nazista che per 60 anni ha spaventato l’Europa, per cominciare a occuparci delle cose che ci sono care”. (Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Finanza - Economia Teatro

Le ragioni del Teatro Valle sono a monte.

Succede di aver talmente ragione da capitombolare dalla parte del torto. E’ successo a Goffredo Fofi che sulle pagine de l’Unità ha accusato gli occupanti del teatro Valle di Roma di essere nostalgici dell’assistenzialismo culturale. A quelli non è andata giù, e a ragione.

Perché i motivi dell’occupazione del teatro sono più grandi delle clientele, mafiette e greppie che hanno caratterizzato la produzione cinematografica e teatrale italiana, col risultato di dare vita a sprechi di danaro pubblico e a insulse e dimenticabili opere artistiche. Sono anche più grandi del conformismo di sempre della sinistra parlamentare, ma anche del suo rinato attivismo di questi giorni, tutto imperniato a far sopravvivere il teatro Valle, col coinvolgimento finanziario degli enti locali. Guardano l’albero, ma non vedono la foresta.

Il fatto è che i tagli alla cultura operati nell’ultima manovra finanziaria del governo altro non sono che tagli della parte residua dei tagli precedenti. Il che autorizza a pensare e dunque a dire con chiarezza che chiudere i rubinetti alla cultura italiana è una strategia, prima ancora che una necessità di bilancio. La qual cosa è straordinariamente in sincronia con i tagli di bilancio al finanziamento della scuola, dell’università e della ricerca.

Questa strategia è stata annunciata dal ministro dell’Economia, l’uomo delle forbici, circa un anno fa. “Certi diritti non possiamo più permetterceli”, ebbe a dire Tremonti, molto prima dell’emergenza speculativa internazionale che si è abbattuta sul Paese, proprio grazie alle politiche del governo Berlusconi, cosa, sia detto per inciso, che non è una tesi del dibattito, ma è un fatto accertato e certificato dai mercati internazionali.

Sostenere che l’attuale governo non si può permettere di finanziare certi diritti è la confessione sincera di colpevolezza, al di la di ogni ragionevole dubbio. Perché i diritti non sono merci che a un certo punto esauriscono sullo scaffale del supermarket. La Costituzione non è un menù sul quale un asterisco ci avverte che questo o quel diritto potrebbe essere congelato.

Da questo punto di vista, contrariamente a quanto dice Fofi, si ha l’impressione che gli occupanti del Valle abbiamo le idee chiare. Tanto che la risonanza che sta avendo l’occupazione è un motore mentale che è in grado di produrre idee nuove , quelle stesse di cui Fofi lamenta la mancanza. La verità è che la lotta è una eccellente palestra di ingegni, e il Valle sembra un piccola, ma incandescente fucina. Fosse solo per questo, l’occupazione del Valle andrebbe difesa, propagandata, aiutata con tutti i mezzi.

La piattaforma di lotta non è così chiara come la vorrebbe qualcuno? Sempre succede che chi comincia ha ragioni che le parole ancora non sanno spiegare. Cionondimeno, dall’occupazione del Valle di Roma arriva, sottoforma di metalinguaggio, forte e chiaro un bel messaggio: l’Italia non solo bisogno di una alternativa di governo, l’Italia ha forte consapevolezza di un’alternativa politica, economica, sociale e culturale. L’occupazione del teatro Valle, nella sua specificità, che sembrerebbe riguardare attori, autori, registi e maestranze è in realtà un tassello di un mosaico che rappresenta il cambiamento in atto, tassello che va a collocarsi accanto alle novità espresse dalle amministrative di Milano e Napoli, accanto allo straordinario pronunciamento di massa su i referendum, accanto alla protesta No tav.

Al Valle c’è entusiasmo collettivo, proprio quello che servirebbe per contagiare di nuovo il Paese intero. C’è anche forte il senso di una consapevole autonomia dalle politiche culturali del centrosinistra, contro le quali le parole di Fofi sono sacrosante. Ma il bello delle lotte è che, qualunque risultato immediato ottengano, esse fanno bene alla salute democratica di un Paese.

Per l’attuale ministro della Cultura, che viene dal management di Publitalia,e che ha detto che per quanto allegra l’occupazione del Valle è pur sempre abusiva, evidentemente gli attori servono solo a fare i testimonial pubblicitari. Se da protagonisti delle fiction diventano attori della realtà, bisogna mandargli la polizia? Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Ancora a proposito dei simili destini dello Squalo e del Caimano.

Intercettazioni illegali. “Tramonti incrociati” dello Squalo Murdoch e del Sultano Berlusconi, di Gianni Rossi-articolo21.com

Entrambi sono tra gli uomini più ricchi al mondo, anche se la classifica della rivista americana Forbes li inserisce al 118° e al 122° posto per quest’anno. E comunque Berlusconi e Murdoch hanno molte cose in comune. Sposati più volte, amanti delle belle donne possibilmente giovani, con una nidiata di figli e problemi di successione alla guida dei rispettivi imperi, il Sultano di Arcore viaggia tra i 9 e i 7,8 miliardi di dollari come ricchezza personale, mentre lo Squalo australo-americano si aggira tra i 6,3 e i 7,6 miliardi di dollari. Anche se, sempre secondo Forbes, Murdoch (13° posto) è ritenuto più potente di Berlusconi (14° posto) nel ranking speciale sulle capacità di influenzare il mondo degli affari e quello della politica. Le altre similitudini non finiscono qui: entrambi sono feroci populisti, neo-conservatori, operano spregiudicatamente con i media, influenzano i mercati e la politica. Non amano essere contraddetti, non si scusano mai (la colpa è sempre degli altri, dei loro collaboratori e, comunque, loro non sapevano né erano stati messi a conoscenza dei fatti, tutt’al più non ricordano), si ritengono immortali e non delegano in realtà il proprio potere aziendale. Qui finiscono le somiglianze e si entra nel paludoso terreno dei conflitti di interessi. Meno apparenti per lo Squalo, macroscopici per il Sultano!

Murdoch appartiene alla “scuola anglosassone”, per la quale chi sceglie la strada di fare l’imprenditore non può diventare un politico di professione, ma certo può influenzare prepotentemente l’azione dei politici con finanziamenti più o meno occulti, ne determina ascese e cadute con le campagne mediatiche e anche con “armi sporche”, tipo intercettazioni, dossier e corruzione di agenti speciali della polizia, come sta uscendo fuori dalle inchieste giudiziarie sul gruppo News Corporation in Gran Bretagna (ma anche negli Stati Uniti e ora in Australia).

Murdoch, il più potente uomo sulla terra nel campo dei media ora dovrà rispondere delle azioni dei suoi più stretti collaboratori in giro per tre continenti, sottoporsi alla “gogna mediatica”, con le riprese TV delle sue audizioni, come è successo a Londra davanti ai parlamentari della Commissione Interni della Camera dei Comuni. Lo Squalo è stato “denudato”, i suoi balbettii infiorettati di “non so, non mi ricordo” hanno rivelato l’altra faccia dello strapotere di colui che, da oltre 30 anni, ha condizionato le elezioni dei premier britannici, dalla conservatrice Thatcher al neo-laburista Blair, al neo-conservatore Cameron; ma ha anche influito sulle sorti dei governi in Australia e negli Stati Uniti.

Un “imperatore” senza confini che ha fomentato le velleità bellicose di potenti dell’Occidente contro “la civiltà islamica”, portandoci a distruggere città, società, culture ed esseri umani ovunque ci fossero “tesori energetici” da riportare sotto il controllo di alcune multinazionali. Uno Squalo che è riuscito a condizionare i mercati finanziari americani ed europei, contrastando con tutte le sua potenza di fuoco informativa la nascita e l’affermarsi dell’Euro, determinando l’opinione pubblica inglese a schierarsi contro l’ingresso di Londra nell’Eurozona, agitando le peggiori menzogne nei confronti del presidente degli Stati Uniti Obama, fino a spingere i Repubblicani più oltranzisti dei “Tea Party” a contrastarlo sul piano del risanamento del debito pubblico, rischiando così il fallimento di Washington.

Da una parte il suo dogma dell’ Euroscetticismo, che si va estendendo come un virus nei paesi del Nord e dell’Est Europa, dove ha messo radici con i suoi media; dall’altro la sua doppia morale capitalistica, con la difesa ad oltranza delle regole neo-liberismo monetarista, ma furbescamente facendone carta straccia utilizzando sotterfugi illegalità. Ora ci si attende che la giustizia inglese arrivi presto alla scoperta delle responsabilità dirette dei vertici di News Corporation, dopo gli arresti dei big e le dimissioni dei responsabili di Scotland Yard. Soprattutto, però, dovrebbero battere un colpo le Autorità di garanzia europee e le istituzioni dell’Unione Europea contro l’uso distorto dei media.

Una lezione viene comunque da Londra. Una lezione di civiltà, di senso delle responsabilità e di garantismo. I sospettati dello scandalo si sono dimessi dai loro incarichi e sono stati arrestati, poi rilasciati su cauzione, non hanno aspettato di essere rinviati a giudizio. Un capo del governo ha dovuto sostenere un duro confronto alla Camera dei Comuni con l’opposizione, senza sottrarsi alle accuse più dirette. La sua poltrona ora traballa, ma l’opinione pubblica britannica è giudice degli eventi grazie ad una “copertura mediatica”, ad una stampa libera che non strilla e starnazza come accade in Italia contro la “giustizia politica…sommaria…a tempo”, contro “il tintinnare di manette” o “le toghe rosse” che vorrebbero rovesciare la volontà popolare espressa con il voto. Non si attendono, insomma, che le sentenze arrivino in giudicato, per poter esprimere giudizi etici sui comportamenti degli uomini e delle donne “del potere”. Ma è proprio così che si difendono le regole della democrazia!

E’ una lezione che la sinistra dovrebbe prendere ad esempio, quando si affrontano casi inquietanti come le varie cricche, da quella del G8 alla P3 e alla P4, che da decenni all’ombra del regime berlusconiano stanno spolpando lo Stato e imponendo la propria “politica amorale”. Altro che leggi bavaglio contro le intercettazioni, che invece hanno aiutato a scoprire il marciume di questo regime (da ultimo quelle relative al caso di “Annozero”, che è costata a Berlusconi l’iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma per abuso d’ufficio). Quelle dei giornali di Murdoch erano, va ricordato, intercettazioni illegali, pagate dalla casa editrice e operate da detective privati, con la probabile collaborazione di forze di polizia. Nessun magistrato le aveva autorizzate.

Cosa succederebbe in Italia se si seguissero le procedure inglesi ed americane? Tutti gli esponenti indagati per gli ultimi scandali si sarebbero dovuti dimettere dai rispettivi incarichi parlamentari, di governo o aziendali. Subito si sarebbero dovute tenere dei confronti parlamentari tra il capo del governo, così come una Commissione parlamentare avrebbe dovuto aprire un’inchiesta parallela a quella della magistratura. Ecco, mentre nella patria di “Alice nel Paese delle meraviglie” le reincarnazioni de lo Stregatto e del Cappellaio Matto vengono inseguite e portate davanti alla giustizia, nel paese dove regnano “pizza, pasta e quacquaraquà”, guai a mettere in dubbio, anche in Parlamento, che Ruby Rubacuori non sia stata la nipote dell’ex-presidente egiziano Mubarak, come stragiurato dal Sultano di Arcore!

Sta qui, purtroppo, tutta la differenza tra società di “Serie A”, come Gran Bretagna e Stati Uniti, e un paese come il nostro, che è al 167° posto su 170 nella speciale e degradante classifica sull’evasione fiscale e, per l’autorevole Freedom House, al 75° posto per la libertà di stampa (Gran Bretagna al 29° e Stati Uniti al 22°). (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Tempi duri per lo Squalo e il Caimano.

Sarà il gioco beffardo delle coincidenze, ma sembrerebbe proprio che, quasi all’unisono, lo Squalo globale e il Caimano nazionale si trovino in pessime acque.

Sia a Murdoch che a Berlusconi è andata liscia per troppo tempo: uno coltivava il sogno di diventare il capo di una compagnia potente e influente come lo sono nel mondo globalizzato colossi del calibro di Microsoft, di Apple, di Google. Berlusconi contava di riuscire a diventare il prossimo presidente della Repubblica Italiana e, salendo al Quirinale, garantirsi l’indulgenza plenaria totale. E invece no.

Lo scandalo del News of the World, vale a dire la corruzione di politici e poliziotti per ottenere informazioni coperte da segreti d’ufficio e poterle utilizzare per produrre scoop e tenere alte vendite e introiti pubblicitari, non ha solo mandato in fumo un affare da 8,1 miliardi di dollari, che era l’obiettivo della scalata della News Corp per il controllo totale di BskyB: quello che è davvero grave per Murdoch è che lo scandalo ha messo a nudo davanti agli azionisti e all’opinione pubblica mondiale il modo di fare affari.

Quanto a Berlusconi, si registra un grave guasto alla sua macchina da soldi, perché il traino della “discesa in campo”, cioè del protagonismo politico in prima persona per tutelare e sviluppare gli affari si è rotto: va male la pubblicità, va male l’editoria, va male la tv, va malissimo anche Endemol.

E come se non bastasse, arriva la batosta dei 560 milioni da pagare all’odiato De Benedetti, l’editore de la Repubblica, il nemico pubblico numero uno, secondo la religione berlusconista. E’ vero che a entrambi, sia allo Squalo che al Caimano è successo più di una volta di passare brutti momenti, ma tutti e due si sono poi risollevati e hanno saputo manovrare per riprendere il vento in poppa. Ma stavolta è diverso. Non di solo di affari, ma di reputazione personale, si tratta.

In Uk e negli Usa ormai si dice ormai ad alta voce che “il metodo News of the World” è il metodo News Corp. Dunque,il problema non è tanto lo scandalo in sè, quanto il durissimo giudizio politico e finanziario che si è levato contro l’impero di Murdoch. In Italia, la motivazione della sentenza della Corte d’Appello con cui la Mondadori dei Berlusconi è stata condannata a risarcire la Cir dei De Benedetti è suonata come una severissima e inappellabile sentenza di condanna al modo con cui Berlusconi ha condotto gli affari che gli hanno permesso di costruire il suo impero mediatico.

D’altra parte, attualmente la sua credibilità in politica si è estinta, come dimostrano gli avvenimenti di questi giorni. Tanto sono sembrati uguali il “metodo News of the World” di Murdoch e il “metodo Boffo” di Berlusconi, tanto sembrano uguali i rispettivi destini personali. Nessuno dei due riuscirà a perseguire fino in fondo i rispettivi sogni.

C’è da augurarsi che alle disgrazie dei due satrapi corrisponda il crollo dei rispettivi imperi monopolistici a favore di una circolazione globale dell’ informazione, meno manipolabile a fini speculativi, sia finanziari che politici. Lo Squalo e il Caimano imponevano che il medium da messaggio diventasse il loro strapotere mediatico.

Per una volta, pare che il messaggio sia pronto a riprendersi il medium: e già pare di sentire un’aria che sa di libertà di stampa e di diritto all’informazione, come fossero beni comuni.Beh, buona giornata.

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democrazia Natura Popoli e politiche

A dieci anni dal G8 di Genova, a un mese dai referendum, a una settimana dagli scontri con i No Tav in Val di Susa.

Questa intervista con Vittorio Agnoletto è apparsa oggi 10 luglio su 3Dnews, inserto culturale della domenica del quotidiano Terra.

Vittorio Agnoletto, all’epoca dei fatti portavoce del Genoa social forum, e Lorenzo Guadagnucci, giornalista che si trovava nella scuola Diaz al momento del sanguinoso blitz della polizia, hanno scritto un libro sulle tragiche giornate del luglio 2001 a Genova, dove il movimento “no global” si era dato appuntamento per protestare contro il G8. Il libro si intitola “L’eclissi della democrazia” ed è edito da Feltrinelli.

Agnoletto, sono passati dieci anni dai fatti del G8 di Genova ed ecco puntuale un libro su quegli episodi. Non c’è il rischio che tutto sappia un poco di commemorazione?

No. Perché non è un libro rivolto al passato. Ma al futuro. Raccontiamo non solo quello che successe davvero a Genova, dalla morte di Carlo Giuliani a piazza Alimonda, all’assalto alla scuola Diaz, alla “macelleria messicana” così come fu definito da un funzionario di polizia quello che successe nella caserma Bolzaneto. Ma soprattutto, raccontiamo come si è tentato in tutti i modi di nascondere la verità, di bloccare i processi, di ostacolare il lavoro dei magistrati.

Con il dovuto rispetto, Agnoletto mi lasci dire che non è una novità che in Italia la verità sui fatti politici si perda nel “Porto delle nebbie”. Fin dai tempi di piazza Fontana….

Sì, ma qui c’è un fatto inedito. I magistrati di Genova non solo sono riusciti a non far fallire le inchieste, ma addirittura per la prima volta nella storia repubblicana le inchieste della magistratura hanno portato alla condanna in secondo grado di decine di agenti, funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine, inclusi i massimi vertici della polizia di stato e dei servizi segreti. Un esito giudiziario clamoroso, senza precedenti.

Giustizia è stata fatta?

No. Tutti i condannati, anche se svergognati da ricostruzioni dei fatti rigorose, sono rimasti al loro posto, con l’avallo dell’intero arco politico parlamentare.

Non si è mai voluta istituire la commissione parlamentare di inchiesta sui fatti di Genova. Quando lei dice “l’intero arco politico parlamentare” dice che anche i partiti di centrosinistra non hanno voluto che si andasse fino in fondo.

E’ vero. Quando Prodi tornò a Palazzo Chigi,la commissione parlamentare rimase lettera morta.

Rimane comunque il fatto che la feroce repressione annichilì il movimento No Global. Aldilà delle sia pur gravissime violazioni della legalità, possiamo dire che, parafrasando il titolo del libro, l’eclissi della democrazia ha funzionato?

Il movimento seppe resistere ancora qualche mese, fino alla grande manifestazione di Firenze contro la guerra. Poi, è vero: il tessuto sociale si sfilacciò, molte delle componenti del movimento tornarono nei loro territori, nelle loro realtà.

Fenomeno che in Italia abbiamo già vissuto nei decenni passati. Una parte entra nella spirale repressione – lotta alla repressione; le altre componenti si disperdono nelle rispettive realtà. Ciò che però è insopportabile in questa coazione a ripetere è il ruolo della sinistra parlamentare.

Beh, bisogna essere consapevoli che, per esempio al Pd il movimento No Global non è mai piaciuto. La critica puntuale contro il neoliberismo è una contraddizione che il Pd fatica molto a risolvere anche oggigiorno, nonostante che alla crisi energetica e a quella ambientale si sia aggiunto lo tsunami della crisi finanziaria che ben presto è sfociata nella gravissima crisi economica che attualmente sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale.

Poi però succede che quel movimento che ha prodotto un nuova visione del mondo sembra oggi aver germogliato: l’idea della difesa dei beni comuni ha prodotto recentemente lo straordinario risultato della schiacciante vittoria dei Sì ai referendum dello scorso giugno.

Sì. Fu a Porto Alegre che, per esempio affrontammo il tema dei beni comuni. Esso è diventato programma di governo in alcuni paesi dell’America latina, ma ha lavorato, lavorato molto fino a diventare un tema importante anche nel Vecchio Continente, anche in Italia. Credo che anche il movimento No Tav abbia qualcosa che fa pensare che il filo intessuto dal movimento No Global non si sia mai del tutto spezzato.

In Val di Susa sembra però che la luna di miele tra l’opposizione parlamentare e i movimenti sia finito. Insomma, il vento sta cambiando, ma non a tutti fa piacere.

Gli argomento dei No Tav sono chiari, sono ragionamenti maturi, concreti. Gli abitanti della Val di Susa sanno che chi difende il progetto non riesce a più a nascondere che gli unici beneficiari sarebbero solo i costruttori.

Come per il famoso ponte sullo Stretto di Messina o per l’ormai defunto piano di costruzione delle centrali nucleari in Italia.

Esatto. La gente non crede più alle favole. E credo neanche al tentativo di raccontarle meglio da parte di alcuni esponenti del centrosinistra. Comunque, leggere “L’eclissi della democrazia” è utile anche per capire come il governo intende muoversi, per esempio in Val di Susa.

Agnoletto, si riferisce alla improvvisa ricomparsa sulla scenadei famigerati Black Block?

In effetti questa ricomparsa mediatica dei black block è un segnale preciso: si vuole far credere che la questione è semplicemente di ordine pubblico, che il problema è la violenza politica di “frange estremiste”. Insomma, ancora lo stesso schema: deviare il dibattito dalla sostanza della protesta alle forme della protesta è un espediente che serve nascondere la vera natura dell’Alta Velocità in Val di Susa, che serve a ostacolare il dibattito tra gli abitanti su temi importanti, squisitamente politici, che pongono sul tappeto domande precise: che uso del territorio, che tipo infrastrutture, per quale tipo di produzione di merci da trasportare, che rapporto con le risorse energetiche, che dialettica con l’ambiente, che tipo di benessere, quale qualità dei consumi?

Se il movimento No Tav è ricco, mi pare che finora le risposte sono state molto povere e tanto rabbiose.

Il che non è un bel segnale. Si rischia di spianare la strada alla repressione. Come è successo a Genova nel 2001.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Citazioni colte o citazioni giudiziarie? I giornali italiani di fronte allo sfacelo del ceto politico.

I grandi filosofi farebbero fatica a essere pubblicati sui nostri giornali-di Piero Ostellino-Il Corriere della Sera.

«L’ ideale che canta nell’ anima di tutti gli imbecilli… è quello di una sorta di Areopago, composto di onest’ uomini, ai quali dovrebbe affidarsi gli affari del proprio paese (…) È strano che, laddove nessuno, quando si tratta di curare i propri malanni o sottoporsi a un’ operazione chirurgica, chiede un onest’ uomo e neppure un onest’ uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurghi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia… nelle cose della politica si chiedono non uomini politici ma onest’ uomini (…) Le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politici, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, non già nella politica». Chi l’ avrebbe detto: Benedetto Croce complice della Casta e delle allegre serate di Arcore!

«Da un legno storto come quello di cui è fatto l’ uomo non si può fare nulla di completamente dritto (…) Non pare possibile una storia sistematica come ad esempio quella delle api e dei castori (…) Il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro (degli uomini) antagonismo nella società».

Incredibile: Immanuel Kant non solo teorizza l’ immoralità ma, elogiando «l’ insocievole socievolezza» degli uomini, è contro la stabilità collettiva! «In ogni sistema di morale con cui ho avuto finora a che fare, ho sempre notato che l’ autore procede per un po’ nel modo ordinario di ragionare e stabilisce l’ esistenza di un bene, oppure fa delle osservazioni circa le faccende umane; quando all’ improvviso mi sorprendo a scoprire che, invece di trovare delle proposizioni rette come di consueto dai verbi è e non è, non incontro che proposizioni connesse con dovrebbe e non dovrebbe… Poiché questi dovrebbe e non dovrebbe esprimono una relazione o affermazione nuova, è necessario che… si adduca una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, cioè del modo in cui questa nuova relazione può essere dedotta dalle altre, che sono totalmente diverse da essa».

Inconcepibile: David Hume nega la possibilità razionale di produrre «svolte epocali»! Temo che Croce, Kant, Hume incontrerebbero qualche difficoltà a pubblicare i loro scritti sui nostri media. Ogni giorno, la storia del Pensiero finisce in quella «Tomba del pensiero» che è il giornalismo. Trionfa il nulla, che oscilla fra l’ anatema da curva Sud contro l’ avversario e la banalità del «politicamente corretto». E ha una sola attenuante: di ignorare la storia intellettuale di duemila anni. Etica, Politica, Diritto finiscono in una sorta di insalata russa; si diffonde il lessico dell’ «anima di tutti gli imbecilli»; che nega che l’ uomo sia una miscela di bene e di male e prefigura una storia tutta Bene, scritta dalle Procure, o tutta Male, scritta dai politici; che attribuisce alla Giustizia il compito di trasformare gli uomini in angeli; che salta senza costrutto dalla realtà effettuale a quella che si vorrebbe che fosse. A quando un editoriale, finalmente equilibrato, ma anche forte: «Non ci sono più le mezze stagioni»?
(Beh, buona giornata).

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Attualità Guerra&Pace Popoli e politiche

Il generale Mini: “In Afghanistan chiudiamo il gas e andiamo via”.

di Carlo Mercuri-Il Messaggero.

Generale Fabio Mini, l’ennesimo soldato italiano ucciso in Afghanistan potrebbe indurci a un ripensamento di strategia militare, magari a fare le valigie prima del tempo? «Prima dovrebbe spingere le Autorità a verificare che cosa si è fatto in Afghanistan negli ultimi 10 anni. A rispondere alla domanda: quale eredità lasciamo agli afghani?».

Quale eredità?
«Nessuna. In Afghanistan abbiamo fatto poco, male e mai niente di nostra iniziativa».

Vuol dire che noi italiani facciamo quello che gli altri ci dicono di fare?
«Esattamente. In Afghanistan abbiamo seguito la linea americana della caccia a bin Laden e ora che bin Laden è morto, noi continuiamo lo stesso a dare la caccia a qualcuno o a qualche cosa. Mai proposto una strategia diversa, né in Afghanistan né in Iraq né nei Balcani».

Ma gli americani sono nostri alleati…
«Già. Però nelle missioni del Libano nel 1982, nel Kurdistan iracheno, in Albania, noi conducemmo operazioni che tendevano a risolvere i conflitti senza rompere gli equilibri regionali. Questa fu una caratteristica delle nostre missioni: operazioni militari che non avevano lo scopo di distruggere ma di costruire rapporti. Ora questa nostra caratteristica si è persa».

Perché, secondo lei?
«Perché ora abbiamo una politica estera ispirata al criterio della mera partecipazione. Dove c’è qualcun altro dobbiamo esserci anche noi. Ce lo impongono i trattati, dicono. Falso. Veda la questione delle nostre basi concesse ai britannici e ai francesi per la crisi libica».

Francesi e britannici non sono nostri alleati?
«Noi abbiamo concesso le basi prima del via alla missione Nato. Non è che noi si debba concedere qualsiasi cosa che gli altri, per le loro ragioni interne, ritengano opportuno».

Fa bene la Lega, allora, a dire: via dalle missioni?
«La Lega mira a far affondare la barca grande per poter comandare la scialuppa. Ma questo autolesionismo, paradossalmente, potrebbe favorire la riappropriazione della nostra sovranità in ambito internazionale».

Lei parlava prima della Libia: anche lì ci sono dei punti oscuri?
«La Libia è la somma di tutte le vacuità. Prima con il trattato bilaterale abbiamo calpestato la Nato, poi abbiamo cancellato d’un colpo tutte le ragioni del rapporto bilaterale decidendo di bombardare, infine abbiamo invocato la Nato per rallentare i raid… Qual è il nostro ruolo internazionale? Non c’è. Finirà come quando abbiamo lasciato l’Iraq, che Rumsfeld disse: tanto non servivate».

Disse proprio così?
«Certo, c’è la dichiarazione ufficiale».

Ora la nuova strategia Usa in Afghanistan prevede i colloqui con i talebani. Lei che ne pensa?
«Bene. E’ un assioma militare: se non si conoscono i nemici è inutile fare alcunché».

In conclusione, come si esce dall’Afghanistan?
«Chiudendo il gas e andando via. E chiedendoci: che cosa lasciamo laggiù, oltre a tutte queste giovani vite spezzate?». (Beh, buona giornata).

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