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Cinema

Nebraska.

Giuseppe Di Giacomo, filosofo dell’arte, commenta il film di Alexander Payne “Nebraska”
L’improvvisa forza messianica di un road movie all’indietro

di Riccardo Tavani

“C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha diritto”. Questa chiave di lettura del film ce la offre, nella sua seconda Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin, uno dei più importanti filosofi del ‘900, da sempre al centro della ricerca e dell’insegnamento del professore Giuseppe Di Giacomo, titolare della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma. Vediamo con lui Nebraska al Tibur, lo storico cinema nel quartiere San Lorenzo. Usciti poi dalla sala risaliamo un isolato e ci troviamo da Sanlollo a mangiare una pizza e ottimi arancini siciliani al ragù, accompagnati da una caraffa di birra alla spina. Discutiamo del film.

È la storia di Woody Grant, un vecchio meccanico ubriacone, ora disperatamente zoppicante, come tutto il suo passato, con due figli, fatti con la moglie Kate, e perlopiù da lui trascurati. Sono David commesso insoddisfatto in un negozio di elettronica e Ross, giornalista in ascesa in una rete televisiva del Montana, Stato americano nel quale la famiglia vive. “Perché ci avete fatti?” domanda David a suo padre. “A me piaceva scopare, tua madre era una cattolica convinta… metti tu le due cose insieme!”. Non sembrerebbero due figli molto attesi, almeno dal padre.

Le pattuglie della polizia locale raccolgono, per riportarlo a casa, Woody che cammina da solo lungo le haigways che vanno verso sud-ovest. Ha in tasca la lettera di una lotteria che gli annuncia di aver vinto un milione di dollari, ma deve recarsi a Lincoln, capitale del confinante Nebraska, a ritirarli entro una data ormai molto ravvicinata. Tutti gli dicono che si tratta di una delle più classiche e conosciute bufale del mondo, ma lui resta attaccato a quel pezzo di carta e alla sua illusione. Woody vuole e deve andare a tutti i costi a Lincoln – Nebraska.

David decide di accompagnarlo con la sua auto, di dargli la possibilità di viversi quest’ultima illusione, o ragione estrema di vita prima di morire.

Nebraska è un film del 2013 diretto da Alexander Payne, con protagonista Bruce Dern. Presentato in concorso alla 66ª edizione del Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio per la Miglior interpretazione maschile, attribuito all'attore Bruce Dern.
Nebraska è un film del 2013 diretto da Alexander Payne, con protagonista Bruce Dern.
Presentato in concorso alla 66ª edizione del Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio per la Miglior interpretazione maschile, attribuito all’attore Bruce Dern.
Sembra così anche un tragitto all’indietro nel cinema americano, quello dei grandi panorami, con le magiche inquadrature in campo lungo del western originario. Padre e figlio tornano inquietamente a questo cuore, a questa visione sconfinata della natura che – ci dicono silenziosamente le inquadrature – solo il cinema, nessun altro odierno medium, ci può ancora dare. Un paesaggio, una natura – nota ancora Di Giacomo – che sono stati qui depurati dall’elemento della violenza, della spietatezza, tipico di tanti film ambientati in luoghi simili o della letteratura di Cormac McCarty, che ne conserva e prolunga le radici fino al presente.

Come in molte opere di questo scrittore, tra i più amati e studiati da Di Giacomo, c’è però l’elemento del romanzo di formazione. David non è uno dei sedicenni di McCarty che montano in sella e scavalcano i confini degli Stati o del Messico, per imbattersi nella crudeltà del mondo e forgiare sul sangue la propria personalità. David ha ormai sui trent’anni, fa una vita angusta ed è stato anche mollato per insipienza dalla sua fidanzata. I sedicenni mccartiani hanno un elemento vitale, biologico, selvaggio rappresentato bene dal connubio con il loro cavallo o con le lupe cui danno la caccia tra la solitudine dei monti. David è precocemente spento, la ragazza lo ha privato da tempo anche del rapporto sessuale e lui è incapace di cercarsene un altro. Quel vecchio beone di suo padre, carico di debiti economici ed esistenziali, al confine ultimo del suo strascicante tragitto, ha senz’altro ancora più vita addosso del figlio.

La colonna sonora che ci accompagna lungo tutto il percorso, fa risuonare ancestrali eco blues di quella terra quasi immobile nella decrepitezza dei volti, dei caratteri, delle vicende che la pellicola nel suo svolgersi ci svela. Della vecchia casa nei campi in Nebraska, dove Woody è nato, è rimasto solo uno scheletro cadente, ma qualcuno continua a “coltivarci intorno”. Il pezzo che fa da filo conduttore a tutta la colonna sonora (di Mark Orton) si intitola Their Pie, che letteralmente significa “Le loro torte”, ma che come espressione gergale sta per “Le loro false speranze”.

Il viaggio come ricerca del riscatto, che attraverso la riscossione di una così consistente vincita, Woody vorrebbe dare alla sua vita è solo un’illusione. L’esistenza non ha una meta da raggiungere per ricevere un senso; la storia umana non ha una filosofia, un fine, una teleologia che la guidi verso il riscatto. La terra ci guarda nella sua vasta immobilità e bellezza, ma gli dei e gli eroi con una stella al petto o un Winchester nella fondina del cavallo la hanno abbandonata da tempo. Questo tratto che è caratteristico, per Di Giacomo, dell’evoluzione del cinema western americano, la ritroviamo in un suo aspetto inedito e convincente, coinvolgente in questa pellicola.

Un incidente di percorso costringe Woody e David, a fare una deviazione verso Hawthorne, un centinaio di miglia prima di Lincoln, dove il vecchio è nato e vive ancora la famiglia di suo fratello, altri parenti e molti amici d’infanzia. Saranno poi raggiunti in autobus anche da Kate e Ross, e così tutta la numerosa famiglia Grant si troverà riunita dopo molti anni. Lì, però, antichi rancori, vecchi odi e anche amori riemergono senza che siano mai stati sanati e ci sia più qualche speranza di riscattarli. Si sono solo incartapecoriti, come la pelle dei vecchi che vi abitano, e le liti che scoppiano sono fatte a suon di ridicole smanacciate più che di sane scazzottate da saloon. Il contrasto tra decrepitezza e crudeltà, sebbene patetica, che la presunta prossima ricchezza di Woody fa scoppiare fra amici e parenti, costituisce l’elemento drammatico di fondo della vicenda: una vita che, nella propria angustia, si è consumata senza mai potersi esprimere, senza mai avere una possibilità di riscatto. L’insensatezza ha prosciugato quelle esistenze e le loro ossa, ha arrochito le loro voci, reso acri i loro rimorsi. È un paese di vecchi che non ha lasciato niente alla generazione che ha messo al mondo.

Woody, infatti, vuole quei soldi della fasulla vincita per lasciare qualcosa ai figli, prima di morire. Per sé si accontenta solo di un pick-up e di un compressore ad aria, dato che il suo gli è stato fregato proprio dal vecchio socio d’officina e amico di taverna Ed Pegram. Non la meta ma la ricerca nella memoria, nel passato, nelle vicende rimaste nascoste o in sospeso, alla quale il viaggio costringe offre non “il” senso ma “un” senso a questo road movie all’indietro, spiega Di Giacomo. Kate conduce Woody e David tra le lapidi conficcate nella polvere del vecchio cimitero del villaggio. Amore, sesso e morte si mescolano nel suo racconto di quei sepolti della sua storia di giovinezza. Si alza la gonna e mostra la vagina alla lapide di un suo giovane spasimante di allora: “Guarda che ti sei perso a stare come un fesso sempre dietro alle tue mucche!”

Da queste decrepite storie, da queste voci che salgono dalla terra e dalla cenere dei morti, David capisce che suo padre era sì un ubriacone indebitato, ma che il suo lavoro di meccanico lo sapeva fare e che non ha mai fregato nessuno, anzi, la sua incapacità di dire no a chiunque in quel villaggio-mondo di Hawthorne è ciò che lo ha ridotto alla sua strisciante condizione di zoppo senza più speranza se non uno sgualcito pezzo di carta privo d’alcun valore. La strada all’indietro lo ha portato in avanti, aldilà del sogno americano della ricchezza come possibilità per tutti, per la quale, in realtà, quei tutti sono certamente pronti solo a tradirsi e perdersi. Ha ritrovato il caos asfittico della sua origine e questo gli permette, quanto meno, di dargli “un” ordine, “una” forma, la possibilità di una voce e di un racconto. Che è proprio quello che fa questo film, questo tipo di cinema: ricercare – attraverso lo svolgersi della pellicola sulla strada delle sue immagini – un’occasione, per quanto flebile, di riscatto per i tanti ai quali è stata tolta o tarpata nella storia la possibilità di esprimersi, di affermare un proprio progetto di esistenza. Il vigoroso, sano cazzotto stile saloon western che David molla a Ed Pegram, davanti a tutti nella taverna di Hawthorne, segna il suo scuotersi dal torpore triste della sua precedente inconsapevolezza.

La debole forza messianica, su cui il passato ha diritto – di cui parla Walter Benjamin –, trova nella conclusione del film una via narrativa semplice ma inaspettata, simbolicamente conseguente e potente. Padre e figlio per la prima volta si vedono con uno sguardo nuovo, improvviso, che aspettava di essere dissepolto da quella memoria inespressa che – come possibilità da lungo attesa – lo negava a entrambi. (Beh, buona giornata.)

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