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Morire di pregiudizi a sedici anni.

M.P., 16 anni, frequentava l’istituto tecnico Sommeiller, considerato uno dei più prestigiosi di Torino. Dallo scorso anno scolastico era stato preso di mira dagli altri ragazzi che per deriderlo lo apostrofavano con il nome di Jonathan, come uno dei personaggi del Grande Fratello televisivo indicato come omosessuale. Martedì scorso M.P. ha deciso di farla finita. […]

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M.P., 16 anni, frequentava l’istituto tecnico Sommeiller, considerato uno dei più prestigiosi di Torino. Dallo scorso anno scolastico era stato preso di mira dagli altri ragazzi che per deriderlo lo apostrofavano con il nome di Jonathan, come uno dei personaggi del Grande Fratello televisivo indicato come omosessuale. Martedì scorso M.P. ha deciso di farla finita. Prima di gettarsi nel vuoto ha lasciato due biglietti, ora in mano ai carabinieri, dai quali si è appreso che in uno chiede scusa ai genitori, nell’altro traccia le motivazioni del suo gesto. “A scuola – pare ci sia scritto – non mi accettano perché mi vedono come uno diverso da loro. Non mi sento integrato”.
M.P. era uno dei tre figli di una donna di origine filippina e di un agricoltore di Asti, in Piemonte.

Ecco una giovane vittima della trilogia del razzismo: “bastardo”, “mezzo negro”, “finocchio”.

Sono anni che nel nord ovest d’Italia si fanno campagne, politiche e d’opinione contro l’immigrazione. E si conquistano consensi elettorali. Torino colta e civilissima ha avuto la disavventura recente di esprimere uomini politici che dall’estrema destra sono passati alla Lega Nord, ricoprendo cariche istituzionali, dal consiglio comunale al Parlamento italiano, per poi diventare vice ministri e approdare al Parlamento europeo.

Persone di provata professione d’intolleranza razziale, non solo ideologica, tanto da subire condanne, per esempio, a pagare una multa di 750.000 lire perché ritenuto responsabile di aver picchiato un bambino marocchino. O venire condannato in via definitiva a due mesi e venti giorni di reclusione, oltre ad una multa 3.040 euro, perché ritenuto responsabile dell’incendio appiccato ai pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto un ponte a Torino.
“Non mi sento integrato”. Ecco il clima che un sedicenne ha sentito intorno, ha visto in tv, ha letto sui giornali. M.P., dice sua madre e confermano i suoi insegnanti, era bravo a scuola, educato e gentile. Per alcuni dei suoi compagni di scuola M.P. era “finocchio”.
L’accusa di essere gay è frequente nella scuola, secondo l’Arcigay, che nei mesi scorsi ha svolto un’inchiesta nelle scuole, finanziata dall’Ue, condotta su circa 500 studenti e insegnanti da cui risulta che più della metà dei ragazzi e delle ragazze (53 per cento) delle medie superiori sente pronunciare spesso o continuamente parole offensive come “finocchio” per indicare maschi omosessuali o percepiti come tali.
La tentazione di archiviare il suicidio di un sedicenne, che si è buttato dal quarto piano della sua abitazione, come un banale episodio di bullismo è una scorciatoia che può praticare solo chi è uso frequentare la bassa sociologia.
Sono mesi che l’omosessualità è al centro dell’attenzione mediatica, per via del violento attacco contro i Dico. Questa crociata ha trovato sul suo cammino una giovane, innocente vittima.

Sarebbe ripugnante anche il semplice sospetto che esista una relazione di causa-effetto tra quanto è avvenuto a Torino e la conclamata omofobia di certa parte del mondo politico ed ecclesiastico. Ma un clima pesante c’è, non si può negare. Saremmo tentati di chiedere che le bandiere che sventoleranno durante l’annunciato Family day, che si vuole contrapposto alla legge sui Dico, siano listate a lutto, in memoria di M.P. Ma non lo faremo, per via dell’assoluta fedeltà ai diritti civili, compresi i principi della libertà di coscienza dei singoli partecipanti a una manifestazione legittima, ma non per questo profondamente sbagliata, quasi provocatoria. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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