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Come “non” si sta uscendo dalla crisi finanziaria.

di CARLO CLERICETTI da repubblica.it

Dopo che si è saputo ufficiosamente che la Bank of America avrebbe avuto bisogno di altri 35 miliardi di dollari di ricapitalizzazione – dopo i 45 già ottenuti – all’apertura di Wall Street il titolo, invece di crollare come ci si sarebbe aspettati, si è impennato del 12% ed ha poi chiuso con un guadagno di oltre il 17%. Altrettanto cospicui rialzi (Citigroup 16,6%, Wells Fargo 15,6) hanno fatto segnare le altre banche che, secondo le anticipazioni dello “stress test” a cui le hanno sottoposte le autorità monetarie, avranno anch’esse bisogno di un’altra montagna di soldi per evitare il fallimento. Un altro segno del completo impazzimento del mercato? Sì, e anche no. Il motivo, per quanto paradossale, di questo andamento sta nel fatto che gli analisti ritenevano che di soldi ne servissero ancora di più, nel caso di Bank of America almeno il doppio. E dunque tutti hanno considerato la notizia una bella sorpresa.

Delle numerose follie che hanno portato alla crisi globale e di come venirne fuori hanno parlato martedì scorso quattro esperti d’eccezione, nel corso della Fixing Finance Conference organizzata dall’Abi. Il Nobel per l’economia Jo Stiglitz, Rainer Masera, banchiere di lungo corso ed ex ministro dopo essere stato molti anni ai vertici di Via Nazionale, Luigi Spaventa, uno dei più autorevoli economisti italiani e – tra l’altro – ex presidente della Consob e Giuseppe Zadra, direttore dell’associazione bancaria, che ha introdotto il dibattito.

Quella di Stiglitz, già consigliere di Bill Clinton e da anni feroce critico degli eccezzi del liberismo e della finanziarizzazione, più che un’analisi economica è stata un’orazione accusatoria. “Il sistema finanziario avrebbe dovuto gestire i rischi, invece li ha creati. Avrebbe dovuto finanziare le imprese, invece impiegava i capitali nei mutui subprime. Andava a caccia dei soldi dei più poveri con prestiti predatori. E la malattia ha contagiato anche le aziende, che impiegavano più di un terzo dei profitti nel settore finanziario invece che per svilupparsi”.

La crescita della disuguaglianza nel reddito (“oggi ce n’è più che nel ’29”) ha influito negativamente sulla domanda aggregata, resa insufficiente – e qui la tesi di Stglitz appare piuttosto sorprendente – anche dal comportamento dei paesi del Far East, che, scottati dalla crisi del ’97, hanno cominciato ad accumulare riserve sottraendo risorse allo sviluppo. Poi l’economista ha fatto a fette i vari piani di salvataggio Usa, sia i due di Hank Paulson (il segretario al Tesoro di Bush), sia quello attuale di Tim Geithner. “Finora sono stati iniettati nel sistema 7 trilioni di dollari, ma è stato confuso il salvataggio delle banche con quello dei banchieri”. Un bell’esempio, ha detto con pesante ironia, di “socialismo all’americana”, in cui lo Stato redistribuisce i soldi dai meno abbienti ai ricchi. Dalla crisi, ha concluso, si esce tornando a considerare la finanza un mezzo per finanziare gli impieghi produttivi. E basta con le banche così grandi che, se falliscono, trascinano nel disastro l’intera economia: serve una nuova legge antitrust che imponga loro una riduzione delle dimensioni.

Più tecniche le ricette di Rainer Masera, che ha fatto parte del gruppo di otto saggi presieduto dall’ex governatore francese Jacques de Larosière che ha presentato a metà marzo le sue proposte di riforma. Masera ha insistito sull’importanza che la vigilanza “micro” (cioè quella attuale sugli operatori finanziari) sia affiancata da una “macro”, cioè sui rischi sistemici, che andrebbe affidata alla Bce, mentre l’altra resterebbe alle banche centrali nazionali. L’istituto di Francoforte vorrebbe invece poteri diretti anche sui gruppi di dimensione europea, ma “i 25 maggiori gruppi possiedono i tre quarti degli asset europei”, ha osservato Masera, obiettando implicitamente che in questo modo si svuoterebbe il ruolo delle banche centrali dei vari paesi.

Da cambiare anche l’accordo “Basilea 2”, che ha stabilito le nuove regole internazionali per le banche. Rispettando quei criteri, per esempio, l’Ubs, a fronte di mezzi propri per 40 miliardi di franchi svizzeri, aveva impieghi per 1,7 trilioni. Servono inoltre una serie di provvedimenti per ridimensionare il ruolo e controllare le agenzie di rating, che hanno mostrato ancora una volta una scarsissima attendibilità. Quanto alle ultime stime del Fondo monetario sugli asset “tossici” in circolazione, Masera ha detto con franchezza che le ritiene sbagliate per eccesso. “Si parla di oltre 4 trilioni di cui 2,7 in possesso delle banche. Finora quelli emersi sono 1,2 trilioni: non mi pare credibile che ce ne siano altrettanti”. Per risolvere il problema servirebbe comunque un piano europeo simile a quello Geithner, considerando che “per molti asset è possibile una rivalutazione”.

Anche Spaventa considera determinante agire su questo fronte. “L’immissione di grandi quantità di liquidità è stata essenziale, ma non decisiva, perché la causa di fondo è il deprezzamento senza limiti di grandi quantità di titoli”. D’altronde Spaventa è un po’ il padre della “bad bank”, cioè di una società creata appositamente per liberare le banche dai titoli-zavorra, che propose con un articolo sul Financial Times ancora ai tempi dell’amministrazione Bush. L’economista ha anche messo in guardia sui rischi che i piani di salvataggio, pur necessari, stanno creando per il futuro. “In sei mesi l’attivo della Fed è salito di due volte e mezza. Si sta sostituendo indebitamento pubblico a quello privato, ma questo allontana l’obiettivo di un riequilibrio strutturale”. La riforma del sistema finanziario, in estrema sintesi, dovrà prevedere: più capitalizzazione; riduzione dell'”effetto leva”; un’attenta vigilanza di stabilità; una vigilanza estesa a tutti i soggetti, anche non-banche, visto che proprio in questo sistema finanziario ombra si sono create le condizioni a un certo punto esplose nella crisi. “Ma poi servono le istituzioni per sorvegliare le regole”, ha concluso.

L’impressione che è emersa dal dibattito rafforza quella che già alcuni avevano prima che scoppiasse la crisi. Non solo la finanza, ma tutta l’economia almeno negli ultimi due decenni ha giocato alla roulette russa, infischiandosene degli alti rischi perché intanto i guadagni – per un numero limitato di giocatori, ma quelli che contavano – erano enormi. “Ho visto con un certo sgomento – ha detto Giuseppe Zadra – adottare il sistema del fair value”. Detto alla grossa, è quello per cui ai titoli in portafoglio si attribuisce un valore stimato dallo stesso soggetto che lo detiene. “Si buttavano all’aria 600 anni di principi della contabilità”. E poi la spasmodica “ricerca di rendimenti da parte degli investitori istituzionali”, che li spingeva ad assumere rischi eccessivi. Già, investitori sempre più numerosi, in una fase storica di progressivo aumento della privatizzazione dei sistema previdenziali. Il tutto in nome dell’assunto ideologico che il mercato è sempre e comunque il sistema più efficiente e che per assioma “si autoregola”. Beh, si è visto che le cose non vanno esattamente in questo modo. (Beh, buona giornata)

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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