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Il caso Battisti: dite al ministro Frattini che chi è causa del suo male, piange se stesso (e il suo “padrone” politico).

di MARCO DAMILANO-http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/01/02/battisti-ditalia/

«Basta con le dottrine che difendono i latitanti», tuona il ministro degli Esteri Franco Frattini a proposito di Cesare Battisti. «Con tutto il rispetto per il presidente Lula, non è l’Italia il paese dei desaparecidos, non è che qui in galera si tortura, si uccide o si fanno sparire i detenuti». Giusto, giustissimo. Con tutto il rispetto per il ministro Frattini, però, si poteva evitare di far cadere in equivoco il brasiliano Lula anche con talune descrizioni della nostra macchina giudiziaria arrivate dall’Italia, e da sedi autorevoli. «In Italia siamo tutti spiati, ci sono 150mila telefoni sotto controllo. Così non siamo in un paese civile, non è una vera democrazia». «L’Italia non è davvero un paese democratico: la sovranità non appartiene al popolo ma a certi giudici, sono una metastasi». Quest’ultima affermazione, formulata da Silvio Berlusconi proprio in Brasile, a San Paolo, lo scorso 29 giugno, potrebbe aver indotto Lula a pensare che in Italia la democrazia è sospesa e che siamo in mano a una dittatura.

Dice Frattini: basta con la difesa dei latitanti. Giusto: ma come fa a gridarlo l’esponente di un partito che ha sempre considerato, per fare un esempio, Bettino Craxi un esule politico e non invece un latitante condannato per tangenti da riportare in Italia (e da curare e da trattare con umanità, certo, ma questo è un discorso che riguarda qualsiasi detenuto)? Un anno fa il ministro degli Esteri era in prima fila ad Hammamet per commemorare Craxi: «è stato un grande uomo di Stato», si pavoneggiò in quell’occasione, «è un dovere morale essere qui. Un gesto di ribellione contro l’ingiustizia di certa giustizia italiana». Lula sottoscriverebbe, Battisti pure: anche lui si ribella.

Afferma Frattini: in Italia non c’è una giustizia che tortura. Benissimo: ma perché, allora, i berlusconiani da anni sono impegnati in una guerra senza quartiere contro la magistratura in blocco, considerata come un impedimento a governare o, peggio ancora, eversiva e golpista, fino a progettare uno scudo che salvi il premier dai processi? Cercano di sfuggire ai tribunali e, in caso di condanna, gridano alla sentenza politica, da non riconoscere: esattamente come Battisti e i suoi amichetti (tra cui la scrittrice Fred Vargas: il suo personaggio, il commissario Adamsberg, “spalatore di nuvole”, non la riconoscerebbe, intenta com’è a spalare cavilli giuridici, ignoranza storica e disumana lontananza dai sentimenti delle vittime. Ha un lettore in meno, almeno).

Attenzione: Craxi non è Battisti, e neppure Berlusconi. E il terrorismo politico e gli omicidi non sono neppure moralmente paragonabili al reato di finanziamento illecito. Ma le reazioni sono simili: gli stessi tic, gli stessi alibi, le stesse accuse contro la magistratura che sarebbe politicizzata e di parte. Non è una convergenza casuale. Già negli anni Settanta c’era una parte della società italiana che lavorava e faticava per dare un senso al vivere insieme: gli eroi anonimi, borghesi, nella pubblica amministrazione, nella scuola e nelle università, nelle fabbriche. E un’altra parte che invece considerava lo Stato un mostro da distruggere, le istituzioni democratiche un fantoccio, le persone che queste istituzioni incarnavano simboli da abbattere. Una cultura molto più diffusa di quanto si pensi, che unisce ex terroristi rossi e ex terroristi neri (si fecero vedere tutti insieme, due anni fa, alla presentazione di un libro sulla strage di Bologna, in un ributtante abbraccio collettivo, il fotografo di Dagospia Umberto Pizzi se ne andò indignato), ma anche chi negli stessi anni militava in logge massoniche occulte con lo stesso obiettivo: rovesciare la Costituzione.

Sì, c’è una cultura che accomuna alcuni amici di Battisti e alcuni amici del premier, e che spiega perché mai alcuni esponenti ex Lotta Continua e ex Potere Operaio si siano ritrovati a scrivere sui giornali della destra berlusconiana e a inneggiare alla rupture operata dal Cavaliere. La rottura con le regole dello Stato democratico, l’indifferenza per le istituzioni, il disprezzo per i servitori dello Stato, siano essi un commissario di polizia o un carabiniere o un magistrato o un giornalista o un operaio (perché Walter Tobagi e Guido Rossa sono stati due grandi servitori dello Stato). Il giudice Emilio Alessandrini, assassinato a Milano da Prima Linea dopo aver indagato su piazza Fontana, nel ‘79 aveva solo 37 anni: fosse vissuto quindici anni di più sarebbe stato probabilmente considerato una toga rossa o addirittura un eversore.

Quel terrorismo nero e rosso ci ha strappato gli uomini migliori, la mafia ha fatto il resto. Ci restano i Cesare Battisti: un piccolo, volgare criminale che ha trovato una valvola di sfogo per il suo sadismo sotto l’ombrello della lotta politica e che nel suo narcisismo infinito oggi godrà nel vedersi al centro di uno scontro internazionale. Ma non è un caso isolato. Sono tanti i Battisti d’Italia, mascherati da rivoluzionari, furbastri e impuniti, nel paese dell’illegalità, dove gli uomini delle istituzioni continuano a essere derisi e insultati, le vittime a restare senza giustizia e la memoria collettiva a essere tradita.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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