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La crisi? E’ nel modello neoliberista e monetarista.

di Stefano Corradino- articolo21.info

“…E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio”. Paolo Cacciari, giornalista, ex parlamentare ed oggi membro dell “Associazione per la Decrescita”, intervistato da Articolo21, analizza a tutto campo la crisi economica ed internazionale, che è crisi “del modello neoliberista e monetarista”. Quella di Cacciari (e non solo lui) è una visione altra dell’economia e delle relazioni sociali “Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio”.

Le istanze della manifestazione di sabato 15 ottobre sono state praticamente oscurate dagli scontri che hanno messo la Capitale a ferro e fuoco. Ma le rivendicazioni degli indignati restano. “Noi la crisi non la paghiamo” recitava lo slogan portante delle mobilitazioni. Quali sono i soggetti più colpiti dalla crisi e quelli maggiormente responsabili di averla prodotta? In che modo questi ultimi possono essere inchiodati alle loro responsabilità?
E’ la politica che deve farlo? O sono le stesse istituzioni economiche e finanziarie a doversi “autoriformare”?
I giovani nelle piazze di tutto il mondo rivolgono a chi ci governa una domanda molto semplice: se chi ha provocato la crisi economica che si protrae da oltre tre anni sono stati operatori finanziari imprevidenti, intermediari di capitali spregiudicati, gestioni speculative delle valute e dei titoli azionari, perché non sono costoro a pagarne i costi? Perché i capi dei governi invece di porre il sistema bancario sotto rigido controllo svuotano le casse pubbliche e impegnano i denari dei contribuenti per tamponare i buchi di bilancio (crediti inesigibili) delle banche private? Perché i movimenti di capitale continuano a fluttuare liberi come l’aria, mentre le economie reali, l’occupazione, il potere d’acquisto dei salari precipitano? La risposta che viene dall’establishment è disarmante: i debiti sono troppo grandi per essere lasciati insolvibili.

“Default”, è il termine che più di ogni altro sembra terrorizzare gli Stati. Cosa succederebbe se fallissero le banche e gli stati?
Appunto. Non è più dato scegliere se salvare quattro banche o uno stato. La dichiarazione di fallimento di più istituti bancari e/o di più stati potrebbe avere un effetto di trascinamento (contaminazione, la chiamano) davvero dirompente in un sistema economico internazionale integrato e comandato dalla finanza come è quello in cui viviamo. Ma questa verità non può essere una scusa per lasciare le cose come sono, per non affrontare le cause strutturali che sono all’origine della crisi finanziaria, per non individuare e rimuovere i responsabili (che non sono solo dentro le banche e i governi, ma anche tra i prezzolati teorici del neoliberismo e del monetarismo dentro le accademie universitarie) e, quindi, operare i cambiamenti profondi che sono necessari. A proposito di “riforme” che non si fanno.

La politica è ostaggio dell’economia?
Le persone per bene si sono “indignate” proprio perché vedono che la politica è ostaggio dei detentori dei titoli di credito, dei capitalisti che continuano a pretendere ed ottenere tassi di rendimento (rendite finanziarie) dieci, venti volte superiori ai tassi di profitto reali delle imprese. Quando anche i manager dell’industria vengono pagati con le stock option (penso a Marchionne), cioè con le azioni e non con i fatturati industriali, allora si capisce bene che il sistema economico è semplicemente impazzito. Per essere più precisi: si regge solo grazie all’immissione di dosi sempre più massicce di droga. Droga di stato: stampa di cartamoneta, ricapitalizzazioni, acquisto di bond che non valgono nulla, rinuncia al prelievo fiscale, ecc.

Tu sei uno dei principali animatori italiani della cosiddetta “decrescita”, modello altro di sviluppo che gli stessi giovani indignati hanno più volte evocato. A prima vista sembra un paradosso. Una delle accuse rivolte all’Italia e ad altri Paesi è che sono a “crescita zero”. Voi affermate il concetto contrario: l’aumento del Pil non aumenta il benessere generale; il problema non è privilegiare la crescita ma “fermarla”, redistribuire le risorse globali. Come si realizza praticamente?
E no, sono loro immersi in una spirale perversa! La crescita del volume del valore monetario delle merci in circolazione (del Pil) può avvenire solo facendo altri enormi debiti. Ma ogni debito ha il difetto di portarsi dietro un creditore che – se lasciato libero – chiederà per se sempre qualche denaro in più del rendimento dei profitti industriali. E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio. La sfida più avanzata e moderna è: stare meglio con meno. E non penso solo agli sprechi, all’usa e getta, alla obsolescenza programmata per far durare meno gli oggetti, alle psicopatologie del consumatore compulsivo… Penso alla rarefazione delle risorse naturali (non solo il petrolio e l’uranio, ma il litio, senza del quale niente batterie per le auto elettriche, o i minerali rari, senza i quali niente telefonini, o il coltan, niente computer) che ci obbliga a diminuire i flussi di materie e di energia impegnati nei cicli produttivi. Questa è già una prima definizione, la più immediata e banale, se vuoi, di decrescita.

Un rallentamento della crescita economica e la conseguente diminuzione della produzione di merci non provocherebbe un aumento della disoccupazione e della povertà?
Non facciamo confusione: si possono creare e produrre dei beni, delle cose utili (e già ora se ne fanno moltissime, pensiamo solo al lavoro domestico, che non viene conteggiato nel Pil) senza che assumano per forza la forma di merci, valutate cioè in termini monetari e scambiate sui mercati globali. Certo, la nostra società spinge a mercificare ogni cosa: dalla cura dei bambini e degli anziani all’inquinamento atmosferico (una tonnellata di CO2 sulla borsa di Londra valeva ieri 18 euro), dalle sementi brevettate dalle multinazionali agro-farmaceutiche, al sesso… Ma è possibile ed auspicabile pensare di soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri senza necessariamente passare per un supermercato. Se solo l’enorme potenzialità della tecnoscienza fosse finalmente indirizzata a preservare l’ambiente e a ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione (e non invece a intensificare gli sforzi produttivi) riusciremmo tutti a vivere in ambienti più salubri e a lavorare meno. Non era questa la felicità?

La crescita economica ha dimostrato di essere diseguale, accrescendo l’ineguaglianza sociale, e concentrando ricchezze nelle mani di pochi. La “decrescita”, in questo caso, si concretizzerebbe come una sorta di azione alla “Robin Hood”, togliendo materialmente le ricchezze a chi ne ha di più per redistribuirle tra i ceti meno privilegiati?
Anche, certo: lavoro e ricchezza vanno meglio distribuiti. La società capitalistica crea per sua natura accumulazione e concentrazione di ricchezze. Fino a ieri tale diseguaglianza era giustificata perché – dicevano – aumentava la competitività, l’emulazione, la produttività del sistema tutto. Il concetto di “sviluppo” e di “sottosviluppo”, quando è nato, nell’immediato secondo dopoguerra, conteneva l’idea di una avanzata di tutte le nazioni del mondo. Era, a suo modo, un’idea universalista e progressista. Assistiamo oggi al fallimento storico di quella promessa. La forbice si allarga, nel mondo, ma anche terribilmente all’interno di ogni singolo stato. Non ci sono mai state nella storia dell’umanità disparità di ricchezze patrimoniali e reddituali così marcate. Pensate: le tre persone più ricche del mondo posseggono guadagni pari alla ricchezza dei 600 milioni di persone che abitano nei 48 paesi più poveri del pianeta. 257 individui possiedono quanto il 45% delle persone sulla terra (2,8 miliardi). Raccapricciante!

La decrescita presuppone una vera e propria rivoluzione culturale. Da dove partire? Quanto siamo schiavi della crescita e della logica del profitto a tutti i costi?
Serge Latouche dice che dobbiamo “decolonizzare l’immaginario” e Gregory Bateson scriveva di “ecologia della mente”. Dobbiamo compiere un lavoro di sgombro dalle macerie che ci ha lasciato il falso mito della crescita infinita. Elevare le capacità critiche del pensiero. Le rivoluzioni non si esportano e non cadono dall’alto. O sono molecolari, condivise dal basso, consensuali… o non sono rivoluzioni.

Anche per la decrescita sarà così?
Sì, una rivoluzione democratica, scelta, partecipata. La decrescita già si vede in mille pratiche individuali e comunitarie. Si coniuga con l’“altra economia”, con l’economia solidale e sociale e con la gestione collettiva dei beni comuni, il nuovo potente paradigma (riscoperto anche grazie al Nobel alla Elinor Ostrom) che ci indica come sia possibile transitare dalla società del possesso a quella dell’essere, dalla competizione alla cooperazione, dal saccheggio alla preservazione, alla sufficienza, all’abbastanza, alla frugalità. E non per angelico francescanesimo, ma perché smarcarsi dalle costrizioni produttivistiche e consumistiche è bello. Saper fare da sé soddisfa. Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio. Scambiarsi oggetti, servizi, mezzi di trasporto, abitazioni… allarga i tuoi orizzonti. Prendersi cura delle cose pubbliche aumenta le occasioni di occupazione.

Da giornalista, quanto contribuiscono i media ad incentivare i consumi materiali superflui rispetto a una logica del consumo responsabile?
Dico sempre (vedi: Decrescita o barbarie, scaricabile gratuitamente da internet) che noi, persone comuni, siamo sicuramente scemi, “schiavi volontari” di convenzioni sociali e dispotismi di chi ci comanda. Ma anche loro devono impegnarsi molto per renderci così docili. I due settori economici che non conoscono crisi sono gli armamenti e la pubblicità: il bastone e la carota necessari per mantenere inalterato uno stato di cose che altrimenti, senza violenza e senza manipolazione delle menti, salterebbe subito. Tu mi chiedi dei media. Oggi televisioni e rotocalchi, ma anche la stragrande maggioranza dei quotidiani – tu mi insegni – non vendono notizie: vendono spazi pubblicitari, se è vero che gli editori ricavano più denari dagli inserzionisti che non dai lettori.

La “decrescita” parte da un rifiuto netto dei principi dell’economia liberista o si può costruire all’interno del libero mercato stesso?
Anche all’interno dei sostenitori della decrescita vi sono opinioni e tendenze diverse, più o meno radicali nei confronti del mercato. Nella Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale di Barcellona lo scorso anno (la prossima si terrà a Venezia nel settembre del 2012) si sono sentite molte voci e viste esperienze diverse. Si va da Tim Jechson (autore di: Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011) che dirige un gruppo di ricerca governativo del Regno Unito, al Wuppertal Institute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, sempre di Edizioni Ambiente) guidato da Wolfgang Sachs che è stato un allievo di Ivan Illich, per arrivare ai francesi del “Journal la Décroissance” che sicuramente sono i più anticapitalisti. Quello che penso io è sicuramente poco importante, ma i mercati, come le monete, esistevano prima del capitalismo e, per molti prodotti e se ben regolamentati, potrebbero continuare ad avere un ruolo positivo. Il guaio è quando profitto e accumulazione diventano la regola aurea, esclusiva e totalizzante dei rapporti sociali, quando natura e lavoro diventano meri strumenti (coseificazione e alienazione) per l’accrescimento del capitale impiegato nei cicli produttivi. La famosa “distruzione creativa” schumpeteriana – s’è visto – distrugge più di quanto non riesca a creare.

Questo nuovo paradigma socio-economico sembra avvicinarsi alle tesi dei modelli socialisti o comunisti di matrice marxista. In che modo la “decrescita” si sovrappone o si differenzia da queste tesi e dalle sue applicazioni pratiche così come le abbiamo conosciute? (Urss, Cuba, Cina…)
Nonostante intuizioni profetiche – anch’io ho tentato di mettere in relazione marxismo ed ecologismo (“Pensare la decrescita, Carta e Intra Moenia”, 2006, ndr) . Molto più approfondito il libro di Badiale e Bontempelli: “Decrescita e marxismo”; Marx non riesce a liberarsi dal fascino del progresso tecnologico industriale. E credo che si possano far risalire a lui molte responsabilità della parabola dell’esperienza sovietica. Con il “capital comunismo” cinese, invece, credo proprio che il povero Marx non c’entri per nulla. Ho letto che a Cuba si stanno facendo esperienza importanti nel tentativo di riterritorializzare l’economia. Così come entusiasmanti sono le esperienze in corso in Ecuador, dove i diritti di Pacha Mama, la madre terra, sono stati costituzionalizzati.

Insomma dovremmo cominciare a imparare a fare quello di cui abbiamo bisogno con quello che abbiamo?
E’ così, rinunciando definitivamente a mire imperiali, a superiorità coloniali, a ogni sogno di potenza. Alberto Magnaghi (fondatore del movimento territorialista) parla di “autarchia cosmopolita”. L’idea, non è nuova, è quella della confederazione delle autonomie sociali locali. Swadeshi, diceva Gandhi, per indicare l’autodeterminazione dei villaggi. Comunanze, si potrebbero chiamare, ma non chiuse, in reciproco, paritario rapporto tra loro. Bioregioni. Per un’idea di bioumanesimo planetario. La decrescita, insomma, non è solo dematerializzazione, non è solo demercificazione. E’ una direzione di marcia che segue una idea di società, di individuo, di natura più correlati, più armoniosi. (Beh, buona giornata).

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democrazia Politica Potere

Cosa manca a Matteo Renzi? Un’idea di sinistra.

di Stefano Cappellini-ilmessaggero.it
A Matteo Renzi va riconosciuto un merito non secondario: ha coraggio. Non è merce molto diffusa nel Pd. Il modo in cui Renzi è diventato sindaco di Firenze, vincendo primarie nelle quali correva contro i candidati ufficiali del partito, ne è stata la dimostrazione principale. Anche nella sua contestazione all’attuale leadership democratica dimostra una intraprendenza che troppo a lungo, e per più di una generazione, è mancata ai giovani del Pd.

Aggiungiamo che la necessità di rinnovare il gruppo dirigente democratico è tema di assoluta urgenza, che può essere negato solo per cecità politica o per malafede. La gran parte della nomenclatura del Pd, con poche ma significative eccezioni, ha cavalcato tutti i vent’anni della Seconda Repubblica e con poca gloria. Gli stessi maggiorenti e capicorrente sono stati di volta in volta ulivisti e anti-ulivisti, prodiani e anti-prodiani, destrorsi e sinistrorsi. Il problema di un radicale ricambio non è dunque tanto una questione di vetustà, ma soprattutto di credibilità. Le ragioni di Renzi rischiano però di essere indebolite, fino quasi a essere cancellate, dai limiti della sua proposta politica. Limiti di forma e insieme di sostanza.

Innanzitutto c’è una questione che potremmo definire di appartenenza. Pier Luigi Bersani rischia di mancare il bersaglio quando accusa Renzi di «tirare calci», perché le contese per la leadership non sono mai un pranzo di gala e se ai giovani si toglie l’arma del conflitto dovranno far conto solo sulla cooptazione dei vertici. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ma Bersani ha ragione quando, con la metafora dei calci, vuole intendere anche che la battaglia di Renzi sembra condotta, e non da oggi, contro il Pd, più che dentro il Pd.

Renzi ha spiegato a Firenze che ha scelto di non nominare Berlusconi, perché «così si guarda avanti». L’ultima campagna elettorale ha dimostrato che non basta ignorarlo, Berlusconi, per metterselo alle spalle. Renzi è peraltro uno di quei leader che dal berlusconismo attingono eccome, imitandone la tendenza a fare più attenzione alla confezione che al contenuto. Non è il primo né l’unico a sinistra, anzi. Per testimoniare la carica di innovazione dei cosiddetti rottamatori riuniti a convegno alla stazione Leopolda di Firenze s’è inventato la parola d’ordine del wiki-Pd. Un nome di battesimo internettiano, suggestivo e certo familiare alle orecchie dei ventenni-trentenni.

Ma in cosa consiste il wiki-Pd? Perché dovrebbe essere meglio del bronto-Pd? A chi è in grado di
parlare questa formula, oltre che alla comunità dei social network e degli smartphone? Mistero. Troppo spesso ci si dimentica che Berlusconi ha sì inaugurato la stagione della politica spettacolo e ipermediatica, ma poi i suoi storici slogan vincenti sono stati «meno tasse per tutti» e «aiutare chi è rimasto indietro». Sospettiamo che la wiki-politica sia una formula molto cool e smart, utile a fare (ottima) immagine, meno a rendere il Pd una credibile forza di governo, seppure in mano a una nuova generazione.

Ma peggio ancora va nei passaggi in cui Renzi cerca di dare una sostanza all’etichetta giovanilistica. A parte la polemica con i «vecchi», il messaggio principale arrivato dalla Leopolda è che Marchionne è in cima al pantheon dei rottamatori. Una apologia del marchionnismo che oltre ad arrivare decisamente fuori tempo massimo – nel momento in cui il manager è pesantemente sotto accusa per il deficit di politica industriale della Fiat – è incompatibile con l’ambizione di guidare il principale partito del centrosinistra. Non perché Renzi sia «di destra», come gli ha rimproverato Nichi Vendola, a torto, visto che neppure nella maggioranza di centrodestra la linea Marchionne riscuote l’acritico consenso che Renzi e i suoi gli hanno tributato a Firenze. Un grande partito di centrosinistra non si sdraia sulle ragioni dell’una o dell’altra parte.

Nella recente contesa Fiat-Fiom il Pd ha giustamente cercato, con fatica ma a ragione, di coniugare le istanze di una grande impresa nell’economia globalizzata e le sacrosante ragioni del mondo del lavoro, cui un grande partito di centrosinistra non può voltare le spalle in nome di astratti furori ideologici. Parlare all’elettorato del campo opposto è un obiettivo giusto. Ma non è con il salto di barricata o con la scorciatoia del marchionnismo che la strategia di allargare i consensi può funzionare.

E se a Renzi non è chiaro, per rendersene conto gli basta fare un salto in Parlamento, dove il capolista del Pd in Veneto alle ultime elezioni, Massimo Calearo, già falco di Federmeccanica e berlusconiano ante litteram, è tornato alle origini e non nega mai il suo voto di fiducia al governo del Cavaliere. (Beh, buona giornata).

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Anche in Cina gli indignados.

Da:http://www.china-files.com/archivea.php?author=Simone%20Pieranni,%20Gabriele%20Battaglia

Eccoli qui gli indignados con caratteristiche cinesi. L’Occidente – abituato a proiettare l’immagine di se stesso in tutto il mondo, come se rappresentasse il tutto e non la parte – li attendeva forse sotto forma di dissidenza politica. La Cina traduce invece a suo modo, del tutto materialista, una lotta comune a livello globale: quella contro il capitale finanziario che prima promette e poi affama.
Update 29 ottobre

Stamattina è stato ufficializzato il blocco dell’aumento di tasse previsto prima dei riots che hanno avuto luogo nei dintorni di Huzhou.

Il South China Morning Post, ha riportato alcune testimonianze: ” Il mio capo mi ha appena detto di tornare al lavoro domani, altrimenti sarò messo in una lista nera”, ha detto un lavoratore, aggiungendo che molti altri avevano respinto questo tipo di ordini. “Non voglio andare a lavorare perché il governo sta creando un’aria di tensione con l’invio di poliziotti armati. Questi gesti non fanno altro che aumentare il risentimento.

Il lavoratore in questione inoltre conferma le voci di possibili morti negli scontri: “ho visto due lavoratori migranti perdere i sensi dopo essere stati picchiati dalla polizia armata, ma le autorità locali affermano che nessuno è morto.”

La cronaca.

Il South China Morning Post li ha definiti – oggi 28 ottobre – gli indignati cinesi. Non hanno hashtag su Twitter, stickers stilosi e portavoci noti, ma sono inferociti: si tratta dei proprietari di piccole aziende e i loro lavoratori. Dopo un periodo di crisi dovuta a mancanza di credito dalle banche, ieri si sono riversati per strada per protestare contro l’aumento delle tasse. Una novità assoluta per la Cina: padroncini e operai insieme contro le autorità.

E’ accaduto a Huzhou, nello Zhejiang considerata la capitale mondiale dell’abbigliamento per l’infanzia: da lì provengono tutti i vestiti dei bambini cinesi e occidentali, da lì è partita una nuova stagione di proteste in Cina. Dopo aver rifiutato il pagamento delle tasse, da una piccola fabbrica di abbigliamento è partita la protesta che ha portato i proprietari di piccole imprese e i loro lavoratori a distruggere strutture pubbliche, rovesciando e incendiando veicoli. Si tratta di un fenomeno nuovo in Cina, che vede per la prima volta dalla stessa parte piccoli imprenditori e lavoratori.

La situazione nella regione che costituisce il polmone economico del paese ha vissuto così un aumento della tensione. Dopo la fuga di molti imprenditori, schiacciati dagli usurai, e il fallimento delle piccole e medie imprese, la protesta è sfociata in scontri. Sarebbero 28 gli arrestati, mentre le forze dell’ordine cercano di riportare la calma nella città. Il malcontento però, non sarebbe limitato ad Huzhou, l’intera regione è ormai in fibrillazione, in attesa delle annunciate manovre di sostegno del governo centrale. Xinhua ha riferito che diversi agenti di polizia e responsabili della gestione della città sono stati feriti quando oltre 100 manifestanti si sono recati presso la sede del governo, scagliando pietre contro gli edifici e distruggendo lampioni e insegne. Sempre secondo l’agenzia ufficiale cinese, le violenze si sarebbero inasprite dopo che mercoledì un gran numero di manifestanti aveva bloccato una strada principale e un veicolo aveva abbattuto dieci manifestanti.

Secondo quanto riportato dai media locali, la folla di manifestanti avrebbe lasciato gli uffici del governo solo nella notte di mercoledì, salvo riunirsi alle prime luci dell’alba di giovedì 27 ottobre: avrebbero nuovamente assaltato il palazzo distruggendo almeno trenta macchine parcheggiate nelle vicinanze e altri edifici pubblici. Secondo alcuni abitanti della zona che si sono espressi attraverso Weibo, il Twitter cinese, i manifestanti sarebbero stati in realtà migliaia, mentre non si è ancora a conoscenza dell’eventuale numero dei feriti tra chi protestava. L’incidente è stato l’ultimo di una serie di sollevazioni di massa che hanno scosso le regioni meridionali negli ultimi mesi. A settembre, centinaia di residenti avevano bloccato una strada e preso d’assedio la stazione di polizia nel villaggio di Wukan, per protestare contro la presunta cessione di un allevamento di maiali di proprietà collettiva. Secondo alcuni blogger la rabbia dipenderebbe dall’aggravio del carico fiscale, come nel caso di una fabbrica che si è vista aumentare le tasse sulle proprie macchine da cucire.

Il commento.

Tra mercoledì e giovedì, centinaia (secondo Xinhua) o migliaia (secondo testimonianze locali) di piccoli imprenditori con i loro dipendenti sono scesi in piazza a Huzhou, nello Zhejiang, assaltando uffici pubblici e incendiando automobili, per protesta contro l’aumento delle tasse locali.

La rivolta trasversale, una vera e propria alleanza dei ceti produttivi, prende di mira i simboli del potere politico e discende direttamente dalla stretta del credito alle piccole imprese, imposta dall’alto per frenare l’inflazione, che sta di fatto strangolando quel settore che è stato la vera e propria spina dorsale del boom cinese. Fine dei finanziamenti, aumento delle tasse, diminuzione degli ordinativi internazionali, crescita dell’inflazione: una miscela letale per una piccola industria che attraverso l’export ha trainato il Paese per trent’anni. Il South China Morning Post li ha definiti “indignati”: un caso?

Se vogliamo, si tratta di una protesta che assomiglia più alle degenerazioni italiane che alla consapevolezza mostrata dal movimento nel resto del mondo. Ma l’immagine non inganni: se dalle nostre parti l’esito violento è stato provocato da una spinta ideologica – l’azione premeditata del Black Bloc non si sa quanto infiltrato – qui assomiglia a migliaia di “incidenti” che si verificano ogni anno, e anche questo ci racconta un po’ di Cina.

L’assenza dei cosiddetti “corpi intermedi” e di un compiuto Stato di diritto non lascia che una via d’uscita: l’esplosione. Dopo di che, sarà il potere politico stesso a tentare di introiettare nel sistema ciò che può rafforzarlo e farlo progredire, reprimendo invece l’indigeribile, ciò che potrebbe rivelarsi un cancro che lo consuma dall’interno. Se non ci riesce è il caos, il disordine, l’idea che più terrorizza la Cina tutta. Ciò che c’è di comune con il resto del mondo, in questa rivolta, è il nemico: l’economia finanziaria che tradisce le aspettative e fa ricadere sul lavoro i costi del suo fallimento. Ciò che c’è di nuovo e di specifico, è l’inedita alleanza dei produttori.

È questo di Huzhou, se vogliamo, un evento imparentato più alle manifestazioni del ceto medio di Dalian contro lo stabilimento chimico che appesta l’aria, che alle ricorrenti jacquerie di contadini espropriati delle terre. A noi ricorderebbe forse il contesto della Rivoluzione Francese, quando i nuovi ceti borghesi emergenti non trovarono più nell’Ancien Regime l’humus adatto a garantire la propria ulteriore crescita. E lo decapitarono. Quello che sembra leggersi tra le righe – con tutti i benefici d’inventario che questa sorprendente Cina ci impone di premettere – è una sempre maggiore difficoltà del potere politico a prevedere questi eventi inediti.

A Pechino se ne rendono conto benissimo: nelle province le autorità locali agiscono lontano dagli occhi, spesso in una condizione di emergenza finanziaria che le costringe a vendere terreni agli speculatori edilizi o, come in questo caso, ad aumentare le tasse. E quando tali misure si innestano su altri provvedimenti del governo centrale, ad esempio la riduzione del credito, l’effetto dirompente si moltiplica e il controllo viene meno. È come se centro e periferia non si parlassero. La prossima mutazione potrebbe essere dunque proprio quella del potere politico stesso e della sua organizzazione sul territorio. Ovviamente “secondo caratteristiche cinesi”.

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Think boldly, il nuovo logo di ConsorzioCreativi.

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Questo è il nuovo logo di ConsorzioCreativi, che è anche il claim e il pulsante del nuovo sito. La mission è sintetizzata dalla seguente definizione: comunicazione, pubblicità e marketing di alto valore, senza spargimento di costi. ConsorzioCreativi ha appena lanciato on line la nuova versione del suo sito, rinnovato nella grafica e nei contenuti. Nell’editoriale di oggi, apparso su consorziocreativi.com/blog vengono illustrate le linee guida del nuovo sito. Beh, buona giornata,

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ConsorzioCreativi lancia il suo nuovo sito. Con qualche novità.

Tra poco più di mezz’ora, a mezzanotte, cominceranno le procedure di lancio on line del nuovo sito di ConsorzioaCreativi. Anticipiamo qui l’editoriale che apparirà domani sul blog annesso al nuovo sito.

Think boldly

Siamo al terzo restyling di consorziocreativi.com in due anni. La prima versione fu dedicata ai promotori, con la seconda poi al centro ci fu l’assetto organizzativo. Con questa nuova veste grafica, ConsorzioCreativi trasforma il sito in uno strumento di lavoro, in un momento in cui lavorare per la comunicazione, per la pubblicità e il marketing è diventato difficile. La crisi picchia duro su consumi e consumatori, sui prodotti, sulle aziende: i budget si restringono, alcuni soggetti hanno sospeso gli investimenti, altri li hanno già tagliati da tempo.

Per questo, la veste grafica è sobria, essenziale, funzionale. Ma, al tempo stesso è allegra, colorata, vivace. Il meccanismo è incentrato sul pulsante “Think boldly”: attraverso questo pulsante si accede alla home page, attraverso lo stesso pulsante si torna alla hp. Un tramite, come tramite vuole essere ConsorzioCreativi nel mercato della comunicazione: dalle complicazioni dell’oggi, alle soluzioni possibili.

L’impianto grafico ricorda e cita un tablet e le relative applications: anche l’apertura delle pagine è comandata da pulsanti che danno l’idea di agire, del mettersi al lavoro, dell’ottimizzazione del tempo, attraverso scelte precise. A cominciare dal blog, ma anche in altri ambiti, consorziocreativi.com ha scelto la condivisione con i social network: Facebook, twitter, Linked, You tube sono automaticamente connessi col sito. Altri social network sono a disposizione dei lettori del blog.

Anche in questo caso la scelta funzionale rimanda a una decisione simbolica: applications e social network sono il superamento del sito, che smette di essere una semplice vetrina per diventare una sorta di piattaforma verso l’esterno. Che è l’idea di ConsorzioCreativi: non un isola, ma una penisola protesa verso ignote, quanto affascinanti innovazioni nella comunicazione.

E poi l’innovazione pura: il negozio della buona pubblicità. Lo “store” di ConsorzioCreativi, nei quali scaffali sono in vendita le nuove confezioni dei nostri prodotti. Prodotti esposti con il prezzo chiaro e trasparente. Perché?

Sono anni che le associazioni dei clienti e delle agenzie discutono di remunerazioni, di rimborsi, di regole. Oltre che dichiarazioni di principio, oltre che parole incentrate su buone intenzioni, nella realtà dei fatti, comportamenti concreti non se ne sono visti. Il risultato è che il prezzo, non il talento, sembra essere l’unico terreno della concorrenza fra agenzie. Bene, ne abbiamo preso atto.

La logica conseguenza dell’apertura del negozio sono le promozioni. La promozione di questo mese riguarda l’agricoltura e le filiere connesse: dobbiamo essere capaci di portare la pubblicità dove può essere utile allo sviluppo di attività economiche eco sostenibili.

E, per concludere questo capitolo, è bene segnalare che nel negozio è in vendita uno specifico prodotto per gli Start Up. Contribuire al successo di nuove imprese non è solo la vera via d’uscita dalla crisi, ma la mission che dovrebbe darsi tutta l’industry della comunicazione commerciale italiana.

Riassumendo, tre sono le direttrici lungo le quali di muove a partire da oggi il nuovo consorziocreativi.com. La prima è la sobrietà e la funzionalità, che fanno di questo sito un vero e proprio strumento di lavoro.

La seconda direttrice è nell’integrazione tra i social network e il sito stesso: con al centro il blog, come diario di bordo di nuove esperienze, concetti e teorie.

La terza direttrice è la vocazione commerciale di consorziocreativi.com: se ogni sito web è anche una vetrina, la nostra è la vetrina di un negozio, in cui si commercializza il nostro talento alla luce del sole, nel pieno rispetto delle regole del mercato.

Il pulsante Think boldly, che un nostro cliente e amico ha definito pop, è il logo, la sigla, il leitmotiv, la tag non tanto di questo sito, quanto piuttosto il claim con cui affrontare questi tempi: con audacia. (Beh, buona giornata).

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Roma, apre lo store chiude la città.

L’ apertura di uno store Trony ha bloccato Roma per ore. Ottomila persone che hanno fatto la coda anche di notte in cerca di iPod a prezzi stracciati, di lavatrici a 69 euro, di tv ultima generazione a costi irripetibili, hanno messo in ginocchio mezza Roma, paralizzando due consolari, la Cassia e la Flaminia, la Tangenziale e un nodo stradale strategico come Tor di Quinto, perennemente intasato dalle sette alle dieci di ogni mattina.

Questa è la notizia, alla quale si possono aggiungere una vetrina in frantumi, qualche accenno di rissa, un certo numero di spintoni.

In genere, la ressa all’inaugurazione di un mega store è una buona pubblicità per i grandi marchi della distribuzione. Ma stavolta si sono superati i limiti. Per via del non funzionamento dei sensori sul territorio, con i quali sarebbe stato facile non solo prevedere la grande affluenza, ma gestire con intelligenza anticipatoria gli effetti sulla viabilità in particolare, sull’ordine pubblico in generale.

Qualcuno dirà: questi sono compiti che spettano all’amministrazione delle città, dunque alla politica. È vero. E infatti le polemiche sono già cominciate. Al di là delle quali c’è una semplice constatazione: se ottomila persone bloccano una città di tre milioni di abitanti, beh è impossibile non vedere che c’è più di un qualche problema di efficienza.

Ma qui vorremmo occuparci del rapporto tra un grande brand come Trony e il territorio in cui svolge la propria attività. Ponte Milvio è un antico quartiere di Roma e non meritava certo di essere strapazzato in quel modo. E qui, forse, è il brand che deve saper agire in supplenza delle macroscopiche carenze che si sono verificate a Roma. Perché altrimenti il successo dell’inaugurazione diventa controproducente alla reputazione del brand.

“La gente è fuori di testa, si accapigliano per un mega sconto”, si sente dire. E anche questo non è del tutto giusto: che male c’è a voler risparmiare? Proprio niente, men che meno di questi tempi.

E allora, anche ob torto collo, sarebbe meglio autodisciplinare gli eventi di questo tipo, magari scegliendo giorni e orari che non impattino improvvisamente sulla vita di tutti i giorni; magari diluendo e rilasciando gli sconti, spalmati su più appuntamenti. Anche per il semplice fatto di non essere l’involontaria causa scatenante di ingorghi, tumulti e disagi.

A volte la responsabilità sociale di una marca si misura nella capacità di saper agire in previsione dei comportamenti altrui. Quelli istituzionali, ma anche quelli individuali. Per poi, magari, fare una campagna che dica: i clienti Trony? Non ci sono paragoni. Beh, buona giornata.

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Attualità pubblicato su advexpress.it Salute e benessere

Il sale da sballo.

Pare che l’ultima tendenza che ci viene dagli Usa in fatto di droghe sia lo sballo provocato da sostanze vendute come sali da bagno, che causano effetti simili a quelli della cocaina e delle anfetamine.

Come si è arrivati a questa scoperta? Semplice: gli ospedali hanno registrato un vertiginoso aumento di casi di overdose da sali da bagno, così quello che all’inizio si faceva passare per un uso accidentale dei prodotti da bagno è poi stato scoperto come una pericolosa abitudine, sempre più in voga, e dicono le statistiche anche in vertiginoso aumento.

Adesso voi penserete che dire pubblicamente che assumere questi sali da bagno è pericoloso per la salute possa fermare il fenomeno. Macchè, tutto il contrario: se la gente ci finisce in overdose, allora è la prova provata che quei sali da bagno sono davvero droghe. Perché non provarle?

Dunque, l’avviso di pericolo funziona esattamente per il suo effetto contrario: è la migliore pubblicità che si poteva fare a questo nuovo prodotto. Le cose vanno così, in questo mondo sballato. Beh, buona giornata.

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business Cultura Politica Potere pubblicato su 3DNews, Pubblicità e mass media

La nomina di Malgara alla Biennale di Venezia fa acqua da tutte le parti.

Questa storia della nomina di Giulio Malgara a futuro nuovo presidente della Biennale di Venezia ha tutta l’aria di essere un pretesto per scatenare una baruffa chioggiotta.

Malgara e la cultura non sono esattamente come due piselli in un baccello. Uomo di marketing, imprenditore di varie imprese, per oltre un ventennio capo indiscusso dell’Upa (l’associazione delle aziende che investono in pubblicità), presidente a vita di Auditel, Malgara è stato un fedelissimo del Berlusconi tycoon della tv commerciale, per poi diventare anche e soprattutto, un membro dell’entourage del Cavaliere sceso in campo. Malgara è uno degli uomini che ha contribuito a convincere gli imprenditori italiani a investire nella pubblicità televisiva, nella tv commerciale innanzi tutto.

Chi lo ha conosciuto quando era in servizio permanente effettivo come “cliente” delle agenzie di pubblicità ne ricorda il pragmatismo, la distanza stellare da sofismi comunicazionali: pretendeva approcci basici, di pancia, per lui la pubblicità era un business, mica tanti intellettualismi. Difficile pensarlo alle prese con l’impalpabilità dei significati artistici, con i dibattiti culturali, con le scuole e le correnti di pensiero. Lo si è visto subito: alle polemiche sulla sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo di presidente di una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo, Malgara ha risposto alla Malgara: io di arte ci capisco, a casa ho ci ho pure tre o quattro quadri di valore.

Anche la difesa d’ufficio di Sgarbi, che sostiene la tesi dell’alternanza politica delle nomine, per cui sarebbe logico che a un presidente nominato dal centro sinistra ne segua uno nominato dall’attuale governo, anche questo suona strano: è vero che Sgarbi è un valletto di corte, ma questi argomenti suonano meglio in bocca a un sottosegretario qualsiasi che sulle labbra di una che ha la lingua come una saetta incandescente.

Galan, veneto come Malgara, quasi ex collega, essendo stato un funzionario di spicco di Publitalia, la concessionaria della pubblicità di Fininvest prima e di Mediaset poi, e proprio per questo un’altro che ha seguito il capo nella discesa in campo, neanche Galan è sembrato spendere più di tanto le sue doti di venditore per “portare a casa” la nomina di Malgara.

E mentre sale la protesta degli uomini di cultura e si schierano contro amministratori locali e i cittadini di Venezia; mentre i media cominciano a occuparsi della cosa con una certa frequenza, tanto da mettere in luce, per esempio, il silenzio assordante del presidente della Regione Veneto, il leghista Zaia; mentre si fa, magari ingiustamente, un bel po’ di ironia sulle capacità anche come manager di Malgara, arrivando a scomodare gli ultimi bilanci non proprio fantastici della Malgara Chiari e Forti; mentre tutto questo succede comincia a aleggiare il sospetto di un già visto. Il sospetto, cioè di una candidatura nata per essere bruciata al solo scopo di far posto a un’altro nome che all’ultimo momento spiazzi tutti.

Questo metodo è nelle abitudini di Berlusconi e dei berlusconisti. Malgara, poi, non sarebbe nuovo a prestarsi a questo gioco delle parti. Era già successo nel 2005, quando la sua nomina alla presidenza della Rai fu lanciata come si lancia il coniglietto di pezza nelle corse dei levrieri. Alla fine arrivò a sorpresa la nomina di Claudio Petruccioli, che inaugurò la stagione dei presidenti del.a Rai bolliti prima ancora di mettere la casseruola sul fuoco.

Insomma, questa baruffa chioggiotta attorno alla nomina di Malgara sembra proprio un ballon d’essai. Magari, alla fine ci diranno che era solo una semplice nomination. Il che apre un un altro capitolo, forse quello vero: chi vogliono piazzare davvero alla guida della Biennale di Venezia? Beh, buona giornata.

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business Finanza - Economia Marketing Politica Potere Pubblicità e mass media

Il CEO di Palazzo Chigi.

Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, Angela Merkel e Nikolas Sarkozy vorrebbero mettere sotto pressione Silvio Berlusconi al prossimo vertice europeo anticrisi.

Contemporaneamente, il quotidiano tedesco Handelsblatt riferisce quanto affermato dal commissario economico dell’Ue Olly Rehn, secondo cui: ”L’Italia deve sgombrare il campo da ogni dubbio sulla sua politica fiscale”. Non solo.

Si apprende anche che la Commissione Ue “prende nota dello slittamento del decreto sviluppo in Italia e chiede al governo di finalizzare con la massima urgenza forti misure per la crescita”: lo avrebbe detto proprio il portavoce del Commissario Ue agli Affari Economici Olli Rehn.

In epoca di presentazione dei risultati del terzo trimestre, possiamo immaginare che questa scena stia succedendo, più o meno con le stesse parole, in tutte agenzie di pubblicità che fanno parte di network globali.

Non c’è network, infatti, in cui non si mettano sotto pressione i CEO nostrani perché taglino più costi e spingano con più energia verso una sostanziale crescita dei fatturati. E la minaccia, sempre meno velata di essere rimossi per venire sostituiti da manager più giovani e dinamici incombe, come la famigerata spada di Damocle, a ogni meeting internazionale.

Che, mutatis mutandis, è esattamente quello che sta succedendo al CEO di Palazzo Chigi. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il Gruppo Editoriale l’Espresso ha chiuso i primi nove mesi del 2011 in aumento del 2,2%. La crisi non perdona.

Il Gruppo Editoriale l’Espresso ha reso noto i dati di fatturato e raccolta relativi ai primi nove mesi del 2011. Il Gruppo presieduto da Carlo de Benedetti ha chiuso i primi nove mesi del 2011 con ricavi netti consolidati per 653,7 mln di euro, in aumento del 2,2% rispetto al corrispondente periodo dell’esercizio precedente. I ricavi diffusionali sono pari a 252,9 mln, in calo dell’1,11%. L ’andamento del fatturato diffusionale, migliore dell ’evoluzione generale del mercato, riflette la relativa tenuta delle vendite delle pubblicazioni del Gruppo: quotidiani, periodici e opzionali. Le diffusioni dei quotidiani locali sono state più deboli, ma il loro fatturato ha beneficiato dell ’aumento del prezzo effettuato in particolare da inizio anno su 7 delle 18 testate locali del Gruppo. I ricavi pubblicitari, pari a 380,7 mln, hanno registrato una crescita del 3,1% sul corrispondente periodo del 2010, in netta controtendenza rispetto all’andamento positivo del mercato.

La raccolta sui mezzi stampa del Gruppo risulta in linea (+0,1%) con quella del corrispondente periodo del 2010, in un mercato che ha registrato una flessione significativa (-66% ad agosto); tale stabilità ha riguardato tutte le testate (La Repubblica, i quotidiani locali e i periodici) ed è stata ottenuta anche grazie alle riuscite azioni di rinnovamento realizzate in particolare su
L ’Espresso e su diversi quotidiani locali. Positiva l ’evoluzione della raccolta su internet, in aumento del 14,11%, sostenuta dal dinamico sviluppo dell ’audience dei siti del Gruppo (+32,4% a 1,9 milioni di utenti unici medi giornalieri – fonte Audiweb/AA , dalla confermata leadership di Repubblica.it (+32,6% a 1,6 milioni di utenti unici giornalieri), dalla crescita dei mezzi locali (edizioni locali de la Repubblica e testate locali) e dal lancio del nuovo sito femminile. Infine, la raccolta pubblicitaria radio, compresa quella di terzi, ha riportato un decremento del 3,8%, inferiore al calo registrato dal mercato (-55,5% a fine agosto).

I ricavi diversi, pari a 20,11 mln sono aumentati del 38% rispetto ai primi nove mesi del 2010, grazie alla crescita dell ’attività di affitto di banda digitale terrestre televisiva, nonché ai primi positivi sviluppi della vendita di prodotti digitali. Nonostante l ’ulteriore deterioramento del contesto economico, il gruppo presieduto da Carlo De Benedetti, in assenza di forti discontinuità settoriali, conta comunque di confermare a fine anno risultati in miglioramento rispetto all ’esercizio precedente. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

Si chiama Duqu, è il nuovo virus che infesta il web.

(da : blitz quotidiano.it)

Duqu infesta il web: nuovo virus minaccia gli utenti e le aziende. Un nuovo virus infetta il mondo di internet. Si chiama Duqu ed è simile a Stuxnet, il virus usato per bloccare gli impianti nucleari di Teheran. Duqu ha però come obiettivo importanti aziende che si occupano di sistemi di controllo industriale. Il nuovo e pericoloso virus è stato identificato da Symantec, società attiva nell’Internet Security. Il codice di questo virus informatico è molto simile a quello di Stuxnet, tanto che secondo la Symantec è molto probabile che i creatori di Duqu abbiano avuto un accesso diretto al codice dell’altro virus.

Antonio Forzieri, un esperto di sicurezza e docente del politecnico di Milano, ha spiegato: “È come un Arsenio Lupin che vuole capire il modello di cassaforte e i sistemi di allarme prima di agire”. Gli hacker sono a caccia di informazioni come documenti di progettazione e quanto potrebbe essergli utili per effettuare un cyberattacco ad una struttura industriale.

“Il caso è stato individuato a inizio settembre dopo una segnalazione di un’azienda che era entrata in possesso di un file eseguibile sospetto”, ha detto Forzieri. e’ noto che Duqu abbia già colpito in Europa, ma non sono stati resi noti i paesi colpiti. I dati rubati dal virus sarebbero conservati in un server attivo in India. Programmato per funzionare 36 giorni e restare più nascosto possibile, questo malware si disinstalla da solo finito il suo lavoro.

Non è ancora chiaro da dove sia partito il contagio del web e come si propaghi l’infezione. Probabilmente si tratta di un portale o una pagina web infetta che fa da veicolo. La buona notizia è che il virus non sembra autoreplicarsi e che un buon antivirus aggiornato è in grado di bloccarne l’attacco. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

Grecia in sciopero.

(fonte:ANSA)

Oltre alla centralissima piazza Syntagma, dove da alcune ore sono radunati oltre 50.000 manifestanti e sono in corso scontri tra giovani incappucciati e le forze dell’ordine, anche le strade di accesso alla piazza sono ridotte a un campo di battaglia, con cassonetti delle immondizie dati alla fiamme, vetrine di negozi infrante e segnali stradali divelti. Il tutto è avvolto da una fitta nube di acre gas lacrimogeno. Lo riferisce la corrispondente della Tv privata Skai in collegamento in diretta.
Con lo sciopero di 48 ore cominciato questa mattina, le manifestazioni di protesta dei lavoratori greci contro le misure di austerita’ varate dal governo socialista di Giorgio Papandreou e contro il multi-disegno di legge che domani sara’ votato dal Parlamento, raggiungono il loro culmine. In giornata sono previste diverse manifestazioni di piazza ad Atene e nelle maggiori citta’ del Paese.
Tra manifestanti greci e polizia sono cominciati poco fa i primi incidenti sulla piazza Syntagma, davanti al Parlamento e su una via laterale. Alcuni giovani incappucciati hanno lanciato sassi e almeno cinque bottiglie incendiarie contro gli agenti schierati a difesa dell’edificio che hanno reagito esplodendo alcuni candelotti lacrimogeni
Questo sciopero generale – il quinto dall’inizio dell’anno e il secondo di 48 ore da giugno – e’ considerato il piu’ vasto dopo la caduta del regime dei colonnelli (1974) ed arriva a paralizzare completamente il Paese dopo due settimane in cui si sono succeduti gia’ decine di scioperi settoriali. Tutto e’ fermo: scuole, ministeri, banche, uffici postali, ospedali, studi professionistici, supermercati, panetterie mentre sono tornati a lavorare i giornalisti di radio, tv e quotidiani. Il consiglio direttivo della Confederazione Nazionale del Commercio di Grecia (Esee) ha deciso la chiusura, per oggi, di tutti i negozi del Paese.
Anche i distributori di benzina resteranno chiusi in segno di protesta per le misure economiche del governo. Fermi anche i traghetti da e per le isole, i voli nazionali e internazionali e i controllori di volo che pero’ si astengono dal lavoro solo per 12 ore, dalla mezzanotte di martedi’ fino a mezzogiorno di oggi. Come gia’ altre dicasteri nei giorno scorsi, anche il ministero della Giustizia e’ da questa mattina occupato dagli impiegati del sistema carcerario. In un comunicato sostengono che ”la situazione nelle carceri ha raggiunto livelli molto pericolosi perche’ che manca il personale in tutti i reparti che in certi casi raggiunge il 60% del necessario”.
Anche le guardie carcerarie hanno annunciato la loro adesione allo sciopero generale indetto dai due principali sindacati greci – Gsee e Adedy – e nello stesso tempo hanno proclamato una agitazione di 24 ore per venerdi’ 21 ottobre. Durante lo sciopero non saranno permesse le visite ai detenuti da parte dei parenti o dei loro avvocati. Allo sciopero di oggi e domani, oltre i dipendenti del settore dei trasporti pubblici, partecipano anche i proprietari di taxi perche’ il nuovo disegno di legge presentato dal ministero dei Trasporti non li soddisfa e chiedono al governo di ripristinare le legge precedente che prevedeva che il numero delle licenze per i taxi fosse collegato al numero degli abitanti di una determinata area geografica. Beh, buona giornata.

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business Finanza - Economia Politica Potere

Il pianto greco degli industriali italiani.

I soldi per il decreto sviluppo “non ci sono, dobbiamo inventarci qualcosa”. Più chiaro di così Silvio Berlusconi non lo è mai stato. Una risposta a voce alta alla lettera delle imprese, nella quale sostenevano “L’Italia ha mezzi e risorse per risalire la china, ma il tempo è scaduto”.

Confindustria, Rete Imprese Italia, Alleanza delle cooperative, Abi e Ania chiedevano ?un efficace piano integrato e condiviso di rilancio del Paese”. A questo punto vi starete chiedendo: quanto può durare questa situazione di stallo tra il governo e le imprese? Stallo? Quale stallo; proprio mentre scrivo queste righe Standard and Poor’s ha tagliato il rating di 24 banche e istituzioni finanziarie italiane a causa dei rischi sull’economia e il debito sovrano.

A questo punto, non serve fare il pianto greco.

Quello che sta succedendo è che ci hanno messo in pentola e sono pronti a mangiarci a piccoli morsi, magari con contorno di olive greche. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia Popoli e politiche

Bifo, Mario Draghi e il movimento degli indignati.

di Franco Berardi BIFO.

La dichiarazione rilasciata da Mario Draghi la mattina del 15 Ottobre è segno di sarcastica arroganza della classe finanziaria. Mario Draghi, prossimo Presidente della Banca Centrale Europea, che ha detto di essere dalla parte degli “indignati”: “Anche noi siamo arrabbiati contro la crisi figuriamoci i ventenni che non trovano lavoro.” Ciò significa che non appena prenderà il suo posto di presidente della Banca, Mario Draghi tasserà le transazioni finanziarie nella stessa misura in cui tassa il mio stipendio? Che la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei?

Chiederà ai governi europei di investire nuovamente i soldi tagliati alla scuola, e di riassumere i dipendenti pubblici e privati licenziati per effetto delle misure deflazioniste e privatistiche della passata gestione della BCE?

Ne dubito.

Chi è Draghi? Allievo del compianto Federico Caffè ed ex direttore esecutivo della Banca Mondiale, Draghi è stato dal 2002 al 2005 vicepresidente e membro del Management Committee Worldwide della Goldman Sachs, la banca d’affari che si può considerare responsabile principale della speculazione globale che sta portando al collasso le democrazie e alla miseria le popolazioni. Per quanto presentato come persona di specchiata moralità, Mario Draghi non è un gentiluomo. Non è al soldo della mafia come la maggior parte dei ministri del governo Berlusconi, ma è portatore di quegli interessi finanziari che sono un pericolo mortale per la vita quotidiana della popolazione europea.

Draghi viene avanti per far fuori le mafie secondarie, come quella di Berlusconi, e imporre gli interessi della mafia dominante, quella della Banca Centrale europea, cuore nero dell’imposizione dogmatica di criteri economici che confliggono con il benessere, la pace, e la civiltà sociale.

Ma forse Draghi non ha capito bene: il movimento non è arrabbiato contro la crisi come crede lui e come suggerisce uno slogan sbagliato che circola nel movimento.

Senza polemizzare con i compagni di Global Project, e della FIOM per i quali nutro affetto solidarietà e rispetto, vorrei suggerirgli di cambiare nome alla loro iniziativa unitaria.

Il movimento non è contro la crisi (che non significa niente). E’ contro il capitalismo, contro lo sfruttamento, la competizione, il dogma del profitto e della crescita.

La crisi non è che uno degli effetti della follia del capitalismo finanziario, e può essere l’occasione per consegnare il capitalismo alla storia. Non è l’emergenza della crisi a distruggere la nostra vita, ma la normalità del capitalismo che sfrutta, uccide, inquina. La crisi non è che il momento più violento della normalità capitalista, ed è anche il momento nel quale la società può rompere la catena politica, sociale e culturale che la incatena. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Se una sera d’inverno un conduttore……..

Deve essere stato un collasso al buonsenso a buttare fuori dalla Rai Michele Santoro. Per la legge dei grandi numeri, Anno Zero avrebbe dovuto continuare fintanto che faceva incetta di spettatori, e dunque fin tanto che riusciva a proteggere il prezzo dei listini Sipra, la concessionaria di pubblicità della Rai. E invece no.

In certi ambienti si è talmente radicata l’abitudine di andare fuori legge, che con Santoro si è voluto violare la legge dell’Auditel. Ora che parte il nuovo programma, Santoro fa correre un grosso rischio a tutto il sistema. Perché se “Comizi d’amore” dovesse funzionare, il suo successo sfuggirebbe ai parametri di valutazione dell’audience. Questa volta non sarà, infatti, possibile misurare gli ascolti, attraverso le curve dell’Auditel o il calcolo dei grp’s , tanto cari ai grossisti dello share.

Santoro farà un programma che avrà come stella polare la multicanalità: dalla piazza al web, dal satellite di Sky al digitale terrestre delle tv locali. Se, come diceva Totò, è la somma che fa il totale, nessuna emittente, nessun centro media, nessuna concessionaria di pubblicità potrà rivendicarne il successo di ascolti, dunque portare a valore commerciale il programma.

Se da un lato è probabile il successo della nuova avventura di Santoro, dall’altro è comunque certa la messa in crisi dell’intero sistema economico, che si basa sulla compra-vendita della “merce” telespettatori. E se per giunta Santoro riuscisse nell’intento di intercettare un nuovo soggetto, cioè il tele-web-spettatore-attivo-massa, allora le categorie socio-demografiche con le quali si sono gabellati per anni gli investitori pubblicitari dimostrerebbero tutta la loro inefficacia pubblicitaria.

Altro che consigli per gli acquisti: potrebbe essere esattamente il contrario, cioè saranno le aziende a dover ascoltare i consigli dei consumatori, che parlando con la lingua della cittadinanza, riscriveranno le regole della sintassi della comunicazione commerciale.

La cosa comica è che potrebbe avverarsi quello che Berlusconi ha sempre temuto, di cui da tempo ha avuto prima fastidio, poi vera e propria paura: che il modernismo della tv commerciale finisse in una bolla. Come sta succedendo al suo tele-governo.Beh, buona giornata.


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Finanza - Economia Lavoro Politica Popoli e politiche Potere

15 ottobre, manifestazione nazionale a Roma: per uscire dalla crisi va cambiato il modo di affrontare la crisi.

di Giorgio Creamaschi

Il governo greco pare aver raggiunto un accordo per un nuovo prestito dall’Europa. In cambio quello stesso governo ha concesso la liquidazione dei contratti nazionali. Anche in Grecia ci sarà l’equivalente dell’articolo 8 della manovra del governo italiano. Per legge i contratti nazionali non varranno più automaticamente in tutte le aziende, ma ogni realtà potrà decidere se applicarli o no. Pare che Bruxelles, la Banca europea, il Fondo monetario internazionale abbiano gioito della decisione del governo greco.

Così, si è detto, la flessibilità del lavoro sarà uno strumento per una ripresa economica.

Ancora una volta scopriamo che l’attacco ai diritti fondamentali del lavoro ha una regia precisa in Europa e nella finanza internazionale.

L’unica verità sulla crisi finora detta dal governo italiano, è che l’articolo 8 della manovra è stato così definito in risposta alle richieste della lettera di Draghi e Trichet.

E’ chiaro ormai che per quanto confuso e ridicolo, il dibattito politico italiano non può più fingere. E’ l’Europa delle banche e della speculazione finanziaria che ci chiede di distruggere i contratti nazionali, il governo Sacconi-Berlusconi aggiunge di suo solo un particolare livore e una particolare frustrazione dovuta alla sua crisi politica.

Per questo, se vogliamo difendere davvero i contratti nazionali e i diritti dei lavoratori, dobbiamo sapere che l’avversario sta in Italia come in Europa e bisogna combattere entrambi. Prima che producano disastri irrecuperabili, visto che la flessibilità del lavoro non solo non aiuterà la ripresa economica, ma sarà un’ulteriore fattore di crisi e depressione.

Il 15 ottobre scendiamo in piazza contro due avversari: l’attuale governo e quello altrettanto feroce che si prepara, per opera delle banche, della finanza e del loro governo europeo. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/10/12/giorgio-cremaschi-il-15-ottobre-in-piazza-contro-l%e2%80%99europa-che-distrugge-i-diritti-del-lavoro/.

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Attualità democrazia Leggi e diritto

La legge-bavaglio torna in frigorifero.

E’ Fabrizio Cicchitto ad annunciare il ritiro del disegno di legge: “E’ certo che ora si rinvia l’esame del ddl intercettazioni”, dice il capogruppo del Pdl alla Camera, subito dopo che il governo è andato sotto sul Bilancio. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

Ultima chiamata per fermare la legge-bavaglio.

http://www.avaaz.org/it/

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democrazia Popoli e politiche

Putin al potere altri 12 anni?

di Mark Franchetti* -lastampa.it

Pochi in Russia si sono sorpresi quando il primo ministro russo Vladimir Putin ha annunciato che alle elezioni di marzo intende tornare alla presidenza, una mossa che potrebbe vederlo al Cremlino fino al 2024, facendo di lui il leader con più anni al potere dai tempi di Iosif Stalin. I tempi dell’annuncio hanno colto in contropiede perfino i suoi più stretti collaboratori ma da quando Putin si è dimesso quattro anni fa e ha lasciato il suo posto al Cremlino al suo pupillo Dmitry Medvedev, tutti in Russia hanno capito due cose: che anche da premier Putin continuava a essere il vero detentore del potere e che aveva tutte le intenzioni di essere di nuovo Presidente. Fin qui tutto come previsto. Ma la reazione al trionfale «ritorno» di Putin è invece stata in qualche modo inaspettata. Le migliaia di delegati del partito pro Cremlino presenti al congresso in cui Putin ha dato l’annuncio – e che hanno assistito all’harakiri politico in diretta di Medvedev – sono scoppiati in un fragoroso applauso. La televisione di Stato russa, ovviamente, si è profusa in lodi servili. È poi anche vero che Putin – nonostante la mancanza di democrazia in Russia – è ancora genuinamente popolare tra milioni di elettori. Eppure l’umore del Paese di fronte alla prospettiva di altri 12 anni di Putin sta rivelandosi sorprendentemente pessimista. Quasi il quaranta per cento degli intervistati di un sondaggio ufficiale ha detto di essere scontento della vita in Russia e sarebbe addirittura pronto a scendere in piazza per protestare – la cifra più alta da quando Putin è salito al potere dodici anni fa. Il suo attuale tasso di popolarità, secondo Vstiom, uno dei principali istituti di sondaggio del Paese, è poco più del 40%, dimezzato rispetto al suo picco nel 2008 e il più basso da quando è diventato Presidente per la prima volta. Gli studi mostrano anche che tra i russi comuni la tolleranza per l’endemica corruzione del Paese e gli abusi di potere dei funzionari è al punto di rottura. Un altro stimato istituto di sondaggi ha avvertito che i russi credono sempre meno alle elezioni e non sono scontenti del fatto che in pratica sia il Cremlino, piuttosto che l’elettorato, a scegliere chi governa il Paese.

E, in quella che alcuni stanno già definendo la fuga dei cervelli, secondo gli ultimi sondaggi almeno il 40% dei russi di età compresa tra i 18 e i 24 anni vorrebbe emigrare. Ripeto, milioni di russi saranno felici di votare per Putin, ma qualcosa sta cambiando. La scorsa settimana un’immagine ritoccata del premier ha fatto il giro della rete russa – mostrandolo vecchio e decrepito, sovrapposto a un ritratto di Leonid Breznev, il leader sovietico il cui regno durò 18 anni, fino alla morte, e che è generalmente associato a un periodo di profonda stagnazione. Quelli che non appoggiano il ritorno di Putin sentono che ha perso un’occasione unica per passare alla storia come un grande statista che, riportata la stabilità in Russia, ha passato il testimone a un leader più giovane, moderno e illuminato. I membri delle élite liberali si ritengono traditi da Medvedev, che nel corso degli ultimi due anni li ha indotti a credere che si sarebbe candidato a un secondo mandato. Spiegando la sua decisione di non farlo, il Presidente russo ha detto che Putin era più popolare di lui. Di fronte ai crescenti problemi economici aggravati dalla prospettiva di una seconda crisi finanziaria globale, pare che il Cremlino sia molto allarmato per la potenziale minaccia di disordini sociali. «Non c’è dubbio che la squadra di Putin sia preoccupata per l’aumento del malcontento popolare», ha detto un ex assistente del prossimo Presidente della Russia. «Come ogni sistema autoritario è estremamente suscettibile agli sbalzi d’umore tra la popolazione, soprattutto quando quasi la metà si dice pronta a scendere in piazza. Una dimostrazione di decine di migliaia basterebbe per spaventare chi è al potere. Il pericolo è che Putin, non appena tornato al Cremlino, faccia alcune concessioni, ma allo stesso tempo dia un ulteriore giro di vite, per esempio cercando di limitare le critiche su Internet».

In netto contrasto con la televisione di Stato, il Web in Russia è libero e vitale. Blogger e giornalisti criticano Putin di continuo e scrivono apertamente della corruzione tra le élite. Utente appassionato di Internet e Twitter che lascia raramente il suo ufficio senza il suo i-Pad, il Presidente Medvedev è stato visto da molti come un garante della libertà del Web russo. I liberali temono che Putin, che utilizza di rado Internet, preferisce scrivere a mano ed è considerato molto meno liberale del suo protetto, cerchi di reprimere il Web per frenarne il crescente impatto che sta avendo sulla società russa. Una fonte che gode di buoni contatti al Cremlino sostiene che l’arresto e il processo a Hosni Mubarak hanno molto impressionato Putin e hanno influenzato la sua decisione di ritornare Presidente. «L’ho personalmente sentito imprecare contro i traditori che hanno rovesciato Mubarak – dice la fonte -. Gli eventi della Primavera araba hanno solo rafforzato il suo istinto a non fidarsi di nessuno, nemmeno di Medvedev». Il governo Putin ha aumentato in modo significativo le pensioni e la spesa sociale nel tentativo di smorzare le critiche e migliorare le condizioni di vita. Ma la stabilità economica del Paese è fortemente dipendente dagli alti prezzi del petrolio. Negli ultimi dieci anni poco o niente è stato fatto per modernizzare le infrastrutture fatiscenti della Russia e diversificarne l’economia. Una caduta dei prezzi del petrolio comporterebbe per la Russia l’impossibilità di far quadrare il suo bilancio. La disoccupazione e l’inflazione sono destinate a salire e questo alimenterà il malcontento. Oligarchi come Mikhail Prokhorov, il terzo uomo più ricco della Russia, e personaggi di spicco come Anatoly Chubais, l’architetto delle riforme economiche liberali nel 1990, ed ex della squadra del Cremlino ai tempi di Boris Eltsin, hanno parlato di un futuro tenebroso e del rischio di terremoti tra le forze politiche. La questione principale tra i cremlinologi è come sarà Putin durante il prossimo mandato da Presidente – il Putin che è stato finora o, come alcuni credono e vogliono sperano, un nuovo leader illuminato che sorprenderà anche i suoi critici. Il portavoce di Putin che lavora con il leader russo da dodici anni, la settimana scorsa ha sorpreso molti rilasciando una rara intervista a un canale tv indipendente su Internet, parlando con insolita franchezza.

Dmitry Peskov innanzitutto ha ammesso che, almeno tra le élite privilegiate di Mosca, il ritorno di Putin raccoglie molte critiche: «Dobbiamo spiegarci meglio», ha detto. Quindi, con un’inattesa confessione, Peskov ha confermato che un recente filmato assai ridicolizzato, in cui Putin, indossata una muta, si tuffava in un sito archeologico marino e ne riemergeva dopo qualche minuto tenendo trionfalmente in mano due antichi vasi greci recuperati dopo migliaia di anni a una profondità di soli due metri e perfettamente puliti – era effettivamente una messa in scena – anche se la televisione di Stato l’aveva pedissequamente riportato come una vera scoperta. Un segnale della nuova Russia di Putin? Forse, o forse no. Solo il tempo lo dirà. Per ora il momento di sincerità ha solo confermato che in Russia le cose non sono sempre esattamente quello che sembrano. (Beh, giornata).

*corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra traduzione di Carla Reschia

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

L’uscita dalla crisi economica è politica.

“Gli economisti registrano la recessione analizzando l’andamento della domanda; la domanda crolla a causa della L’uscita dalla crisi economica è politica.caduta dei redditi; i redditi e quindi il potere d’acquisto diminuiscono per mancanza di lavoro il quale a sua volta cede per la scarsità di domanda. Così il cane si morde la coda, l’effetto diventa a sua volta causa, l’economia reale si avvita e il circolo perverso della stagnazione e poi della recessione si autoalimenta”, scrive oggi Eugenio Scalfari su Repubblica.

Per interromperlo -sostiene Scalfari- deve entrare in gioco un elemento nuovo, capace di bloccare il ciclo perverso e di cambiare il “trend” e le aspettative dei mercati. Bisogna dunque chiedersi quale sia l’elemento nuovo capace di capovolgere le aspettative. Su questa ricerca -aggiunge Scalfari- si sta discutendo da anni e la discussione negli ultimi mesi è diventata sempre più convulsa. Ora siamo alla stretta finale e, come sempre avviene nei gran finali, il problema è ridiventato politico.”

In Italia, il fatto nuovo che potrebbe convincere i mercati e le istituzioni finanziarie globali a dare un poco di respiro alla nostra economia è la cacciata di Berlusconi e del suo governo, per alcuni; un semplice passo indietro del Cavaliere, per altri. Comunque, la sua sostituzione alla guida del Paese è nei fatti, è nell’agenda politica da quest’estate. Ogni giorno che passa la fine di Berlusconi appare inevitabile: lo dicono apertamente, lo chiedono sommessamente, lo sperano segretamente ormai un po’ tutti.

E’ una questione di tempo, ma di tempo ne resta poco. Per come è stata ridotta la reputazione del Paese, la testa di Berlusconi forse non sarà più sufficiente; magari da solo questo evento non è risolutivo delle ormai profonde lacerazioni sociali dell’Italia. Ma da qualche parte bisogna ricominciare,e questo è pur sempre un buon inizio. Beh, buona giornata.

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