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Terremoto: “La speculazione costruisce e basta; realizza qualcosa che poi, una volta condonato, qualcuno abiterà non sapendo che un terremoto abbastanza forte lo potrà tirar giù come fosse di cartapesta.”

di Roberto De Marco, ex direttore del servizio sismico nazionale – eddyburg.it

Le macerie dell’ultimo terremoto costituiscono uno scenario immutabile nel tempo, lo sfondo sul quale più o meno si rappresenta lo stesso copione, almeno sul piano della espressione di intenzioni. Si promette il rapido superamento dell’emergenza fino al raggiungimento di normali condizioni di vita; in tempi contenutissimi si garantisce il passaggio dalle tende alle case; infinela ricostituzione del tessuto produttivo ed infrastrutturale come occasione di sviluppo dell’area.

Tutte cose mai avvenute: il ritorno ad una vita normale è lungo e doloroso; il passaggio dalle tende alle case comporta una lunga permanenza in alloggi provvisori per una costosissima ricostruzione quantomeno decennale; per l’Irpinia del terremoto dell’80 si progettò quel tipo di sviluppo che fu poi costellato di illegalità e cattedrali nel deserto. Come ultima cosa si dice che quanto accaduto non dovrà mai più capitare; e si promette un impegno inderogabile sul terreno della prevenzione sismica.

Il 28 dicembre del 2008 si è celebrato l’anniversario del terremoto di Reggio Calabria e Messina. Tante paginate di giornale sulla tragicità di quell’evento, tante commemorazioni, ma la questione su cui concentrare l’attenzione doveva essere soprattutto un’altra.
Il Governo Giolitti, terrorizzato dall’immane sciagura, pochi mesi dopo inaugurò infatti la prevenzione sismica in Italia. Da quel tragico evento in poi, chiunque avesse voluto costruire un edificio in un comune iscritto nella lista di quelli sismici, lo avrebbe dovuto fare rispettando una specifica normativa in grado di conferire una più elevata resistenza agli edifici. Da allora, dopo ogni terremoto più o meno distruttivo, nuove porzioni di territorio nazionale sono state classificate: nel 2001 il territorio nazionale appariva classificato come sismico per oltre il 70%. Ma, ad una così ampia delimitazione delle zone dove le esperienze vissute dimostravano la ricorrenza del fenomeno, non ha corrisposto un analogo riscontro in termini di azione di mitigazione del rischio: dopo un secolo di attivazione dell’unico strumento organico di prevenzione, oggi, solo il 18% degli edifici, rispetto all’intero stock di edificato, risulta sismicamente protetto.

Bene, dalle immagini di L’Aquila e dintorni emerge un’enorme assenza di sicurezza e, in queste primissime ore di post-terremoto, nel rispetto delle vittime e delle strutture di soccorso che stanno cercando di fare il loro meglio per risolvere l’emergenza, emerge una macroscopica mancanza di prevenzione, il che induce ad alcune considerazioni a caldo, salvo poi ritornare, con maggior cognizione di causa, su taluni aspetti.

Il terremoto ha colpito L’Aquila e alcuni piccoli paesi abbarbicati sui versanti della Conca dell’Aterno che danno l’impronta al paesaggio dell’Appennino centro meridionale.
L’edilizia prevalente nel centro storico del capoluogo così come in quelli di Paganica, Fossa, Onna, Barisciano è intrinsecamente fragile, vulnerabile per caratteristiche tipologiche e costruttive. Insomma, rappresenta in modo emblematico l’elevato rischio sismico di cui è affetto il Paese, dovuto al patrimonio edilizio preesistente rispetto all’introduzione della classificazione sismica del territorio che ha iscritto i comuni dell’Aquila e di tutta la sua provincia dal 1915, quando il terremoto di Avezzano causò 30 mila vittime.

E’ necessaria, dopo quest’ultimo disastro, una riflessione sulla politica di prevenzione anche per queste tipologie edilizie, per i centri storici nel loro complesso, rispetto ai quali con tutta evidenza le iniziative intraprese attraverso strumenti di defiscalizzazione a favore degli interventi di manutenzione straordinaria, che hanno riguardato anche aspetti strutturali, non hanno risolto significativamente il problema. Insomma, i centri storici, ormai in modo diffuso, sono realtà che hanno riacquistato in questi ultimi anni una forte capacità attrattiva, sia sul piano residenziale che turistico. Si riqualificano sul piano estetico, si ristrutturano nel senso della vivibilità, recuperando almeno in parte la loro indispensabilità sul piano socio-culturale, mentre purtroppo, sul piano della sicurezza, sembrano mantenere intatta la loro vulnerabilità.

E’ un problema di risorse? Certamente sì. Lo Stato avrebbe dovuto far di più onorando l’impegno, più volte assunto dopo ogni catastrofe, che la messa in sicurezza del territorio sarebbe diventata la più importante opera pubblica di questo Paese. Ma di soldi, per esempio, ai Beni culturali ne sono stati dati, di interventi ne sono stati fatti, anche qui con esiti a dir poco incerti. Allora, di fronte ai disastri delle chiese e dei monumenti del capoluogo abruzzese emerge un problema di progettazione, di capacità tecniche, di giusta sintesi tra l’esigenza di proteggere dalla distruzione ed i vincoli della conservazione.

Ed infine c’è il cemento armato. Perché gli edifici in cemento “moderni” collassano, si impilano su stessi non lasciando nessuno scampo a chi li abita? Come sostiene qualcuno è un problema più da Procura della Repubblica che tecnico. D’altronde, la normativa sismica pretende che la nuova edilizia nei comuni classificati, e quindi soprattutto gli edifici in cemento armato, consenta di salvare la vita degli occupanti, pur subendo danni, e quindi non ammette giustificazioni spendibili in linea generale. Soprattutto di fronte a ciò che è avvenuto a L’Aquila oggi, alla scuola di San Giuliano di Puglia ieri e all’Ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi l’altro ieri.

In senso generale, si può affrontare un ultimo tema legato direttamente al concetto di sicurezza oltre che, evidentemente, alla tutela del territorio. Per chi si occupa di riduzione del rischio sismico, ma in realtà anche di tutte le altre tipologie di rischio naturale, il termine “condono” rappresenta una sorta di anatema, di cupo presagio. L’abusivismo, che i condoni incrementano, soprattutto diffuso nelle aree meridionali del Paese dove più elevata è la pericolosità sismica, ha assunto dimensioni devastanti, e chi costruisce illegalmente non si preoccupa né delle qualità dell’area di sedime né delle caratteristiche strutturali. La speculazione costruisce e basta; realizza qualcosa che poi, una volta condonato, qualcuno abiterà non sapendo che un terremoto abbastanza forte lo potrà tirar giù come fosse di cartapesta. Certo, oggi un nuovo condono in Italia è improponibile, ma si affaccia la minaccia di appendici e superfetazioni di ogni tipo. Basta che non superino il 20% di quanto già costruito abusivamente e poi, magari, condonato. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: http://www.eddyburg.it/article/articleview/12983/0/352

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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