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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Perché il governo di destra non è all’altezza della crisi.

Pubblico un ampio stralcio di un articolo del fondatore de La Repubblica, tratto da repubblica.it. Mi sembra la fotografia molto nitida dell’atteggiamento politico del governo italiano di fronte alla crisi economica attuale. La domanda è: perché l’attuale governo non è all’altezza della crisi? Credo la risposta sia: chi è politicamente figlio del neoliberismo, chi ha creduto fermamente nel paradigma “meno stato, più mercato”, chi praticato la “finanza creativa”, chi ha osannato il susseguirsi delle “bolle speculative” come contributo alla crescita economica, chi ha fatto degli stilemi del capitalismo senza regole la sua idea-forza non può guidare il Paese fuori dalla crisi, senza creare ulteriori disastri politici, sociali ed economici. Chi è parte del male, può essere la medicina contro la malattia? Beh, buona giornata.

Campane d’allarme
e trombe stonate
di EUGENIO SCALFARI

NON c’è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.

Due hanno dimensioni nazionali e sono l’allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell’economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.

La stampa americana parla ormai correntemente di “great depression, part 2” riferendosi a quella del ’29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l’Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l’industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell’Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.

Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.

L’effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull’occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un’accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.

Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l’apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.

Tra tanti germi negativi che l’America ha già disseminato nel resto dell’Occidente, l’effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?

Joseph Stiglitz in un’intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.

Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all’opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.

Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all’interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.

Ricordo a chi non lo sapesse o l’avesse dimenticato che fu l’allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un’imposta unica basata sui consumi e un’imposta patrimoniale di successione che al di là d’una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un’aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?

* * *

Il nostro governo e il nostro ministro dell’Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici “sono in sicurezza”. Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.

Quest’ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l’euro senza il quale staremmo da tempo sott’acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.

Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell’evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l’abolizione dell’Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l’anno; l’Alitalia tricolore è costata all’erario 3 miliardi (se basteranno).

Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un’elemosina di 6 miliardi “una tantum” alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all’Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).

Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po’ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).

Il peggio deve venire dice Tremonti e ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c’è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell’Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all’opposizione. Per Tremonti la via d’uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.

* * *

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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