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E’ brutta, stupida, fa pena: ecco a voi la pubblicità italiana sul finire del 2008.

Spotandweb.it nel numero del 28 novembre, in una intervista raccolta da Stefania Salucci mi ha proposto una riflessione sulla stato dell’arte della pubblicità italiana, in occasione di Eurobest, un premio europeo dedicato alla creatività, organizzato da un consorzio di riviste del settore della comunicazione commerciale nella Eu. Ecco il testo dell’intervista.

Lei ha seguito numerosi clienti internazionali. Esiste una creatività europea? Se sì, per cosa si caratterizza rispetto alla creatività americana, o asiatica, o africana?

Poiché la presenza sul mercato globale delle marche made in Usa ha fatto scuola, è abbastanza complicato immaginare che esista una comunicazione commerciale di stampo continentale. Basti pensare alle grandi holding finanziarie che posseggono le più importanti sigle della pubblicità quotate in borsa. In questo senso, quando parliamo di pubblicità europea ci riferiamo soprattutto a quella generata in Gran Bretagna e in Francia e in parte in Germania. Si tratta di paesi che hanno un posto solido nella globalizzazione, perché le loro aziende si sono da tempo internazionalizzate, e le loro agenzie hanno fatto network, a seguito della globalizzazione dei loro clienti e della commercializzazione dei prodotti su più mercati. Anche dal punto di vista della cultura della comunicazione commerciale, fare network ha finito per significare l’annullamento delle caratteristiche stilistiche, derivanti dalla cultura specifica di un paese, di un continente. Il capitalismo globale fa presto a fare a meno di tutto ciò che non gli è utile. La pubblicità si è adeguata: la creatività è di un mega-brand, non di un paese, figuriamoci di un continente.

L’Italia come si “posiziona”, creativamente parlando, in Europa?

La pubblicità italiana è l’unica in Europa, ma anche nel mondo che ha una caratteristica peculiare, riconoscibile, inimitabile: è brutta, stupida, fa pena. E’ arroccata, con le unghie e con i denti all’ultimo banco, e come il più ottuso dei ripetenti, se ne vanta. Come la scema del villaggio globale, la pubblicità italiana continua infarcire la tv di migliaia di spot, si è immolata al tubo catodico come a un totem. Ha perso il senso della realtà, più è ossessiva più è distante dalla mente dei consumatori. Siamo il paese con la più alta concentrazione di pubblicità televisiva, ma siamo anche il paese che in Europa soffre di più la crisi dei consumi. Come un gregge senza pastore, ce ne stiamo andando allegramente giù per il dirupo del ridicolo. Comunque, segnali della consapevolezza di un approccio più moderno ci sono, bisognerebbe tenerli d’occhio con più attenzione: penso a Draftfcb, a Brand Portal o ad Altavia. Da quelle parti possono venire stimoli rigeneratori del nostro mercato.

Di chi è la colpa se la pubblicità italiana è è brutta, stupida, fa Pena? Dei creativi, dei clienti o degli italiani?

Parlavo di questo con Hans Suter, la S della mitica STZ. Mi diceva che quando, anni fa, era andato per la prima volta a New York, era rimasto terribilmente deluso dalla pubblicità americana, print, tv, outdoor, tutto.
Forse si sentiva condizionato dalle grandi campagne americane che conosceva, ma che tutte queste belle campagne non rappresentavano più dello zero virgola per mille della comunicazione commerciale, questo non se lo sarebbe l’aspettato. Secondo lui, e mi pare di essere d’accordo, l’unico paese che è un poco diverso è la Gran Bretagna, così come avevano e forse ancora hanno un serbatoio enorme di attori bravi così avevano e forse hanno ancora un serbatoio enorme di art director e copywriter. Questo favorisce che la buona qualità arriva anche a livelli più estesi. Credo che non sia più tempo della ricerca delle colpe, quanto sia urgente investire nei creativi, creargli intorno un ambiente favorevole alla creazione di nuove idee. E’ l’unico vero antidoto al conformismo, a quella diffusa dittatura dell’autocensura che ha fatto retrocedere in serie B la nostra creatività, una mediocrità che arriva anche nei concorsi internazionali. Siamo ancora in tempo per invertire la tendenza che ci fa apparire rinunciatari di fronte alle innovazioni e refrattari alla sfida nei confronti di regole che sono superate dai fatti economici, sociali e culturali di questi primi otto anni del Terzo millennio.

Cosa possiamo aspettarci dall’Italia in occasione di Eurobest?

Che non ci caccino, una volta per tutte.

E cosa può dare Eurobest all’Italia?

L’ennesima lezione, come succede ormai in tutti i consessi internazionali, a cominciare dal festival di Cannes. Ormai siamo un lontano cugino un po’ intronato del mondo della pubblicità, di quelli che si sopportano, perché tanto non cè proprio niente da fare. Ogni volta torniamo a casa piagnucolando come mocciosi, poi tiriamo su col naso e ricominciamo a fare le stesse cazzate di prima.

Cosa ne pensa dei concorsi internazionali: sono ancora un valido termometro per misurare la creatività di un’agenzia? E di una nazione? Sono un traguardo o un trampolino professionale per i creativi?

Tutte le occasioni di incontro e di confronto tra le idee sono utili. Parlo di idee, quelle che da noi sono viste come la peste. Infatti, quando raramente ancora vinciamo qualcosa, il dibattito, invece che sull’idea, si sposta sull’auto-valorizzazione delle sigla o del creativo che ha vinto. Vedere, capire e approfondire le ragioni di una approccio creativo vincente è qualcosa di molto più importante che trastullarsi all’idea di dove mettere il trofeo: in sala riunioni dell’agenzia o sul tavolo del creativo che lo ha vinto? Qui il problema non è il trampolino di lancio, quando ogni giorno c’è chi toglie l’acqua dalla piscina. Vincere un premio fa bene alla salute, diceva un famoso creativo italiano. Ma i premi passano, le campagne restano, come segnale del livello raggiunto dalla creatività sul quel prodotto, su quel settore merceologico, sul quel media. I concorsi internazionali sono un contributo alla crescita della cultura professionale. Tutto il resto ha un valore relativo al contesto al quale si è partecipato. Sedersi sugli allori fa venire i foruncoli sulle natiche.

Secondo lei, c’è una tendenza internazionale (e di questi festival) a premiare campagne che funzionano visivamente (o concettualmente) indipendentemente dal testo? Se sì, cosa ne pensa?

In genere vincono idee innovative, approcci sorprendenti, esecuzioni inusuali. In una parola, quello che chiamiamo creatività. C’è stata una certa tendenza a produrre campagne “da concorso”, con grandi foto e piccoli testi.
Però, l’esame autoptico di una campagna, del rapporto tra immagine e testo, francamente non mi appassiona. Anzi, lo trovo un bel po’ fuorviante, mi fa pensare alla relazione che sempre si stabilisce tra il saggio, lo stolto, la luna e il dito.

Esiste davvero e funziona una comunicazione globalizzata, standard in tutto il mondo, oppure per essere efficacie deve adattarsi (in termini creativi e di contenuti) al paese in cui viene trasmessa?

Tra le esigenze della marca globale e le aspettative del consumatore locale si stabilisce sempre una relazione dialettica, che deve essere interpretata dalla creatività. Le strategie della comunicazione commerciale moderna non sono semplicemente riconducibili alle esigenze tra globale e locale di uno specifico veicolo, come la tv o la stampa. Le marche moderne usano tutta la filiera della pubblicità. Ciò che conta, che fa la differenza tra una campagna di successo e un flop, sta nello stesso superamento del concetto di campagna, così come lo abbiamo pensato nel ‘900. La grande marca ha aperto una piattaforma multicanale di comunicazione col suo mercato, di cui la campagna specifica è solo un segmento. Internet ha svoltato il Terzo millennio della comunicazione commerciale, rendendo mobile sulla filiera degli strumenti la sintesi che una volta era di puro appannaggio dell’advertising classico, con la tv come punta di diamante. A seconda della risposta dei mercati, la sintesi si può verificare in altri ambiti, che non è detto siano semplicemente le azioni sulla pubblicità tabellare. L’attuale grave crisi finanziaria ed economica che sta attraversando tutto il mondo spingerà sempre di più la pubblicità verso multidisciplinarità e multicanalità. Non è una mera questione di economie di scala, ma la prospettiva di nuovi traguardi che le grandi marche devono sapersi dare. Questo è il grande compito che abbiamo davanti. E’ con questo spirito che dobbiamo andare ai concorsi internazionali: prendere le misure di una nuova realtà, prepararsi a esserne all’altezza. Qui se non si è capaci di volare alto, possiamo dire addio a ogni velleità, a cominciare da un ambìto pezzo di latta da mettere nella bacheca dei trofei. (Beh, buona giornata.)

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

Una risposta su “E’ brutta, stupida, fa pena: ecco a voi la pubblicità italiana sul finire del 2008.”

Caro Marco, per quanto io possa esser ignorante in materia – visto che mi occupo di temi diversi e in qualche modo concorrenti a quello della pubblicità – la tua analisi mi piace.
Per curiosità sono passato anche a leggere il numero di spotandweb, scaricabile in formato pdf, ma dopo le prime righe ho preferito continuare la lettura dal tuo blog.
Ora mi faccio una domanda, ma credimi sono 7 – 8 anni che me la pongo tutti i giorni, “come può cambiare il mondo pubblicitario italiano se il mondo della comunicazione è in continuo declino ?”.
Basta guardare questa rivista online: pdf non accessibile, colori non consoni ad un monitor (danno fastidio anche ad una persona che non ha problemi di vista), testi scarsamente leggibili anche alla fine del 2008 dove il 78% degli internauti ha un’adsl con velocità superiore ai 640kb, per risparmiare su dimensione dei file, font non adatto alla pubblicazione online e tanto altro.
E nota che non ho analizzato il discorso pubblicitario perché non sono formato per farlo, ma solamente dal lato web, già dalla prima lettura questa testata ha perso un lettore.
Mah, buona sopravvivenza.

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