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L’ennesimo inutile vertice europeo sulla crisi del debito.

di Bruno Steri-rifondazione.it

Il vertice tenutosi ieri a Bruxelles era atteso come una sorta di “ultima spiaggia” per le sorti dell’euro, una tappa decisiva per decidere il futuro di un’ “Europa in bilico”. Oggi vediamo che la montagna ha partorito un topolino: niente che sia all’altezza delle aspettative. Per la verità, c’era chi lo aveva previsto. Ad esempio, qualche giorno fa, Marco Moussanet concludeva così un editoriale de Il sole 24 ore: “Si metteranno d’accordo. Su un testo che parlerà di project bond, di sblocco dei fondi strutturali, di maggiori risorse per la Banca Europea per gli Investimenti e di Tobin Tax.

Evitando accuratamente temi spinosi come il ruolo della Bce o la mutualizzazione del debito”. L’articolo si riferiva in realtà all’incontro tra Angela Merkel e François Hollande e a un’ipotizzabile “sintesi franco-tedesca”; ma la citata argomentazione può essere estesa all’incontro di Bruxelles. In sostanza si tratta di un ben magro risultato, una mediazione che non ferma l’incipiente sprofondamento del Titanic.

Mario Monti si è affrettato a rilasciare dichiarazioni rasserenanti (“Il fatto che il tema degli eurobond sia chiaramente sul tavolo (…) significa che la cosa si muove”), le quali tuttavia non convincono nessuno. Men che meno i cosiddetti “mercati”, che ieri hanno fatto precipitare gli indici azionari nelle borse di mezzo mondo, facendo toccare minimi storici a quella di Milano (- 3,68%) e innalzando il differenziale tra titoli italiani e tedeschi da 411 a 435 punti base. Disastro comprensibilmente riassunto nel titolo: “le borse non credono nel vertice Ue”.

E, in effetti, alle parole di Monti fanno da contraltare i nein della signora Merkel, le precisazioni di Mario Draghi (“L’emissione degli eurobond ci sarà solo quando avverrà un’unione di bilanci”), i traccheggi del Presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy (“Nessuno ha chiesto che gli eurobond fossero immediatamente adottati”). Così come in pochi credono alle mielose perorazioni del “salvataggio” della Grecia (“Vogliamo che resti nell’euro”): soprattutto quando, contemporaneamente e per via ufficiosa – voci “dal sen fuggite” – i tecnici Ue chiedono ai singoli Paesi di predisporre piani per affrontare un’uscita della Grecia dall’euro. Nei confronti del Paese ellenico, è la classica politica del bastone e della carota, delle premurose esortazioni unite a ricatti e secche minacce: vi vogliamo bene, ma dovete fare quel che diciamo noi (e, soprattutto, alle prossime elezioni politiche non dovete votare Syriza, la sinistra anticapitalista).

Questi signori sono pronti ad abbandonare la Grecia al suo destino – peraltro sottostimando, da veri apprendisti stregoni, gli inevitabili dirompenti effetti a catena sulla stessa tenuta dell’Unione Europea – e, nei fatti, spianano un’autostrada alle prevedibili incursioni speculative ai danni dei singoli Paesi e, in ultima analisi, dell’euro. Ciò rende quanto mai pertinente un interrogativo: qual è il gioco a cui questi signori giocano? E a vantaggio di chi? In proposito, non riusciamo a trattenere la tentazione di menzionare qui i due editoriali con cui Le monde diplomatique ha aperto i suoi ultimi due numeri di aprile e maggio. Il primo (Gli economisti sul libro paga della finanza) fa le pulci in tasca agli “esperti” di mezza Europa, evidenziando come “gli accademici invitati dai media a illuminare il dibattito pubblico, ma anche i ricercatori designati come consiglieri dai governi, sono a libro paga di banche e grandi imprese”. E che paga! Il secondo editoriale (Il volto dei signori del debito) passa al setaccio i big della politica europea, anche in questo caso puntando i riflettori sulla materialità dei loro incarichi da rendita e da capitale. I nomi di casa nostra meritano un’ampia citazione: “La copertura giornalistica della nomina di Mario Monti alla Presidenza del consiglio in Italia fornisce un perfetto esempio di discorso-paravento, che chiama in causa ‘tecnocrati’ ed ‘esperti’ laddove semplicemente si fa un governo di banchieri”. Non si tratta di metafore evocative ma di cruda realtà: “A uno sguardo più attento si vede come la maggior parte dei ministri sieda nei consigli d’amministrazione dei principali gruppi d’affari della Penisola. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, è amministratore delegato di Intesa San Paolo; Elsa Fornero, ministro del Lavoro e professoressa di economia all’università di Torino, è vicepresidente della stessa banca; Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione e della ricerca e rettore del Politecnico di Torino, è amministratore di UniCredit Private Bank e di Telecom Italia – controllata da Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca e Telefonica – dopo esser transitato anche per Pirelli; Piero Gnudi, ministro del Turismo e dello sport, è amministratore di UniCredit Group; Piero Giarda, incaricato dei Rapporti con il parlamento, professore di Scienza delle finanze all’università Cattolica del Sacro cuore di Milano, è vicepresidente del Banco popolare e amministratore di Pirelli. Quanto a Monti è stato consulente di Coca Cola e Goldman Sachs e ha fatto parte dei consigli di amministrazione di Fiat e Generali”.

L’intento sarà forse un po’ schematico; ma, all’opposto, glissare su tali fatti equivale a imbrogliare la gente. (Beh, buona giornata).

Manifestazione degli Occupy a Francoforte: la polizia appare molto rilassata al corteo.

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L’Europa tra recessione e repressione.

di Claudio Riccio-rifondazione.it
Una cortina di ferro sta calando nell’Europa. Nel marzo del ‘46, con un celebre discorso, Winston Churchill sanciva l’inizio della guerra fredda e soprattutto della divisione in blocchi dell’Europa, rendendo celebre l’espressione della “cortina di ferro”. O da una parte o dall’altra: muri, confini, frontiere invalicabili, materiali ed ideologiche. Questa volta non vedrete cartine geografiche che raffigurano la divisione dell’Unione Europea: le linee di demarcazione ci sono, ma non sono visibili.

Da un lato c’è chi sacrifica la democrazia sull’altare della finanza, dall’altro chi vuole autodeterminarsi, difendendo un’idea di società solidale, aperta, democratica ed egualitaria. Da un lato la repressione, dall’altro il dissenso. Centinaia di arresti al giorno, divieto di manifestare, una enorme zona rossa, ecco quel che è successo nei giorni scorsi a Francoforte, dove il variegato mondo dei movimenti sociali europei – per la prima volta dopo molti anni – si è riunito per una prima, importante manifestazione internazionale. La sfida, ovvero passare dalla mobilitazione internazionale ad un movimento europeo, è appena agli inizi, ma i primi passi sono stati fatti. Non è la prima volta che in Europa vengono sospesi i diritti democratici – si pensi ovviamente ai drammatici fatti di Genova 2001, o alla repressione del vertice ambientale di Copenaghen 2009 –, ma il fatto che questi divieti si applichino nella capitale finanziaria dell’UE assume una valenza simbolica ulteriore.

Le politiche di austerity rompono l'unità europea.

Prima che – comprensibilmente – i media italiani venissero travolti dalle drammatiche notizie della bomba di Brindisi e del terremoto in Emilia Romagna, le notizie della mobilitazione e degli arresti a Francoforte erano comunque avvolte da un’altra cortina, questa volta fumogena, che ha offuscato totalmente la mobilitazione. Ben più rilievo viene dato oggi agli scontri e alla repressione a Chicago. Per la serie “basta che sia lontano da casa e se ne può parlare”, anche con un pizzico di esterofilia, che non manca mai.
L’ipocrisia della politica e dell’informazione italiana è ormai a livelli improponibili.

Se a Mosca vengono arrestati i manifestanti la notizia è – com’è giusto che sia – sulle prime pagine dei giornali italiani: “violati i diritti fondamentali, nella Russia di Putin non si può manifestare”. Se a Francoforte, nella Germania della Merkel, ti arrestano perché non rinunci al tuo diritto di manifestare, si tratta invece di una normale gestione dell’ordine pubblico.
Lo straordinario corteo di sabato, al netto dei limiti organizzativi del cartello blockupy Frankfurt e della macchina repressiva, ha avuto una grande risposta da moltissime zone della Germania. Ciò dimostra che un fronte antisistemico è possibile anche nella prosperosa Germania e non solo in quel che resta della Grecia. Se i movimenti sapranno accrescere il proprio livello di coordinamento e non cadere nelle numerose e crescenti trappole della repressione, potranno aprire davvero degli spazi di possibilità e contribuire alla costruzione di un’Europa differente.

A Francoforte si è manifestato un solco, visibile a chiunque abbia la voglia di guardare oltre le molteplici cortine, di ferro o fumogene che siano: da un lato l’austerity, la distruzione dello stato sociale, e i dispositivi di controllo mediatici e repressivi; dall’altro lato il rifiuto di sottostare al ricatto del mercato e allo stato di polizia e il sogno di un’altra Europa. Non si può più stare nel guado. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Dibattiti Università e ricerca.

Il carcere, il cinema, il filosofo.

In sala con il filosofo
Paolo Virno commenta il film dei fratelli Tavani “Cesare deve morire”
Il carcere è solitudine, il teatro azione politica
Dalla sua detenzione a Rebibbia al perturbante di Freud e l’agorà di Arendt

di Riccardo Tavani

Per Paolo Virno il carcere, in particolare quello di Rebibbia a Roma, è stato un capitolo importante della sua vita. Oggi è uno dei pensatori contemporanei maggiormente apprezzati, soprattutto all’estero, ma lo studio della filosofia, fin dagli anni giovanili, non è stato mai separato da un suo impegno politico diretto nei movimenti della sinistra operaista, per il quale ha pagato anni di reclusione nelle sezioni speciali dei carceri anche di Novara e Palmi.

La scena dell’uccisione di Giulio Cesare in questo film girato all’interno del carcere di Rebibbia, lo riporta, non solo con la memoria, ma con tutta la sensibilità corporea a quei cortili, a quei cubicoli per l’ora d’aria dove per due anni e mezzo ha passeggiato, discusso, avuto anche momenti di tensione con altri detenuti, politici come lui o comuni come quelli che interpretano questa libera versione del “Giulio Cesare” di Shakespeare. A riportarlo in quella atmosfera è l’ambivalenza della figura di Cesare, che trova una piena corrispondenza nell’esperienza esistenziale di quei carcerati.

Giulio Cesare è stimato, amato in massimo grado proprio dai congiurati che lo assassinano, i quali antepongono all’amore per lui quello per la Repubblica, che il grande condottiero si appresta a porre sotto il suo potere assoluto. Dove c’è l’amico migliore si nasconde anche il nemico peggiore, dice Virno, richiamando la grande lezione di Freud sul concetto di “perturbante”. Dove pensi ci sia la sicurezza, la familiarità più rassicurante, là si cela anche il pericolo, l’ostilità più inquietante. Nella vita fuori dal carcere accade continuamente a questi carcerati il rovesciamento improvviso del criterio amico-nemico. Sasà Striano, il detenuto che interpreta magistralmente Bruto, interrompe la recitazione, quando deve pronunciare la celebre battuta: “Si potesse strappare lo spirito di Cesare senza squarciarne il cuore!”.

La scena lo riporta direttamente all’uccisione del suo più intimo amico di contrabbando, considerato un “quaquaraquà”, ossia una delatore, un traditore. L’amico intimo si svela improvvisamente un nemico letale, e lo stesso gruppo criminale che li proteggeva, ora li associa insieme e diventa una minaccia per entrambi. Il carcere stesso, i reparti di alta o massima sicurezza che Virno ha sperimentato direttamente, sono questi perturbanti luoghi della massima insicurezza, della minaccia, della vendetta antirepubblicana della Repubblica reale, per le condizione di sovraffollamento, degrado, quotidiana istigazione al suicidio in cui sono oggi ridotti.

Con l’accentuarsi della crisi economica queste condizioni si aggraveranno ancora di più, perché aumenterà la massa dei senza reddito che andranno a gonfiare le patrie galere. La crisi del sistema giudiziario repubblicano che si abbatte in maniera nefasta su quello carcerario, svela la sua vera faccia di radicale ingiustizia sociale, alla quale un provvedimento di amnistia, pur urgente e anzi improrogabile, non sarebbe certo in grado di occultare. Se Shakespeare mette in scena anche la vendetta che si abbatte sugli sconfitti, nel film questi particolari attori non fanno che mettere in scena se stessi in quanto vinti e soggetti ai soprusi anticostituzionali della attuale repubblica carceraria italiana.

Dopo l’uccisione in Senato di Cesare, i congiurati intingono le mani nel suo sangue e insieme intonano: “Quanti secoli venturi vedranno rappresentati da attori questa nostra grandiosa scena in regni ancora non nati, e in linguaggi non ancora inventati!”. Di tutti gli attori possibili, questi esclusi-reclusi appaiono a Virno i più verosimili e i maggiormente autorizzati a discutere cosa sia pro o contro la libertà, anche confrontandoli con grandi prove d’attore, quale quella di Al Pacino nel Riccardo III. C’è una scena, che scorre via quasi inappariscente, che è per Virno molto significativa.

Sasà Bruto salendo i gradini di una scala interna incrocia altri due detenuti che scendono. Una volta che i due sono ai piedi della scala, mentre Sasà è in alto, uno dice all’altro: “Guarda quello… che si è messo in testa?! Invece di farsi il carcere si è fatto boffone”. Il carcere si presenta quasi come un mestiere, che mette in gioco una capacità di saperlo fare seriamente, dedicandovi anima e corpo. I detenuti sono ipocondriaci e dunque maniaci della salute, della forma fisica e mentale. “Farsi” il carcere significa assumere con impegno e dedizione la “cura del sé”, come direbbe Foucault. Un ostacolo insormontabile alla cura del sé è il colloquio, per il carico eccessivo di aspettative in gioco, da una parte e dall’altra, destinate ad andare inevitabilmente deluse. Il colloquio anche quando va bene, dice Virno, va sempre male. Il carcerato che interpreta Antonio se ne sta in disparte, assorto in una lontananza irraggiungibile. Il regista cerca di richiamarlo a sé, ma non c’è niente da fare. “Lasciatelo perdere – dice un altro carcerato – ha avuto il colloquio”.

Il carcere per Virno è uno spazio di solitudine senza politica, anche fosse pieno soltanto di detenuti politici. Ciò che manca per una dimensione politica è quello che Hannah Arendt chiama l’infra, lo spazio di relazione “fra” le persone nella società. A dispetto dell’addossamento, perfino del cozzo fisico, violento dei corpi, i detenuti sono sempre disperatamente soli. Però è proprio la Arendt, in Vita Activa, ricorda Virno, a mostrare che “Il teatro è l’arte politica per eccellenza”, proprio perché è “L’unica arte che ha come soggetto l’uomo nella sua relazione con gli altri uomini”. Nell’esperienza prepolitica di provenienza e nella organica solitudine carceraria, il teatro reintroduce tra questi detenuti uno spazio relazionale, l’infra sociale e comunitario. Dramma deriva dal greco dran che significa fare, agire ma nell’agorà, in uno spazio pubblico aperto, avendo il coraggio di esporre se stessi allo sguardo degli altri.

È questo che mette Sasà in alto sia nei gradini di quella scala che nell’inquadratura cinematografica, questa esperienza della politica attraverso l’azione scenica, dentro la quale si rivaluta interamente la sua vicenda biografica. Il ritorno in cella è amaro come la fine di una evasione, l’essere ricatturati e imprigionati di nuovo nella propria solitaria individualizzazione. Conclude il film una straziante battuta di Cosimo-Cassio, un “fine pena mai”, un ergastolano: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata ‘na prigione”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

I governi tanto sono stati capaci di entrare nella crisi, quanto sono incapaci di saperne uscire.

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Vedere che la disoccupazione giovanile esplode -da un già inquietante 31% di pochi mesi fa al 36% di marzo 2012 – impone di cercare risposta alla domanda che viene subito alla mente: non sarà che con la «riforma» che ha portato l’età pensionabile a 67 anni questo governo – sempre pronto a riempirsi la bocca con «lo facciamo per i giovani» – ha di fatto precluso l’ingresso nel mondo del lavoro ad almeno quattro-cinque scaglioni di «coscritti»?

Per Roberto Pizzuti, docente di politica economica a Roma, «è evidente e accertato il legame tra aumento dell’età pensionabile e disoccupazione, soprattutto giovanile». Del resto, «se c’è un certo numero – già insufficiente – di posti di lavoro, e riduci all’improvviso il turnover, quei posti non possono essere occupati da altre persone». Ma c’è di più: «è una cosa che danneggia anche le aziende, perché i lavoratori anziani costano di più, sono mediamente meno istruiti e inevitabilmente meno reattivi all’innovazione». Una politica di questo tipo «in questo momento è un autogol, vengono ridotti i redditi e la domanda quando dovrebbe invece essere sostenuta».

Giovanni Mazzetti, docente di economia politica, agginge una considerazione ulteriore: «se si è capaci di creare lavoro aggiuntivo, puoi anche lasciare sul posto gente che potrebbe andare in pensione; ma se non lo sai fare – e tutte le società avanzate non sono più capaci di crearne di nuovo – allora devi mandar via con soluzioni decorose quelli che hanno lavorato già un bel po’ (senza fare quei pasticci orrendi sugli ‘esodati’), e sostituirli con dei giovani».

L’obiezione del governo è nota: se si fossero lasciati andare in pensione quelli che avevano già maturato i requisiti «sarebbero saltati i conti Inps». Non è vero nemmeno questo, spiega Pizzuti (tra l’altro ex membro del cda Inpdap), «tutto il sistema pensionistico pubblico è da anni in attivo di 26 miliardi e contribuisce ai conti pubblici nella proporzione di una grande finanziaria ogni anno; è solo una scelta politica di colpire queste fasce, perché danno un’entrata certa e sono facili da colpire».

Se usciamo dal piano generale della macroeconomia e andiamo a vedere cosa accade nei diversi settori produttivi, la valutazione non cambia, ma assume una concretezza davvero drammatica. «Noi vediamo che la crisi non solo non passa, ma si acuisce – spiega Laura Spezia, segretario nazionale Fiom – Molte aziende chiedono ‘esuberi’ e finiamo a discutere di fatto di ‘esodati’». Perché «la riforma del mercato del lavoro non va certo nella direzione di favorire le assunzioni dei giovani». Dopo l’aumento dell’età del ritiro, infatti, «si prevede di ridurre gli ammortizzatori sociali nel tipo e nella durata; di fatto vengono rigettati sul mercato lavoratori che potrebbero e dovrebbero andare in pensione». E non è vero neppure che le aziende abbiano «tanta voglia di assumere giovani; basta guardare le reazioni della Marcegaglia e non solo all’ipotesi di restringere appena un po’ la ‘flessibilità in entrata’». La precarietà conclude – «è rimasta tale e quale, disoccupazione è aumentata; ora che vanno a scadenza gli ammortizzatori che sono stati concessi per le crisi degli ultimi anni esploderà con grandi numeri». Tanto più se andrà in porto la nuova «riforma»…

«Il fenomeno più preoccupante dice Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil – è la perdita di senso del sistema istruzione. Diplomati e laureati vengono buttati nella disperazione proprio quando il paese ne avrebbe più bisogno; si rischia una perdita totale di credibilità del sistema, che nel frattempo non è più nemmeno gratuito, negando il diritto allo studio. Questo è un paese che rinuncia al futuro, a partire dal governo Monti che non fa nulla per invertiore la tendenza».

L’ultima conferma arriva dal pubbblico impiego, ora sotto la lente della spending review. «Qui il turnover è bloccato da 7-8 anni», racconta Massimo Betti, Usb. «E già stiamo affrontando il problema di circa 100.000 dipendenti che vengono dichiarati in esubero. 65.000 dalle Province, diecimila dal personale civile della Difesa e 30.000 militari». Ma anche al ministero degli Interni si prepara un taglio «del 10% del personale». Per i «pubblici» c’è la mobilità per due anni, all’80% dello stipendio; poi, se non possono essere ricollocati in altro comparto o sede, c’è il licenziamento. La spending review punta a eliminare 4,2 miliardi di spese subito; ma «prima di nominare Bondi, Monti aveva illustrato tagli per 25-27 miliardi». Se ci si aggiunge la «delega» data a Patroni Griffi per applicare anche qui il «nuovo» art. 18, dice Betti, «diventa possibile licenziare per motivi economici praticamente tutti i 3,5 milioni di dipendenti. ‘Per Costituzione’, visto che hanno inserito l’obbligo al pareggio di bilancio».

Insomma: la crisi crea disoccupazione, ma il governo ci mette molto di suo…(Beh, buona giornata.

La ricetta della Bce per uscire dalla crisi non sta funzionando.

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