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La crisi, la protesta e la “rabbia populista”.

La rabbia populista
di FRANCESCO RAMELLA da lastampa.it

C’è qualcosa che accomuna l’indignazione degli americani contro l’élite finanziaria di Wall Street e le manifestazioni popolari che si sono viste in Europa nelle scorse settimane? A gennaio, in un articolo sul New York Times, Paul Krugman ha segnalato il montare negli Stati Uniti di una «rabbia populista» contro i salvataggi dei grandi banchieri. Di recente, questa populist rage è stata «celebrata» e ufficializzata da una copertina di Neewsweek. Alcuni commentatori vi hanno intravisto dei parallelismi con quanto sta accadendo nel vecchio continente.

Ma davvero le dimostrazioni contro i grandi della terra in Inghilterra, il sequestro-temporaneo dei manager in Francia, la mobilitazione della Cgil in Italia sono comparabili con quanto avviene sull’altra sponda dell’Atlantico? In effetti, anche il «malcontento europeo» possiede una forte connotazione antiestablishment. E tuttavia presenta importanti elementi distintivi: la matrice anticapitalista di alcune proteste, la loro componente anti-governativa (e talvolta antipolitica), la dimensione di piazza.

Sulle pagine di Newsweek lo storico Michael Kazin ha ricordato la presenza nella storia americana di altre contestazioni populiste contro l’establishment economico (e politico). Secondo lo storico della Georgetown University ciò che avvicina la reazione odierna alla crisi a quella dei movimenti populisti di fine Ottocento e degli anni Trenta, è l’indignazione. Si tratta della protesta di persone comuni che vogliono che il sistema viva all’altezza degli ideali che professa. Difficile, tuttavia, non scorgere anche le differenze tra la rabbia del presente e quella del passato. E, soprattutto, tra quella americana e quella europea. Negli Stati Uniti di oggi manca la dimensione di piazza della mobilitazione. Così come mancano la componente antisistemica e quella politica.

Piuttosto che interrogarsi sulla rabbia che accomuna i due continenti, ci si potrebbe perciò porre una domanda opposta. Perché negli Stati Uniti – dove la crisi economica ha avuto il suo epicentro e ha conseguenze molto drammatiche per gli individui – non si registrano proteste di ben altra radicalità? Alcuni fattori vanno menzionati. In primo luogo, la debolezza del sindacalismo americano e la scarsa propensione alla mobilitazione di classe. In secondo luogo, la presenza di una tradizione culturale di maggiore accettazione delle disuguaglianze sociali, che tende ad attribuire ai singoli individui la responsabilità dei propri successi e insuccessi personali. Questo, inevitabilmente, finisce anche per individualizzare le tensioni generate dalla crisi e le sue reazioni.

Sui media americani hanno avuto una certa eco alcuni «casi esemplari». Quello di Addie Polk, una donna di novant’anni che si è sparata mentre la sfrattavano dalla casa in cui aveva vissuto per quasi quarant’anni. Quello di Karthik Rajaram, un quarantacinquenne disoccupato che sconvolto dai problemi finanziari ha ucciso la moglie, i tre figli e la suocera, prima di suicidarsi. Quello recentissimo di Jiverly Wong, un uomo di quarantun anni, di origini vietnamite, da poco licenziato dall’IBM, che ha compiuto una strage in un centro di assistenza agli immigrati. Solamente nell’ultimo mese, negli Stati Uniti, 25 persone sono state coinvolte in episodi di suicidi-omicidi collettivi. Nel corso del 2008, inoltre, il National Suicide Prevention Lifeline ha registrato circa 550 mila richieste di aiuto ai propri telefoni (+ 36% rispetto al 2007), con un sensibile aumento di coloro che riportano problemi economici e finanziari. Anche un recente rapporto dell’American Psycological Association lancia l’allarme sulle conseguenze psicopatogene della crisi economica: quasi la metà degli americani dichiarano forti stati di ansia per le condizioni economiche della loro famiglia; otto su dieci affermano che il cattivo stato dell’economia rappresenta una significativa causa di stress personale.

Infine, c’è un terzo elemento che aiuta a spiegare la mancanza di una deriva anti-politica delle attuali difficoltà economiche americane. Il fenomeno Obama. L’avvicendamento avvenuto alla Casa Bianca ha in parte canalizzato le tensioni derivanti dalla crisi. Alimentando la speranza in un cambiamento possibile, il nuovo presidente è riuscito a neutralizzare politicamente la «rabbia populista». Almeno fino ad oggi. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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