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Il famoso «ma anche» di Veltroni non è stato un suo vezzo ma esattamente una linea politica.

di RICCARDO BARENGHI da lastampa.it
Il fallimento di Walter Veltroni come leader del Partito democratico non può essere spiegato solo con i suoi limiti personali e politici, che pure non sono mancati. Sarebbe miope se i dirigenti del Pd pensassero che morto un Papa se ne fa un altro e così la nave va a gonfie vele. Non è così perché il fallimento non si chiama Veltroni ma appunto Partito democratico. Quel Partito di cui il leader dimissionario è stato l’interprete più fedele, e che non poteva essere molto diverso da quello che è stato e che, infatti, Veltroni ha perfettamente incarnato. Un Partito sarebbe una associazione di persone che hanno più o meno le stesse idee sul mondo, e questo il Pd non lo è mai diventato. Perché quelli che lo dirigono, quelli che lo sostengono e quelli che lo votano hanno opinioni molto diverse, spesso anche opposte, su ogni singola questione. Dall’economia al lavoro, dalla giustizia alla bioetica, dalle alleanze fino al tipo di opposizione da fare. Negli scorsi anni, e ancora oggi, ci hanno spiegato che il Pd è nato per unire i riformisti, quindi che si tratta del più grande Partito riformista presente in Europa, un esperimento unico nel suo genere che mette insieme le due grandi culture uscite dal Novecento. Peccato però che queste due grandi culture (insieme alle mille culturine che si sono manifestate via via) abbiano dimostrato la loro incapacità di stare insieme. Un tempo i riformisti si contrapponevano ai rivoluzionari, loro sostenevano un cambiamento graduale e progressivo della società, gli altri la presa del Palazzo d’Inverno, un atto violento che rovesciasse il regime. Ma i rivoluzionari si sono estinti da tempo, mentre i riformisti continuano a chiamarsi così rivendicando un concetto che però suona vuoto, tanto vuoto che ognuno è libero di interpretarlo a modo suo.

E’ più riformista stare con la Cgil che sciopera o con la Cisl che firma il contratto di Berlusconi? E’ più riformista una legge sul testamento biologico come la vuole Ignazio Marino o come la vogliono Rutelli e la Binetti? Chi è il vero riformista, quello che sta con Di Pietro, quello che sta con Casini o quello che riscopre Bertinotti? E in Europa, con quali riformisti finiranno i riformisti del Pd, con i socialisti, con qualcun altro o da soli? La storia del Pd, per quanto breve, è stracolma di esempi che dimostrano come la scelta (che della politica è l’essenza) sia diventata una non scelta. Il famoso «ma anche» di Veltroni non è un suo vezzo ma esattamente una linea: stiamo con gli operai ma anche con i padroni, vogliamo il dialogo con Berlusconi ma anche salvare l’Italia da Berlusconi, siamo alleati di Di Pietro ma anche contro di lui, stiamo con i magistrati ma anche contro di loro, vogliamo costruire il partito del nord ma anche quello del sud… La colpa di tutto questo non è solo dell’ex segretario. Certo, lui ci ha messo la sua natura, il suo essere buonista, diciamo anche troppo ecumenico, amplificando a dismisura questa tendenza a tenere insieme tutto e il contrario di tutto. Ma oggi che lui lascia, sarebbe forse il caso di riflettere su quello che resta.

E, soprattutto, se conviene farlo restare. In poche e brutali parole: non sarebbe meglio che le due grandi culture presenti nel Pd, quella laica e socialista da un lato e quella cattolico-democratica dall’altro, si separassero per poi allearsi quando serve, le elezioni politiche e l’eventuale governo del Paese? Dicono di no, dicono che non si può tornare a Ds e Margherita, che sarebbe un fallimento epocale, D’Alema e Veltroni hanno definito quest’ipotesi una «fesseria». Una fesseria di cui però si parla ormai da molti mesi e che quindi tanto fessa non deve essere.

E infatti non lo è. Soprattutto guardando il bilancio di questo Partito che doveva essere la grande novità politica del nostro Paese e che invece si è rivelato molto al di sotto della sua scommessa. E non perché l’idea non fosse suggestiva ma proprio perché la pratica non ha funzionato, le idee non si sono accordate, le ambizioni personali hanno prevalso, le incapacità di direzione sono risultate evidenti e l’impossibilità di scegliere è stata la bussola che ha «guidato» il Pd. Forse, chissà, due barche più piccole invece di una grande ma sgangherata, due equipaggi coesi invece di una ciurma ingovernabile, due timonieri che sanno navigare e che magari riescono anche a raccogliere qualche naufrago alla deriva, potrebbero anche riportare il centrosinistra italiano in porto. Ovviamente dopo una lunga e burrascosa traversata. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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