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LA RAI TAGLIA LA FILOSOFIA. CON UN OLE’

Radio Due interrompe “ Così parlò Zap Mangusta ”, l’unico programma di Radio Rai sull’argomento. Al suo posto lezioni di spagnolo e l’ Ottovolante

di Giulio Gargia

Un milione di Podcast scaricati, un prestigio indiscusso, una comunità di ascoltatori e di followers in crescita costante. Si chiamava “ Così parlò Zap Mangusta” ed era l’unica trasmissione di filosofia sulle reti di radio RAI. Andava in onda tutti i giorni alle 15 su Radio Due. Ironica, scoppiettante, piacevole, faceva cultura intrattenendo. Insomma, aveva tutte le modalità che dovrebbero caratterizzare un servizio pubblico degno di questo nome. E quindi, evidentemente andava chiusa. Dal 3 settembre, non c’è più il quarto d’ora in cui Zap Mangusta, conduttore e scrittore di libri sulla filosofia, intratteneva il pubblico di Radio Due. Nessuna comunicazione ufficiale, sui blog della RAI campeggia da mesi la dizione “ pausa estiva “, e nessun dirigente ha pubblicamente annunciato la sua uscita dal palinsesto. Per ora, al suo posto, vanno in onda lezioni di spagnolo e poi un programma comico. Mentre sulla pagina Facebook comincia a montare la protesta, e dal web arrivano i primi segnali che la comunità di Zap non si rassegnerà così facilmente a farsi privare di una delle poche trasmissioni decenti che giustificano il pagamento di un canone. E così si annunciano “ under costruction “ 2 siti, http://www.facebook.com/pages/cos%C3%AC-parl%C3%B2-zap-mangusta/255101704517563 dove a breve si decideranno le contromosse.

Si stanno preparando infatti 3 incontri con il conduttore, uno a Napoli il 29 settembre, uno a Reggio Emilia il 5 ottobre e uno a Milano in data da stabilire.

Il nostro giornale, intanto si fa portatore della richiesta di molti ascoltatori di un appello da firmare on line, da mandare alla Tarantola, al DG Gubitosi, ai consiglieri del CdA e a Flavio Mucciante, responsabile di Radio Due che chiede il ritorno in onda della trasmissione.

Il direttore di Radio Due spiega così la sua decisione :

” Non si tratta di una sospensione ma del completamento di un progetto. Radio2 è oggi, forse, l’unica rete di intrattenimento a Pokies veicolare contenuti importanti, come la filosofia, che ha rappresentato per noi un grosso impegno produttivo, che non si esaurisce ”.

D – in che senso “non sospensione, ma completamento di un progetto” ?
R – Che la trasmissione faceva parte di una serie di progetti
culturali, modulati secondo la nostra missione editoriale, che è
l’intrattenimento

D – Cioè è finito il ciclo delle trasmissioni previste ?
Si. Il palinsesto si chiude a fine giugno con alcune trasmissioni che
si protraggono per alcune settimane, come avvenuto per Zap

D – Il conduttore lo sapeva ? Era avvertito che quella di fine giugno era l’ultima trasmissione ?
R – Zap è stato avvertito con mesi di anticipo,considerando che il
palinsesto autunnale è partito il 10 settembre

D – Agli ascoltatori è stato comunicato ?
R – Agli ascoltatori è stato annunciato nelle modalità consuete…con
comunicati che illustrano la nuova programmazione

D – Insomma, si può dire che la RAI è un’azienda senza più filosofia ?

R – No, questo no. Sull’esperienza di “Così parlò Zap Mangusta” abbiamo, infatti, realizzato una enciclopedia radiofonica a disposizione di tutti, collezionabile gratuitamente in podcast. Al momento sono disponibili oltre cento puntate ma nei prossimi giorni inaugureremo un sito dedicato, diviso per macro aree storiche e di “pensiero” con 450 download e contenuti extra con la filosofia di ogni tempo, di facile consultazione e catalogazione, a testimonianza della positiva onda lunga della trasmissione, che ha certamente rappresentato una novità significativa e di successo ”

Già, tutto vero. Rimane però la domanda degli ascoltatori. “ Ma allora, perchè l’avete chiusa ? ”

da www.3dnews.it

L’APPELLO

Testo dell’appello da inviare a 3dinfonews@gmail.com :

“ Diffondere la cultura della qualità è il primo dei biglietti da visita del servizio pubblico. Attraverso l’informazione corretta e autorevole, l’intrattenimento intelligente e l’educazione informale si può favorire la costruzione di modelli positivi ” . Annamaria Tarantola, presidente RAI, al Prix Italia – 17 settembre 2012.

Proprio perchè crediamo in queste parole invitiamo la Radio Due a NON TAGLIARE LA FILOSOFIA e restituire al più presto agli ascoltatori la trasmissione “ Così parlò Zap Mangusta ”, unico esempio del genere in onda sulle reti radiofoniche. (Beh, buona giornata)

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Politica Popoli e politiche Potere

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L’operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l’idiozia» – letterale – delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa – insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato – una pratica potentemente «progressiva». Nell’epoca dell’ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all’arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.

Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».

Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra – e l’affermarsi del «socialismo sovietico» – per convincere le classi dirigenti dell’Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».

Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c’è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.

Quando queste hanno preso a reagire meno – per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse – è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni ’70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d’ordine è diventata «tagliare la spesa».

Qui il contributo di Mazzetti diventa prezioso. L’accumulazione, dopo gli anni ’70, è in qualche modo andata avanti lo stesso; com’è stato possibile?
Negli anni ’80 Keynes viene archiviato, ma resta il problema del finanziamento in deficit per «stimolare» nuove produzioni. «Il credito privato (anni ’90, ndr) ha svolto la stessa funzione del keynesiano deficit di bilancio. È stato l’unico modo per sostenere quella domanda che se fosse mancata avrebbe determinato sin dall’inizio quel drammatico crollo intervenuto negli ultimi anni». Il crollo del «socialismo reale» – di lì a poco – ha messo a disposizione del mercato oltre due miliardi di lavoratori-consumatori, un polmone straordinario che ha rallentato l’esplosione delle antinomie economiche per altri venti anni. Ma i nodi sono arrivati comunque al pettine.

«A differenza del debito pubblico, (quello privato, ndr) pretende di appropriarsi di una ricchezza reale attraverso uno scambio, pur non avendo messo in moto alcun lavoro aggiuntivo». Pensiamo al mondo oscuro dei prodotti finanziari derivati, cds, ecc: righe di codice dentro un computer da cui scaturiscono obblighi reali. «Il credito speculativo alimenta il debito senza la misura imposta dal collegamento con la produzione, e lo scarto tra la richezza reale e la pseudo-ricchezza finanziaria diventa incolmabile». Creare denaro col denaro, senza produrre nulla, ha prodotto una cecità pervasa da senso di onnipotenza. Il film Margin call è quasi un paradigma. Senza «la misura del collegamento con la produzione», del prestito commisurato a un determinato progetto ben dimensionato, l’investimento finanziario diventa «speculazione» senza limiti. Per elaborare i «prodotti finanziari» si chiamano i matematici, invece degli economisti; così come l’economia accademica scade a econometria. L’unica «misura» che conta è un algoritmo esponenziale, senza più l’impiccio della «cosa reale».

Ovvero «il capitale pretende di diventare una variabile indipendente rispetto alla stessa produzione». Negli anni ’70 era il salario, con qualche ragion pratica e morale in più, a nutrire questa speranza.
La crisi, dunque, è il punto d’approdo «fisiologico» di una dinamica surreale. Ma «la crisi non è altro che il processo attraverso il quale una nuova forma di vita sociale preme per venire alla luce». Non torneremo a come stavamo prima. Lo dicono anche Draghi e Monti, ma in direzione totalmente opposta a quella auspicabile per la stragrande maggioranza degli esseri umani («un innovativo processo di coordinamento generale»).

Il liberismo trionfante ha ammanettato lo stato come soggetto economico, concedendogli solo tre possibilità: «lo stato viene costretto a limitare le sue spese; lo stato continua a spendere, ma aumenta le tasse; lo stato attua le spese necessarie, ma indebitandosi con i privati e come un privato». È la storia degli ultimi 30 anni. Ma per questa via «non c’è soluzione alla crisi». Perché è l’imprenditoria privata a non saper come utilizzare l’eccesso di risorse disponibili.
«Quando la spesa dello stato ha cominciato a crescere senza generare un aumento multiplo del reddito, ciò testimoniava che il processo di riproduzione del rapporto di valore era bloccato».

Ma invece di prendere atto di questa realtà e «far recedere il potere oppressivo dei capitalisti» (Keynes!) si è proceduto nella direzione opposta. Per mantenere la libertà di impresa vengono ricostruite le condizioni della scarsità. Quindi «più povertà per tutti (quelli che lavorano)», così riprende l’accumulazione. Pardon, la crescita…
Qui l’invito di Mazzetti non può che essere quello di fare come Keynes (e Marx): «ristrutturare del senso del problema con cui ci si confronta», guardarlo da un altro lato. Insomma: pensare di nuovo.

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Il divorzio tra politica e potere.

Intervista a Zygmunt Bauman
di Massimo Di Forti-Il Messaggero

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Zygmunt Bauman
. Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della “Vita liquida” e della “Modernità liquida” (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.

Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.

Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?

«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».

È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?

«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»

Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…

«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».

A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?

«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».

La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?

«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza». (Beh, buona giornata).

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