Categorie
Attualità

Alitalia, ovvero cronache di scapitalismo italiano.

Oggi l’Alitalia sta forse vivendo i suoi ultimi mesi di vita ma è ancora possibile intervenire ed invertire positivamente la rotta. Comprendere la storia della compagnia aerea evitando facili generalizzazioni e strumentalizzazioni non è cosa da poco ed è utile per trovare le soluzioni concrete per il rilancio dell’azienda, per salvaguardare l’occupazione e per non svendere un asset così importante per il Paese.
Fabrizio Tomaselli ricostruisce gli eventi che hanno visto come protagonisti l’Alitalia, i suoi lavoratori e la storia del sindacalismo di base nella ex compagnia di bandiera vissuta dagli anni ’80 sino ad oggi, con un focus particolare sugli assistenti di volo. Fatti e notizie, analisi e sensazioni, lotte e mobilitazioni, vittorie e sconfitte, errori e percorsi positivi.  La cronaca di una storia che è ancora oggi sotto i riflettori, analizzata e collocata all’interno di un contesto sociale, politico e sindacale ancora in evoluzione.
Una storia indagata e descritta dal punto di vista dei lavoratori e di chi negli anni ha costruito un percorso sindacale alternativo: un contributo che legge ed interpreta gli eventi intorno ad Alitalia senza il filtro mediatico che per decenni ha avvolto quest’azienda ed i suoi lavoratori.
 
L’autore:
Fabrizio Tomaselli (Roma, 1957) è stato assistente di volo in Alitalia dal 1983 al 2009. Tra i fondatori del sindacalismo di base nel trasporto aereo ha partecipato e condotto direttamente a gran parte delle trattative con Alitalia e con il Governo sino al 2008. Ha lasciato la partecipazione attiva nel sindacato nel 2017.
 
La foto di copertina è lo scatto fotografico dal vivo per una campagna di affissioni a Roma e a Milano. I protagonisti della foto sono lavoratrici e lavoratori di Alitalia. Gli autori della campagna furono Agostino Reggio (1951-2013), Art Director e Marco Ferri (Roma, 1955), copywriter. 
 
Sulle ali della dignità di Fabrizio  Tomaselli, è acquistabile su Youcanprint.it e nelle principali librerie on-line tra le quali La Feltrinelli, Kobo, Ibs.it, Mondadori, Amazon, Apple, Google play, Barnes&Noble.com, e su ordinazione anche in libreria.
 
“Scapitalismo italiano” è il titolo della prefazione al libro.

Scapitalismo italiano.

di Marco Ferri

Quest’Italia, tanto favorita dalla natura, 

è rimasta enormemente indietro rispetto 

agli altri paesi per tutto quello ch’è 

meccanica e tecnica, sulle quali 

senza dubbio si fonda ogni progresso 

verso un’esistenza più comoda e più sciolta.” 

(“Viaggio in Italia”, Johann W. Goethe.)

Così scrivono Eugenio Scalfari e Peppino Turani in  “Razza padrona – storia della borghesia di stato, [nel quinto capitolo, intitolato “Il saccheggio”, Feltrinelli Editore, 1974, pagina 353]: “Il saccheggio è stato certamente uno degli impegni prevalenti della Montedison a partire dal 1971. [anno dell’avvento di Cefis alla presidenza]. A subire il suo assalto sono stati in tanti: i lavoratori, i consumatori, il Mezzogiorno, certi enti pubblici, certi enti a partecipazione statale, gli azionisti, i risparmiatori, il sistema industriale italiano e persino alcune regole della buona contabilità aziendale.” 

Basterebbe mettere Alitalia al posto di Montedison per avere un’esatta fotocopia della storia di Alitalia, dei suoi azionisti, dei lavoratori, dei passeggeri, dei profitti privati e dei debiti pubblici accumulati negli anni. Un esempio di scuola dello “scapitalismo italiano”.

La tesi degli autori di “Razza padrona” era caldeggiare una convergenza di vertice tra il Pci e le grosse famiglie imprenditoriali italiane, insomma la famosa formula “dell’alleanza dei ceti produttivi contro i ceti parassitari.” 

La tesi sostenuta da Fabrizio Tomaselli in questo avvincente racconto in presa diretta la troviamo nelle conclusioni: “Si deve indicare la strada giusta, quella che porta alla costruzione di una compagnia aerea inserita in un sistema paese che la consideri, insieme all’intero trasporto aereo nazionale, un fattore di sviluppo e non un costo, un asset industriale che contribuisca a creare  occupazione e ricchezza per l’intero paese.”

Ed ecco il punto. La privatizzazione di Alitalia, nell’ambito della grande strategia di dismissione dei beni pubblici, non ha creato valore per il paese, come era nelle premesse delle grandi privatizzazioni, propugnate dagli epigoni di Milton Friedman e delle teorie neoliberiste, che sono rapidamente dilagate nel capitalismo globale, fino a far ingresso nei partiti di sinistra.

La privatizzazione ha gonfiato gli stipendi dei manager che si sono avvicendati al banchetto degli investimenti per ripianare i debiti privati con il denaro pubblico.

Nel frattempo l’ha indebolita, fino a renderla incapace di reagire alla concorrenza interna e internazionale; ha alimentato, in certi momenti foraggiato la filiera della clientela politica; ha trasformato le grandi organizzazioni sindacali in soggetti “embended” alle strategie aziendali fine a se stesse, cioè alle cordate che si sono avvicendate; ha fatto male alla professionalità dei dipendenti, primi fra tutti dei naviganti, e di conseguenza all’occupazione. 

Parafrasando lo schema di “Razza padrona”, che però andrebbe capovolto, Alitalia era più produttiva prima che finisse nelle mani e nelle fauci di ceti parassitari, travestiti da “capitani coraggiosi”.

Nelle pagine che scorrerete come fosse un thriller, – nel quale il serial killer è il capitalismo italiano, e i suoi complici sono stati governi, partiti e vertici dei sindacati confederali – Tomaselli ci racconta di un investigatore collettivo, che ha scoperto volta per volta i colpevoli, li ha smascherati, denunciati, con il candore e il coraggio di chi sapeva di verità che nessuno voleva ascoltare.

L’investigatore collettivo è il protagonista di questa puntigliosa, dettagliata fino alla pignoleria, narrazione di quarant’anni di lotte dei lavoratori del trasporto aereo. Giovani donne e uomini che, sfuggendo a ogni previsione sociologica, sono diventati soggetti attivi non solo delle vertenze sindacali, ma di una visione complessiva delle contraddizioni provocate dalle sconsiderate gestioni padronali. 

Scrive Tomaselli che questo libro è: “Una cronistoria, un diario di viaggio, passaggi importanti che si snodano dai primi anni ’80 a oggi, esperienze personali e collettive, fasi drammatiche della vita di decine di migliaia di lavoratori, vittorie e sconfitte, senza mai dimenticare il contesto generale nel quale si sviluppano questi eventi.

Aggiunge Massimo Giuli, assistente di volo, tra i primi protagonisti dell’organizzazione sindacale di base tra il personale Alitalia, che firma un intervento introduttivo: “Attraverso le lotte autonome e fortemente antagoniste che li videro protagonisti, [i lavoratori] seppero ripristinare un corretto esercizio della democrazia sindacale, darsi nuovi modelli organizzativi indipendenti dal mondo confederale attraverso i quali riproporre con forza i propri obiettivi e delineando i principi costitutivi all’origine del  sindacalismo di base dei primi anni ’80.

Dunque, questo è un libro su una storia i cui capitoli sono ancora da scrivere, come dimostrano gli avvenimenti che tutt’ora l’attualità politica e sindacale ci propone. D’altronde, come Antonio Labriola ci avvertirebbe “Il tempo storico non è corso uniforme per tutti gli uomini. Il semplice succedersi delle generazioni non fu mai l’indice della costanza e dell’intensità del processo.”

Infatti, scrive Tomaselli: “Esperienze che forse potrebbero servire a chi vuole approfondire lo studio del trasporto aereo e di Alitalia ed anche a chi oggi ha deciso di impegnarsi nel sindacato. Un insieme di riflessioni personali e collettive, di lotte, di contraddizioni, di vittorie e di sconfitte, di strategie vincenti e di errori, che potrebbero forse essere utili.”

Fabrizio Tomaselli è stato un assistente di volo e un sindacalista di base, “ho sempre rifiutato l’etichetta di “sindacalista”: preferivo dire “faccio sindacato” per distinguermi da chi invece vive questo impegno come una professione ed utilizza il sindacato per scopi estranei dall’interesse di chi lavora.

In effetti, l’organizzazione sindacale, le battaglie sui diritti dei lavoratori hanno fatto non solo crescere cultura politica e consapevolezza sociale di almeno tre generazioni di lavoratori del trasporto aereo italiano, ma hanno cambiato la percezione del loro lavoro e della loro dignità presso l’opinione pubblica. 

Non è stato facile. “..in categoria divennero storiche le parole di Umberto Nordio [dirigente IRI, in Alitalia dal 1972 al 1988] che riportiamo da Panorama del 3 aprile [1979]: -Ma cosa volete trattare. Questi sono camerieri, è una categoria indifendibile. E poi gli steward fanno traffici strani, e le hostess anche di peggio -… Insomma, gli steward sono contrabbandieri e le hostess mignotte” chiosa Fabrizio Tomaselli. 

Boiate dei boiardi di Stato. Pensate se oggi sarebbe possibile che un alto dirigente si esprimesse in questo modo sprezzante nei confronti  del personale della propria azienda. Sarebbe un tale danno d’immagine verso la clientela che gli azionisti lo prenderebbero a pedate nel didietro. Ma questo è stato il clima, favorito dalla stampa compiacente, in cui hanno mosso i primi passi le rivendicazioni dei dipendenti di Alitalia.

Scrive Massimo Giuli: “Gli assistenti di volo sono stati parte integrante della nuova composizione sociale che veniva costituendosi nel settore terziario dell’economia, nei trasporti e in modo particolare nel trasporto aereo. Una composizione sociale contigua ma, al tempo stesso, lontana dalle modalità e dai percorsi in cui si esprimevano le tematiche rivendicative del movimento dei lavoratori organizzato della democrazia sindacale, darsi nuovi modelli organizzativi indipendenti dal mondo confederale attraverso i quali riproporre con forza i propri obiettivi e delineando i principi costitutivi all’origine del  sindacalismo di base dei primi anni ’80.” 

Il che spiega, certamente non giustifica, il livore della dirigenza contro i lavoratori più attivi e coscienti, sicuramente dotati di una capacità d’analisi nettamente superiore al livello espresso dalla classe dirigente d’azienda, spesso arruolata tra raccomandati di questo o quel politico, che così contraccambiava il consenso elettorale.

Anche perché si è tentato di tutto pur di non ascoltare le istanze dei lavoratori organizzati, che se prese in considerazione non avrebbero permesso lo scempio di denaro, lo spreco di strategie e politiche industriali che la lunga vicenda Alitalia sta lì a rappresentare, come un dito accusatore contro il capitalismo italiano, la sua miopia, ingordigia, malaffare e inettitudine, tutti quei difetti cronici pagati dai lavoratori, le loro famiglie e dal paese tutto. 

Fabrizio Tomaselli ha fatto con questo libro un gran lavoro. Non è facile prendere le distanze,con la freddezza necessaria che serve alla ricostruzione dei fatti e dei loro significati, per chi di quegli avvenimenti è stato protagonista e molto spesso promotore, esercitando una leadership riconosciuta e rispettata nella sua categoria e nel movimento sindacale di base italiano.

Eppure queste pagine, dense e scorrevoli, avvincenti e documentate stanno a dimostrare che la sfida con se stesso Tomaselli l’ha vinta, a tutto vantaggio del lettore.

Non solo. Queste pagine colmano un vuoto di documentazione e, conseguentemente, di riflessione su una lunga teoria di episodi che sono entrati a far parte della storia del movimento dei lavoratori italiani. Pagine utili a chi ha preso il testimone dell’impegno sindacale, nella generazione politica successiva a quella di Tomaselli. Ma molto utili anche a chi voglia studiare a fondo i rapporti e gli scontri fra capitale e lavoro e le loro evoluzioni e trasformazioni tra la fine del Novecento e il primo ventennio del Duemila. Per certi versi è un’inchiesta, senza la quale sarebbe impossibile capire e agire. 

Alitalia è stato un laboratorio, in cui sono passate privatizzazioni e globalizzazione, capitale pubblico e privato, valori di Borsa e convenienze politiche, clientele e inefficienze, lauti compensi e precarizzazione, propaganda liberista e inconsistenza manageriale, asservimento dei vertici confederali e ribellione della base, cogestione e conflitto.

E fallimento di paradigmi gestionali, ma anche di inefficacia di proposte politiche.

A un certo punto di “La storia della rivoluzione russa”, la cui pedante, minuziosa, pignola ricostruzione dei fatti, momento per momento, ricorda – facendo le debite proporzioni – questo libro, Trotsky scrive: “Che una classe s’incarichi di trovare una soluzione a problemi che interessano un’altra classe, è una delle combinazioni caratteristiche dei paesi arretrati.” 

Il che rimanda al fatto che le relazioni industriali, per quanto possano essere rigorose nel rispetto dei ruoli e piene di prospettive suggestive; che l’azione sindacale, per quanto sia una spinta che provenga dal basso, dalla base; che i piani industriali, per quanto innovativi possano sembrare; nessuno di questi fattori – sia singolarmente presi in considerazione che combinati fra loro da politiche espansive  – riescono a cambiare i rapporti di forza.

Il caso Alitalia sta a dimostrare che il capitalismo in generale, ma quello italiano in particolare, sfugge all’idea di riformare il suo modo di fare profitto; che la “distruzione creativa” è nella sua natura, esattamente come quella dello scorpione che uccide la rana anche se affogherà essa stessa  tra le rapide del fiume. 

“A prescindere da quel che farà il governo è fondamentale che i lavoratori riprendano rapidamente parola e che diventino nuovamente i primi protagonisti di questa assurda storia di Alitalia che per tanti versi sembra lo specchio della situazione di un paese dove le responsabilità non emergono mai del tutto e dove a farne le spese è sempre chi lavora, chi il lavoro non lo ha o chi lo perde …ma anche questa è un’altra storia!”, scrive Tomaselli.

Ecco. Questo libro ci aiuta a capire che il protagonismo politico, non solo sindacale, dei lavoratori deve tornare a essere la forza motrice del cambiamento. Lo sa anche Tomaselli quando scrive “…ma questa è un’altra storia!”.

La storia di come sconfiggere lo “scapitalismo italiano”.

Share
Categorie
Attualità

Patriarcato compassionevole.

Perché gli uomini dedicano i loro premi alle donne?

“Il paradosso è che la dedica è di nuovo un gesto di supremazia patriarcale.”

A Stoccolma, Dario Fo dedicò il Nobel a Franca Rame; a Los Angeles, Ennio Morricone l’Oscar a sua moglie; e da ultimo, Roberto Benigni il Leone d’oro a Nicoletta Braschi. Tre esempi di talento, tre ambiti diversi dello spettacolo, tre figure rispettabilissime, prese solo ad esempio, che però hanno in comune il senso di colpa, quello di aver potuto usufruire, senza remore e per tutta la vita, del lavoro delle donne che gli sono state vicine. 

Ma il paradosso è che la dedica è di nuovo un gesto di supremazia patriarcale, – benevola, poetica, se volete anche appassionata-, ma pur sempre un gesto di potere: la dedica alla donna è un premio di seconda mano, di consolazione, una specie di risarcimento simbolico, utile a quella “captatio benevolentiae” che tanto gratifica l’esercizio del potere di un genere sull’altro. 

Siamo un paese con lunghe, solide e molto ben radicate tradizioni maschiliste, tanto da aver imparato a esercitarle in tutte le salse, in tutte le occasioni, in tutte le stagioni della vita: parafrasando, direi che il maschio latino nasce predatore, – del corpo ma anche dell’esistenza della femmina – e invecchia come patriarca compassionevole, che si auto gratifica della propria benevolenza, come premio alla carriera virile. 

Insomma, nasciamo maschi e, nella speranza di essere ricordati come veri uomini, escogitiamo il più banale trucco ipocrita: ringraziamo impunemente – e soprattutto pubblicamente – chi non ha potuto esprimere se stessa al meglio perché dedita al successo dell’eroe, che è tale solo per grazia, femminile, ricevuta. Una doppia gratificazione per lui, ma una doppia frustrazione per lei, che deve risplendere ancora una volta solo di luce riflessa. 

Categorie
Attualità

La guerra evolve sempre, la pace mai.

La guerra dei droni.

La guerra evolve sempre, la pace mai. Secondo Riccardo Luna (https://www.italian.tech/…/l_aghanistan_e_il_primo…/…), l’attacco Usa che avrebbe sventato un attentato contro l’aeroporto di Kabul, che come “danno collaterale” ha distrutto un appartamento, uccidendo una decina di civili, bambini compresi, sarebbe stato condotto da droni, guidati da algoritmi in grado di prendere decisioni senza l’intervento umano. È l’ultima, finora, frontiera della cyber war: “the artificial intelligence war” sostituisce “boots in the ground”, motivo per cui gli Usa se ne vanno, ma la presenza militare rimane, affidata ai droni killer, che è la nuova strategia militare voluta da Biden.

È una guerra fantascientifica, che si combatte con o senza “humans in the loop”, cioè senza che sia un essere umano a premere direttamente il grilletto. Solo i morti sono veri. Ci penseranno i robot. Letteralmente, penseranno loro.

Ricapitolando: una volta le “bombe intelligenti” sganciate dai piloti facevano vittime civili. Poi i militari sul terreno aprivano il fuoco, senza tanti accorgimenti, provocavano vittime innocenti. Quando si colpivano fra loro, lo chiamavano “fuoco amico”. Oggi gli algoritmi, creati da ingegneri, guidano droni che fanno vittime civili.

Qual è il punto? La guerra evolve, diventa sempre più sofisticata e tecnologica, ma il risultato non cambia: terrorizzare, uccidere e distruggere.

Morale: l’algoritmo è stato progettato per diminuire le vittime tra gli attaccanti, mica per escludere vittime innocenti. Nessuno ha inventato un algoritmo per la pace. Si vede che non conviene.

D’altronde, andarsene in quel modo dall’Afghanistan è stato fatto in totale disprezzo delle conseguenze sulla popolazione civile. La guerra evolve sempre, la pace mai.

Share
Categorie
Attualità

Dannazione donna.

Debutta per la prima volta a Pordenonemercoledì 25 agosto,Dannazione donna” di Marco Ferri, con la regia di Francesco Bressan. Attrice protagonista Stefania Moras.

“Dannazione donna” è atto unico, in tre quadri per una sola protagonista, sul ruolo delle donne in azienda. 

Perché essere donna è una dannazione?

Quando ho scritto “Dannazione donna” la questione del gender gap, anglicismo con cui si definisce la differenza del trattamento economico tra uomini e donne, non era ancora di pubblico dominio.

I movimenti femministi la posero all’attenzione della pubblica opinione globale proprio quell’anno, col primo sciopero internazionale indetto l’8 marzo 2017. Il testo lo avevo scritto a gennaio mentre a novembre di quell’anno andammo in scena per la prima volta a Roma e, sebbene la questione non fosse ancora molto diffusa, – e la sensazione era quella di aver precorso i tempi -, “Dannazione donna “ ebbe un deciso successo. 

La mia opinione è che la questione della disparità economica sia il punto centrale della discriminazione di genere. In una società dove tutto è legato alla catena del valore, se vali meno, conti meno, con la conseguenza che ti vengono riconosciuti meno diritti, come se tu avessi comunque meno voce in capitolo. 

In “Dannazione donna” c’è anche un preciso riferimento al cosiddetto “tetto di cristallo”, cioè le difficoltà che le donne trovano ad arrivare ai vertici. Dal mio punto di vista la questione vera è che le donne sono comunque costrette a muoversi in ambienti lavorativi la cui organizzazione, i cui valori, la stessa valutazione del merito, sono tipicamente maschili, spesso maschilisti. In altri termini: una donna è valida se sa comportarsi come un uomo. 

Questo significa che a parità di obiettivi professionali, una donna deve comunque faticare molto, molto di più, anche in considerazione del fatto che porta con sé come minimo un altro compito, spesso assai gravoso, quanto dato per scontato, il ruolo, cioè, della cura delle relazioni coniugali, filiali, familiari. 

Il che vale per tutte, anche per le donne dello spettacolo, il cui lavoro non può comunque prescindere dagli obblighi della gestione delle problematiche familiari cui sono inesorabilmente chiamate. 

Probabilmente, assistere a “Dannazione donna” fa bene alla possibilità di allargare i propri orizzonti su queste urgenti questioni, che interpellano il nostro modello economico, la divisione sociale del lavoro, e la stessa qualità delle relazioni tra i sessi. 

Marco Ferri – luglio 2021

Share
Categorie
Attualità

Afghanistan, per loro e per noi il problema siete voi.

“Vi riunirete in G7 e poi in G20 per cosa, se non per gestire il cambio di passo militarista che ha imposto l’Amministrazione Biden, che in Afghanistan ha sparigliato le carte rovesciando il tavolo addosso agli alleati, che si ostinano, come valletti servili, a non capire di essere semplicemente sudditi di scelte strategiche decise fuori dal perimetro democratico del nostro paese e della stessa Ue.”

Non fate i furbi: l’occidente l’onore e la credibilità le ha perse quando ha invaso l’Afghanistan 20 anni fa. Per poi continuare la devastazione dell’Iraq e della Siria.

Non fate i furbi, perché la ritirata dall’Afghanistan è niente rispetto a migliaia di morti, feriti e mutilati, tonnellate di bombe, centinaia di migliaia di armi, miliardi di dollari e di euro impiegati al solo scopo di occupare una parte di mondo lasciata libera dalla sfera di influenza russa, dopo la Caduta del Muro.

Non fate i furbi. Avete ingaggiato un gioco al Risiko demente, inutile, e alla fine grottesco, di una gravità enorme, che ha fatto degli Usa e della Nato un’associazione di idioti, guerrafondai, dei neocolonialisti da war game per ragazzini con disturbi del comportamento.

Non fate i furbi, perché i governi e le maggioranze parlamentari che in Italia si sono alternati hanno appoggiato, favorito e foraggiato questo fallimento, con denaro pubblico, sottratto alla Sanità, all’Istruzione, alla Previdenza, agli Enti Locali, alla solidarietà.

Non fate i furbi. Dopo aver eseguito gli ordini emanati dal Pentagono come fedeli cani da caccia, oggi state di nuovo dicendo “signorsì” alla “transizione” cyber e tecnologica bellicista, con la stessa logica imperiale, che ieri chiamavate “guerra al terrirismo” e oggi definite “atlantismo”.

Non fate i furbi. Per anni avete osteggiato, vilipeso e perseguitato le Ong, con la stessa logica fascistoide che pretende il disprezzo contro i volontari e gli aiuti umanitari, e oggi le strumentalizzate goffamente per tacitare l’indignazione dell’opinione pubblica. Come al solito, prima mentite poi ingannate.

Non fate i furbi. Vi riunirete in G7 e poi in G20 per cosa, se non per gestire il cambio di passo militarista che ha imposto l’Amministrazione Biden, che in Afghanistan ha sparigliato le carte rovesciando il tavolo addosso agli alleati, che si ostinano, come valletti servili, a non capire di essere semplicemente sudditi di scelte strategiche decise fuori dal perimetro democratico del nostro paese e della stessa Ue.

Non fate i furbi. La guerra si può fare da remoto, il G7 può essere una video conferenza, i rapporti diplomatici possono essere intessuti via web. Ma i popoli che avete tentato malamente di soggiogare con la violenza, la speculazione, la corruzione no. Quelli sono reali, non virtuali. Così come reali sono i cittadini, i lavoratori, le donne e i giovani in Italia e in Europa cui avete sottratto grandi porzioni di stato sociale per finanziare “l’import-export” della democrazia, una delle più rivoltanti panzane mai inventate dagli spin-doctor, in servizio permanente effettivo presso la Cia.

Non fate i furbi. Perché finalmente lo abbiamo chiaro: gli italiani e gli afghani hanno lo stesso maledetto problema. Per loro e per noi il problema siete voi.

“Per anni avete osteggiato, vilipeso e perseguitato le Ong, con la stessa logica fascistoide che pretende il disprezzo contro i voltati e gli aiuti umanitari, e oggi le strumentalizzate goffamente per tacitare l’indignazione dell’opinione pubblica.”
Share
Categorie
Attualità

Gli spettri che si agitano nella pubblicità italiana.

“La creatività è il fantasma del palcoscenico della comunicazione italiana.”

Due figure retoriche sono insistentemente utilizzate nella comunicazione commerciale di questi mesi: l’italianità e la sostenibilità.

La prima è una forzatura del tutto spompata dalla realtà dei fatti. Ogni giorno la stampa denuncia l’inconsistenza fattuale dell’asserita italianità di molti prodotti in commercio, perché nel mercato globale la circolazione delle merci non viene regolata dalla nazionalità, quanto piuttosto dalla catena del valore: se di una materia prima, ma anche seconda, è più conveniente l’importazione, la logica del profitto vieta che si acquisti nello stesso paese in cui si produce la merce finale. A volte se ne deve occupare la Magistratura, che impone rettifiche sulle etichette.

E, infatti, abbiamo avuto notizia di noti consorzi di tipici prodotti italiani e famose marche casearie che acquistano, per esempio, il latte da paesi che hanno costi e disciplinari più laschi dei nostri. Lo stesso vale per il grano con cui in Italia si produce la pasta. E vale per l’olio d’oliva, il pomodoro, la frutta. E quando l’azienda che la confeziona è italiana, ma si avvale dello sfruttamento schiavistico di manodopera straniera per la mungiture o la raccolta stagionale, ci sarebbe poco da andare fieri dell’italianità di quei prodotti. 

“E quando l’azienda che la confeziona è italiana, ma si avvale dello sfruttamento schiavistico di manodopera straniera per la mungiture o la raccolta stagionale, ci sarebbe poco da andare fieri dell’italianità di quei prodotti.” 

La cosa vale anche per il ciclo dell’auto, che grazie alle delocalizzazioni, viene prodotto in altri paesi europei, perché il costo del lavoro, ma anche la tassazione, è più conveniente. 

Durante la pandemia, abbiamo poi scoperto, ad esempio, che la stragrande maggioranza delle attrezzature sanitarie le compriamo all’estero, che anche le mascherine, i guanti chirurgici, i camici, le siringhe provengono da aziende basate all’estero.

Ecco allora che l’italianità è un bluff che rischia seriamente di mancare di rispetto all’intelligenza dei consumatori, che portano a casa confezioni con il tricolore nel packaging, ma che dentro d’italiano hanno ben poco, e quando c’è, sarebbe più giusto proprio non acquistarli, per non contribuire alla catena dello sfruttamento bestiale. 

Ci sarebbe poi da aggiungere che questo modo un po’ sguaiato di strombazzare l’italianità di certi prodotti non fa per niente bene all’idea commerciale del “made in Italy”, che invece gode di un’ottima reputazione, in Italia e all’estero. 

Nel migliore dei casi, che il prodotto sia italiano, è un argomentazione comparativa, dunque difensiva rispetto alla concorrenza, rinunciataria al confronto con le reali esigenze del consumatore, che è sempre meglio prendere in considerazione e sviluppare in comunicazione.


“A volte se ne deve occupare la Magistratura, che impone rettifiche sulle etichette.”

Veniamo alla sostenibilità, il secondo spettro che s’aggira nelle campagne pubblicitarie sui social, in tv, sui quotidiani, on line e di carta. 

Tariq Fancy, ex dirigente del fondo americano BlackRock (blackrock.com) – il più grande fondo d’investimenti del mondo – in un’intervista rilasciata a valori.it ha detto: “Lavorare sugli investimenti sostenibili significa guardare in questo senso l’intero processo: tutti gli 8.700 miliardi di dollari di asset in gestione (di BlackRock, ndr). Significa inoltre creare prodotti specifici a basso impatto. Io ho lavorato sui due aspetti e posso dire, sinceramente, che in entrambi i casi non abbiamo creato alcun valore sociale misurabile.” 

E quando gli è stato chiesto il perché, ha risposto: “Vede, con i prodotti sostenibili le persone si sentono a posto con la coscienza, perché pensano che i loro capitali e risparmi siano investiti su cose che loro hanno a cuore. La realtà è che le aziende non fanno business green perché è utile per il Pianeta: lo fanno quando esso è utile per generare profitti sul breve termine. 

Tutti agiscono secondo precisi imperativi economici: il paradigma è sempre lo stesso. Esistono ancora numerosi business che non ci piacciono, ma che restano redditizi per molte aziende. È così per il lavoro da schiavi nella catena di approvvigionamento di una casa di moda ed è così per le emissioni di CO2 di un’industria.” 

Se dalla grande finanza, atterriamo nella realtà del modo di produrre delle società di servizi o di prodotti con i quali abbiamo frequenti contatti, perché è da loro che acquistiamo i servizi e i prodotti di tutti i giorni, non possiamo non prendere atto che il problema è esattamente lo stesso. 

E allora, perché nascondersi dietro la parola “sostenibilità” che allo stato non è un fatto, ma solo un’intenzione, di là da venire, cioè che potrà succedere solo quando sarà più profittevole del vecchio modo di produrre?

“L’energia elettrica è nella maggior parte dei casi ancora prodotta grazie ai combustibili fossili.”

Prendiamo il mito dell’auto elettrica come totem della green economy. L’energia elettrica è nella maggior parte dei casi ancora prodotta grazie ai combustibili fossili. Senza contare che il litio delle batterie da ricaricare presenta problematiche ambientali. Su modo.volkswagen.it si può leggere: “Le inchieste sull’estrazione del litio nelle saline sono all’ordine del giorno. In alcune aree gli abitanti lamentano un aumento della siccità, che mette a dura prova gli allevamenti di bestiame o fa seccare la vegetazione. Per gli esperti non è ancora chiaro se la siccità prolungata sia effettivamente collegata, e in quale misura, all’estrazione di litio.”

Dunque, la grande casa automobilistica tedesca non nega le problematiche all’estrazione litio, che danno vita a proteste dei contadini e degli allevatori in Australia e in America Latina. Tanto che leggiamo: “Il Gruppo Volkswagen, BASF, Daimler e Fairphone tengono in grande considerazione le proprie responsabilità lungo l’intera catena di approvvigionamento, inclusa la due diligence per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani durante l’estrazione e la produzione delle materie prime. La “Responsible Lithium Partnership” vuole promuovere lo sviluppo sostenibile, ridurre i potenziali impatti negativi e rafforzare la tutela dei diritti umani.” 

“Dunque, la grande casa automobilistica tedesca non nega le problematiche all’estrazione litio, che danno vita a proteste dei contadini e degli allevatori in Australia e in America Latina.”

Se cercavate un esempio di greenwashing,  neologismo anglofono col quale si definisce l’ambientalismo di facciata, eccolo servito, bell’è pronto per l’uso.

Il fatto è che, come ci spiega Tariq Fancy: “Il sistema capitalista è basato sul risultato di breve termine. I manager sono obbligati legalmente a cercare di massimizzare i ritorni sugli investimenti. E finché non interverranno i governi con regole stringenti, non potrà cambiare nulla.”

D’altra parte, una tipica batteria agli ioni di litio è in grado di generare circa 3 Volt per cella, contro i 2,1 Volt della batteria al piombo o gli 1,5 Volt per celle zinco-carbone. Costa meno, scalda meno, ha più potenza, dura di più. Dal che si possono facilmente intuire i benefici effetti economici per gli azionisti, che però sono sempre destinati a prevalere sull’ambiente e sui i suoi abitanti. 

Se la transizione ecologica trova ostacoli per esempio con le batterie al litio che verranno utilizzate sempre di più, un altro componente fondamentale sia della transizione ecologica che digitale è fortemente critico.

“Prendiamo il mito dell’auto elettrica come totem della green economy.”

Se state leggendo queste righe vuol dire che siete in possesso di un pc, di uno smartphone o di un tablet. Gli apparecchi digitali sono la prova tangibile dell’innovazione, di un futuro promettente e, soprattutto, alla portata di tutti. 

Per funzionare gli apparecchi digitali hanno bisogno del Coltan. Il coltan serve ad ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione, portando un notevole risparmio energetico e a ottimizzare, quindi, la durata della batteria. 

Bello, no? 

“Ecco allora che in Congo le milizie controllano i giacimenti e utilizzano manodopera minorile.” 

Oltre tutto, l’estrazione del coltan, poi, non è granché difficoltosa, se non fosse per alcuni dettagli, chiamiamoli così, non proprio innovativi: bisogna avere il controllo militare del territorio e il possesso dei corpi di chi lavora nelle miniere di Coltan. Ecco allora che in Congo le milizie controllano i giacimenti e utilizzano manodopera minorile. Un rapporto di “Medici senza frontiere” spiega che molti di questi ‘schiavi’ muoiono di fatica e di diverse malattie che questo minerale può portare: compromissione di cuore, vasi sanguigni, cervello e cute; riduzione della produzione di cellule ematiche e danneggiamento dell’apparato digerente; aumento dei rischi del cancro; difetti genetici nella prole; malattie dell’apparato linfatico. 

“Questi schiavi bambini sono molto simili ai “carusi”, quei ragazzini che all’inizio dello scorso secolo venivano “utilizzati” nelle miniere di zolfo, nella Sicilia profonda.”  

Questi schiavi bambini sono molto simili ai “carusi”, quei ragazzini che all’inizio dello scorso secolo venivano “utilizzati” nelle miniere di zolfo, nella Sicilia profonda. 

La domanda è: tutto questo è davvero “sostenibile”?

Senza contare che i consumatori sono a tutti gli effetti cittadini, per tanto le persone avrebbero il diritto di essere considerate parte integrante dell’ambiente naturale e sociale in cui vivono, e quindi non subire l’inquinamento mentale prodotto da sotterfugi propagandistici. Insomma, la comunicazione dovrebbe essere sostenibile. 

Infatti, “finché non intervengono i governi con regole stringenti”, come dice  Tariq Fancy,  la sostenibilità è ancora un dibattito sociale, economico e politico che stimola la ricerca di un modello di sviluppo compatibile con la creazione del valore, la difesa dell’ambiente, la tutela della democrazia e quindi dei diritti delle persone.

Quando se ne parla in pubblicità è forte il rischio di semplificazioni sbagliate. E ancora una volta si sfida, in modo sleale, l’intelligenza dei clienti delle aziende, dei consumatori di prodotti e servizi, vantando una sostenibilità che in effetti non c’è ancora. 

Emanuele Pirella (1940-2010).

Bisognerebbe che si fosse meno pigri e dunque meno conformisti. Ci sono altri argomenti che possono sostenere il successo dei brand e la qualità dei loro prodotti e servizi, senza scomodare gli spettri di argomentazioni poco convincenti in partenza. Bisogna essere onesti e coraggiosi. Cioè, creativi. 

La creatività è il fantasma del palcoscenico della comunicazione italiana.

Roberto Calasso (1941-2021), nel suo “Bobi” (Adelphi) ci ricorda che a volte:“[…] Occorreva partire da zero. E subito scartare la qualifica di intellettuale, parola che, secondo Jules Renard, ha senso solo come aggettivo”.

Qui, dunque, mi permetterei un suggerimento sul senso delle parole: evitiamo sempre di rendere “italianità” e “sostenibilità” anche come aggettivi. E proporrei un procedimento: proviamo a parlare, per esempio, di sostenibilità, senza nominarla e capiremo se gli argomenti reggerebbero, senza doversi aggrappare alla ciambella di una figura retorica che altrimenti affogherebbe nella banalità del nulla. Vale a dire: parlare di fatti è meglio di enunciare intenzioni. Che, se ci pensate bene, è il talento dei bugiardi. 

Anche e soprattutto in pubblicità, terreno sul quale vale la regola che ci ricordava Emanuele Pirella (1940-2010): “La pubblicità deve dire la verità, solo la verità, tutt’altro che la verità”. Che è un altro modo per dire: mai mentire senza pudore, ritegno, rispetto per il lettore, l’ascoltatore, lo spettatore. Che è la differenza tra la propaganda e la comunicazione.

Share
Categorie
Attualità

La rammendatrice del territorio.

Una conversazione con Patrizia Nicolini, sindaco di Sacrofano che si batte perché il suo Comune sia davvero un bene comune.

Sacrofano è un paese della Città Metropolitana di Roma. È il primo a nord di Roma Nord. È uno dei comuni che insistono nell’area compresa nel Parco di Veio che, con quasi 15 mila ettari, è una cintura verde che produce effetti mitiganti sul clima, ricca biodiversità e, nonostante gli assalti dell’urbanizzazione, continua ad avere un elevato e riconosciuto valore paesaggistico. Una risorsa, un volano straordinario di cultura ambientalista, di sapere biologico, una miniera di biodiversità, una risorsa per la green economy, ma anche di turismo consapevole, che potrebbe trovare posto nei processi di “transizione ecologica”, e dare impulso all’economia circolare di Sacrofano e dei comuni limitrofi. A Sacrofano c’è la sede dell’Ente che gestisce il Parco.

Ci sono due modi per arrivare a Sacrofano da Roma. Il primo è percorre la via Flaminia per 8 chilometri, fino al bivio con la Sacrofanese-Cassia. Lungo questa strada, che porta fino in paese, si attraversa Monte Caminetto, che è la frazione in cui vivono poco meno della metà dei cittadini del Comune. 

Il secondo modo per arrivare a Sacrofano è uscire dalla Flaminia verso Prima Porta e percorrere via di Valle Muricana, che corre quasi parallela alla Flaminia. In questo caso, sempre dopo 8 chilometri, si costeggia Borgo Pineto, frazione  dove risiedono molti dei cittadini del Comune. Insomma, gli 8300 cittadini del Comune di Sacrofano vivono in un contesto urbanistico sicuramente immerso nel verde, che tuttavia non favorisce la coesione sociale.

A Patrizia Nicolini, che guida la Giunta del Comune di Sacrofano chiedo: 

Qual è la composizione sociale del Comune?

I cittadini che qui sono nati e cresciuti da generazioni sono ormai poco meno di un terzo della popolazione. La maggior parte, sono venuti soprattutto da Roma. Ma verso Roma continuano a recarsi per lavoro, con quella forma di pendolarismo molto comune nella Città Metropolitana.

Quali sono i motivi di queste migrazioni in provincia?

Il ceto medio, indebolito dal susseguirsi delle cicliche crisi economiche, ha cercato di difendere il proprio tenore di vita spostandosi dove la vita costasse di meno.

La conseguenza è stata la svendita di terreni agricoli per trasformarli in aree edificabili, col risultato di incrementare il consumo del suolo da un lato e l’impoverimento degli investimenti in agricoltura, dall’altro.

Questi fenomeni sono stati molto frequenti quasi ovunque nelle province delle grandi città. Non poteva che essere così anche in provincia di Roma. 

Questo potrebbe voler dire che i nuovi arrivati non sentono questo territorio come luogo che appartenga loro.

In effetti, se prendiamo per esempio Monte Caminetto, dove vivono la maggior parte dei cittadini, essi hanno un rapporto col Comune solo per via di adempimenti burocratici, per il resto la loro vita si svolge durante l’arco della giornata a Roma, vicino ai luoghi in cui lavorano fanno la spesa, lo shopping, vanno al bar o al cinema. 

Non socializzano con il resto del territorio?

Non è mai corretto generalizzare, tuttavia credo che nella maggior parte dei casi ognuno socializzi con la propria cerchia di amici, famigliari o conoscenti, che durante il fine settimana invita a casa. Sono belle case con giardino, lontano dal caos urbano di Roma.

Ma lontano anche dal territorio del Comune di Sacrofano.

Sì, questo è uno dei nostri problemi. 

E Borgo Pineto?

Anche loro a volte si sentono distanti. Magari più per gioco che sul serio, hanno fantasie “secessioniste”. Ma comunque, sia gli uni che gli altri esprimono, a loro, modo, un’esigenza che stiamo affrontando, che si riassume in una domanda che ci facciamo spesso: qual è il modo migliore per favorire la coesione sociale dei cittadini di questo Comune? Perché in definitiva è questo il nostro compito come amministratori.

Qual è il vero problema?

La tendenza a chiudersi. E quindi a generare diffidenze, che ostacolano una sana circolazione d’idee per affrontare senza reticenze problemi, esigenze, desideri. Senza dialogo non c’è un discorso pubblico condiviso. Ma non c’è neppure disponibilità a impegnarsi perché le cose migliorino. La mia Giunta sente forte compito di rimuovere questi ostacoli.

Ai “nuovi arrivati” da Roma, si aggiunge una robusta presenza di cittadini stranieri. Su una popolazione di 8.300 abitanti, oltre 120 cittadini provenienti da paesi della Ue e circa 300 da paesi extraeuropei o comunque non ancora entrati a pieno titolo nella Ue, sono una percentuale di tutto rispetto, si aggira a poco meno del 20 per cento.

La rilevanza di queste presenze sul territorio si può misurare tra gli alunni delle nostre scuole. Le loro iscrizioni hanno mantenuto alta la popolazione scolastica e di conseguenza il personale insegnante e non insegnante. C’è anche da dire che molti di questi cittadini sono dediti alla manutenzione delle ville che costeggiano le due arterie che portano in paese. Sono giardinieri, idraulici, elettricisti, muratori che vengono ingaggiati dai residenti per piccoli lavori. Le case di campagna sono belle, ma richiedono sempre molta cura.

Torniamo alla questione della coesione sociale. In altre occasioni, ho avuto modo di ricordare la teoria del rammendo della città esposta da Renzo Piano. Traslando dall’architettura urbana al contesto sociale, pur facendo i conti con l’urbanistica che ha seguito percorsi non sempre previsti né regolamentati, qual è la chiave che può aprire una prospettiva di coesione in questo comune?

Intanto vorrei dire cos’è per me la coesione sociale. È la capacità di mettere in rete le migliori energie: noi non abbiamo insediamenti produttivi che possano far da traino a un aumento del benessere economico del territorio. E poi c’è l’annosa questione della penuria di risorse finanziarie destinate ai Comuni italiani, che mette in grande difficoltà i servizi ai cittadini. Tuttavia vanno messe insieme le migliori qualità possibili per rendere attrattivo il nostro Comune e fare sistema per stimolare le migliori energie che i cittadini possono mettere in gioco a favore della comunità in cui vivono. 

Quali sono queste risorse che le energie dei cittadini possono rendere profittevoli?

La prima è che ognuno deve sentirsi il portatore sano di una buona reputazione.  Il passato rimanga al suo posto, che è appunto il passato. D’altronde, qui non si vive male. Ma bisogna che tutti contribuiscano a vivere bene. Il presente va sostenuto: qui ci sono ancora buoni prodotti della terra che vengono commercializzati sia dai piccoli negozi che dalla Gdo. Ci sono orti, uliveti, si alleva bestiame, ci sono maneggi e scuderie. Non si registrano livelli nocivi di inquinamento. Non si registrano pericoli. Anche la pandemia qui è stata affrontata con serena disciplina e in più di un’occasione con spontanea solidarietà. Faccio notare, per esempio, che il territorio è cablato e in molte aree ormai c’è la fibra ottica. Un’ottima notizia non solo per chi voglia svolgere da qui un’attività in “smart working”, ma anche per chi svolge attività intellettuali, professioni artistiche. Il terreno, dunque, è fertile non solo per la coltivazione, ma anche per fare impresa legata alla produzione del biologico, dell’accoglienza alberghiera, della ristorazione di qualità, dell’artigianato, degli sport all’aria aperta. Mi piacerebbe, per esempio, che un giorno tutti coloro che coltivano ulivi si consorziassero per produrre un olio autoctono. 

Lei ripone molta fiducia nei cittadini. 

Ricambio quella che hanno avuto in me e nella Giunta che guido. Ma per il ruolo che rappresento – e per il mio modo di vedere l’impegno pubblico – sento il dovere di avere più fiducia io in loro di quanto loro ne debbano avere in me. D’altronde, la fiducia nel governo della cosa pubblica è stata l’obiettivo contro cui si sono rivolti i cannoneggiamenti della propaganda secondo cui “privato” sempre è meglio di “pubblico”. Una superstizione dura da confutare.

Quale leva può davvero far progredire Sacrofano?

È la cultura. In settembre inauguriamo la biblioteca comunale, nella piazza centrale di Sacrofano. È un evento importante, ma soprattutto l’avvio di un processo irreversibile di coesione sociale.  In questi mesi abbiamo portato libri in giro per i vari luoghi del nostro comune, grazie alla collaborazione di una associazione che diffonde la lettura attraverso la distribuzione gratuita di libri di tutti i generi letterari.  È stata una specie di “campagna di promozione” diffusa sul territorio propedeutica alla prossima apertura della biblioteca comunale. 

I lavori di riuso di una struttura preesistente trasformata nella biblioteca comunale.

Una biblioteca comunale al centro del paese. Sembra un miraggio.

Invece è un fatto concreto. Abbiamo vinto un bando regionale, grazie al quale abbiamo riqualificato una costruzione preesistente, e di conseguenza riqualificato una piazza, il centro del paese, perché la biblioteca sia la biblioteca di tutto il territorio comunale, di Monte Caminetto, e di Borgo Pineto, e dell’Antico Borgo Medievale, e di Sacrofano paese e di tutte le zone e di tutti i cittadini, anche dei comuni vicini. La biblioteca dovrà presto diventare un motore della coesione, della creatività, capace di stimolare idee e buone pratiche. Grazie alla biblioteca, Sacrofano deve diventare presto un paese per giovani, della loro forza innovatrice. Per me la cultura non è pura contemplazione passiva, ma fucina di nuove idee. Idee capaci di contaminare il desiderio di coesione, di diffondere consapevolezza, di spingere il senso della cittadinanza e dei suoi diritti, ma anche capace di stimolare nuove imprenditorialità.

Mi viene da pensare che bisognerebbe riscoprire l’origine dalla parola Comune. Che non è solo un erogatore di servizi, di cui comunque i cittadini hanno il sacrosanto diritto. 

Sì, il Comune è un’istituzione locale, ma ha un compito che supera i suoi confini territoriali: ogni cittadino è un mondo, al quale partecipare, nel quale tutti gli sforzi devono tendere al bene di ciascuno e di tutti. Il Comune deve essere un bene comune. 

L’idea di Comune è una prospettiva, una visione, uno stile di lavoro, una prassi comune, appunto. 

Una prassi comune, per fare sistema, per mettere in rete tutte le energie, per fare della coesione un fatto concreto, capace di rammendare il territorio. Il sapere è indispensabile, perché è il propellente dei cambiamenti. Il sapere è l’obiettivo della cultura, di cui i libri sono strumenti indispensabili e la nostra biblioteca dovrà diventare la cassetta degli attrezzi della coesione sociale.

I lavori interni alla struttura che ospiterà la biblioteca comunale. L’inaugurazione è prevista in settembre 2021.

Patrizia Nicolini è una donna piena di energie e passione per il ruolo che svolge. Che non è un compito facile: fare il Sindaco è la più difficile delle carriere pubbliche nel nostro Paese. Ma questa miscela tra pragmatismo e visione prospettica è molto interessante. E promettente, una bella sfida contro la rassegnazione, la sfiducia, il conformismo.

Con Patrizia Nicolini, si conclude la ”trilogia della coesione”, iniziata con una conversazione con Giulia Fossà, impegnata in “Capalbio Estate”, che trovate sotto il titolo “Una maremma anomala”; e proseguita con Carmela Lalli, Assessora alla Cultura del IX Municipio di Roma, che trovate intitolata “L’archeologa della cultura”, tutte già qui pubblicate. 

La “trilogia della coesione” è stata pubblicata su grandimagazziniculturali.it

Per me è stato un viaggio con chi sta facendo cose utili per le rispettive comunità. Con competenze diverse, e specifiche sensibilità, ma con lo stesso spirito e la stessa determinazione di chi vuole imporre alla realtà un altro ritmo, promuovere altre cose da fare. Fossà, Lalli e Nicolini sono donne. Capaci, risolute, caparbie.  Il cui impegno, le cui teorie e le rispettive pratiche dovevano essere raccontati.

Share
Categorie
Attualità

Addio a Stefano De Filippi.

Addio a Stefano De Filippi, Art director.
Un pensiero dolce per Rebecca, sua figlia. E per Flavia, la madre di sua figlia.

Share
Categorie
Attualità

A Roma c’è un’archeologa della cultura.

Può la cultura rammendare le lacerazioni del tessuto sociale? 

Una conversazione con Carmela Lalli del IX Municipio di Roma.

Carmela Lalli, archeologa tardoantica e medievale, è assessore alla Cultura del IX Municipio del Comune di Roma. La capitale è suddivisa in quindici municipi, il IX comprende una popolazione di oltre 183mila abitanti. Più di Rieti, Viterbo, Frosinone messe insieme, quasi un terzo in più del solo comune di Latina, tanto per rimanere nei confini della regione Lazio.  Con oltre mille abitanti per chilometro quadrato, il IX Municipio comprende quattro quartieri, dieci zone e sei frazioni. 

Assessore Lalli, come si fa a pianificare una coerente ed efficace politica culturale in un territorio così esteso e frastagliato da differenze urbanistiche, nonché socioculturali?

Bella domanda. È la sfida cui sono stata chiamata a raccogliere tre anni e mezzo fa, quando mi hanno offerto l’Assessorato dedicato alla scuola e alla cultura. 

Forse ci voleva proprio un’archeologa per scavare tra mille problemi e difficoltà e rinvenire preziose soluzioni.

È una metafora divertente, tuttavia non così lontana dalla realtà. Risalire all’origine di molti problemi e tentare di dare una soluzione è il mio pane quotidiano, ormai.

In tutto questo vasto territorio, ci sono solo due multisala, due biblioteche comunali, alcuni musei all’EUR, scuole medie e superiori, non in tutti i quartieri del municipio.

Diciamo che questi sono alcuni degli strumenti che, se messi in rete, possono essere un’infrastruttura culturale importante. Certo è altrettanto importante che un sentimento di coesione sociale faccia dialogare tra loro i comitati di quartiere e le associazioni culturali con le biblioteche e le scuole, in modo che emergano energie capaci di dare gambe non solo a eventi, ma a vere e proprie buone pratiche di diffusione capillare di esperienze culturali. L’obiettivo è portare cultura dove non c’è, in modo da arricchire la qualità della vita dei cittadini ovunque essi vivano. 

In compenso nel municipio ci sono tre grandi centri commerciali più un famoso outlet. La Grande distribuzione fornisce più aggregazione della cultura?

È una tendenza che attraversa tutte le grandi città, non solo italiane. 

Fa un po’ impressione il successo di questi “non luoghi” in una città come Roma, un luogo pieno di storia, di verde, di bello. 

Tutti gli amministratori pubblici, che abbiano chiaro il loro ruolo di facilitatori del buon vivere dei cittadini, sanno che il tempo libero dal lavoro esclusivamente dedicato agli acquisti non è un modello sano. D’altronde la pandemia, che ha costretto a chiudere per un certo lasso di tempo i centri commerciali, ha messo in luce che il consumo non può essere un elemento così determinante, direi totalizzante, della vita dei singoli. 

Il fatto è che, a mio giudizio, la cultura crea socialità. Anche quando uno si isola per leggere un libro, in realtà entra in contatto con un argomento, una storia che lo collega alla collettività. L’acquisto, al contrario, è un atto peculiare, cercare un buon affare è di per sé un gesto individualista, quel volerlo a tutti i costi solo per sé costringe all’egoismo, e poi all’esibizione, a quel “io ce l’ho prima di te”  se non addirittura “io me lo posso permettere e tu no”, che crea una competizione che si basa non sulle capacità umane, ma sulla elementare capacità di spesa, che divide le persone per censo e quindi nega loro di fatto la cittadinanza, attraverso l’uguaglianza, che è uno dei cardini del patto sociale sancito della Costituzione della Repubblica.

Temo abbia ragione. Spesso l’esibizionismo della merce è un fattore che scatena episodi di bullismo nelle nostre scuole. Quando la competizione del sapere diventa invece quella dell’avere si incrina la stessa funzione sociale dell’istruzione pubblica.

Parlando di urbanistica, Renzo Piano, anni fa, ha usato la metafora del rammendo e della rigenerazione urbana delle periferie.  

Mi piace questo paragone, l’idea del rammendo del tessuto sociale è quasi un’allegoria del nostro lavoro. Rammendare la coesione sociale attraverso l’ago della cultura, per ricucire gli strappi subiti dai diritti dei cittadini, per rigenerare la loro qualità della vita, per rendere non solo vivibile il loro abitare nel quartiere, ma anche godibile la loro socialità. Ecco quello che dovremmo impegnarci a fare nel concreto.

Per esempio?

Recentemente abbiamo varato un progetto che abbiamo intitolato “Vitamine per le menti”. Con una serie d’iniziative, incontri, dibattiti e presentazioni, vogliamo far dialogare la scuola e gli studenti con la società civile e la società civile con la scuola, coinvolgendo le biblioteche comunali, – che a Roma sono veri e propri avamposti di cultura sui territori-, i musei, le associazioni culturali, le onlus.

Come?

Sul modello di “Dedicato alle donne” che abbiamo lanciato lo scorso mese di marzo in partnership con Nove Onlus. In piena pandemia, abbiamo avviato -per tutto il mese- webinar, per un totale di 24 appuntamenti, che hanno coinvolto donne e uomini della cultura, del cinema, del teatro, della musica, delle professioni e delle istituzioni che, a partire dallo specifico della condizione della donna nella nostra società, hanno raggiunto tematiche geopolitiche, scientifiche, filosofiche, dal diritto alla stessa funzione della democrazia come luogo in cui si confrontano le contraddizioni sociali. 

Avete registrato un riscontro positivo?

Un bilancio più che positivo, direi. “Dedicato alle donne”si svolgeva la mattina, e vi hanno partecipato gli studenti delle scuole del IX Municipio che erano in “Dad”, didattica a distanza. Nel pomeriggio, si svolgevano incontri con esperti e cittadini. Sono stati appuntamenti molto seguiti. Ricordo con emozione il confronto tra gli studenti italiani e le studentesse afghane, via web in diretta da Kabul, grazie alla collaborazione di Nove, onlus italiana che opera in Afghanistan. C’è stata una grande attenzione da parte delle ragazze e dei ragazzi romani e un loro coinvolgimento straordinario. È stato il miglior viatico possibile per disegnare e varare il progetto “Vitamine per le menti”. Nel quale verrà ancora coinvolta Nove, accanto ad altre onlus, alle associazioni culturali, ai comitati di quartiere e a istituzioni culturali pubbliche. Mi sembra un nuovo modello d’intervento che possa dare risultati promettenti.

Che progetti avete in atto quest’estate?

Grazie alla fattiva collaborazione con alcuni dirigenti scolastici, abbiamo aperto le scuole al territorio. Per tutta l’estate, in ottemperanza alle norme anti-Covid, le scuole rimarranno aperte e i cittadini potranno usufruire degli spazi per praticare sport e attività fisica. Abbiano stipulato convenzioni con associazioni sportive che forniranno corsi a prezzi accessibili a tutti. 

Il sogno di Tullio De Mauro, che immaginava le scuole aperte la mattina per gli studenti e il pomeriggio e la sera per gli adulti che abitavano nei dintorni, in modo che la scuola continuasse a fornire a tempo pieno la sua funzione di emancipazione culturale e coesione sociale. Quale sarebbe il sogno dell’Assessore da realizzare  durante il mandato?

Approfitto per dirlo a tutti. Tra i quartieri di Roma che fanno parte del IX Municipio c’è Trigoria. Come i romani sanno, a Trigoria si allena la Roma, una delle due squadre di calcio della capitale. Mi piacerebbe che la società sportiva creasse insieme a noi le condizioni per la diffusione dell’attività fisica e sportiva sul territorio, a disposizione dei cittadini di ogni età. 

Una specie di “responsabilità sociale” della Roma verso le cittadine e i cittadini che condividono lo stesso territorio.  Sono a disposizione dei dirigenti della Roma, se vogliono condividere questo sogno e farlo diventare un progetto concreto.

 È una bella idea. Spero si riesca a fare gol.

Secondo me sarebbero loro a far un bel gol a tutto vantaggio della collettività, oltre il perimetro dei fans dei loro giocatori e della passione dei loro tifosi. 

Non c’è dubbio che anche lo sport abbia bisogno di cimentarsi con la crescita culturale, il calcio soprattutto.  D’altra parte, mettere in rete tutte le risorse disponibili al rammendo del tessuto sociale e alla rigenerazione di una buona vita collettiva sembra un progetto ambizioso. Ma le premesse ci sono. Spesso ci lamentiamo della mediocrità della classe dirigente di questo paese e della povertà di idee e di spirito di iniziativa degli amministratori pubblici. Non è il caso di Carmela Lalli, archeologa della cultura in uno dei più popolosi municipi della Capitale.  

Share
Categorie
Attualità

L’anomalia Capalbio.

[pubblicato su grandimagazziniculturali.it]

Giulia Fossà è un’attrice, una giornalista, una ricercata insegnante di Pilates. Per il secondo anno consecutivo è impegnata negli eventi culturali di Capalbio Estate. Le chiedo subito:

Ma dov’è finito tutto quel glamour che incombeva su Capalbio?
Semai ci fosse stato, credo sia finito con la pandemia.

Non c’è mai stato?
Non nel senso che mi pare di intuire dalla tua domanda. È stato molto costruito dalle paparazzate che hanno alimentato un certo modo di fare giornalismo.

Beh, però Capalbio d’estate era sempre piena di facce note.
Guarda, Capalbio e il suo territorio sono popolati da persone e storie diverse. Innanzitutto ci sono gli abitanti, dediti all’agricoltura e alla vinificazione. E anche all’allevamento del pesce. Come pure alle esperienze di creatività artigianale legate alla pratica del riuso. Poi ci sono allevatori, soprattutto di cavalli. Ci sono gli eredi di casati nobiliari, che qui hanno sempre avuto terreni e casali. Cui aggiungere persone che, come me, hanno qui una seconda casa, e vengono durante i fine settimana di tutto l’anno. Nei mesi estivi, soprattutto luglio e agosto, ecco l’arrivo di vacanzieri, che sono accolti sulle spiagge e nei bar e ristoranti. Dunque, una composizione eterogenea, che non può essere semplicemente descritta con lo stereotipo del VIP.

A qualcuno, tuttavia, ha fatto comodo questa semplificazione, come la definisci tu.
Né più né meno che in qualsiasi luogo di vacanza, di albergo o ristorante del mondo. Le foto tra calciatori, attori, cantanti e i gestori dei locali sono incorniciate e affisse nei ristoranti in ogni dove.

Rimane il fatto che da un paio d’anni invece che party e feste esclusive, Capalbio fa parlare di sé per eventi culturali.
È vero e se fosse davvero così sarebbe un bene, per tutti.

In che senso?
Sulla spinta delle difficoltà di movimento sancito dal lockdown, che hanno ostacolato gli spostamenti verso Capalbio dalle altre regioni, impedendo di fatto di frequentare la propria seconda casa, cui aggiungere lo stop all’accoglienza turistica e il turismo in generale, la pandemia ha fatto soffrire questi territori. L’idea di promuovere eventi culturali mi è sembrata una felice intuizione. Non solo risponde alla necessità di ripresa delle attività economiche, ma se ben valorizzata e sostenuta, Capalbio Estate può diventare un nuovo modo di vivere il rapporto con queste terre. Direi un modo circolare: dalla reputazione alle capacità, dalle capacità alle buone pratiche, dalle buone pratiche ai buoni risultati economici.

Che cos’è Capalbio Estate?
Quest’anno è la seconda edizione di un cartellone di eventi culturali, diffusi sul territorio, che mette insieme musica, cinema, letteratura, arte, performance artistiche e anche il teatro delle marionette. Sono ancora i primi passi della Fondazione Capalbio che organizza e gestisce questi eventi, ma mi pare la direzione sia quella giusta.

Come sei stata coinvolta?
Lo scorso anno mi è stato chiesto di presentare alcune serate. Ricordo con piacere quella dedicata a Dante, ma anche quella in cui si è presentata l’opera di Raffaello.

In qualche casale?
No, in piazza, all’aperto. Qui è il bello. Tutti insieme – col rispetto delle normative anti-Covid – c’erano persone provenienti dalle diverse componenti sociali che, come dicevo all’inizio, fanno parte della variegata comunità di questi territori. Quelli che qui producono, quelli che qui lavorano, quelli che vivono stabilmente e quelli che hanno la seconda casa e poi i villeggianti, che qui vengono a fare il bagno, le passeggiate nel verde, che assaggiano la cucina locale.

Quest’anno la Maremma è anomala. Una conversazione con Giulia Fossà

In uno dei tuoi interventi, quest’anno hai detto: ”La coesione sociale è ciò che ci tiene insieme e allo stesso tempo ci stimola a pensare, creare, a guardare avanti e lontano. C’è una parola che mette insieme tutto questo: si chiama cultura.” Un bel modo di vedere le cose.
Grazie. Ma credo sia lo spirito col quale la Fondazione abbia dato vita a questa esperienza, uno spirito al quale aderisco con convinzione. Credo possa contribuire a cambiare il senso della vacanza, non più tempo consumato nel non voler pensare a niente, ma tempo pieno di stimoli e curiosità, tempo da riempire con l’armonia dei luoghi, dei sapori e dei suoni, dello stare insieme, per condividere il bello, oltre che il buono.

Qual è il tuo prossimo impegno a Capalbio Estate?
Il prossimo 11 luglio, a Borgo Carige, frazione di Capalbio, introduco un bel concerto di arie celebri, con i giovani artisti dello “Young Artist Program” del progetto “Fabbrica”, istituito dal Teatro dell’Opera di Roma. Si esibiranno giovani talenti, vincitori di una borsa di studio, e verranno proiettate immagini sulla facciata del sagrato della chiesa. L’idea mi è piaciuta subito.

Insomma, contaminazione culturale e coesione sociale, possono rilanciare il nostro paese, a partire da esperienze come questa cui partecipi?
Perché no? Accanto alle transizioni ecologica e digitale, forse abbiamo bisogno di una robusta transizione culturale. “La cultura è conoscere i fatti, l’intelligenza è comprenderli, saperli interpretare, capirne la portata, il significato e chiaramente imparare la lezione che alcuni eventi ci insegnano” ha scritto Antonio. Gramsci. Che aggiungeva: “L’intelligenza si nutre di cultura, e le due cose combinate rendono possibile il discernere fra verità, bugie verosimili e bugie.”

Sembra scritto oggi.
Infatti. Ma queste sono le parole così attuali che lasciano senza fiato: “La cultura deve insegnare che ogni azione porta con sé una conseguenza e l’intelligenza deve capire in tempo quale sarà, se intraprendere o meno quella data azione e eventualmente prendere le contromisure. La differenza fra cultura e intelligenza è la medesima che c’è fra imparare e capire. La cultura è solidarietà, è tutela dell’ambiente, la cultura è pace.

Tutto questo è possibile a Capalbio?
Se non cominciamo a farlo, non lo sapremo mai.

Anni fa, le cronache si sono occupate della cosiddetta “onda anomala”, che a una certa ora del primo pomeriggio invadeva le prime file di ombrelloni all’”Ultima spiaggia”, lo stabilimento balneare più famoso di Capalbio. Quest’anno sembrerebbe essere la cultura l’anomalia che inonda le vacanze in Maremma.

Share
Categorie
Attualità

Perché Grillo ha ragione.

beppegrillo.it

Se si legge con attenzione ciò che ha scritto Grillo sul suo blog, si scoprono due cose importanti, non solo per il M5s.

La prima è risaputa, anche se troppo spesso viene dimenticata: la fonte delle notizie è sempre più genuina delle interpretazioni che forzano la realtà per volersi sostituire alla verità.

La dimostrazione è che attualmente il dibattito politico, come si auto definisce il chiacchiericcio giornalistico è sull’interpretazione del significato di ciò che sostiene Grillo, e non sulla sostanza della posizione politica che ha assunto:

Il consenso è solo l’effetto delle vere cause, l’immagine che si proietta sullo specchio. E invece vanno affrontate le cause per risolvere l’effetto ossia i problemi politici (idee, progetti, visione) e i problemi organizzativi (merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente).”

Questa affermazione che Grillo ha affidato al suo blog è assolutamente condivisibile, perché corrisponde allo stato dell’arte del fare politica in Italia, e non riguarda solo la vita interna al Movimento 5 stelle, ma l’intero campo in cui sono schierate le forze politiche, dentro e fuori le istituzioni rappresentative. 

E infatti, Grillo aggiunge: “Le organizzazioni orizzontali come la nostra per risolvere i problemi non possono farlo delegando a una persona la soluzione perché non sarebbero in grado di interiorizzarla quella soluzione e di applicarla, ma deve essere avviato un processo opposto: fare in modo che la soluzione decisa, in modo condiviso, venga interiorizzata con una forte assunzione di responsabilità da parte di tutti e non di una sola persona. La trasformazione vera di un’ organizzazione come la nostra avviene solo così.” 

Ecco una considerazione, che richiama la seconda scoperta che si farebbe se si leggesse il suo pensiero alla fonte. Vale a dire che la delega ai dirigenti è un atteggiamento sbagliato, perché deresponsabilizza i singoli, li isola dal dibattito collettivo, e introduce il giudizio passivo per l’operato del capo, e così le energie delle idee si riducono ad assenso e dissenso verso i dirigenti, invece che essere la forza motrice che ne riceve linfa critica e produce iniziativa politica.

La storia dei movimenti, compreso quello operaio non solo in Italia, ha sempre avuto davanti  a sé il bivio: centralizzare la struttura o diffondere organizzazione tra i soggetti sociali coinvolti nel cambiamento dei rapporti di forza? 

Andando via via lungo la storia, il potere va ai soviet o al partito, che poi diventa Stato? Il centralismo può essere davvero democratico? Decidono i consigli di fabbrica o le segreterie confederali? Le idee si formano nelle assemblee studentesche o nelle riunioni dei dirigenti dei gruppi? Il movimento deve strutturarsi o diffondersi?

In altri termini: il partito è un fine (come pensa Conte) o uno strumento (come sostiene Grillo)? Ecco la questione che divide il M5s.

È una questione dirimente. E come tale va considerata. Tutto il resto appartiene a considerazioni strumentali sulla tenuta del governo, sull’alleanza col Pd, sulle prossime elezioni, sul semestre bianco, e via cianciando. 

La tesi secondo cui il nemico elettorale è alle porte e quindi non si deve stare a discutere ha sempre spianato la strada a scelte che, al contrario, hanno favorito l’involuzione del quadro politico e fin troppo spesso ridotto la stessa agibilità politica delle istanze che dal basso rivendicano giustizia sociale. 

La parabola del Pd è lì che lo testimonia e continua a dimostrarlo: è un partito che crede di affidare le proprie sorti al segretario di turno, che gestisce il traffico caotico delle correnti, che anestetizza le contraddizioni sociali in virtù del sacro totem della governabilità, invece che alle spinte che vengono dal basso per politiche inclusive, egualitarie, ridistributive, capaci di creare coesione sociale, giustizia sociale, diffusione dei diritti civili, sociali e politici, e un’idea della sviluppo che non sia di solo profitto per pochi e costi sociali insostenibili per la maggioranza delle persone. 

Grillo ha ragione. Il che non significa che ce la farà. Ma personalmente sarei davvero stufo che ce la facciano sempre quelli che  – per avere successo – dicono e fanno cose sbagliate. Il M5s ha fatto molte cose sbagliate. Questo dibattito interno potrebbe essere molto salutare, non solo per loro.

p.s.: ai finti tonti, o genuini ignoranti, ricordo che l’accusa di pratiche seicentesche, di cui Grillo ha fregiato il lavoro di Conte,  si riferisce all’Assolutismo, che dal 1660 al 1789 imperversò in Europa.

Ricorderei che il 1789 è la data della nascita della Rivoluzione francese, che, tra le altre cose, spazzò via proprio l’Assolutismo. Ogni riferimento è tutt’altro che casuale. 

Share
Categorie
Marketing

Zitto e compra.

Siamo diventati tutti prigionieri della catena del valore.

L’ultima trovata del telemarketing è farti telefonare non più da un essere umano, donna o uomo, che per pochi euro ti invade il telefono con offerte commerciali sempre più vantaggiose per chi le propone e non per chi le accetterebbe, come scopri solo dopo che incautamente le avresti accettate.

L’ultima trovata è che adesso ti chiama direttamente un nastro registrato che tenta di spararti nelle orecchie mirabolanti vantaggi.

Non bastava che ormai parlare con un essere umano per avere chiarimenti, o segnalare un disservizio è sempre più difficile, visto il proliferare di “assistenti virtuali”, che spesso hanno nomi che sembrano di pornostar, che ti dicono o scrivono quello per cui sono stati impostati, che è in realtà il modo più subdolo di dissuaderti dal rivendicare quel minimo di diritti cui ormai sono stati ricacciati i consumatori, considerati sudditi di grandi compagnie che non hanno tempo da perdere, dunque attenzioni da dedicarti.

Loro fanno tariffe, loro fatturano, loro sono irraggiungibili, intangibili. Il marketing da tecnica commerciale diventa regime autoritario, comando oligarchico.

Ed ecco che la grande maledizione del capitalismo moderno si realizza in pieno: prima hanno trattato male i dipendenti, oggi tocca a quelli che una volta erano venerati come “clienti”, per non perdere i quali i dipendenti hanno dovuto accettare ogni sorta di angherie.

Ormai prigionieri della catena del valore, oggi, finalmente, tu non sei più neppure un cliente, solo una carta di credito o un bollettino postale. Zitto e paga.

Share
Categorie
Attualità

Al via “Rotondi, librai dal 1941”.

La nuova campagna di re-branding della Libreria Rotondi di Roma, a cura di Marco Ferri

pubblicato da http://www.adcgroup.it/adv-express/creative-portfolio/

Uno degli annunci della campagna multi soggetto.

Il noto creativo, Riccardo Bizziccari (Art Director e graphic designer) e Leandro Casini (print producer), hanno creato, curato e sviluppato il progetto per nota libreria di Roma: dall’adv all’allestimento del pdv, dall’immagine coordinata all’insegna, dagli spazi esterni all’outdoor, dalla gestione dei social agli eventi, fino agli shopper e i segnalibro.

Il nuovo allestimento esterno,

Nata nel 1941, a libreria Rotondi di Roma compie ottant’anni. Oggi è guidata dalla terza generazione di librai, le cui attività di rebranding sono state curate da Marco Ferri.

“Una libreria di questi tempi è una specie di reliquia della cultura. Un libreria, poi, che ha resistito per 80 anni è una grande notizia, grande e carica di significati, come fosse una cattedrale della fede nella parola stampata”, dice Marco Ferri, che con Riccardo Bizziccari, Art Director e graphic designer, e Leandro Casini, print producer, hanno creato, curato e sviluppato il progetto: dall’adv all’allestimento del pdv, dall’immagine coordinata all’insegna, dall’allestimento degli spazi esterni all’outdoor, dalla gestione dei social agli eventi, fino agli shopper e i segnalibro.

Allestimento interno.

“Una volta c’erano pochi libri e molto lettori – dice Francesco Dante, uno dei titolari -,  oggi è il contrario, troppi libri, meno lettori. E un lettore va aiutato a districarsi nelle mangrovie del marketing editoriale, va ascoltato, consigliato”.

“La nostra formula – dichiara Barbara Dante, che con il cugino Francesco gestisce la terza generazione della Libreria Rotondi – è essere specializzati in volumi di pregio, ma non di antiquariato, anche se abbiamo volumi preziosi. Non siamo una libreria generalista, il negozio è organizzato per aree tematiche, con titoli importanti, spesso edizioni pregiate, fuori catalogo, che offriamo al pubblico in

Allestimento interno.

un ambiente caldo, intimo, confortevole, dove aleggia la sensazione del bello”.

La campagna ‘Rotondi, librai dal 1941’, multisoggetto e articolata nel lancio del nuovo logo, del marchio celebrativo degli 80 anni di attività, di una prossima promozione celebrativa e di una serie di eventi che si alterneranno fino alla fine dell’anno, è partita oggi sui social della Libreria.

http://www.adcgroup.it/adv-express/creative-portfolio/brand-identity/al-via-rotondi-librai-dal-1941-campagna-di-re-branding-della-libreria-rotondi-di-roma-a-cura-di-marco-ferri.html

http://www.libreriarotondi.it

Il nuovo logo.

Share
Categorie
Attualità

L’iniziazione del piccolo Cam.

Ripartono i festival dedicati al cinema. A Spello in Umbria è stato proiettato “La guerra di Cam” di Laura Muscardin. Il film uscì in pieno lockdown, e non potè, dunque, andare nelle sale. A febbraio del 2020 intervistai la regista, via Skype.

Laura Muscardin, sua sorella Anna, Flavia Mariani (per non parlar del cane) a Villa Pianciani, durante il Festival del Cinema Città di Spello.

Una conversazione di Marco Ferri sui temi di La guerra di Cam, con Laura Muscardin, regista, e Flavia Mariani, spettatrice ed esperta di comunicazione.

[pubblicato su grandimagazziniculturali.it]

La guerra di Cam è una favola contemporanea che racconta come un ragazzino sia riuscito a rompere il guscio dell’infanzia. L’impatto col mondo dei grandi è duro, faticoso, addirittura pericoloso. Il mondo di Cam è funestato dal disastro: il crollo della civiltà umana, le scorrerie di bande armate, villaggi abbandonati e carcasse di architettura incompiuta o abbandonata, la compravendita della salvezza per i superstiti, l’inganno e il tradimento come ostacoli alla sopravvivenza.  E la natura, lasciata a se stessa, che è tornata ostile e pericolosa per gli umani.

Ci sono diverse chiavi per interpretare il film e anche più di un tasto che si può toccare per accendere l’interesse sulla storia che viene raccontata. Vorrei provare a pigiarne qualcuno. Comincerei dall’atmosfera della narrazione.
Laura Muscardin: È stato detto che è un film distopico, termine che va di moda, ma che a me non piace. Non volevo fare fantascienza. È la storia di un bambino alle prese con una realtà ostile alla sua infanzia. Uscire dall’infanzia è fare i conti con il mondo degli adulti è sempre una lotta, a cominciare dal conflitto con se stessi.

Flavia Mariani: Questo è proprio il tema avvincente del film, in cui si capisce che il contesto “catastrofico” è un pretesto narrativo, ma che la vera trama è incentrata sulle “avventure” di un ragazzino alle prese con l’essere all’altezza del mondo dei grandi. In un mondo degli uomini che è in conflitto con il pianeta.

Tuttavia, non c’è dubbio che il contesto in cui si muovono i personaggi del film è, in prima battuta, apparentabile al filone catastrofico. A cominciare dai luoghi in cui si svolge la scena: archeologia industriale, villaggi abbandonati, opere pubbliche incompiute.
Laura Muscardin: In Italia, secondo un censimento, il 40% delle opere architettonica, sparse da nord a sud del paese, è in uno stato di abbandono e disfacimento, tra la natura che si riprende il suo spazio. D’altro canto, anche il cosiddetto dissesto idrogeologico, cioè la mancanza di cura ambientale, fa sì che spesso alcuni luoghi siano inospitali, per non dire non in sicurezza e dunque pericolosi.

L’uso cinematografico di questi luoghi dell’abbandono architettonico, tuttavia, sembra una sorta di economia circolare: dal momento che l’opera abbandonata diventa protagonista di un’opera creativa, ecco che rinasce nel suo riuso.
Laura Muscardin: In effetti, è così. Senza contare che le prime inquadrature del film si svolgono nel cretto di Burri, là dove, appunto, Alberto Burri creò questa famosa opera di “land art”, realizzata nel luogo in cui sorgeva la città di Gibellina, completamente distrutta dal terremoto del Belice del 1968. Ecco che le opere pubbliche, e soprattutto quelle artistiche, danno memoria ai luoghi.

Flavia Mariani: Quelle scene sono molto suggestive, fanno venire voglia di andare a vedere il cretto di Burri di persona, di venire abbacinati dal riflesso di quella pietra bianca, che riluce al sole della Sicilia.

D’altronde, è un fatto assodato che il cinema sia un potente vettore che stimola il viaggio. I luoghi visti nei film attirano i visitatori, come se le persone, più che andare per la prima volta, ritornassero in un luogo che l’emozione della macchina da presa ha stampato per sempre nelle loro fantasie. E la visita fosse la conferma di quelle fantasie. Ecco un altro aspetto, niente affatto trascurabile, che ci dice dell’importanza dell’economia circolare stimolata dalla creatività, utile al turismo. Tornando alla narrazione, mi pare che lo scenario in cui si muovono i personaggi richiami almeno due grandi emergenze: la prima è umanitaria, quella dell’immigrazione, che nel nostro caso è emigrazione cioè il tentativo di fuga attraverso il mare verso lidi accoglienti.
Flavia Mariani: Mi ha molto colpito quella sorta di perfetta similitudine tra la fuga dalle guerre dei popoli dei paesi della sponda africana del Mediterraneo e il disperato tentativo di raggiungere il mare per mettersi in salvo da parte dei protagonisti del film. Fa riflettere pensare che quei disperati potremmo essere noi.

Laura Muscardin: È il plot attraverso cui si svolge il racconto. Un bambino e sua sorella più grande, durante un tentativo di raggiungere la costa per imbarcarsi in un natante di fortuna, vengono separati da un atto violento dei trafficanti di esseri umani. È la storia del piccolo Cam che cercherà di ricongiungersi alla sorella.

Si capisce, fin dai primi fotogrammi, che il crollo della civiltà ha prodotto guerra, distruzione, povertà e ci sono stati molti morti. Dunque, per venire alla seconda grande emergenza, quella sanitaria, per altro ancora in atto, il tema delle vittime, della paura, ma anche della solidarietà, sembra aleggiare nel film.
Laura Muscardin: È strano. Dovevamo uscire lo scorso anno nelle sale, ma siamo stati bloccati, come tutti, dalla pandemia della prima ondata e la conseguente chiusura delle sale cinematografiche. Il film è stato collocato temporaneamente on line. Da principio, sembrava proprio che il lancio fosse destinato a soccombere per colpa della cattiva sorte. Ma poi è arrivato il successo al Giffoni Film Festival che ci ha dato il premio per le tematiche ambientaliste. Questo, oltre che l’ovvio piacere che un premio ti dà, ci ha fatto riflettere. È come se fossimo usciti nel momento giusto, nonostante tutto: tra le grandi mobilitazioni stimolate dall’attivismo di Greta Thunberg e dai ragazzi del “Friday For Future” e la riflessione collettiva – spinta dall’insorgenza e le conseguenze del CovId-19 -, su quell’infezione da virus, provocata dal cattivo rapporto che il nostro stile di vita ha con la natura, e l’ambiente in genere, che spinge i virus al salto di specie tra animali ed esseri umani.

Flavia Mariani: Comunque nella trama c’è la sotto storia di una ribellione allo strapotere dei trafficanti di esseri umani in fuga dalla catastrofe. Insomma, allo strapotere del denaro e dell’accumulazione di ricchezze l’antidoto è il coraggio della solidarietà. Come un vaccino.

È ora di tornare sull’iniziazione al mondo degli adulti di Cam, il protagonista. Nel suo tentativo di trovare la sorella, egli si imbatte in un adulto, che lo accompagnerà fino alla fine della storia, e fino al colpo di scena di cui non vogliamo parlare per non rovinare le emozioni di chi non lo ha ancora visto. È un adulto ambiguo, istrionico, forse un “cattivo maestro”, che tuttavia si prende cura di Cam.
Laura Muscardin: È in questo incontro che si svolge la storia che raccontiamo nel film. È quest’adulto che in un certo senso officia il rito dell’iniziazione alla vita dei grandi, che costringe Cam, come dici tu, a rompere il guscio dell’infanzia.

Ci sono forti suggestioni che richiamano le ottocentesche favole per bambini: la foresta paurosa, la caverna buia, gli scheletri di uomini morti ammazzati, il ritrovamento di armi arrugginite, la sensazione del pericolo, gli incubi.
Laura Muscardin: La chiave però è moderna, direi attuale. Tra le difficoltà che un bambino deve affrontare, per iniziare a capire qual è la strada migliore per affacciarsi al mondo adulto, ci sono ostacoli spesso incarnati proprio dagli adulti che gli sono più vicino. Edulcorare la realtà e le sue difficoltà non giova alla loro crescita interiore.

Flavia Mariani: Il protagonista adulto del film è, forse, fin troppo cinico, sfrontato nel raccontare come stanno le cose al suo piccolo partner nell’avventura.

Laura Muscardin: Il maestro è “cattivo”, ma alla fine, grazie a lui, Cam avrà ben chiaro come comportarsi e farà la cosa giusta al momento giusto.

La guerra di Cam è un “film a piedi”, tra natura impervia e architettura abbandonata, un film in cui i personaggi camminano sui sentieri delle difficoltà di essere bambini in un mondo in cui gli stessi adulti rischiano di perdere le loro sicurezze, fondate su stili di vita e di benessere sempre più precari, per via della crisi in cui abbiamo scaraventato  il rapporto tra esseri umani a l’ambiente.

Secondo Paul Ehrlich, “Quando una popolazione si avvicina al limite della capacità del suo ambiente di supportarla, la salute media dei suoi individui tende a diminuire, in modo da ridurre la crescita della popolazione. Il problema con l’Homo sapiens è che grazie al nostro ingegno siamo, per millenni, riusciti a sottrarci a questo meccanismo ri-equilibratore, e abbiamo trovato sempre nuovi modi per produrre più cibo, conquistare più aree, anche quelle in precedenza inabitabili, e sfruttare più risorse”.

“Il nostro pianeta, però, adesso ci presenta il conto”, conclude Ehrlich. Il conto è anche sotto forma di pandemie, aggiungo io.

La guerra di Cam, di Laura Muscardin ha vinto il Best Feature Film al Sweden Film Award; il premio come miglior lungometraggio italiano al 74° Festival Internazionale del Cinema di Salerno; il premio CIAL per l’ambiente al Giffoni Film Festival.  È visibile su: https://it.chili.com/content/la-guerra-di-cam/e6fdd0e2-e5b9-4180-9898-2b54663efa4b

Share
Categorie
Attualità

C’è sempre un colpevole.

Sembrerebbe che la soluzione di ogni problema che si presenta davanti alla nostra attenzione sia cercare il colpevole. Le cause del problema e le conseguenze di una possibile soluzione non interessano. Ci vuole un colpevole, a ogni costo, da sbattere in apertura del tg, nell’occhiello di un titolo, in una dichiarazione politica, nel promo di un talk, in un post.

Un colpevole, il mio regno per un colpevole! Contro cui scagliarsi con retorico vigore, violenza verbale e vile compiacenza, con facile e sadico cinismo. L’odio bieco, cieco, implacabile contro le persone, costrette a furor di popolo sul banco degli imputati di un processo alle intenzioni, impedisce volutamente di comprendere i rimedi. È il trionfo dell’ingiustizia sommaria.

Viviamo nelle caverne del risentimento, la vendetta verbale è la nuova clava, utile strumento del nuovo primitivismo dell’informazione e della propaganda politica.

L’immigrazione? È colpa degli immigrati. La disoccupazione? È colpa dei cassaintegrati. Lo stupro? È sempre colpa della donna. Il Covid? È colpa dei cinesi. L’inquinamento? È colpa dei maleducati. La povertà? È colpa dei poveri.

E se provi a dire che forse la soluzione ha bisogno di essere cercata, analizzata e sperimentata, la risposta è pronta, rapida e lapidaria: “il problema è un altro”. E così diventi subito tu un nuovo colpevole, uno di quelli che non vogliono capire  di chi è la colpa. Che è colpa di gente come te se le cose vanno male.

Share
Categorie
Attualità

Furtivi furti.

Cosa succede alle antenne delle Smart?

Dopo la ” moda” di rubacchiare la stella Mercedes, ecco che si asportano le antenne della radio alle Smart. 

C’è stato un periodo in cui “andava di moda” rubare la stella Mercedes. Attualmente, si asportano le antenne della radio alle Smart. 

Ora, la questione è la solita: chi lo fa conta sulla elementare consapevolezza che c’è chi è disposto a comprare l’oggetto rubato. 

È il consolidato rapporto tra la domanda e l’offerta, tipico dell’economia di mercato. Che pone l’antica questione: cos’è il furto se non uno dei modi di ricavare profitto? Perché chi compra una cosa rubata si sente moralmente assolto, tanto da ritenersi molto più furbo di quelli che i pezzi di ricambio-auto li comprano regolarmente? 

Non sarà che è il profitto a fare l’uomo ladro, e che sia l’atavica attrazione per un “buon affare” a rendere un onesto cittadino un banale, bieco, codardo ricettatore di merce rubata? 

Può darsi pure che uno che abbia subìto il furto dell’antenna della sua Smart abbia pensato di risolvere la faccenda facendo a un altro quello che lui era toccato in sorte. Sicché la figura del ladruncolo e del ricettatore si sia incarnata in un’unica persona, autorizzata dal sopruso subìto a farsi giustizia da solo. 

E che di questo gestaccio si senta fiero, pur nella recondita paura di subire di nuovo lo sfregio del furto della cosa rubata. Che forse è la vera punizione: vivere con le antenne perennemente in allarme per paura che qualcuno rubi l’antenna rubata. In una condizione emotiva tipica del Pleistocene, periodo geologico in cui non è raro sentirsi se uno vive a Roma.

Share
Categorie
Attualità

Se le opinioni hanno il sopravvento sui fatti.

Un tempo ci si sforzava di tenere le opinioni separate dai fatti. Poi finalmente la separazione è diventato divorzio: le opinioni sono tutto, i fatti contano più niente. Bisognava scriverli con cura e leggerli attentamente. Roba vecchia. Oggi, l’informazione, per vendere, deve essere veloce, attraente, leggera. Fare informazione era stimolare il desiderio di farsi un’opinione sulla realtà. Ma vuoi mettere vendere direttamente un’opinione bell’è pronta, come un piatto unico surgelato, che bisogna solo riscaldare un po’ al microonde? «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!» diceva beffardo Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks “Deadline” – U.S.A. (in italiano: L’ultima minaccia, 1952). Oggi diremmo: è “il marketing bellezza”, in cui l’informazione, in tutte le sue moderne articolazioni, soprattutto quando si occupa di politica, ha rubato il ruolo all’advertising. Ma almeno la pubblicità era onesta non faceva finta di essere informazione, anzi cercava di competere sul piano dell’autorevolezza degli argomenti. E questo è un fatto, più che un’opinione. (https://youtu.be/VRq6BH7hFjE). Morale? Sempre più spesso ai fatti si contrappongono le opinioni: è l’apoteosi della propaganda, la negazione assoluta di ogni verità.

Share
Categorie
Attualità

Afghanistan? Mai più.

Morti, feriti, invalidi e tanti miliardi di euro buttati per cosa? 

Il nostro esercito è stato mandato in Afghanistan per togliere il paese dalle mani di quegli stessi cui ora si riconsegna:  nelle mani dei taliban. 

Questa tragica farsa è durata venti anni, tanto inutili quanto sanguinosi, profittevoli solo per chi costruisce armi, armamenti e equipaggiamenti militari. 

Erano al governo Berlusconi, Bossi e Fini, lacchè dell’Amministrazione Bush che inventò quelle panzane andate sotto il nome di “guerra al terrorismo” e “esportazione della democrazia”. Quelle panzane sono costate all’Italia 54 morti, centinaia di feriti, di invalidi tra i reduci.

La partecipazione alle guerre in Afghanistan prima e in Iraq poi si sono rivelate scelte scellerate di politica estera. 

La menzogna dell’azione di “peacekeeping”, con cui si è intossicata l’opinione pubblica, ha distrutto nel mondo arabo la reputazione di un Italia pacifica e pacificatrice, percezione faticosamente ricostruita alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo le sciagurate, nonché criminali, avventure colonialiste, nate dalle velleità imperialiste che i Savoia trasmisero, come un’infezione venerea, al militarismo dell’era fascista.

La partecipazione italiana all’avventura afghana è stato un fallimento, sotto ogni profilo.

In questi lunghi e maledetti vent’anni, quanti soldi sono stati tagliati, per esempio, alla Sanità pubblica per finanziare le “missioni militari all’estero”?

L’Italia si è comportata male, in Europa non si è impegnata per una politica estera autonoma dall’arroganza bellicistica del Pentagono. Sul fronte atlantico, non ha stabilito chiare regole. Attualmente, il nostro paese è l’ultima ruota di quel carro che si chiama Nato: nelle nostre basi militari scorrazzano aerei carichi di truppe e bombe.

L’ignominioso ritiro dall’Afghanistan, paese che lasciamo nei guai, – ritiro addirittura ridicolizzato dal boicottaggio degli Emirati che hanno bloccato per ore un aereo italiano zeppo di giornalisti, chiamati a incensare l’evento, – dovrebbe far riflettere il governo Draghi. 

Quando ci si auto definisce “europeisti e atlantisti” esattamente che si intende, per esempio quello che la politica italiana ha combinato in Afghanistan? Mai più.

Dopo vent’anni di fallimenti, quale credibilità possono avere le parole del ministro Guerini, quando dice a quelle donne e uomini, in guerra da due generazioni, che non li abbandoneremo alle ritorsioni dei taliban? 

L’altro giorno Kabul è stata ammainata la bandiera di un paese che ha saputo dare il peggio di sé, perché non ha tenuto fede a quei principi costituzionali per mezzo dei quali la democrazia italiana ripudia la guerra, e di conseguenza ogni forma di invasione militare. Sono quei principi che dovrebbero consentire all’Italia un ruolo da protagonista credibile in Medio Oriente, e non un’opaca funzione da attendente servile di interessi politico-militari altrui.

Share
Categorie
Attualità

La tossicità del pregiudizio.

Come un’ipotesi investigativa sta diventando una verità.

Quello che potrebbe essere successo a Saman è atroce. Ma è solo un’ipotesi investigativa. Che però viene spacciata come verità da tutti i media, e alimenta il chiacchiericcio dei talk show. 

Così si  avvelenano di pregiudizi le indagini e la cronaca, cioè la Giustizia e l’Informazione, che sono i veri antidoti al patriarcato violento e assassino. Così si intossica il discorso pubblico.

Share
Categorie
Attualità

L’ente comunale della lettura.

Conversando con una libraia creativa.

Ripropongo questa conversazione con Monica Maggi, apparsa in gennaio su “Memo-Grandi Magazzini Culturali (grandimagazziniculturali.it) perché la sua esperienza al mercato rionale del Tufello, famoso quartiere della capitale, si è estesa ormai anche a due comuni della Città Metropolitana di Roma, – Riano Flaminio e Sacrofano, dove proprio stamani il Comune ha le ha messo a disposizione uno spazio fisso al mercato. La distribuzione gratuita dei libri, salvati dal macero, sta diventando una vera e propria attività culturale, che riscuote una crescente approvazione, molti consensi e sempre più numeroso pubblico.

Monica Maggi.

Monica Maggi ha sessantadue anni, è una donna minuta, lo sguardo vivo dietro un paio di occhialoni tondi dalla montatura importante. Sposata con un uomo che non sa più dove stipare in casa migliaia di libri (“in garage non ce n’entrano più”). Lei sembra avere l’energia e la vitalità di un’atleta ventenne; l’acume e l’inventiva di una provetta giocatrice di scacchi. Monica Maggi è una libraia molto creativa. Ha inventato una formula di distribuzione senza precedenti. Ha aperto un chiosco al mercato rionale di uno dei quartieri più popolari di Roma, il Tufello, dove è ancora vivo il ricordo di Gigi Proietti, che qui è cresciuto.

Se anni fa nei mercati c’erano i banchi alimentari dell’Ente Comunale di consumo, nati nel dopo guerra come calmiere che tenesse a bada i prezzi, Monica Maggi ha inventato il banco di quello che si potrebbe definire “ente comunale di lettura”. Grazie allo spazio datole in gestione gratuita dal responsabile dei mercati del III Municipio, con il favore della giunta guidata da Giovanni Caudo, giunta nella quale siede come assessore alla cultura Christian Raimo, Monica ha inventato una formula che supera la stessa idea del “book-crossing”, cioè lo scambio dei libri. Lei i libri li sceglie, li consiglia, ne parla e li regala.

Vengono a curiosare, vanno via con un libro. Poi tornano a parlarmi di quello che hanno letto, svelano i loro interessi, ciò che piace e piacerebbe loro leggere, e allora io cerco quello che penso vada bene -mi dice. E aggiunge: –È bello vederli mettere i libri tra le buste della spesa, fare della lettura un gesto normale, come di tutti i giorni. Non è vero che la gente non legge. Se sanno dove trovare i libri, li prendono, li leggono.

-Chi sono? le chiedo.

Soprattutto donne, di tutte le età. Anche giovani. Mamme con i bambini che chiedono fumetti o libri illustrati. E uomini adulti e anziani. Ragazze. I ragazzi pochi, ma credo dipenda dal fatto che i ragazzi non vanno a fare la spesa. Anche i titolari delle bancarelle vicine spesso vengono a chiedere un libro.

-È come aver ridato vita all’idea che il mercato sia un luogo d’incontro di persone che si sentono parte di una comunità, le dico.

Esattamente quello che mi ha detto Giovanni Caudo, quando è venuto a trovarmi, sembrava in incognito, dietro la mascherina, mischiato tra la gente che si aggirava attorno al chiosco dei libri, dice Monica.

A partire dal mercato del Tufello, Covid permettendo, Monica Maggi sta progettando di aprire un chiosco di lettura anche negli altri cinque mercati del III Municipio, che conta oltre 200 mila residenti.

-Quanti libri hai distribuito finora?

Alcune migliaia.

-E come sei organizzata?

Abbiamo fondato un’associazione culturale, Libra. Siamo riconosciuti dall’UNESCO e abbiamo il sostegno delle Biblioteche di Roma. Queste attività di diffusione dei libri sono parte integrata di “Pagine viaggianti”, un progetto che ci vede impegnati nella diffusione della lettura.

-Come fate ad avere i libri che poi distribuite gratuitamente?

Li salviamo dal macero. Li andiamo a prendere dove ci chiamano. Recentemente una collezione di volumi di Mauro Ferri, ex presidente della Corte Costituzionale e una donazione di Dacia Maraini, con il fattivo aiuto dell’assessore alla cultura, li abbiamo consegnati al Comune di Sacrofano, che sta per aprire una biblioteca comunale. È stato emozionante: siamo stati ricevuti nella sala consigliare, la sindaca si era messa la fascia tricolore, perché fosse solenne che le due donazioni rappresentassero idealmente la posa della prima pietra della nuova biblioteca pubblica del Comune.

-Dunque, prendete libri da chi se ne disfa, e li ridistribuite a chi ha voglia di leggerli.

Sì, è proprio così. Oltre al mercato del Tufello, abbiamo due bancarelle nei giorni di mercato a Riano, un paese dell’area metropolitana a nord di Roma, lungo la via Flaminia. Succede spesso che ci portino libri che non vogliono buttare, ma che non trovano più spazio nelle loro case.

-Una specie di “economia circolare della lettura”, dico, quasi per scherzo.

In effetti – dice Monica Maggi – in questo modo si riscopre il rapporto tra libraio e lettore. È un rapporto intimo, fatto di pensieri appresi dai libri e di desideri di conoscenza da soddisfare. I libri sono come le persone, e le persone sono come i libri: quando si aprono, bisogna saperle sfogliare, consultare, leggerle. Parlare con le persone per capire cosa piacerebbe loro leggere è proprio come leggere le storie che i libri poi raccontano loro.

-Claudio Magris dice che tutti i libri sono importanti, anche quelli brutti, le faccio notare.

Però, mi è successo recentemente che mi sia stato riportato indietro un libro di un noto giornalista televisivo che li sforna tutti gli anni per Natale, perché non piaceva a chi lo aveva preso. Gliene ho dovuto cercare un altro. La cosa mi ha dato una certa soddisfazione: il senso critico di un lettore ha sempre la mia simpatia.

-Monica, mi hai detto che scrivi poesie, le dico all’improvviso.

Sì, amo la poesia, la cerco, la scrivo. Organizzo anche “maratone di poesia” sui social, cui partecipano molte persone.

-Umberto Galimberti scrive che secondo Heidegger “fare poesia è fare opera di verità, è svelare, è portare qualcosa alla luce”. Mi pare che sia quello che fai con i libri: porti alla luce il desiderio di leggere.

Mi dò da fare, ci diamo da fare. La diffusione della lettura apre non solo molte menti, ma anche molte porte a nuove idee, per dare vita a progetti. Per esempio, stiamo per inaugurare un corso di italiano per adulti stranieri a Riano, e più in generale facciamo formazione ai docenti sulle tematiche del bullismo, per riuscire a individuare in tempo sintomi di quella rabbia che ne è l’origine. Prevenire è meglio che punire.

-Hai mai pensato di aprire una libreria?

L’ho avuta per qualche anno. Ma ho dovuto chiudere. Non era economicamente sostenibile. Ormai le mie figlie erano diventate grandi, allora, mi sono messa a fare la giornalista free lance. E poi mi è venuto in mente di fondare l’associazione e creare il progetto “Pagine viaggianti”. Amo leggere e vedere che tante persone hanno ripreso i libri in mano mi riempie di energie.

-Dunque, non è vero che la “gente non legge”, le dico.

La gente legge quello che le interessa. Ma bisogna che quando esce di casa incontri facilmente occasioni in cui poter prendere in mano un libro, sfogliarlo, soffermarsi su un brano. C’è sempre un libro che può interessare, e riaccendere la voglia di saperne di più. Della vita, delle cose, del mondo che ci circonda.

Alla fine di questa conversazione con Monica Maggi, libraia appassionata dei libri come oggetti di scambio di esperienze umane, mi viene in mente “La cultura degli europei” di Donald Sassoon (BUR, 2011), il quale a conclusione dell’introduzione del suo monumentale lavoro, scrive: “Gli oggetti culturali, il processo creativo a loro sotteso, la loro vendita, la loro fruizione, il loro commercio servono a molteplici scopi: hanno un valore simbolico, definiscono le identità, recano prestigio e fama, danno lavoro, informano e intrattengono. Soprattutto ci aiutano a passare il tempo. Il fatto di profondere tali sforzi alla ricerca di qualcosa che sembra di così scarsa importanza – se paragonati a questioni rilevanti come la guerra e la pace, la lotta contro le malattie, la ricerca di cibo e di un riparo – è il tratto distintivo della civiltà umana.”

Dunque, questa donna minuta ma tenace, che salva e ridistribuisce i libri, sta facendo bene una parte di quel tratto distintivo di cui parla Sassoon.

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: