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Pubblicità e mass media

Metti una sera a cena Berlusconi e i pubblicitari.

«Da presidente del Consiglio non ho poteri per intervenire, ma voi dovreste chiedere un incontro ai vertici della Rai. Dovreste chiedere se è mai possibile che le aziende investano in pubblicità senza veder mai diffusi messaggi positivi. Non dico tanto, almeno una volta». Queste parole, pronunciate durante una recente cena, alla quale partecipavano, tra gli altri, alcuni importanti manager della pubblicità italiana, sono state riferite da Francesco Verderami per il Corriere della Sera di sabato 25 ottobre (http://archiviostorico.corriere.it) e da Aldo Fantanarosa per Repubblica di domenica 26 ottobre (http://www.repubblica.it)

Il riferimento, secondo quanto è stato riportato dalla stampa sarebbe innanzi tutto alla persona di Michele Santoro e al suo Anno zero, programma di Raidue. Le implicazioni politiche che queste parole hanno sollevato appartengono allo scontro politico in atto, e quindi meriterebbero una disamina in altra sede.

Qui è invece il caso di affrontare la questione dal punto di vista pubblicitario. Come tutti sanno, l’efficacia del messaggio pubblicitario in televisione viene monitorato da aziende specializzate, che prendono in esame, attraverso criteri quantitativi, le percentuali di share  e di audience per fascia oraria e di penetrazione sui vari target, suddivisi per segmenti socio-demografici: età, reddito, aree geografiche.

E’sulla base di questi parametri che si costruiscono i palinsesti televisivi, che si propongono alle concessionarie di pubblicità gli spazi e i relativi costi, che poi si propongono alle aziende come efficaci veicoli di comunicazione commerciale.

Il tutto ha, almeno in apparenza, una autorevolezza tecnico- scientifica, che dovrebbe favorire la misurabilità dell’efficacia del messaggio e dunque la prova provata di un favorevole rapporto tra costi (budget pubblicitari) e benefici (penetrazione presso il target utile della buona reputazione di un prodotto pubblicizzato).

Il che detto in soldoni, suona più o meno così:  “Ecco dottore, guardi i dati, lei ha speso tot del suo budget su questo programma televisivo, che è stato visto da tot spettatori, che ha fatto un bel tot di ascolti, tra i quali c’era un tot del tot per cento di persone nella condizione di acquistare il suo prodotto. Contento, dottore?”

Se non che, le parole del capo del governo introducono un altro parametro: la fiducia verso l’opera del suo governo. Quindi bisognerebbe rifare daccapo tutti calcoli, vale a dire inventare una equazione in cui allo share e all’audience, accanto ai vari target e alle variabili socio demografiche, va aggiunta e calcolata l’incognita: non una x, ma una F, fiducia. E non una f minuscola, cioè rivolta la mercato, ma una F maiuscola, cioè rivolta all’operato del governo in carica.

Io c’ho provato e riprovato, ma alla fine è uscito sempre lo stesso risultato: pensavo a un nuovo modo di misurare la pubblicità,  e invece veniva fuori la vecchia storia della propaganda filo-governativa. Il che dimostra che proprio non funziona.

La propaganda ha la sua efficacia per la politica, ma ha caratteristiche molto passeggere e assolutamente mutevoli. Con la propaganda si può aumentare il gradimento del consenso politico con la stessa velocità con la quale lo si può perdere, come dimostra un recente sondaggio di Renato Mannheimer, pubblicato sul Corriere della Sera.

La pubblicità mira, invece, a una relazione stabile e duratura con la clientela di una azienda, una relazione capace di essere, per quanto possibile permeabile agli umori dei consumatori, di modo che si stabilisca quel circolo virtuoso che affini i gusti dell’acquirente e migliori l’offerta da parte della marca.

I clienti della pubblicità scelgono i mezzi di comunicazione di massa più idonei per raggiungere i loro clienti. Per una questione di affinità elettiva, mica elettorale. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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