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La Seconda Repubblica è finita: “Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente.”

CETI ABBIENTI E SENSO DELLO STATO. Tra ricchezza e indifferenza, di Ernesto Galli Della Loggia-corriere.it
I dati sono ampiamente noti. Ma voglio ricordarli per l’ennesima volta riprendendoli da un recente articolo pubblicato sul Corriere da Sergio Rizzo. Ogni anno, in Italia, sfuggono completamente al fisco redditi per circa 300 miliardi di euro, con una perdita di entrate per le casse pubbliche pari a un dipresso a 100 miliardi di euro.

Venendo al dettaglio una cifra simile vuol dire che dovremmo credere all’incredibile: ad esempio che nel 2007 (ultime cifre disponibili) gli italiani con un reddito superiore a 200 mila euro sarebbero stati meno di 76 mila. Non solo, ma poiché solamente il 20 per cento di questi erano lavoratori autonomi (l’altro 80 per cento essendo dipendenti o addirittura pensionati), dovremmo pure credere che in tutta la Penisola, dalle Alpi al Lilibeo, non ci fossero allora più di 15 mila lavoratori autonomi che avessero un reddito di almeno 18 mila euro al mese. E dovremmo altresì credere—sempre stando a ciò che risultava al fisco — che in quello stesso anno soltanto 6.253 (dicesi 6.253) «percettori di reddito da imprese» avrebbero guadagnato più di 200 mila euro annui. Così come dovremmo convincerci che proprio in quelli che sono stati i 12 mesi precedenti la crisi ben il 45 per cento, vale a dire circa la metà delle società, avessero davvero, secondo quanto denunciato, un bilancio in perdita. Ma chi può credere a questa realtà di favola? Nessuno. Così come nessuno può credere che le tasse verrebbero pagate se solo fossero più basse (una favola che fa esattamente il paio con quella per cui se tutti pagassero le tasse queste diminuirebbero). Così come d’altra parte nessuno può credere ormai che faccia una differenza se al governo c’è la destra o la sinistra: la quale, anzi, ha dimostrato di non riuscire a dare alcuna concretezza alla sua astratta furia ideologica redistributiva.

E allora non resta che prendere atto di una diversa realtà, quella vera. E cioè che in Italia l’evasione fiscale, per la sua mole, la sua capillarità e la sua continuità nel tempo, è qualcosa di ben altro, e che va ben oltre una pur grave dimensione economica. Essa evoca piuttosto una fondamentale questione nazionale. Vale a dire qualcosa che rimanda immediatamente all’esistenza e alla consistenza stessa delle basi dello Stato nazionale, del nostro stare insieme. Infatti, se in una misura che non ha eguali in alcun altro Paese civilizzato la ricchezza, i ricchi, si sottraggono all’imposta, ciò vuol dire che di fatto, e nei fatti, essi mostrano di non riconoscersi in un’ appartenenza comune. Che una parte della popolazione— e proprio quella più produttiva — non intende sottostare a quel vincolo sociale che è tale appunto perché obbliga a comportamenti che non corrispondono al proprio personale e immediato interesse.

Tra questo interesse e quello generale la stragrande maggioranza degli italiani ricchi invece non ha dubbi: sceglie senza esitare il primo e manda al diavolo il secondo. Questa indomabile asocialità dei ricchi ha almeno due gravi conseguenze oltre quelle ovvie di carattere economico. La prima è la grandissima difficoltà che ha incontrato e che incontra da sempre in Italia la formazione di una vera classe dirigente. Infatti quell’asocialità non può che dare luogo anche ad una tendenziale astatualità, cioè ad una sostanziale indifferenza per le sorti dello Stato. Come si vede benissimo nel fondo di grottesco anarchismo protestatario che si annida così spesso nei ricchi italiani, e che fa sì che essi, quindi, possano identificarsi assai difficilmente con gli interessi collettivi del Paese come invece dovrebbe fare una classe dirigente.

La seconda conseguenza è di ordine politico. Come accade normalmente in tutti i Paesi anche da noi, in linea di massima, la ricchezza preferisce, non da oggi, farsi rappresentare politicamente dalla destra. Non c’è niente di male. Se non fosse però che una ricchezza asociale e antistatuale, come quella descritta, ha finito inevitabilmente per trasmettere questi suoi caratteri alla parte politica verso cui perlopiù convoglia il suo voto, condizionandone pesantemente il profilo ideologico e i comportamenti. Per non perdere tale voto, infatti, la destra politica italiana è stata spinta, lo volesse o no, ad assecondare regolarmente le pulsioni antisociali ed antistatali di quella parte così importante del proprio elettorato di riferimento. Ed è questo elemento che insieme ad altri ha impedito e impedisce alla destra italiana di incarnare il senso delle istituzioni e dello Stato così come di dare voce alta e forte alla dimensione degli interessi nazionali, secondo quanto avviene, invece, quasi dovunque altrove.

Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente. Tale problema riguarda principalmente la destra. La quale si è accontentata finora di seguirne pedissequamente i desiderata, senza neppure cercare di dare loro una prospettiva diversa da quella egoistica da essi naturalmente espressa. Con ciò però condannandosi ad una funzione politicamente subalterna e troppo spesso, se è permesso dirlo, eticamente alquanto penosa. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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