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25 Aprile: Frangetta nera contestata a Roma.

Renata Polverini è stata contestata con fischi e lanci di oggetti mentre partecipava alla manifestazione a Porta San Paolo a Roma in occasione dell’anniversario della Liberazione. La Polverini è stata bersagliata da urla “buu, buu” e lancio di uova e frutta e alcuni fumogeni. Polverini era stata contestata già mentre saliva sul palco per tenere il suo discorso, che non ha svolto, lasciando la manifestazione immediatamente tra i fischi dei presenti. Tra le frasi rivoltele: «Polverini vattene a Casa Pound, fascista e ipocrita». Ne ha fatto le spese Nicola Zingaretti. Il presidente della provincia di Roma era insieme a Renata Polverini contestata nella manifestazione in ricordo della Liberazione nella capitale. E anche a lui è arrivato un frutto lanciato dai manifestanti: “Abisso tra questi atti e il valore del 25 aprile” Beh, buona giornata.

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Il 25 Aprile, Festa della Liberazione nelle parole di Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana.

Intervento del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
al 65° anniversario della Liberazione
Milano, 24 aprile 2010
Signora Sindaco, Signor Presidente della Provincia, Signor Presidente della Regione, Signori rappresentanti del Comitato Antifascista e di tutte le associazioni partigiane e combattentistiche, Signor Presidente del Consiglio, Onorevoli parlamentari, Autorità, cittadini di Milano,
si può facilmente comprendere con quale animo io abbia accolto l’invito a celebrare a Milano il 65° anniversario della Liberazione. Con animo grato, per la speciale occasione che mi veniva offerta, con viva emozione e con grande rispetto per quel che Milano ha rappresentato in una stagione drammatica, in una fase cruciale della storia d’Italia. E tanto più forte è l’emozione nel rivolgere questo mio discorso al paese dal palcoscenico del glorioso Teatro La Scala, che seppe risollevarsi dai colpi distruttivi della guerra per divenire
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espressione e simbolo, nel mondo intero, della grande tradizione musicale e culturale italiana.
Si, viva e sincera è la mia emozione perché fu Milano che assunse la guida politica e militare della Resistenza. Nel gennaio del 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale lombardo venne investito dal CLN di Roma – nella prospettiva di una non lontana liberazione della capitale, e di una separazione dell’Italia settentrionale dal resto d’Italia – dei poteri di “governo straordinario del Nord”. Esso si trasformò così in Comitato Nazionale di Liberazione per l’Alta Italia e si mise all’opera per assicurare la massima unitarietà di orientamenti e di direttive al movimento di liberazione. Più avanti – superata la crisi dell’inverno 1944 e avvicinandosi la fase conclusiva della lotta – si costituirà, per assicurare anche sul piano militare la necessaria unitarietà di direzione, il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà : lo guiderà il generale Raffaele Cadorna. Seguono ben presto i piani pre-insurrezionali, che vedono al primo posto il cruciale obbiettivo della difesa degli impianti dalle minacce di distruzione tedesche, e infine i piani operativi per l’insurrezione, soprattutto nelle tre città-chiave della Resistenza nel Nord, Torino, Milano, Genova.
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Nel piano di Milano, di lì irradiandosi le direttive per tutta la periferia, è previsto l’impiego di 32 mila partigiani. L’insurrezione si prepara come sbocco, sempre più maturo, dello sviluppo – con l’approssimarsi della primavera, e al prezzo di duri sforzi e sacrifici – delle azioni partigiane (2 mila nell’area di Milano tra febbraio e aprile) ; essa non è dunque la fiammata di un giorno glorioso, ma il frutto di una lunga, eroica semina e di una sapiente organizzazione finale.
Genova è la prima ad insorgere, per decisione presa dal CLN già la sera del 23 aprile ; il piano si snoda attraverso momenti drammatici e prove magnifiche da parte delle squadre partigiane, e si conclude la sera del 25 con la firma, da parte del generale Meinhold, dell’atto di resa delle forze armate germaniche alle Forze Armate del Corpo Volontari della Liguria e, per esse, al Presidente del CLN di Genova. Ne dà l’annuncio alla radio Paolo Emilio Taviani, tra i protagonisti dell’insurrezione, con le solenni parole : “Per la prima volta nella storia di questa guerra un corpo d’Esercito si è arreso dinanzi alle forze spontanee di popolo”.
A Milano, la decisione viene presa, l’ordine viene impartito, per il 25 aprile – in rapporto con le notizie provenienti da Genova – dal Comitato insurrezionale :
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Sandro Pertini, Emilio Sereni, Leo Valiani. Cade, già nel pomeriggio del 24, prima vittima, Gina Galeotti Bianchi, dirigente dei Gruppi di difesa delle donne, la partigiana Lia, ricordata e onorata proprio giorni fa alla Camera dei Deputati. La mattina del 25 Sandro Pertini, già impegnatosi in audaci azioni di attacco, accorre alla fabbrica CGE, dinanzi ai cui cancelli due operai, precedentemente rinchiusi a San Vittore, sono stati trascinati e brutalmente uccisi anche per intimorire le maestranze : Pertini parla ai lavoratori nel piazzale portando l’appello del Comitato insurrezionale. La sera del 26 Milano è praticamente liberata. Gli ultimi reparti tedeschi capitoleranno all’arrivo in città delle divisioni partigiane dell’Oltrepo pavese.
In quei tesissimi giorni, si consumeranno a Milano anche gli ultimi tentativi di impossibili trattative cui si erano mostrati ambiguamente disponibili i capi fascisti. E a Milano si compì poi il tragico epilogo dell’avventura mussoliniana, in uno scenario di orrore che replicò altri orrori inscenati nello stesso luogo di Piazzale Loreto. La guerra era finita, con la vittoria delle forze alleate ; e insieme era finita, con la sconfitta del fascismo repubblichino, anche la guerra civile fatalmente intrecciatasi con la Resistenza.
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Nel Campo della gloria al Cimitero maggiore verranno raccolti i resti mortali, verranno scolpiti i nomi, di 4.134 cittadine e cittadini milanesi caduti per la libertà tra l’8 settembre 1943 e la primavera del ’45, di 2.351 partigiani del Corpo Volontari della Libertà.
Ho voluto partire da un sommario richiamo a drammatici eventi, a memorabili momenti della storia della Resistenza – per quanto più volte e più puntualmente ripercorsi nelle celebrazioni del 25 aprile – perché mai in queste celebrazioni, e dunque nemmeno in quella di oggi, si può smarrire il riferimento ai fatti, al vissuto, a quel che fu un viluppo di circostanze concrete, di dilemmi, di scelte difficili, di decisioni coraggiose e costose, di sconfitte e di successi ; non si può mai smarrire il riferimento a tutto ciò, rinunciare a ricostruire e tramandare costantemente quelle esperienze reali, se non si vuole ridurre il movimento di Liberazione a immagine sbiadita o ad oggetto di dispute astratte.
Nella mia rapida rievocazione del ruolo di Milano in quegli eventi, è risuonato il nome di Sandro Pertini. E non c’è migliore occasione di questa per ricordarlo a vent’anni dalla scomparsa. Perché il suo nome spicca in tutto il percorso della Resistenza, tra quelli che da Milano la guidarono, come protagonisti del Comitato di
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Liberazione Alta Italia, del Comando del Corpo Volontari della Libertà, del Comitato insurrezionale.
Fu combattente instancabile, senza eguali per slancio, audacia, generosità, a cominciare dalla partecipazione – all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre – al disperato tentativo di resistere ai tedeschi nel cuore di Roma, a Porta San Paolo, dopo che il Re è fuggito a Pescara e la capitale è stata militarmente abbandonata. Pertini è lì, reduce da lunghi anni di carcere, di confino e di esilio ; è lì anche da vecchio combattente, medaglia d’argento, della prima guerra mondiale. Ne uscirà capo dell’organizzazione militare del Partito socialista per l’Italia centrale occupata.
Ma già il 15 ottobre viene arrestato, insieme con Giuseppe Saragat e altri socialisti, invano interrogato per due giorni e due notti in Questura, rinchiuso a Regina Coeli (inizialmente nel braccio tedesco), fino a quando tutto il gruppo dei sette socialisti poté evaderne grazie a un piano ingegnoso che ebbe tra i suoi registi un grande patriota, poi eminente giurista e uomo pubblico, Giuliano Vassalli.
Pertini riprese così il suo posto nella lotta contro l’occupazione tedesca, cui si dedicò, da Roma, in tutti i primi mesi del ’44 : il 3 aprile Vassalli fu trascinato
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nella famigerata via Tasso e sottoposto ad ogni violenza dalle SS. Nel mese successivo si avviano colloqui al più alto livello in Vaticano con il comandante delle SS in Italia per evitare la distruzione della capitale (e da quei contatti scaturì anche la liberazione di Vassalli). Il progetto dell’insurrezione a Roma viene accantonato ; Pertini sceglie allora, a metà maggio, di partire per Milano, perché “lassù” – disse – “c’era tanto da fare e da combattere”. E da Milano si muoverà per portare il suo contributo e il suo impulso in tutto il Nord.
A luglio è chiamato a Roma per consultazioni politiche : ma si ferma a Firenze per partecipare all’insurrezione fino a liberare la città dai tedeschi. Giunto a Roma, freme per tornare al più presto a Milano: e per raggiungere quella meta compie un viaggio quanto mai avventuroso, in aereo fino a Digione in Francia, e poi valicando con una guida il Monte Bianco. Di lì a Cogne e a Torino, e finalmente a Milano, in tempo per contribuire a organizzare e guidare la fase finale della guerra di Liberazione.
L’immagine conclusiva del suo impegno – come poi dirà la motivazione della medaglia d’oro al valor militare – di “prezioso e insostituibile animatore e combattente” della Resistenza, è rimasta consegnata alla fotografia che
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lo ritrae mentre tiene il suo primo discorso, dopo decenni di privazione della libertà, il 26 aprile 1945 a Piazza del Duomo.
E’ stato – dobbiamo dirlo – un onore per l’Italia, un onore per la Repubblica, avere tra i suoi Presidenti Sandro Pertini.
L’omaggio che oggi gli rendo, anche con forte sentimento personale per il rapporto che ci fu tra noi, vorrei fosse però incitamento ed auspicio per un nuovo, deciso impegno istituzionale, politico, culturale, educativo diretto a far conoscere e meditare vicende collettive ed esempi personali che danno senso e dignità al nostro essere italiani come eredi di ispirazioni nobilissime, di insegnamenti altissimi, più forti delle meschinità e delle degenerazioni da cui abbiamo dovuto risollevarci. Un impegno siffatto è mancato, o è sempre rimasto molto al di sotto del necessario. Abbiamo esitato, esitiamo a presentare in tutte le sue luci il patrimonio che ci ha garantito un posto più che degno nel mondo : esitiamo per eccessiva ritrosia, per timore, oltre ogni limite, della retorica e dei miti, o per sostanziale incomprensione del dovere di affermare, senza iattanza ma senza autolesionismi, quel che di meglio abbiamo storicamente espresso e rappresentiamo.
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E questo amaro discorso vale per le grandi pagine e le grandi figure del processo che condusse, 150 anni fa, all’Unità d’Italia ; così come per le più luminose pagine e figure dell’antifascismo e della Resistenza. Perfino a Sandro Pertini, che pure è stato Presidente amato e popolare, non abbiamo – al di là di quel che con affetto lo ricorda nella sua terra natale – saputo dedicare un memorial, un luogo di memorie, come quelli che in grandi paesi democratici (si pensi agli Stati Uniti d’America) onorano e fanno vivere le figure dei maggiori rappresentanti della storia, per quanto travagliata, della nazione.
Eppure, l’identità, la consapevolezza storica, l’orgoglio nazionale di un paese traggono forza dalla coltivazione e valorizzazione di fatti, di figure, di simboli, in cui il popolo, in cui i cittadini possano riconoscersi traendone motivi di fierezza e di fiducia.
Naturalmente, l’impegno che sollecito, riferito alla Resistenza, esige – per dispiegarsi pienamente, per ottenere riscontri positivi e suscitare il più largo consenso – la massima attenzione nel declinare correttamente il significato e l’eredità della Resistenza, in termini condivisibili, non restrittivi e settari, non condizionati da esclusivismi faziosi.
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Guardiamo, per intenderci, a quel che si legge nel Diario di Benedetto Croce, alla data del 26 aprile 1945 :
“Grande sollievo per la rapida liberazione dell’alta Italia dai tedeschi senza le minacciate e temute distruzioni, e per opera dei patrioti e partigiani, che è gran beneficio, anche morale, per l’Italia”.
Poche essenziali parole, con le quali il grande uomo di pensiero e di cultura liberale scolpì il valore della conclusione vittoriosa della Resistenza. Valore nazionale, per il “gran beneficio anche morale” assicurato all’Italia restituendole piena dignità di paese libero, liberatosi con le sue forze, di concerto con la determinante avanzata degli eserciti alleati ma senza restare inerte ad attenderne il trionfo. Chi può negare che l’apporto delle forze angloamericane fu decisivo per schiacciare la macchina militare tedesca, per scacciarne le truppe dal territorio italiano che occupavano e opprimevano? Certamente nessuno, ma è egualmente indubbio che il generoso contributo italiano, contro ogni comodo e calcolato attendismo, ci procurò un prezioso riconoscimento e rispetto.
E ho citato Benedetto Croce perché le parole, prive di ogni ombra di retorica ma così significative e lineari, di un’eminente figura dell’Italia prefascista, lontanissima
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dalle correnti ideali e politiche che attraversarono più ampiamente il moto resistenziale e che sarebbero risultate maggioritarie al momento della nascita della Repubblica, danno il segno di un’obbiettiva definizione del 25 aprile come storica giornata di riscatto nazionale, al di là di ogni caratterizzazione di parte.
Che cosa era in effetti accaduto in quei venti mesi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945? Che cosa era accaduto a partire dal momento della presa d’atto – con l’armistizio – della disfatta in cui era culminata la disastrosa guerra voluta da Mussolini al fianco della Germania hitleriana? Che cosa era accaduto da quello che fu il momento del collasso dello Stato sabaudo fascistizzato e di un generale, pauroso sbandamento del paese, ma anche il momento dei primi segni di una nuova volontà di resistenza al sopruso e all’oppressione, di ritrovamento della propria fierezza e identità di italiani?
Era accaduto che nell’esperienza della partecipazione alla Resistenza, in tutte le sue forme ed espressioni, si era riscoperto, recuperato, rinnovato, un sentimento, un fondamentale riferimento emotivo e ideale che sembrava essersi dissolto. Praticamente dissolto, come aveva detto – già mesi prima della caduta del fascismo – lo stesso
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Benedetto Croce, in uno scritto che circolò clandestinamente :
“Risuona oggi, alta su tutto, la parola libertà ; ma non un’altra che un tempo andava a questa strettamente congiunta : la patria, l’amore della patria, l’amore, per noi italiani, dell’Italia.
Perché?
Perché … la ripugnanza sempre crescente contro il nazionalismo si è tirata dietro una sorta di esitazione e di ritrosia a parlare di ‘patria’ e di ‘amor di patria’.
Ma se ne deve riparlare, e l’amor della patria deve tornare in onore appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario.”
Ebbene, con la Resistenza, di fronte alla brutalità offensiva e feroce dell’occupazione nazista, rinacque proprio l’amore, il senso della patria, il più antico e genuino sentimento nazionale. “Le parole ‘patria’ e ‘Italia’” – scrisse poi una sensibilissima scrittrice, Natalia Ginzburg – che erano divenute “gonfie di vuoto”, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta.” E Carlo Azeglio Ciampi ha richiamato autobiograficamente il momento del “collasso dello
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Stato” nel settembre ’43, quando lui e tanti altri “trovarono nelle loro coscienze l’orientamento”, perché in esse “vibrava profondo il senso della Patria”.
Personalmente, ho più volte ribadito come non ci si debba chiudere in rappresentazioni idilliache e mitiche della Resistenza e in particolare del movimento partigiano, come non se ne debbano tacere i limiti e le ombre, come se ne possano mettere a confronto diverse letture e interpretazioni : senza che ciò conduca, sia chiaro, a sommarie svalutazioni e inaccettabili denigrazioni. E’ comunque un fatto che anche studiosi attenti a cogliere le molteplici dimensioni del fenomeno della Resistenza, compresa quella di “guerra civile”, non ne abbiano certo negato o sminuito quella di “guerra patriottica”.
D’altronde, le “lettere dei condannati a morte della Resistenza” restano la più ricca, drammatica testimonianza delle motivazioni patriottiche dell’impegno e del sacrificio di tanti partigiani, soprattutto giovani partigiani.
E quando parlo di tutte le forme e le espressioni di partecipazione alla Resistenza, attraverso le quali si è compiuta una vera e propria riscoperta del senso della patria e della nazione, mi riferisco in special modo alla
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rilevantissima componente costituita dal concorso dei militari al moto di liberazione, di riconquista della libertà e dell’indipendenza del paese : dai contingenti militari regolari chiamati a durissime prove all’indomani dell’armistizio – a Cefalonia, per non ricordare che un luogo-simbolo di quelle manifestazioni di eroico senso dell’onore e coraggio – agli ufficiali e ai soldati che si unirono alle formazioni partigiane, alle centinaia di migliaia di internati in Germania in campi di concentramento, alle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione. A queste ultime ho dedicato lo scorso anno la cerimonia del 25 aprile a Mignano Montelungo, che fu teatro, nel dicembre 1943, di un’aspra battaglia e costituì “il battesimo di sangue del rinato Esercito italiano”. Quell’azione dei nostri soldati fu esaltata dal Generale Clark, Comandante della V Armata americana, come esempio di determinazione per liberare il proprio paese dalla dominazione tedesca : “un esempio – egli disse – per i popoli oppressi d’Europa”.
Naturali portatori, nella Resistenza, del senso della patria e della nazione furono i militari, e tra essi quelli che si unirono alle formazioni partigiane, che si collocarono nelle strutture clandestine del movimento di
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Liberazione. Ne furono portatori anche in termini di continuità, sia pure nel travaglio della partecipazione a una guerra antitetica a quella precedentemente combattuta. Un travaglio che si coglie nella lettera indirizzata alla moglie dal generale Giuseppe Perotti all’indomani della condanna a morte decretata dal Tribunale Speciale, e alla vigilia della fucilazione al Martinetto in Torino : egli scrive di un esito tragico, che “non so come classificare”, di un “destino imperscrutabile” che comunque lo conduce a morire in guerra. In quegli stessi giorni, il più giovane capitano Franco Balbis, arrestato e fucilato, il 5 aprile 1944, insieme col generale Perotti e con altri, tutti membri del Comitato Militare Regionale Piemontese, scrive alla madre di offrire la sua vita “per ricostruire l’unità italiana” dopo aver servito la Patria “sui campi d’Africa”, e chiede che si celebrino “in una chiesa delle colline torinesi due messe”, nell’anniversario della battaglia di Ain El Gazala e di quella di El Alamein, nelle quali aveva valorosamente combattuto.
Emerge in effetti da tante di quelle estreme motivazioni del proprio impegno e del proprio sacrificio, come nella scelta di schierarsi fino in fondo con la Resistenza avessero finito per confluire ideali di
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liberazione sociale, visioni universalistiche, aspirazioni a “un mondo migliore”, consapevolezza antifascista, sete di libertà, e amore per l’Italia. E l’elemento unificante non poteva che essere questo, l’attaccamento alla propria terra, alla Patria, la volontà di liberarla. Ritorno sulle parole del capitano Balbis : “ricostruire l’unità italiana”, come supremo obbiettivo per cui sacrificare la vita.
Si, vedete, amici, il 25 aprile è non solo Festa della Liberazione : è Festa della riunificazione d’Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, l’Italia si riunifica, nella libertà e nell’indipendenza. Se ciò non fosse accaduto, la nostra nazione sarebbe scomparsa dalla scena della storia, su cui si era finalmente affacciata come moderno Stato unitario nel 1861, con il compimento del moto risorgimentale.
Gli storici hanno analizzato anche l’aspetto del ricollegarsi della Resistenza al Risorgimento, ne hanno con misura pesato i molti segni, nella pubblicistica politica, nelle dichiarazioni programmatiche, negli stessi nomi delle formazioni partigiane, nello spirito che animava i militari deportati e internati in Germania. E se hanno poi potuto apparire abusate certe formule, e poco fondate le facili generalizzazioni, resta il fatto che la memoria del Risorgimento, il richiamo a quell’eredità –
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per quanto venisse assunto ambiguamente anche dall’altra parte – fu componente importante della piattaforma ideale della Resistenza.
Si trattò di un decisivo arricchimento di quella che era e rimase la matrice antifascista della guerra di Liberazione : nel più ampio e condiviso sentimento della Nazione, nel grande alveo della guerra patriottica si raccolsero forze che non erano state partecipi dell’antifascismo militante e fresche energie rappresentative di nuove, giovanissime generazioni. E questa caratterizzazione più ricca, e sempre meno di parte, della Resistenza si rispecchiò più tardi nel confronto costituente, nel disegno e nei principi della Costituzione repubblicana.
Se nella Costituzione possono ben riconoscersi – come dissi celebrando il 25 aprile due anno orsono a Genova, e come voglio ripetere – anche quanti vissero diversamente dai combattenti della libertà i drammatici anni 1943-45, “anche quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi condivisi”, è perché la Carta approvata nel ’47 sancì – dandovi solide basi democratiche – una rinnovata identità e unità della nazionale italiana.
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Mi auguro che in questo spirito si celebri il 65° anniversario della Liberazione e Riunificazione d’Italia. “Il nostro paese ha un debito inestinguibile” – da detto un anno fa in un impegnativo discorso a Onna in Abruzzo il Presidente del Consiglio – “verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita per riscattare l’onore della patria………..”: ricordando con rispetto “tutti i caduti”, senza che “questo significhi neutralità o indifferenza”. Si tratta in effetti di celebrare il 25 aprile nel suo profondo significato nazionale ; ed è così che si stabilisce un ponte ideale con il prossimo centocinquantenario della nascita dello Stato unitario.
Mi si permetterà, credo, di ignorare qualche battuta sgangherata, che qua e là si legge, sulla ricorrenza del prossimo anno. Siamo chiari. Se noi tutti, Nord e Sud, tra l’800 e il 900, entrammo nella modernità, fu perché l’Italia si unì facendosi Stato ; se, 150 anni dopo, siamo un paese democratico profondamente trasformatosi, tra i più avanzati in quell’Europa integrata che abbiamo concorso a fondare, è perché superammo i traumi del fascismo e della guerra, recuperando libertà e indipendenza, ritrovando la nostra unità.
Quella unità rappresenta oggi, guardando al futuro, una conquista e un ancoraggio irrinunciabili. Non può
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formare oggetto di irrisione, né considerarsi un mito obsoleto, un residuo del passato. Solo se ci si pone fuori della storia e della realtà si possono evocare con nostalgia, o tornare a immaginare, più entità statuali separate nella nostra penisola. Come bene intesero tutte le correnti e le figure di spicco del Risorgimento, l’Italia è chiamata a vivere come nazione e come Stato nell’unità del suo territorio, della sua lingua, della sua storia. Se non si consolidasse questa unità, finiremmo ai margini del processo di globalizzazione – che vede emergere nuovi giganti nazionali in impetuosa crescita – e anche ai margini del processo di integrazione europeo.
Un’Europa sempre più integrata e assertiva sulla base di istituzioni comuni è la sola dimensione entro la quale gli stessi Stati nazionali più forti del nostro continente potranno far valere insieme il loro patrimonio storico, la loro capacità di contribuire allo sviluppo di un più giusto e bilanciato sviluppo globale il cui baricentro si sta assestando lontano da noi. Ma non c’è nessuna contraddizione tra l’imperativo dell’integrazione, la salvaguardia della diversità delle tradizioni e delle culture nazionali, il rafforzamento della coesione e dell’unità nazionale di ciascuno Stato membro dell’Unione.
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Per contare in Europa e per contare nel mondo di oggi e di domani, la nostra unità nazionale resta punto di forza e leva essenziale. Unità nazionale che non contrasta ma si consolida e arricchisce con il pieno riconoscimento e la concreta promozione delle autonomie, come d’altronde vuole la Costituzione repubblicana : quelle autonomie regionali e locali, di cui si sta rinnovando e accrescendo il ruolo secondo un’ispirazione federalistica.
Questa è la strada per far crescere di più e meglio tutto il nostro paese, in vista di obbiettivi che mai come ora ci appaiono critici e vitali per garantire innanzitutto il diritto al lavoro e prospettive di futuro per le giovani generazioni.
La complessità dei problemi che si sono venuti accumulando nei decenni dell’Italia repubblicana – talvolta per eredità di un più lontano passato – esige un grande sforzo collettivo, una comune assunzione di responsabilità. Questa esigenza non può essere respinta, quello sforzo non può essere rifiutato, come se si trattasse di rimuovere ogni conflitto sociale e politico, di mortificare una naturale dialettica, in particolare, tra forze di maggioranza e forze di opposizione. Si tratta invece di uscire da una spirale di contrapposizioni
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indiscriminate, che blocca il riconoscimento di temi e impegni di più alto interesse nazionale, tali da richiedere una limpida e mirata convergenza tra forze destinate a restare distinte in una democrazia dell’alternanza.
All’auspicabile crearsi di questo nuovo clima, può contribuire non poco il diffondersi tra gli italiani di un più forte senso dell’identità e unità nazionale. Così ritengo giusto che si concepisca anche la celebrazione di anniversari come quello della Liberazione, al di là, dunque, degli steccati e delle quotidiane polemiche che segnano il terreno della politica. Le condizioni sono ormai mature per sbarazzare il campo dalle divisioni e incomprensioni a lungo protrattesi sulla scelta e sul valore della Resistenza, per ritrovarci in una comune consapevolezza storica della sua eredità più condivisa e duratura. Vedo in ciò una premessa importante di quel libero, lungimirante confronto e di quello sforzo di raccoglimento unitario, di cui ha bisogno oggi il paese, di cui ha bisogno oggi l’Italia. (Beh buona giornata).

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Attualità

Quell’eccesso colposo di buona volontà che affligge Franceschini.

di Riccardo Barenghi -La stampa.

(….)

Franceschini  per alcune settimane ha ripetuto come un disco rotto che Berlusconi non doveva candidarsi senza rendersi conto che agli italiani non gliene frega assolutamente nulla, poi è passato a battere sul tasto della data del referendum e suoi relativi costi, anche qui senza capire il disinteresse dell’opinione pubblica nonché il disastroso esito che avrebbe per il suo partito un’eventuale vittoria dei sì.

Infine ha tirato fuori il coniglio del 25 Aprile, sfidando Berlusconi a partecipare alle celebrazioni. Geniale. Il premier ha colto la palla al balzo, ci è andato, anzi è andato tra le macerie di Onna, ha fatto un discorso equilibrato ed egemone, appunto presidenziale, si è assicurato i titoli dei telegiornali di ieri e dei giornali di oggi, oltre ovviamente all’apprezzamento degli italiani, anche di molti tra quelli che non lo amano.

A questo punto, o Franceschini ripensa e cambia radicalmente la sua strategia, oppure va fino in fondo sulla strada imboccata: invita Berlusconi al Primo Maggio, convince gli elettori di centrosinistra a votare per lui e infine lo fa eleggere per acclamazione leader del Pd.  (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

25 Aprile: “per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute.”

di Marco Revelli
Le piazze rubate
del 25 aprile da ilmanifesto.it

Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l’equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni – l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.

Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.

Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.

Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?

Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno. (Beh, buona giornata).

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Attualità

La Resistenza non La Russa.

“I partigiani rossi meritano rispetto, ma non possono essere celebrati come portatori di libertà”. Il Ministro dell’Interno dixit. Beh, buona giornata.

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