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The Counselor Il Procuratore, di Ridley Scott secondo Giuseppe Di Giacomo, filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film “The Counselor” di Ridley Scott
Nel deserto senza legge e frontiera del senso
La bionda bestia di Nietzsche, la lastra di ghiaccio di Wittgestein, l’inferno spietato di McCarthy

di Riccardo Tavani

Se un felino esotico, un biondo ghepardo flessuoso fuggisse da una villa alle porte della città e si aggirasse la notte sull’asfalto viscido di pioggia delle vie del centro… Se, uscendo poi da una sala cinematografica all’ultimo spettacolo, lo vedessimo abbeverarsi alla fontana della piazza antistante, in tutta la sua adamantina purezza di belva feroce, noi avremmo un fremito che scuoterebbe il nostro intero mondo interiore. Se il film appena visto fosse stato, però, “The Counselor – Il Procuratore”, di Ridley Scott, noi ci diremmo che quel felino famelico si nutre e abbevera proprio del nostro strano mondo, non solo interiore, da molto tempo e senza alcun trasalimento della civiltà.

È la riflessione che facciamo con il professor Giuseppe Di Giacomo, uscendo sul selciato umido e striato di luci notturne, alla fine del film.

The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
C’è stata però un’ottima interazione tra scrittore e regista; il testo letterario non travalica mai quello visivo. Non a caso, McCarthy è stato anche uno dei produttori esecutivi del film.

Le vie del centro sono attraversate a quell’ora da ombre di volti e corpi, come i nostri, possibile rancio della “trionfante bionda bestia che vaga alla ricerca della preda e della vittoria” della quale parla Nietzsche nel primo capitolo della sua “Genealogia della morale”. Una fiera che si aggira rinchiusa nel fondo occulto della civiltà, ma che, ogni tanto, ha bisogno di fuggire, riemergere, riapparire tra noi.

“Sono famelica” ripete nel film, sedendosi a tavola, la bionda Malkina, dal corpo flessuoso, percorso da una lunga striscia tatuata che richiama le macule della sua coppia di giaguari, Silvia e Raoul, che corrono eleganti, ghermendo selvaggina, al confine tra Messico e Usa, ribollente di traffici illeciti e umanità da preda.

Alla tavola del filosofo, attorno alla quale c’invita a sedere Di Giacomo, trovi invece riflessione artistica e critica, senza che manchi, però, un sapido piatto di pasta al tonno e vino bianco, per conversare meglio, aprirsi ai significati dell’opera anche attraverso la convivialità dei pensieri e lo scambio dell’amicizia. Filosofia e cinema non possono prescindere oggi l’una dall’altro, tanto più in un film come questo, improntato alla œuvre e alla visione di McCarthy. Un’alleanza fondata, appunto, sull’amicizia. (Amicizia e amore corrono lungo una medesima linea semantica, eppure un sottile confine li distingue criticamente).

L’avvocato, ovvero il procuratore del titolo, nutre un amore puro, profondo e nello stesso tempo vertiginosamente sensuale per Laura, dall’odore della pelle bruno sotto le lenzuola accecanti di biancore nella luce del mattino. Vuole donarle tutto, anche più di quello che ha. Vola ad Amsterdam a comprarle un prezioso diamante, quale pegno per la sua richiesta di matrimonio.

Il diamante, per Di Giacomo, è qui il simbolo stesso della bellezza inscalfibile, che può redimere dalla drammaticità dell’esistenza, come quella “promessa di felicità” del famoso aforisma di Stendhal. Dice, infatti, il mercante di pietre all’avvocato: “Partecipare del destino eterno della pietra… Esaltare la bellezza dell’amata è riconoscere tanto la fragilità di lei quanto la nobiltà di questa fragilità”. La logica anche ha, per Wittgestein, la durezza non scalfibile del diamante. Eppure, aggiunge il mercante, noi siamo cinici, cerchiamo una piuma di imperfezione, altrimenti la pietra sarebbe solo luce. O, come scrive Wittgestein nelle Ricerche Filosofiche (107): “Siamo giunti su una lastra di ghiaccio… Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.

E la pellicola di McCarthy-Scott, sia nella tessitura scritta che in quella visiva, non abbandona mai il terreno scabro, anzi, lo privilegia. L’avvocato si immette nell’ingranaggio d’affari del narco-traffico di confine, dominato dallo spietato Cartello centro-americano. “Una botta e via?” gli domanda Reiner, re dei locali e degli smerci notturni, presso la cui sfarzosa villa vivono e si nutrono Malkina e i suoi due felini. Sì, l’avvocato vorrebbe partecipare ad un singolo, lucroso quanto lurido affare, rimpinguare il conto in banca e poi ritirarsi nel rifugio d’amore dorato con la sua Laura.

Reiner ride per l’ingenuo, ipocrita moralismo, ma intanto anche lui ha il suo lato morale debole, ammalato: è davvero innamorato di quella sua bionda con macchie di ghepardo tatuate sulla pelle e ad elevato grado di calore erotico, anche se per lei la “verità non ha temperatura” e “le cose non tornano mai”. Secondo Di Giacomo, proprio il personaggio Malkina, con le sue lapidarie, ciniche battute di dialogo, rappresenta il vero senso del film. Non è tanto la violenza, il sesso, l’illegalità, la morte che pure spruzza nel film come sangue da una testa mozzata o da una carotide recisa. La mancanza di legge lungo quel confine va intesa come l’assenza di una Legge, ovvero di un senso, di una teleologia, di una direzione che guidino l’azione del singolo e la storia umana. L’aridità desertica è senza direzione; la casualità vi domina spietata nella sua imprevedibilità senza legge e frontiera.

Il protagonista ne rimane vittima, vedendo completamente terremotata, rasa al suolo la sua vita e la preziosa rarità del suo amore, senza neanche rendersene conto. La stessa cosa succede, però, a Reiner e ad un altro scaltro mediatore d’affari, Westray, che dovrebbe passare un carico di coca all’avvocato. Questo Westray, però, ha anche lui il suo lato morale fragile, dunque facilmente ghermibile per la fiera predatrice.

Come in “Alien”, Ridley Scott rappresenta l’imperscrutabilità in sé dell’ignoto quale male senza difesa e riparo sicuro. È tale condizione, nota Di Giacomo, ad essere originariamente aliena eppure insita all’esistenza umana, come un parassita che aggredisce e sbrana dall’interno, in una lotta che sempre si rinnova e non ha mai fine, perché non c’è un fine, una meta, l’approdo di un qualche destino salvifico nell’Universo.

Solo chi si iberna allo stesso grado di “verità senza temperatura” morale, può cinicamente tastare prima e sfruttare poi ogni minimo neo di debolezza altrui, per sopravvivere e proseguire un viaggio, anch’esso, però, privo di ogni senso. “Viandante, non c’è nessun cammino, il cammino si fa andando”, recitano alcuni versi di Antonio Machado, proferiti al telefono all’avvocato, come un de profundis.
Così anche “La morte qui non ha valore: tutta la mia famiglia è morta, ma è la mia vita che non ha significato”, dice all’avvocato il padrone di una bettola di Ciudad Juarez, capitale messicana del narco-traffico, dove ogni anno sono tremila le persone che si contano tra ammazzate e fatte sparire, su circa un milione e mezzo di abitanti. La gente si raduna nelle piazze, per piangere, pregare, reclamare insieme giustizia e salvezza, ma qui non c’è legge, frontiera etica pubblica, solo un’immane discarica del senso, nella quale sono rovesciati i cadaveri delle ragazze sequestrate, stuprate e anche squartate in quel genere di lucrose quanto infernali pellicole pornografiche dette snuff movies. Lo spiega Westray all’avvocato: “Per la produzione di un simile prodotto il consumatore è essenziale. Non puoi guardare un omicidio senza esserne complice”. Vedi: L’inferno di Ciudad Juarez.
Sopra questo strato di sangue e fango umano, oltre la polvere riarsa del deserto, si stagliano le ville scenografiche, con piscine e colonnati riparati dal calore del sole, ma non sufficientemente ombreggiati dalla micidiale ambizione all’eternità simbolica, alla promessa di riscatto esistenziale racchiusa nei diamanti. Nulla, però, avverte Di Giacomo, è garantito, perché, anzi, ogni cosa e persona sono costantemente minacciate dall’avanzare del disordine e dell’insensatezza che tutto sgretola e divora.

Mentre l’avvocato marcisce disperato in una sozza stanza d’albergo di Juarez, lo scontro si sposta altrove, tra le mura protette delle banche e le stanze felpate dei grandi alberghi internazionali nelle capitali della nostra civiltà. Più pulita, silenziosa ma anche più spietata, vorace e decisiva si fa la lotta, in questa savana di vetro-cemento super tecnologica e interconnessa.

Malkina non ha soltanto la pelle tatuata delle macchie dei suoi felini ma possiede anche le loro movenze rapide ed eleganti nel corpo, un’intelligenza istintuale certa e senza sbavature. Si abbevera di champagne e sbrana le più raffinate pietanze in un esclusivo ristorante parigino.

Potremmo, però, proprio ora, mentre usciamo dal cinema, vederla lentamente transitare, al guinzaglio il suo biondo ghepardo Raoul, dai finestrini posteriori di una limousine. Da dietro quel suo piccolo schermo blindato e trasparente, Malkina vedrebbe scorrere la pellicola insensata del nostro strano mondo, nel quale si ama, si crede, si nutre passione o paura per qualunque cosa. Lei, invece, aspira solo alla “purezza di cuore del cacciatore… Non puoi distinguere quello che è da quello che fa… uccidere… e non c’è niente di più crudele di un codardo”.

Conclusione in linea con l’iniziale bionda belva nietzscheana, soltanto che Malkina, dice Di Giacomo, è cosciente di non andare nella direzione di alcun oltreuomo, perché, anche se non torna mai nello stesso luogo, si trasferisce soltanto da un’altra parte, indifferentemente, sia essa la Cina o, domani, anche Marte. Non trasmuta alcun valore morale, ma solo i soldi in diamanti, per riavviare il processo di eterno ritorno dell’uguale, al confine di un deserto esistenziale brulicante di illusioni, stupefacenti e corpi riarsi, sepolti nei turbini caotici di pallottole e sabbia.(Beh, buona giornata.)

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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