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Sugar Man, alla ricerca del poeta perduto.

Quando Einstein chiamò lo spazio-tempo “quella bobina cinematografica”

di Riccardo Tavani

Dove è scritto “genere: Documentario” dovete sostituire con “classe: Capolavoro”. La vittoria dell’Oscar holliwoodiano e del Bafta, il prestigioso premio dell’Accademia Cine Tv Britannica, entrambi come “Miglior Documentario 2013”, sono un riconoscimento mai tanto giusto e mai tanto riduttivo allo stesso tempo. Una pellicola va riconosciuta per la qualità della sua storia e della sua forma artistica, indipendentemente dal fatto che sia una fiction o un documentario. Anzi, andrebbe sempre ricordato che la vera precipua caratteristica del cinema è più nella presa diretta con la realtà che nella finzione narrativa, essendo quest’ultima di evidente derivazione letteraria e teatrale, ovvero di media comunicativi antichi che non rappresentano in sé la specifica modernità del cinema.

Il titolo originale del film è Searching for Sugar Man, ovvero “Alla ricerca di Sugar Man”, e mai titolo fu più azzeccato nel riecheggiare il titolo della grande opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. La ricerca del poeta, del profeta, del musicista cantante perduto di cui narra questo film è davvero una ricerca che riguarda in maniera sconvolgente il senso del tempo, soprattutto inteso come senso della memoria, del destino e del reciproco riconoscersi, restituirsi la voce e rendersi piena giustizia. Una giustizia che si presenta nella forma di una caparbietà del destino che si mantiene salda nel sottosuolo delle coscienze e della storia umana, intese entrambe come scenario dell’esistenza nel quale si succedono eventi, popoli e individui e si smarrisce progressivamente la memoria di essi.

Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
La vicenda vera del poeta cantante smarrito Sixto Rodriguez nel farsi film, pellicola cinematografica, opera d’arte per lo schermo, non fa che manifestare la sua vera, profonda natura di film che in se stessa già da sempre essa è, al pari di molte altre misconosciute, trascurate, obliate od occultate vicende di umana storia, cronaca e quotidianità. Anzi, potremmo dire che quella di Sixto è l’emblema stesso dell’essere ogni singola, perduta vicenda esistenziale già avvolta e salva dentro il film, la bobina cinematografica di ciò che chiamiamo “tempo”.

Il paragone tra la bobina cinematografica e il piano esistenziale di tutti gli eventi fisici che accadono nell’intero Universo non è di un filosofo in senso stretto. È invece del padre della fisica moderna Albert Einstein, secondo il quale tutti gli eventi universali giacciono in una dimensione di contemporaneità, simultaneità, ovvero senza passato o futuro, proprio come dentro la bobina di un film. In una pellicola cinematografica tutti i fotogrammi e le scene che essi formano sono già tutti da sempre presenti, ovvero si possono dare soltanto come presente. Il passato e il futuro sono fittizi, ovvero sono relativi alla successione nelle quali noi le guardiamo.

Eppure questa visione di Einstein ha molto a che fare proprio con il senso più profondo e originario della filosofia. A rivelarlo e farlo notare allo stesso scienziato fu Karl Popper, uno dei più grandi filosofi ed epistemologi del ‘900. Popper contestò ad Einstein che la sua visione dell’Universo e del tempo fosse esattamente quella di Parmenide, il padre del primo grandioso e sorprendente sguardo della filosofia greca sul mondo. Popper, nella sua polemica, arrivò a rivolgersi ad Einstein chiamandolo direttamente ‘Parmenide’, cosa che Albert accettò immediatamente e ben volentieri.

Per Parmenide la stessa semplice forma verbale ‘è’ sta come irreversibile dimostrazione logica e ontologica che il Nulla non può darsi in nessun modo, al pari del divenire, del trasformarsi del mondo, dato che tutto è già da sempre e per sempre come eterno presente. L’Universo è una sfera illimitata ma non infinita, perfettamente chiusa, compatta e connessa nella totalità dei suoi eventi. Proprio come in Einstein, l’evento più remoto e invisibile è connesso nel presente a quello più vicino e apparente, perché essi giacciono sullo stesso piano spazio-temporale.

È quello che succede con il long play Cold Fact, inciso negli anni ’70 da un operaio edile con una vena poetica e musicale che non ha niente da invidiare a Bob Dylan ma che non ha il suo stesso successo, anzi, non ne ha per niente e per questo viene licenziato dalla sua etichetta (cosa che Rodriguez aveva profeticamente previsto in anticipo in una sua canzone persino nel giorno del licenziamento). Una sola copia del disco finisce per caso in Sud Africa ai tempi dell’apartheid e comincia – nonostante sia messo sotto severissima censura – a diffondersi clandestinamente tra i giovani della classe bianca e colta che contestavano il regime. Quelle parole e quei profondi ritmi blues alimentano la loro identità politica e fanno sbocciare le prime band musicali alternative. Un’intera generazione di sud africani si forma sulla lezione misconosciuta in patria di Sixto Rodriguez e il disco vende – a sua totale insaputa – più di mezzo milione di copie.

La lontananza degli eventi nella bobina spazio-temporale e anche la loro sconnessione è solo apparentemente. Sugar Man ci racconta come quei fatti freddi e remoti all’improvviso si riavvolgano e trovino finalmente nella pellicola una trama logica ma calda, proprio a partire da quegli ex ragazzi senza voce poetica e politica ai quali Rodriguez ne aveva data una. Ora sono essi a ridarla al vecchio Sixto, rimasto tutta la vita a fare anche i lavori più umili nelle viscere di una grande città industriale americana, ma sempre fedele al suo pensiero e al suo stile. “Grazie di avermi tenuto in vita”, sussurra nel microfono prima di riattaccare a suonare e cantare la sua “Sugar Man”, con la sua voce e le sue profonde inflessioni immutate, come se tutto quel tempo perduto non fosse davvero mai passato. Un film da non perdere in nessun modo, perché niente come quell’ora e mezza seduti davanti allo schermo il tempo – insieme a Parmenide, Proust ed Einstein – ce lo fa ritrovare. (Beh, buona giornata).

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Lo stato solido dei gas e quello fluido dello Stato di diritto.

di Riccardo Tavani

Marco Pannella, il quale esprime con il suo partito e la sua radio radicale l’attuale Ministro degli Esteri, ripete ad ogni occasione che l’Italia è uno “Stato delinquente abituale”. Lo afferma sulla scorta delle continue e reiterate procedure di infrazione che la CEDU, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, promuove nei confronti del nostro Paese. In quale strana situazione si possa poi trovare un fiore di campo come Emma Bonino in mezzo a una banda di delinquenti, stando sempre alla definizione del suo leader, non dovrebbe essere troppo difficile capirlo. Il perché invece sieda e agisca tra quelle distinte persone è davvero meno agevole se non proprio cervellotico farsene una ragione.

Difficile negare la situazione delinquenziale, affermata da Pannella sul piano generale, anche nello specifico affaire dell’espulsione-rapimento della signora Alma Shalabayeva, moglie dell’oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, e di sua figlia di sei anni Alua. Uno Stato straniero interviene direttamente sui nostri organi di polizia e li manovra come un burattinaio per vedere soddisfatte a tamburo battente le proprie illegali pretese.

Questa è una situazione di per sé, in via formale e sostanziale, “fuori legge”, senza dover aggiungere l’aggravante che nello Stato in questione i diritti universali siano calpestati e gli oppositori fatti fuori senza certo passare per il galateo. “Fuori legge”, sia che il nostro Ministro degli Interni fosse stato o meno informato, e non si sa quale sia la condizione peggiore per lui. Che poi si nomini un alto funzionario dallo stesso ministro dipendente per un indagine che lo riguarda in prima persona non fa che aumentare tragicomicamente la situazione denunciata da Pannella.

In quanto a Emma Mammola Bonino, va da sé che uno “Stato delinquente abituale” non la calcoli neanche una ministra come lei: se ne serve solo quando ha bisogno di spruzzarsi un po’ di deodorante floreale sotto le mefitiche ascelle.

Lo stato naturale del gas è quello fluido, del petrolio quello liquido, eppure entrambi, nelle condizioni geo-politiche attuali, si presentano volentieri sotto lo stato solido: quello dell’economia. Lo “Stato delinquente abituale” Italia è il maggior partner europeo del Kazakistan con una quota del 13% del totale degli interscambi Eu, avendone sestuplicato il valore nel 2013. Che ci siano delle inchieste in corso sull’aumento nell’interscambio anche di tangenti e corruzione tra Eni e relativi enti di Stato kazaki non fa che dimostrare lo stato solido dei gas in regime di Stato fluido delinquenziale.

Sarebbe, però, un enorme errore considerare il Kazakistan come entità a sé stante. Esso è parte integrante di una Unione Doganale con Russia e Bielorussia, alla quale partecipano da quest’anno anche Ucraina e Kyrgystan, in qualità di osservatori. Questa area rappresenta l’83% del potenziale economico dell’ex URSS e gli scambi italiani con essa sono cresciuti di un ulteriore 5% nel primo trimestre di quest’anno, sopra il livello del 50% già raggiunto nell’ultimo quinquennio (fonte Intesa Sanpaolo).

Le 750 imprese italiane operanti in tutta questa aerea doganale integrata, con un volume d’affari dei 4,4 mld di euro nel 2012, sono al terzo posto, dopo Germania e Olanda, ma destinate a crescere rapidamente. Nella sola Russia il volume d’affari italiani ammonta a 8 mld di euro, pari al 14% sul totale degli scambi con l’intera Europa. In crescita sono sia le importazioni che le esportazioni, con una diminuzione del saldo negativo a nostro vantaggio, ossia aumentano le nostre esportazioni.

Rapidamente è destinata a crescere anche l’importanza dell’Unione Doganale di cui parliamo, che rappresenta complessivamente 180 milioni di abitanti, con un PIL pari a 2 trilioni di dollari. Nel 2015, infatti, essa dovrebbe trasformarsi in UNIONE EUROASIATICA, nella quale si integrerà anche la Repubblica del Tagikistan. Questa entità si esprimerà attraverso una Commissione Euroasiatica, modellata proprio sulla scorta della nostra Commissione Europea, e destinata dunque ad esserne interlocutrice diretta e privilegiata. Chi è stato l’ideatore primo di questa vasta area geo-politica pan russa, prima che Vladimir Putin l’annunciasse ufficialmente nell’ottobre del 2011? Proprio l’autocrate presidente kazako Nazarbayev, il cui ambasciatore, impartendo direttamente ordini a nostri alti funzionari ministeriali, ha preteso e ottenuto la “extraordinary rendition” dall’Italia della moglie e della figlioletta di un suo ex alleato e ora oppositore.

Va solo di sfuggita ricordato che la futura Unione EUROASIATICA non si configura soltanto come una fortezza economica di prima grandezza planetaria, dirimpettaia e partner obbligato dell’Europa, ma è già quella potenza militare e nucleare che le ha lasciato pari pari in eredità l’ex impero sovietico. Ovvero: esattamente ciò che manca di più alla nostra cara vecchia Europa. Sarà al momento anche un arsenale atomico arretrato rispetto a quello Usa, ma non per questo meno sufficientemente deterrente e poi rapidamente ammodernabile sulla scia dell’aumento degli scambi economici e scientifico-culturali. Un ombrello atomico e strategico economico, sotto il quale l’Europa difficilmente potrà fare a meno di infilarsi, fosse solo per il fatto che gli Usa non si potrebbero più permettere di continuare ad attizzare a proprio vantaggio il già congenito dissidio tra Paesi europei.

Nazarbayev non è stato elogiato solo da Berlusconi, ma – pur se non negli stessi scandalosi termini – anche da Prodi e da altri capi di Stato democratici occidentali. Proprio su iniziativa di Prodi l’Italia lo ha insignito del Gran Cordone, una delle più alte onorificenze elargite dal Quirinale. Cordone o bordone, il caso più eclatante è quello dell’ex cancelliere socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder. Un ex capo della nazione più potente d’Europa che diventa addirittura un dipendente di Gazprom, il colosso del gas russo, che lo ha messo a capo del board per la costruzione del gasdotto sotto il Mar Baltico, “Nord Stream AG”. La cosa non solo parla sostanzialmente e simbolicamente più di ogni altro discorso, ma sancisce in sé un accordo strategico tra un vasto blocco territoriale.

Ecco perché il gas e il petrolio si presentano oggi allo stato solido e il fluido empatico tra capi di Stato delinquenziali, più che un mero fattore di elezione personale, si presenta con i caratteri di un destino, ossia di una vera e propria destinazione storica. (Beh, buona giornata)

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Un libro ci racconta come il digitale ci sfugg

di Aldo Garzia – il manifesto –

Negli anni del boom, l’Italia era una potenza informatica, poi il salto indietro. Oggi, Grillo usa la rete come una clava

Giornalista Rai di lungo corso (sua è l’idea iniziale del progetto di Rainews24), Michele Mezza ha il gusto della radicalità delle tesi che espone. Da anni studioso del web e della rete, autore di vari saggi sul tema, fustigatore dei ritardi che la sinistra e il sistema informativo hanno accumulato in Italia sul versante del sapere digitale, Mezza si ripresenta in libreria con “Avevamo la luna” (Donzelli, pp. 346, euro 19) che è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.

Avevamo la luna (Donzelli, pp. 346, euro 19)  è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.
Avevamo la luna (Donzelli, pp. 346, euro 19) è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.

La tesi dell’autore, esplicitata già nel titolo del libro, è che c’è stato un triennio – dal 1962 al 1964, in pieno boom economico – in cui l’Italia grazie alle sue eccellenze in vari campi poteva diventare un paese d’avanguardia nel cuore dell’Europa. Da qui il viaggio compiuto dal libro e dai contenuti multimediali nei sogni dell’innovazione italiana degli anni sessanta e successivi. Grazie ai QR code, cioè ai codici a barre di seconda generazione, il lettore non solo segue il percorso sulla grande occasione mancata a iniziare dal 1962 ma può vedere e ascoltare sul sito del volume, se non vorrà leggerle su carta, le interviste a Giuseppe De Rita, monsignor Luigi Bettazzi, Elserino Piol, Antonio Pizzinato, Alfredo Reichlin, Paolo Sorbi, Claudio Martelli, testimoni o commentatori del tempo che fu.

Nel libro non mancano riferimenti all’attualità, come le dimissioni di papa Ratzinger e l’elezione di papa Francesco. Fin dallo «strillo» di copertina, il libro annuncia di occuparsi «da papa Giovanni XXIII a Papa Francesco, da Olivetti a Marchionne, da Moro a Grillo».

Ognuno può pensare a quei nomi, facendo i paragoni, come a un passo indietro o a un passo avanti nei diversi campi della religione, dell’innovazione tecnologica e della politica incapace di autocomunicazione di massa come per ora solo Beppe Grillo sa fare usando internet come una clava (Mezza analizza nel libro il fenomeno grillino).

L’autore, nelle sue ricostruzioni, operando il confronto tra ieri e oggi, punta l’indice sul sistema politico italiano che finora non ha saputo comprendere la novità del sistema digitale, così come la sinistra si è dimostrata incapace di cambiare il tradizionale paradigma che guarda al lavoro e non alle nuove forme della comunicazione. Narrando gli avvenimenti che vanno dal 1962 al 1964, Mezza ci parla della diversità di allora – quando le innovazioni tecnologiche furono comprese – rispetto alla contemporaneità.

Scrive: in quel triennio di cinquant’anni fa l’Italia fu vicina a una sorta di nuovo rinascimento. Eravamo – argomenta – la prima potenza informatica europea; il primo paese europeo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, a lanciare satelliti nello spazio, tra i primi ad avviare la sperimentazione elettronucleare. Conclusione amara: eppure alla fine di quel triennio il bilancio sarà tutto negativo.

Enrico Mattei, presidente dell’Eni, muore nel 1962 in un incidente aereo che è probabilmente un attentato per stroncare il progetto dell’autonomia energetica dell’Italia. Il comparto elettronico dell’Olivetti viene svenduto alla General Electric, di conseguenza l’Italia non sarà tra i primi paesi a produrre computer (l’esperienza originale di Adriano Olivetti e la sua idea di capitalismo restano da studiare). Felice Ippolito (a capo nel Cnen in quella fase celebrity pokies, tra i maggiori fautori dell’energia nucleare) vede stroncata la sua carriera da uno scandalo all’italiana: nell’agosto 1963 alcune indiscrezioni giornalistiche sollevano dubbi sulla correttezza del suo operato aziendale. Il 3 marzo 1964 viene arrestato. Ne segue un processo che culmina con la condanna di Ippolito a 11 anni di carcere (sarà graziato due anni dopo da Giuseppe Saragat, in quel momento presidente della Repubblica).

Troppe misteriose coincidenze finiscono per incidere sulla storia del dopoguerra italiano. Dice Giuseppe De Rita, tuttora presidente del Cnel, nell’intervista concessa a Mezza, che dopo quei fatti l’Italia inizia a essere un «paese eterodiretto». E non si deve dimenticare nell’elenco dei fatti e misfatti di quel periodo che nel 1964 fu sventato il cosiddetto «Piano Solo», il tentativo di colpo di Stato che ebbe come protagonista Giovanni De Lorenzo, generale dell’Arma dei carabinieri. L’Italia che cambiava tumultuosamente, diventando realtà industriale, faceva paura all’interno e all’esterno dei nostri confini.

Secondo Mezza, dopo gli episodi riguardanti Mattei, Olivetti e Ippolito, la politica non seppe recuperare il terreno irrimediabilmente perduto nell’appuntamento con l’innovazione pur iniziando nel novembre 1963, con il primo governo guidato da Aldo Moro, l’esperienza delle coalizioni di centrosinistra che portano per la prima volta i socialisti di Pietro Nenni al governo. Se però l’Italia può essere definito paese eterodiretto, i ritardi non sono solo «endogeni» ma «indotti». Con questa chiave interpretativa è facile spiegare i «misteri» degli anni successivi: le bombe a piazza Fontana nel 1969, le bombe ai treni e le altre stragi (è stata solo esperienza italiana istituire una commissione parlamentare d’indagine sulle stragi), fino al rapimento e alla tragica uccisione di Moro, che segnano la fine di un’epoca politica. Quando in Italia il cambiamento è vicino e possibile, accade sempre qualcosa d’imprevisto che fa cambiare il tragitto che conduce all’innovazione sociale e politica.

Nel libro c’è, infine, una rilettura originale degli atti del convegno che l’Istituto Gramsci dedicò nel 1962 alle «tendenze del capitalismo italiano». Mezza è convinto che in quell’occasione per la prima volta la sinistra comunista analizzò i fenomeni del capitalismo americano come anticipatori delle trasformazioni che sarebbero arrivate ben presto a casa nostra mentre il Pci giudicava ancora «straccione» il capitalismo italiano e quindi bisognoso di aiuto per compiere un pieno sviluppo delle forze produttive. La relazione di Bruno Trentin, in quel convegno gramsciano, analizzò le trasformazioni indotte dal taylorismo nel ciclo produttivo e la nascita di nuove figure sociali quali i manager e i tecnici.

Nel dibattito, Giorgio Amendola usò un intervento di Lucio Magri, in quell’anno appena trentenne, per polemizzare con chi parlava di neocapitalismo e di società dei consumi nascenti anche in Italia. Proprio in quel dibattito del 1962 molti studiosi hanno datato la nascita della sinistra comunista che poi verrà definita «ingraiana» e che nel 1969, per decisione di un gruppo di suoi esponenti, darà vita al mensile il manifesto diretto da Rossana Rossanda e Lucio Magri.

Ma questa è un’altra storia, anche se la scelta del titolo Avevamo la luna da parte di Mezza sembra una risposta – inconsapevole? – a quel Volevo la luna che è il titolo dell’autobiografia di Pietro Ingrao uscita qualche anno fa da Einaudi (per l’ex presidente della Camera, la luna era l’utopia di un comunismo realizzabile senza le storture della modellistica sovietica).

Mezza conclude: la luna ce l’avevamo a portata di mano e ce la siamo lasciata sfuggire. Da qui la scelta efficace della copertina del suo libro che ripropone un fotogramma del film Il sorpasso di Dino Risi (anno di produzione 1962, pieno boom per l’Italia uscita dalla guerra). Raffigura un cinico Vittorio Gassman sorridente a bordo della sua Lancia Sport decapottabile, inconsapevole che da lì a pochi istanti sta per perdere la vita in un incidente insieme al suo compagno di viaggio Jean-Louis Trintignant. Metafora efficace per descrivere ciò che accadrà al boom economico italiano nel suo appuntamento con l’innovazione.(Beh, buona giornata).

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Datagate, la prima guerra mondiale per il dominio strategico sulla rete.

di Riccardo Tavani

Va ricordato solo di sfuggita che Internet nasce come una tecnologia militare, per connettere tra loro le varie basi Nato nel mondo, e poi diventa in soverchiante misura un’applicazione civile. Talmente prevalente l’aspetto civile che la Cia, per mettersi al passo con i prodigiosi mutamenti della rete, ha proposto, già qualche anno fa, una collaborazione a Mark Zuckerberg, il mitico fondatore di Facebook, la stessa società che ha recentemente ammesso di aver “parzialmente” aderito alle richieste della National Security Agency (NSA) di fornirle i dati degli iscritti.

Il data-gate è deflagrato dalla scala interna americana a quella planetaria nel giro di pochi giorni. Dal controllo sul traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani a quello degli Stati, dei governi, dei popoli di tutto il mondo.

Ne avevamo già parlato in relazione alla cosiddetta “eccezione culturale” (cfr https://www.marco-ferri.com/?p=6590) sui prodotti audiovisivi, sollevata in primo luogo dalla Francia. I maggiori governi del mondo, Cina, Europa e Russia ne sono rimasti coinvolti e sconvolti, mentre anche altri Stati più piccoli sono ora direttamente sotto la ruvida minaccia di vedersi il lato B fatto a stelle e strisce se daranno asilo politico all’agente segreto americano Edward Snowden.

In Europa, soprattutto Germania e Francia sono montate su tutte le furie, mentre l’Italia attraverso il presidente Napolitano e la ministra Bonino ha adottato la linea della “faccenda spinosa”, come dire : “Siamo seduti su un rovo di spine, muoviamoci il meno possibile”. La cosa più grave, però, è che si sta cercando di accreditare, anche nel nostro apparato mediatico, l’opinione tranquillizzante che in fondo non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il cielo: spiati eravamo e spiati restiamo. Soprattutto – si dice – in relazione a quanto già emerso nelle varie commissioni di indagine sull’affare Echelon. Questo fu il primo progetto di raccolta dati planetari strutturato e ripartito tra Australia, Canada, Nuova Zelanda, Inghilterra e Usa. Capofila del progetto era sempre la NSA, con alle dirette dipendenze la Cia e il super segreto National Reconnaissance Office (NRO).

La vittima più illustre di questo apparato fu proprio il Parlamento Europeo, che si trovò spiato direttamente da un suo membro formalmente interno, l’Inghilterra. La differenza fondamentale con l’attuale sistema sta però nel fatto che Echelon era una rete di satelliti terrestri diffusa su diversi territori degli Stati associati. Ora, invece, si tratta direttamente della rete, del web, di Internet, di quella tecnologia sempre più capillare, articolata, differenziata e convergente insieme che usiamo tutti sulla crosta terrestre, nei cieli e nei mari.

Facciamo alcune cifre. La più importante è quella che riguarda l’e-commerce. “Il fatturato in Italia è stimato per l’intero 2013, pari a 11,2 miliardi di euro e in salita del 17% per cento rispetto all’anno passato. Numeri più che discreti ma ancora poca cosa se rapportati a quelli europei. Stando alle rilevazioni di Ecommerce Europe, infatti, l’incremento annuale delle vendite via Web per il 2012 è stato nell’ordine del 22 per cento, per un fatturato complessivo di oltre 305 miliardi di euro. Il Vecchio Continente è il primo mercato mondiale per l’e-commerce, davanti agli Usa (con 280 miliardi di euro) e regione Asia-Pacifico (216 miliardi di euro)”. (IlSole24ORE.com).

Pare evidente non solo la perdita del gradino più alto del podio, ma soprattutto la scomoda situazione da fetta di prosciutto nella quale si trovano gli Usa, tra le due robuste fette di pane rappresentate da Asia ed Europa. È chiaro che anche le altre operazioni bancarie avvengono ormai prevalentemente on line, tanto che Bnp Paribas ha già dato il via alla Hello Bank, la prima banca europea di grandi dimensioni completamente telematica, con ramificazioni in Belgio, Germania e Italia (con apertura qui prevista ad ottobre con BNL). I dati, gli scambi, le operazioni, i pagamenti, i finanziamenti e i progetti viaggeranno tutti ed unicamente via tablet, smartphone e pc.

Ed è questo ormai il nuovo tipo di e-Bank che si sta già egemonicamente affermando nel mondo. Cominciamo a capire la differenza tra il controllo tramite una rete di satelliti terrestri e il controllo diretto, anzi il dominio strategico, militare-spionistico sulla rete.

Abbiamo detto ‘militare’ e non deve stupire, perché sempre di più l’essenza ultima dello scontro – sia bellico che economico – si gioca sul piano della tecnoscienza. Il 23 marzo 1983, il presidente americano Ronald Regan annunciò il cosiddetto “Scudo Spaziale”, lo SDI, Strategic Defense Initiative. Il salto tecnologico rispetto al livello raggiunto dell’ex Urss era talmente vertiginoso che in nessun modo questa avrebbe potuto pareggiarlo o approssimarsi strategicamente a esso. La partita storica del XX secolo era vinta per l’uno e persa per l’altro con quel solo micidiale tecno-colpo.

Il web è il cuore pulsante di qualsiasi ulteriore fattore di sviluppo tecno-scientifico, e la stessa governance, tanto nelle aziende multinazionali produttive, quanto in quelle politiche istituzionali internazionali è impensabile oggi, e tanto più lo sarà domani, senza questo organo cardiaco di pompaggio e smistamento dati. Ricordiamoci che l’Europa aveva già tecnologicamente scavalcato gli Usa nel sistema computerizzato di accelerazione particellare che ha portato al celebre rilevamento del bosone X; e che i cinesi hanno recentemente loro strappato lo scettro di detentori del computer più potente e veloce del mondo.

Per questo gli Usa stanno giocando una partita decisiva, che non è semplicemente quella dei soliti fottuti spioni planetari. Una partita nella quale il galateo diplomatico è destinato a lasciare il campo al gioco duro, quello che quando arriva solo allora i duri cominciano a ballare.

Una locuzione tipica degli americani, che risale agli anni ’50 del secolo scorso è “complesso militare-industriale”. Oggi andrebbe riformulato con “militare-industriale-informatico”, dato che il Dipartimento della Difesa prevede di aumentare il numero dei collaboratori presso il Cyber Command da 900 a 4000. Inoltre, il mercato globale della sicurezza informatica dovrebbe espandersi da circa 64 miliardi di dollari USA del 2011 a 120 miliardi entro il 2017 – con una crescita annua composta pari all’11,3 per cento, secondo dati della società di ricerche Markets and Markets.

L’unico interrogativo, non sappiamo ancora quanto legittimo, che si affaccia lateralmente a tutto questo lurido pacchetto di mischia nel fango è: ma siamo certi che la rete è questo docile strumento di manipolazione e controllo dei potenti? Che non abbia ormai sviluppato un suo efficace sistema immunitario di anti virus che diffondo disubbidienza e beffarda tecno-ribellione, proprio come i casi Anonymus, Assange e Snowden dimostrano? (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura

Salvo, una canzone e una pistola tra la polvere e l’ombra (con aggiornamento).

di Riccardo Tavani

“Salvo” è un film di poche parole, parecchia ombra, polvere, ferraglia, ruggine. È stato meritatamente insignito a Cannes 2013 con il Gran Premio e una Menzione Speciale. Scenario la Sicilia e la lotta spietata tra cosche locali. Salvo, il protagonista del titolo, è il micidiale, efficientissimo killer di uno dei boss dominanti.

È difficile si faccia uscire qualche parola dalla bocca, sembra un muto. Non ha bisogno di pensiero, linguaggio, ma solo di una pistola, perfettamente funzionante e oliata. Lui è quella pistola. Rita, invece, la sorella di un capo-clan avverso, è realmente cieca. Conta le banconote che il fratello scarica quotidianamente in casa e ascolta sempre la struggente “Arriverà” dei Modà con Emma, canzone che da sola costituisce anche l’intera colonna sonora del film.

L’incontro tra i due fa scoccare un miracolo, che non è tanto quello esplicitamente mostrato dal racconto, quanto quello della brusca interruzione del nulla in cui stagnano le loro rispettive esistenze. Jacques Derrida nelle sue “Memorie di un cieco” spiega la relazione tra vista, accecamento e pianto, il quale è quella particolare modalità nella quale si esprime la commozione, la compartecipazione al dolore, allo strazio altrui.

Il protagonista di questo film è il simbolo di chi pur vedendo in realtà non vede proprio niente e neanche sa di non vedere. Se Rita deve riacquistare miracolosamente la vista, Salvo, al contrario deve perderla, accecarsi, per vedere finalmente qualcosa. Deve perdere, radere al suolo, fino al confine del buio il vecchio modo di percepire visivamente la realtà. Il vero miracolo al quale vuole alludere il film è proprio la perdita della vista da parte di Salvo, proprio per cominciare a intravvedere finalmente qualcosa nell’ombra impenetrabile della sua vita. Un cane eternamente al guinzaglio e abbaiante, nel cortile della squallida pensione familiare in cui dorme e consuma il pasto, diventa improvvisamente per Salvo l’immagine vera di se stesso.

Il vecchio occhio deve essere continuamente accecato per acquistarne uno nuovo che amplia l’orizzonte della mente, della coscienza e della vista. Solo che la realtà che ora percepisce il nuovo sguardo resta completamente invisibile a quello condizionato dalla cultura della cerchia cui si apparteneva. Il conflitto tra vecchio e nuovo sguardo si pone sempre in termini di inconciliabile tragicità, come già nel mito della caverna di Platone. L’uomo che ridiscende nell’ombra degli altri uomini, dopo aver visto la vera luce del mondo, sa di mettere drammaticamente in gioco la propria vita. Anche Salvo ora lo sa, ma ormai non può più sottrarsi al destino che anche inciso nel suo nome: Salvatore.

Il buio della vecchia prigione fraterna nella quale era relegata appare ora chiara a Rita, proprio attraverso quella nuova in cui la scaraventa Salvo. Un buio come mancanza, privazione della luce dei sentimenti, surrogati soltanto da quell’unica canzone continuamente ascoltata. La canzone dei Modà all’inizio dice: “Piangerai, come pioggia piangerai e te ne andrai”; poi nel nel finale del ritornello ripete: “Penserai che la vita è ingiusta e piangerai”. La luce del sentimento per Rita si esprime come acuto atto di compassione nei confronti del suo carceriere-salvatore. Scrive Derrida: “Ora, se le lacrime vengono agli occhi, se dunque possono velare anche la vista, forse rivelano nel corso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini… In fondo, in fondo all’occhio, quest’ultimo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere.

Nel momento in cui velano la vista, le lacrime sembrano svelare il proprio dell’occhio”. La compattezza, la densità drammatica di questo film è portata all’acme proprio dalla impossibilità di una redenzione, di un riscatto finale. Eppure quel velo di pianto e compartecipazione allo strazio ce ne fanno sentire tutto il lancinante bisogno. L’occhio, come la luce di cui è simbolo, permette di vedere ma non si lascia a sua volta vedere. Il schermo del pianto come una pellicola cinematografica lo svela.
(Beh, buona giornata).

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