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Pubblicità e mass media

Come fare quello che bisognerebbe fare per salvare la pubblicità italiana dal ginepraio in cui si sta cacciando.

Sarà l’autunno del nostro scontento . Ma quello che succederà il prossimo autunno è già successo tra la primavera e l’estate. A metà del’anno si fanno i conti e si formulano le previsioni. Così vogliono le procedure imposte dalle holding di comunicazione quotate in Borsa.

Ancora una volta i conti non tornano: la pubblicità italiana soffre gli atroci dolori della sua crisi. Alcune personalità, importanti a vario titolo, si sono ritirate,  sono uscite o stanno per uscire dal mercato. Alcuni direttori creativi sono stati allontanati dalle agenzie e andranno a ingrossare la già folta schiera dei free-lance. Alcune sigle storiche dell’advertising italiano o hanno staccato la spina o si sono apprestate a cambiare pelle.

Emanuele Pirella, protagonista in prima persona e testimone oculare di  lungo corso, sostiene si tratti di una fisiologico ricambio, come è spesso e ciclicamente avvenuto  in diversi periodi, se non proprio della storia, quanto meno della cronaca della pubblicità italiana. Tuttavia ciò che è avvenuto nella prima metà del 2008 e soprattutto quello che sta per avvenire tra qui e il 2009 sembra la vera e propria chiusura di un ciclo.

E’ vero che la situazione economica e finanziaria del nostro Paese è alquanto critica: la crisi energetica ha fatto impennare l’inflazione al 4 per cento, contemporaneamente l’aumento generalizzato dei prezzi ha impoverito le famiglie: alcuni prezzi al consumo di beni primari sono schizzati in alto,oltre il 20 per cento, mentre le retribuzioni medie, ferme da anni, per alcuni  addirittura da dieci- quindici anni, hanno determinato una flessione media della propensione al consumo, un crollo delle vendite al consumo intorno al 3,4 per cento.

Per dirla in soldoni, gli italiani spendono meno, dunque consumano meno. Poiché il ciclo economico della nostrana comunicazione commerciale è legato a filo doppio all’economia americana, per via del fatto che la maggior parte delle agenzie e delle strutture sono di proprietà di holding finanziarie anglo-americane, il quadro della situazione viene e verrà ulteriormente aggravato dalla crisi economica americana.

Chi ha ascoltato attentamente le parole di Barak Obama alla Convention democratica di Denver non può che essere rimasto profondamente colpito dal passaggio del suo speech in cui ha apertamente dichiarato la crisi che vivono i ceti medi americani: perdita del lavoro, perdita materiale della casa, fagocitata dall’impossibilità di onorare i mutui, addirittura l’abbandono delle auto nuove, per via dei costi parossistici del carburante. 

Alcune big company statunitensi hanno nei mesi scorsi operato forti tagli ai budget pubblicitari.  Nello stesso tempo, i network internazionali chiedono aumenti  delle revenue alle unit locali, per compensare le perdite previste sui fatturati worldwide. Ed ecco allora che una tenaglia incandescente stritola le agenzie di pubblicità: da un lato la crisi taglia budget, dall’altro la stessa crisi esige più fatturato.

La risposta che nell’immediato cercano i manager della pubblicità italiana è semplice, prevedibile: quando tagliare i costi delle spese generali non basta più, si ricorre all’espulsione delle persone, per rimpiazzarle  con professionalità a basso costo, magari con contratti individuali molto flessibili.

Che tipo di qualità si riesca a garantire ai clienti, passa in secondo piano rispetto all’imperativo categorico di salvare il salvabile dei conti delle agenzie italiane. E così la crisi si avvita su se stessa, in una spirale in cui i tagli spingono alla bassa qualità, la bassa qualità spinge all’omologazione.

Molti clienti italiani della pubblicità sostengono che tutto sommato non c’è più una sostanziale differenza tra un’agenzia e l’altra. Per questo non è raro vedere un budget passare di mano, continuando la stessa creatività, la stessa pianificazione media, ma molto probabilmente venir remunerata con una percentuale più bassa. O vedere gare-ammucchiata, in cui mettere in competizione lo sconto, invece che l’idea di marketing, l’intuizione creativa, la soluzione brillante alle problematiche del cliente e del suo mercato.

Le difficoltà finanziarie delle agenzie di pubblicità sembrerebbero in realtà l’ultima spiaggia di un arretramento culturale, organizzativo, pedagogico, culturale, sempre più spesso etico. La crisi dell’agenzia  di pubblicità sembra una crisi strutturale, più che congiunturale. 

La forma-agenzia sembra  non corrispondere più alla realtà . Sembrerebbe che mentre l’Agenzia vive  il Cliente come un problema di redditività, il Cliente chiede, anche inconsapevolmente  un  sistema integrato di informazione e di comunicazione, cui corrisponda un mondo di riferimento dai connotati ben definiti, permeabile all’innovazione, con una sostanziale e sostanziosa autorevolezza, in gran parte già proiettata nel futuro prossimo.

Stritolata dalle incombenze finanziarie, inaridita di talenti, appesantita dalla burocrazia interna, legata mani e piedi alle logiche dei quartier generali internazionali, l’Agenzia sembra miope col Cliente, presbite col mercato: non ha più sottomano strumenti interpretativi, e di conseguenza organizzativi per raccogliere una sfida più alta per la comunicazione commerciale e pubblicitaria attuale, alla quale sfida dare risposte, che andrebbero cercate, organizzate e rese produttive nella totale discontinuità col passato.

E’ un male comune a tutta la pubblicità italiana: non comprendere le potenzialità del mercato, rappresentate dai propri clienti, dalle loro dinamiche, dalle loro prospettive di sviluppo; a cui corrisponde la tentazione di rimanere arroccati, nella forma e nella sostanza all’idea di agenzia  così come si è  sviluppata e ha cominciato a operare a partire dalla seconda metà del secolo scorso.

Superati gioco-forza i canoni classici così come si erano definiti negli anni scorsi, l’agenzia di pubblicità da tempo non vive più della percentuale che i mezzi gli erogano per  riconoscergli l’intermediazione tra il cliente e i media. Questa attività è infatti da tempo passata alle agenzie  media. L’agenzia ha spostato la sua fonte di reddito sull’intermediazione con altri fornitori: produzione stampa, cinema e tv, radio, web, diritti, eventi. Contemporaneamente, l’agenzia ha inventato  una serie di tecniche di remunerazione: fee, minimi  garantiti, minimi variabili, bonus, mark up su extra-costi di varia natura.

Ne è nata una complessa attività di gestione, che ha determinato un forte attenzione su queste voci, sia da parte del cliente che dell’agenzia.  Il luogo comune vuole che l’agenzia tenti disperatamente di guadagnare su tutto. Ciò che ha reso sempre meno credibile l’agenzia  agli occhi del cliente sta nel semplice fatto economico secondo il quale meno ore-uomo dedicate, più guadagno per l’agenzia.

Non si darebbe discontinuità col passato se non si superasse il concetto di intermediazione, dunque la forma-agenzia in quanto tale. A poco sono valsi e varranno i tentativi, spesso un poco goffi, di dotare la struttura di altri comparti, di immaginare,  in effetti più a parole che nei fatti, approcci olistici, multidisciplinari, multicanale.  

Come fare quello che bisogna fare dovrebbe risultare semplice:  tagliare i lacci e i laccioli delle percentuali significherebbe sgombrare per sempre il campo da vecchi vizi e nuovi  fraintendimenti.  La creatività pubblicitaria non è uno dei servizi offerti dall’agenzia. La creatività è il prodotto di un’attività intellettuale organizzata, tesa a fornire idee, intuizioni, visione d’insieme tra marketing, commercializzazione e comunicazione dei prodotti o dei servizi del committente. 

Discontinuità, dunque.  Perché la creatività pubblicitaria organizzata è l’unica vera, concreta e misurabile attività capace di dare vita a un nuovo ciclo, che sia in grado di far uscire il mercato della pubblicità dalla mangrovie pungenti della crisi della forma-Agenzia, che  sia capace di attraversare le strettoie della crisi economica mondiale e delle sue pesanti ricadute nazionali, quella stessa crisi che dal prossimo autunno ci farà la sua sgradevole, ma in fin dei conti utile compagnia per tutto il prossimo anno. Per fare quello che bisognerebbe fare si dovrebbe dare  alla luce una agenzia di pubblicità di nuova generazione.

La creatività è tutto, è un tutt’uno nella produzione delle idee e nella sua gestione. Questa attività  dovrebbe e potrebbe essere remunerata con una sola e unica voce di spesa da parte del Cliente. Tutto compreso, chiavi in mano. Non si tratta di rinunciare all’attività di consulenza per la scelta del miglior fornitore possibile per il cliente,  del miglior prezzo, si tratta semplicemente di  non ricavarci alcuna fonte di guadagno. Perché la ragione sociale dell’agenzia di nuova generazione è fornire idee, fornire creatività pubblicitaria organizzata, non fare mera intermediazione commerciale.

Un’agenzia di pubblicità di  nuova generazione che sappia  sviluppare la sua attività e la sua stessa ragion d’essere in un mercato che non vede più la centralità del media classici. Né creda di crescere nel tentativo di applicare meccanicamente le vecchie regole ai nuovi media.

Un agenzia di nuova generazione che legga il mercato della comunicazione di massa come un terreno neutro rispetto ai media, nel quale i messaggi possano passare da un veicolo all’altro, possano agire e interagire con i destinatari del messaggio pubblicitario.

Un’agenzia di nuova generazione che si rifiuti di credere che i consumatori moderni siano semplici target. I nuovi mezzi di comunicazione sono a due vie, sono interattivi, dunque i  consumatori , anche quando accedono ai media classici hanno imparato e essere  interlocutori attenti,  non più destinatari passivi.

E’, allora,  necessaria una forte attitudine a capire e includere nuovi e più articolati comportamenti soggettivi, valutare le emotività collettive, intuire le tendenze in nuce. L’agenzia di nuova generazione deve sapersi misurare col vivere e il pensare collettivo, come il giornalismo, la letteratura, l’arte, il design.

Un’agenzia di nuova generazione  che si sappia misurare in profondità con i segmenti merceologici su cui via via si impegna, per ricavarne conoscenza, arricchirsi di esperienza, produrne cultura, da condividere col Cliente.  L’agenzia di nuova generazione  ha molte buone ragioni , ma allo stesso tempo non ha alternative: deve essere creativa in tutti i suoi approcci.  Ma per costringere se stessa a essere sempre e solo creativa, l’agenzia di nuova generazione deve essere leggera.

Le vecchie agenzie hanno presidenti, vice, ad, direttori generali, supervisori finanziari. La vecchie agenzie spendono più tempo e denaro per alimentare la propria verticalità di quanto ne spendano per studiare, capire e risolvere le problematiche del cliente.

L’agenzia di nuova generazione dovrà essere  orizzontale nei rapporti con i collaboratori, perché avrà bisogno del loro cervello, non della loro obbedienza.  L’agenzia di pubblicità di nuova generazione dovrà essere  leggera perché  mirerà  sempre alla qualità del prodotto creativo. La creatività pubblicitaria organizzata vive i criteri organizzativi come mezzi, non come fini: essi servono alla creazione di clima favorevole alla creatività.

Più l’agenzia di nuova generazione sarà capace di rimanere leggera, più sarà  capace di essere flessibile nella struttura, inflessibile nei comportamenti dei singoli collaboratori: niente sprechi di tempo e denaro, niente risparmi di energie per i suoi clienti. 

Creatività pubblicitaria organizzata è il modello di business dell’agenzia di pubblicità di nuova generazione. Sarà competitiva non perché costa di meno, ma semplicemente perché vale di più: saprà come creare valore senza dare vita a costi inutili.

Arriva l’autunno, tempo di semina. Rimbocchiamoci le maniche, prima che arrivi il lungo e gelido inverno della peggiore crisi economica degli ultimi anni. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

4 risposte su “Come fare quello che bisognerebbe fare per salvare la pubblicità italiana dal ginepraio in cui si sta cacciando.”

Parafrasando Ennio Flaiano si potrebbe dire “la solitudine del copy”, e in fondo il pubblicitario vorrebbe essere anche un satiro – se non fosse per la maledetta serietà della trincea economica cui è vincolato. Non so se le coraggiose, o scandalose, o necessarie idee qui esposte facciano già parte di un dibattito interno all’advertising italiano, ma certo a giudicare da questo post non si direbbe. Il coraggio (continuando a parafrasare), come le idee, e la smorfia sfrontata del satiro se uno non ce l’ha non se le può dare. Se uno come Pirella, preparandosi ad abbassare la saracinesca, getta un’occhiata fuori e sbadigliando dice: “Stanno tutti a fare il ricambino fisiologico, ma sì, ora ne faccio uno anch’io, và!”, si può immaginare il vertiginoso pensiero di altri. Magari c’è da provare ad alzare la padella fuori della trincea – come nella Grande Guerra di Monicelli – e ad insultare i crucchi. Qualcuno forse dei colpi li sparerà, procurando quei necessari buchi alla padella per mettere su un po’ di caldarroste. Però c’è anche da tener conto di quel singolare fenomeno economico chiamato “ipotesi catastrofiche che si auto avverano”, a cui le truppe e gli alti gradi della forma-agenzia in crisi potrebbero inconsciamente puntare, magari soltanto per potersi disperatamente liberare dal fossato sì protettivo, ma pur sempre asfissiante della vecchia trincea, e poter poi finalmente, seppur tragicomicamente gridare: TUTTI A CASA! (questo era di Comencini… tanto per finire in citazioni).

Il quadro economico descritto e le relative conseguenze che pesano sulle holding della comunicazione è senz’altro veritiero e sconfortante. Veritiero non significa però che necessariamente si verificherà. Le variabili in gioco sono troppe e la dinamica delle interazioni davvero imprevedibile. E allora se non si verificasse, avrebbe avuto ragione Pirella, o i conservatori della vecchia forma-agenzia? Al contrario, io credo che la tua proposta di un passaggio a una nuova concezione dell’agenzia abbia una sua propria forza intrinseca, indipendente da qualsiasi congiuntura settoriale. Non voglio con questo sminuire i pericoli insiti nell’attuale ciclo e la necessità di farvi fronte. Ma c’è una necessità di ordine superiore. Essa è legata alla potenza e alla rapidità della spinta evolutiva impressa dallo sviluppo mondiale a ogni tipo di comunicazione, e dunque anche a quella legata ai consumi. È questa la vera spinta, l’autentica faglia sismica, che traccerà un solco tra due diverse concezioni e pratiche della comunicazione. Rivendicherei questo aspetto di apertura a ciò che sta premendo per esprimersi, e dunque anche il lato dello stato nascente, dell’urgenza persino estetica, dell’energia inventiva che il nuovo orizzonte, seppure ancora occultato, sta già sprigionando. Immagino le resistenze, le stratificazioni di comportamenti e interessi, le stanchezze, i cedimenti, il non volerci credere più, l’inumazione di ogni entusiasmo, l’immobilizzarsi progressivo, il cristallizzarsi definitivo , il “fissarsi” in una tipica struttura chimico-fisica da minerale. Ma proprio per questo sono convinto che è il lato della forza e della bellezza innovativa di questa tua proposta che va ancora dispiegato.

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