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E’ ufficiale: non abbiamo niente da ridere.

Siamo tristi. Passiamo tante ore davanti alla tv, un pochino in Internet, leggiamo poco i giornali, per niente i libri. Raramente al cinema, qualche volta a teatro. La musica classica l’ascoltano gli stranieri, quella anglofona noi alla radio, che tanto manco capiamo le parole. L’opera lirica ha lasciato il posto alle “grandi opere”, tanto decantate, […]

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Siamo tristi. Passiamo tante ore davanti alla tv, un pochino in Internet, leggiamo poco i giornali, per niente i libri. Raramente al cinema, qualche volta a teatro. La musica classica l’ascoltano gli stranieri, quella anglofona noi alla radio, che tanto manco capiamo le parole. L’opera lirica ha lasciato il posto alle “grandi opere”, tanto decantate, mai finanziate, quindi mai ultimate, se non neppure incominciate.

Siamo tristi, perché siamo il Paese del sorriso finto, quello che viene bene davanti all’obiettivo della telecamera, l’unico obiettivo che ci prefiggiamo nella vita: come se fossimo tutti a villa Certosa, tendendoci per mano, e seduti sulle ginocchia del potente di turno, che la moglie non oggi non c’è, ma il paparazzo sì. Sappiamo fare le cose sbagliate, con le persone sbagliate, nel momento sbagliato: Tangentopoli, Calciopoli, Vallettopoli.

Il sole e la buona cucina non servono più a renderci felici: addio pizza e mandolino, addio pane amore e fantasia, il luogo comune è stato smontato da una ricerca dell’Università di Cambridge per la quale gli italiani sono i meno felici tra gli abitanti dei 15 paesi che componevano l’Ue prima dell’allargamento del 2004. E le cose non vanno meglio negli altri paesi caldi: in fondo alla classifica, con noi, ci sono greci e portoghesi.

I più felici, infischiandosene del clima rigido e dei cieli sempre nuvolosi, sono i danesi, mentre nel gruppo di testa ci sono finlandesi e irlandesi. I ricercatori di Cambridge, guidati da Luisa Corrado
(un cervello in fuga dal Paese triste!?), hanno analizzato i risultati dell’European Social Survey – lo avevano già fatto due anni fa – e hanno tenuto conto delle risposte della gente in categorie che ritengono indicative: affidabilità degli amici, qualità dei vicini di casa, solidità del posto di lavoro, fiducia nelle istituzioni (governo e polizia, soprattutto).
Risultato, i danesi hanno un coefficiente di felicità di 8.3 su 10, contro il misero 6.28 degli italiani.

Siamo tristi, sfigati, incazzatelli, perdenti. Non c’è entusiasmo né voglia di cambiare, quella ogni tanto giusto col telecomando, ma per poco, che poi si ritorna al vecchio brodino di sempre: Porta a Porta, Matrix, Affari tuoi, Striscia la Notizia. E poi via da capo, altro giro di canali, altra corsa.

La nostra stampa è ingessata, la nostra politica è noiosa e infingarda, la nostra pubblicità non riesce neanche più ad agire sullo stimolo del vomito.

La critica del costume, che tanto aveva fatto crescere il Paese si è ridotta alla critica dei costumino da bagno, critichiamo gli smudantati, ma gli invidiamo gli addominali, le tette, le chiappe e la sfacciataggine con cui hanno fatto soldi che sperperano senza ritegno: dopo aver rinunciato a ragionare con la testa, sta andando fuori moda anche il ragionamento della pancia. Cellulite, colesterolo, rughe, lifting, ritocchini, voyeurismo: ecco i pilastri della nostra nuova cultura di massa.

Siamo trasgressivi con le trasgressioni degli altri, siamo bacchettoni che le bacchettate dei soliti bugiardi e ipocriti: chiedono la partecipazione dei cittadini alla politica e nominano parenti e amici, mentre fanno e disfano partiti, alleanza, programmi; chiedono leggi contro il precariato e pagano in nero i loro portaborse; chiedono la fine dello stato sociale e incassano finanziamenti; chiedono sostegni alle imprese e evadono il fisco; chiedono fedeltà alla famiglia e lasciano moglie e figli per un’altra, però poi dicono che i Dico sono una famiglia di serie B; dicono di non essere razzisti ma subito aggiungono un però, un chiletto di se, guarnito di tanti ma; rivendicano valori, principi e interessi comuni, ma parlano con la bocca piena di privilegi.

La domanda è: ma perché gli italiano non dovrebbero essere tristi? Ci siamo assuefatti, assuefatti persi. Siamo passivi, rassegnati, atarassici, e catatonici da tubo catodico.

Tuttavia, l’ingresso in Europa ci ha fatto fare un piccolo inerziale passo in avanti: se prima, un paio di secoli fa, qualcuno ha scritto che gli italiani erano francesi tristi, oggi, grazie a Luisa Corrado dell’Università di Cambridge sappiamo che gli italiani sono europei tristi.
Coraggio, il meglio è passato. Senza lasciare tracce. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

2 risposte su “E’ ufficiale: non abbiamo niente da ridere.”

Mi piacerebbe trovare almeno 47 commenti a post come questo…

47, “Morto che parla”…
Perchè, oltre che tristi, siamo praticamente morti…
dei morti tristi… degli “Zombie” ???

I commenti invece si sprecano su blog alla “Grande Fratello”, trattanti i medesimi argomenti, e con la stessa profonda stupidità…

E adesso qualcuno mi cinvinca che anche il web non ha lo stesso virus della TV, dei giornali, dei media…

Il virus dei polli…

Bruno

In questa strana graduatoria, per stilare la quale la fiducia nutrita dagli italiani nei confronti delle istituzioni ha avuto un ruolo fondamentale (come dichiara la prof. Corrado nell’articolo di Fischer), ci troviamo a precedere la Francia: immagino che dipenda dal fatto che il mondiale l’abbiamo vinto noi mentre i francesi continuano a soffrirne di mal di fegato.
Ma dire che un italiano è infelice perché non ha fiducia nelle istituzioni ha del paradossale: sarebbe come a dire che sarebbe felice se non fosse più italiano.
Quando parlano di “felicità” Ian Fischer e gli innumerevoli commentatori italiani che hanno fatto del suo articolo un caso nazionale, e nel novero va compreso anche il presidente della Repubblica, non si riferiscono certo a un sentimento che abbia qualcosa a che fare con la “perfetta letizia” di cui parlava San Francesco. Piuttosto si tratta di quella “fiducia nel futuro” che genera “dinamiche positive” in economia e che fa crescere il PIL, prescindendo dal modo in cui il reddito venga poi ripartito. È proprio finito il tempo dei “poveri ma belli”, benvenuta epoca delle felicità obbligatoria.

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