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Una questione di vita e di morte.

La notizia della morte di Piergiorgio Welby arriva che i giornali hanno ancora la vecchia notizia. La notizia la batte il Televideo. Quella notizia viene data in prima mattinata da un tg delle reti pubbliche: le immagini mostrano, oltre il suo corpo su un letto d’ospedale, anche la ripresa del citofono della sua abitazione. Sotto […]

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La notizia della morte di Piergiorgio Welby arriva che i giornali hanno ancora la vecchia notizia. La notizia la batte il Televideo. Quella notizia viene data in prima mattinata da un tg delle reti pubbliche: le immagini mostrano, oltre il suo corpo su un letto d’ospedale, anche la ripresa del citofono della sua abitazione. Sotto il nome scritto sul campanello, P. Welby, ce n’è un altro, di un altro inquilino, proprio sotto: La morte.

Ed ecco che esplode in tutta la sua drammaticità il tema della morte come esercizio di un diritto civile, innominabile, osteggiato, intriso di moralismo e ipocrisia.

Forse un uomo, che non ha il diritto di scegliere dove, come e per merito di chi viene al mondo, può avere il diritto di scegliere come, dove e con chi vuole vivere. Ed estendere questo diritto anche al come vuole cessare la propria esistenza in vita. Insomma, la libertà è di vivere e di morire in pace con se stessi, con i propri principi, prima ancora che con le esigenze morali degli altri.

Non solo la religione, le religioni, ma il cinema, il teatro, la letteratura, la pittura, la poesia e tutte le forme della creatività espressiva degli uomini si sono misurate e si misurano con il tema della morte.

E’ il caso di citare un esempio letterario. Ne “Il profumo” di Patrick Suskind, di cui è stata fatta una recente riduzione cinematografica, il protagonista si farà sbranare, come rivincita della sua malevolenza nei confronti degli altri, per sopravvivere all’odio che reca verso il mondo.

Ne “Le voci del mondo” di Robert Schneider, il protagonista affronterà la morte come sconfitta per non essere riuscito a farsi amare dalla persona amata. Due distinte, contrapposte visioni della morte, come ebbe a scrivere Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981 proprio a Schneider.

Piergiorgio Welby ha voluto andarsene come il protagonista di Schneider, ma la polemica attorno al suo caso lo vorrebbe come il personaggio di Suskind. Non è giusto.

Il un paese in cui la spettacolarità indotta dalla eccessiva invadenza della tv nella nostra vita fa si che la gente applaude ai funerali, perché così viene meglio in tv, sarebbe utile e giusto il silenzio che si deve a chi diparte per l’ultima dimora. Un silenzio propedeutico alla riflessione, al ricordo, all’esercizio della memoria, che è l’unico concreto modo per l’immortalità della presenza delle persone, oltre la loro vita.

Un poco di silenzio gioverebbe a capire che Piergiorgio Welby si è preso una rivincita contro chi lo voleva un malato, invece che un essere umano. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

Una risposta su “Una questione di vita e di morte.”

Vorrei aggiungere un’altra citazione meravigliosa. Il disadattato alter ego della signora dalloway di virginia woolf, che si suicida nel momento in cui guarisce dal suo delirio. Tutto gli si fa chiaro, e sente i medici salire su per le scale. A salutarlo la finestra spalancata dalla quale si getta.

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