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Non comprate i prodotti che fanno cattiva pubblicità.

”Chiediamo che Dolce e Gabbana ritiri la pubblicità o che l’azienda sia richiamata al rispetto delle regole”. Firmato tredici tra senatrici e senatori dell’Ulivo e di Forza Italia, tra cui, prima firmataria Vittoria Franco, presidente della commissione Cultura e responsabile nazionale delle Donne Ds. Si tratta di un annuncio pubblicitario in cui si mima una […]

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”Chiediamo che Dolce e Gabbana ritiri la pubblicità o che l’azienda sia richiamata al rispetto delle
regole”. Firmato tredici tra senatrici e senatori dell’Ulivo e di Forza Italia, tra cui, prima firmataria Vittoria Franco, presidente della commissione Cultura e responsabile nazionale delle Donne Ds.
Si tratta di un annuncio pubblicitario in cui si mima una violenza di gruppo su una donna, che molti avranno visto sui quotidiani italiani.

L’annuncio pubblicitario in questione aveva già fatto analogo scalpore in Spagna e D&C hanno deciso di ritirarla, non senza aver detto che si tratta di una foto artistica e che l’arte non è violenta.
In realtà, al netto della richiesta dei parlamentari italiani e anche della decisione, unilaterale, dei direttori delle testate che hanno pubblicato l’inserzione ( perché come tutti sanno il commerciale vende spazi pubblicitari, ma il direttore della testata ha l’ultima sempre l’ultima parola sull’opportunità della pubblicazione), inevitabilmente le polemiche diventano un moltiplicatore della comunicazione.

Vale a dire che ben consapevoli di fare qualcosa che va oltre le regole, al solo scopo di proporre una provocazione, nel momento stesso in cui si accetta la provocazione, la polemica è un valore aggiunto dell’investimento pubblicitario, oltrettutto molto prezioso, perché è gratis.
Rivolgersi al Giurì è alquanto velleitario: l’Istituto di autodisciplina prende decisioni successive all’uscita di una campagna “incriminata”, e ora che prende una decisione, in genere la campagna ha avuto il suo corso.

Per altro, le decisioni dell’Istituto sono vincolanti, non tanto per l’azienda, quanto per le testate o le emittenti, che sono tenute a non mettere in onda o pubblicare inserzioni pubblicitarie censurate dal Giurì. I tredici parlamentari avrebbero fatto meglio a chiedere ai direttori dei più importanti quotidiani italiani di spiegare il motivo per cui hanno deciso di pubblicare quell’ inserzione: nelle redazioni ormai comanda solo il marketing?

Per il resto, è inutile entrare nel merito della rappresentazione che propone l’annuncio incriminato. Utile invece è prendere in considerazione una fatto molto semplice, che taglia la testa al toro a ogni tentazione censoria e a ogni valutazione moraleggiante sul ruolo della pubblicità.

Il fatto è questo: quando una azienda fa pubblicità esprime non solo offerte commerciali, ma il modo di pensare della marca, i suoi valori, la sua collocazione nelle problematiche sociali, che spesso sono quelle che pensa l’imprenditore.

Allora la domanda è: condividete questo modo di vedere la donna, da parte di Dolce e Gabbana? Se è sì, continuerete ad acquistare e indossare quella griffa, se è no, beh, la conseguenza è semplice.

Se i giornali fanno certe scelte per via del registratore di cassa, le aziende cambiano modo di pensare, proprio per via del registratore di cassa. A voi decidere.Questo vale, ovviamente sia per gli abiti che per i giornali. That’s all, folks. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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