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La politica e la morte a Manchester.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo.

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Manchester ricorda le vittime dell’Arena.
“Noi amiamo la morte come voi amate la vita”, è il truce slogan che accompagna gesti scellerati, come l’ultima orribile strage di ragazzine e ragazzini a Manchester. Un distillato d’odio, disperazione, vendetta contro la vita. Ma non suona nuovo.

L’idea della Morte come purificatrice ha riempito la propaganda nazionalista e interventista – da noi “irredentista” e futurista- accompagnando al macello milioni di europei nella Prima Guerra Mondiale. Alla quale segui dopo appena vent’anni, la Seconda Guerra Mondiale, dove il teschio campeggiava nei berretti delle uniformi delle SS, simbolo premonitore delle stragi, delle pulizie etniche, della Shoah. Per non essere da meno, anche le nostrane Brigate nere avevano il teschio sul basco, per sentirsi così all’altezza degli alleati tedeschi, nel condurre rastrellamenti, partecipare agli eccidi, alle deportazioni, alle torture.

Tutta la retorica guerrafondaia si è sempre basata sul gesto estremo di un uomo solo, che immola la sua vita alla “causa”. Dunque, neppure il gesto suicida di chi si fa saltare in aria per portarsi appresso nella morte più vite possibili è un fatto né nuovo né straordinario.

Per concepire, organizzare e mettere in atto gesti come quelli di cui parliamo bisogna essere emotivamente carichi del più definitivo fanatismo. La strage di Manchester è uguale alle carneficine che sciiti e sunniti si scambiano nei paesi in cui si contendono la leadership. Non sappiamo più come contarle in Iraq, per esempio, dove gli Usa e la Nato, dunque anche noi, siamo andati a destabilizzare un equilibrio che ha poi scatenato l’inferno che Daesh vuole restituirci, in parte riuscendovi.

È inutile far finta: ormai ovunque in Europa viviamo sotto scorta della paura. Città blindate, militari ovunque, controlli continui. Il che dimostra che tutto questo apparato non ha l’efficacia che si vorrebbe avesse. Dunque, sperare che il terrorismo islamico sia un problema di ordine pubblico è illusorio.

Anche sul piano del dialogo interreligioso si sono fatti passi significativi. Ma se non si tiene conto che l’Islam, come per altro il Cristianesimo e lo stesso Ebraismo, sono fedi monoteiste, ma non monolitiche non si capisce come stanno davvero le cose nel mondo arabo. Chiedere ai musulmani di condannare il terrorismo ha più il sapore di una spendibilità verso le opinioni pubbliche spaventate, più che efficacia tra i membri delle comunità islamiche delle nostre città.

Neppure la sociologia ha strumenti efficaci per spiegare perché un ventenne nato e cresciuto a Manchester possa arrivare a odiare al tal punto la città in cui vive e la gente con cui è cresciuto, tanto da rendersi disponibile a fare strage di suoi coetanei. Era successo in Francia e in Belgio. È evidente che il disagio sociale sia un ottimo serbatoio cui attingere quella disperazione utile a formare i kamikaze. Ma da solo non basta a capire perché scatti la molla della strage.

Non ci rimane che la politica, come unico strumento per affrontare la questione del terrorismo. Ma la politica occidentale vive il peggior momento della sua funzione sociale dal Dopoguerra.

Delegittimata dalla crisi finanziaria, poi da quella economica, sul piano interno la politica non ha fronteggiato la crisi sociale, ha invece assecondato le peggiori scelte ideologiche dettate dal neo liberismo, quelle scelte che hanno logorato il patto sociale, disgregato il welfare, indebolito la coesione sociale: oggi la politica non è più credibile agli occhi degli elettori, come potrebbe esserlo di fronte agli immigrati di prima e seconda generazione?

Sul piano estero, la politica degli Usa con l’appoggio della Ue continua a giocare contro ogni ragionevole riequilibrio del Medioriente. Prima la guerra in Afghanistan, poi in Iraq, poi l’illusione delle “primavere arabe”, poi la dissoluzione della Libia. Una serie drammatica di errori che ha portato distruzione, vittime, ed esodi in massa.
La “guerra al terrorismo” è diventata una guerra terrorista da ambo i lati. Da un lato la ferocia del Califfato, dall’altro bombardamenti indiscriminati, in mezzo il doppiogiochismo dei nuovi satrapi, che hanno preso il posto dei precedenti Saddam, o Gheddafi o Mubarak.
D’altronde, come si fa a parlare di pace e pacifica convivenza quando il nuovo inquilino della Casa Bianca ha portato in Arabia Saudita 110 miliardi di dollari in armi?

L’ultimo scellerato atto compiuto da Trump è stato il tentativo di compattare i sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma il Califfato è sunnita e ci sono truppe iraniane sul campo che stanno combattendo contro Daesh, ottenendo significativi successi. Dunque, da una lato si combatte Daesh, dall’altro in qualche modo lo si blandisce. Siamo alla solita strategia imperiale Usa in Medioriente. Quanto alla Ue, l’unica preoccupazione è che non partano quei dannati barconi – che invece sono barconi dei dannati – che tanto turbano le opinioni pubbliche europee. A Bruxelles non ci sono altre strategie, se non ognuno per sé a fare affari col petrolio o col cemento.

C’è proprio tutto quello che serve perché il fuoco dell’odio rimanga acceso più a lungo possibile e continui ad ardere odio, vendetta, disperazione e morte nelle nostre città.

Il mondo gronda d’ingiustizie, disuguaglianze, inciviltà. Che muoiano sotto le bombe di un drone, che affoghino nel Mar Mediterraneo, che vengano trucidati da un kamikaze nel primo concerto della loro vita, muoiono i nostri bambini.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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