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Scuola

“Classi ponte”? No, grazie.

La lingua che ci unisce

 

 

Le ragioni per respingere l’emendamento che prevede l’introduzione nelle scuole delle cosiddette “classi ponte”, alle quali dovrebbero afferire gli studenti stranieri che non hanno raggiunto un livello accettabile di padronanza della lingua italiana, sono state argomentate da voci diverse, provenienti da settori del mondo intellettuale, politico e religioso.

Ad esse vorremmo unirci e svolgere ancora qualche considerazione. Le questioni trattate dal provvedimento investono un crinale importante e delicato nella vita di un paese: l’inserimento di un individuo nella vita pubblica di una comunità, l’ingresso nel suo tessuto civile.

La fatica di scolari e studenti, fin dai passi nella prima formazione, per apprendere la lingua madre e poi le altre discipline, prima di altri obiettivi, realizza questo articolato percorso di integrazione.

Se dunque, come si assume ormai comunemente, la scuola è il luogo nel quale si completa tale processo, le migrazioni che segnano la nostra epoca e di cui il nostro paese è ora investito massicciamente, impongono uno sforzo nell’aggiornamento dei progetti pedagogici, e rigore nella gestione didattica. Essi dischiudono al contempo grandi opportunità, come comprende chi conosce la storia del nostro paese, prodotto di ampie ondate migratorie progressivamente accolte e assorbite. L’integrazione è dunque un esercizio costante nella nostra storia, che però può essere inteso in modo assai diverso.

Nel caso del provvedimento per invocare le finalità integrative si chiama in causa la competenza linguistica, ma come ha ben presente chiunque faccia ricerca sulle lingue e abbia a che fare con processi di mediazione linguistica e culturale, se l’obiettivo è l’apprendimento il primo passo è il contatto, l’ultimo la separazione. Ma guardiamo nel merito la proposta.

Il provvedimento in questione giustifica le classi separate affermando che spesso  i bambini stranieri  non hanno una competenza tale da seguire il normale corso delle lezioni, il che vanifica la loro presenza in classe e rende più lento e farraginoso lo svolgimento del programma poiché gli insegnanti devono dedicarsi a colmare queste lacune. Le classi ponte sarebbero necessarie per consentire a questi scolari/studenti una competenza linguistica adeguata ed inserirli, poi, nelle classi “normali”. Presupposto non esplicitato della norma è che gli stranieri siano indietro nelle competenze linguistiche relative all’italiano, questo talvolta accade, altre no come attestano studi statistici molto recenti. Occorre aggiungere, poi, che molti bambini e ragazzi italiani, ancora dialettofoni o semplicemente più indietro di altri per molte ragioni, spesso non sono in possesso di competenze linguistiche di base. Anche loro andranno nelle classi ponte?

Un altro ordine di argomenti riguarda l’assunto secondo il quale gli allievi devono possedere, in generale, competenze adeguate, altrimenti rendono più complesso e lento il lavoro didattico al resto della classe. Ora, nelle scuole italiane, gli studenti non sono ammessi sulla base di un previo esame delle loro competenze di base. Bambini con difficoltà varie – psicologiche, motorie, cognitive – sono inseriti nelle classi comuni. Hanno accanto – e anche questa è attualmente materia di discussione – insegnanti che ne sostengano lo sforzo. Le difficoltà che incontrano i bambini e i ragazzi possono essere di ordine molto diverso – argomentativo, logico-matematico, visivo-spaziale. A meno di sostenere che generalmente i bambini italiani sono superiori ai bambini immigrati, si conclude che tali ostacoli sono egualmente distribuiti tra le diverse appartenenze nazionali. Un insegnante ha fatto timidamente osservare, ad esempio, che i suoi allievi pachistani ed indiani sono eccellenti in matematica e quelli rumeni nelle lingue. Altri potranno avere esperienze diverse, ciò che si evince, però, è che occorre rovesciare il presupposto implicito alla norma: a meno di agire in base a pregiudizi di natura puramente ideologica l’integrazione linguistica è un processo rapido e possibile laddove c’è il contatto e lo scambio frequente. Nel senso comune, come nelle ricerche più avanzate, si è diffusa la convinzione che se si vuole imparare una nuova lingua occorre “immergersi” (come voleva l’espressione inglese full immersion), in essa, frequentare i parlanti di quella lingua, comprenderne la cultura. Accorpare indistintamente tutti i bambini stranieri che non sono d’italiano prima lingua vuol dire percorrere esattamente la strada opposta. È noto da tempo agli studiosi, e, di nuovo, è diffusa nel senso comune, la consapevolezza che lo scambio tra parlanti di lingue – e culture diverse – migliora complessivamente le competenze linguistiche. Tra i molti esempi che si potrebbero portare, è accertato ormai da tempo come bambini plurilingui sviluppino molto più precocemente competenze meta-linguistiche, ossia sono in grado, prima e più di altri, di sfruttare le risorse offerte dalla lingua per migliorarne ed estenderne l’uso o per apprenderne di nuove. Sostenere questa posizione non vuol dire, infatti, negare che possano esservi lacune o disparità, quanto, piuttosto, esortare ad invertire la rotta. Laddove si riscontrano occorre colmarle sostenendo la presenza dei docenti, prevedendo figure specifiche che favoriscano il raggiungimento di un livello comune. Consapevoli che, ai blocchi di partenza ci si può trovare in posizioni molto diverse, indipendentemente dalla nazionalità.

Come si è detto più su, il nostro paese è frutto di un’integrazione progressiva di gruppi diversi. Tanto per restare sul tema della lingua, si può ricordare che siamo la nazione, in Europa, con il più elevato tasso di diversità linguistica nativa, dato ancora vivo nei diversi dialetti che attraversano le parlate nel nostro paese e nelle ben 14 minoranze linguistiche presenti. L’italiano lingua – e cultura –  nazionale, parlata da decine di milioni di persone, è una conquista molto recente, ed è frutto di uno sforzo comune, di una scuola, in primis, alla quale tutti, bambini che parlavano sardo, genovese, siciliano, ladino, accedevano e dalla quale uscivano parlando, più o meno, italiano.

La storia dovrebbe aiutare a comprendere come l’opportunità più grande dischiusa dalla presenza di nuovi cittadini italiani, nati magari lontano e arrivati di recente, o nati qui, ma da genitori che parlano lingue lontane, è proprio quella di affrancarci da attitudini discriminatorie. I bambini italiani che hanno avuto scambi e contatti con essi, hanno “toccato” la differenza ma non vi hanno assegnato valenze e pregiudizi sono, forse, vaccinati. Una generazione “colour-blind”, che può lasciare dietro di sé il virus di pregiudizi ed esclusioni.

Un’ultima considerazione a riguardo: si possono avere opinioni diverse nel merito dei singoli progetti pedagogici. Si può discutere sulla utilità delle ore di insegnamento, sul numero degli insegnanti, sugli abiti da indossare nelle ore di lezione. Il confronto di punti di vista diversi è il cuore della vita pubblica delle società democratiche. Ma questo dovrebbe avvenire in un quadro di valori condivisi, come quelli che hanno segnato la nascita della nostra vita repubblicana. Sulla possibilità che bambini e ragazzi debbano avere uguali opportunità nell’apprendimento della lingua e, più in generale, di diventare cittadini italiani pienamente alfabetizzati, non ci si dovrebbe dividere, proprio no.

 Grazia Basile (Università di Salerno)

 David Gargani (Università di Roma1)

 Fabrizia Giuliani (Università di Roma1)

 

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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