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3DNews/UNA GRAPHIC NOVEL PER RICORDARE MARIA GRAZIA CUTULI.

di Barbara Leone

Una vita dedicata al giornalismo. In Dove la Terra Brucia è narrata l’intera vicenda professionale di Maria Grazia Cutuli, giornalista del Corriere della Sera rimasta uccisa in un agguato in Afghanistan, sulla strada tra Jalalabad e Kabul, il 19 novembre 2001.

Il libro, realizzato da Giuseppe Galeani e Paola Cannatella, catanesi come Maria Grazia ed edito da Rizzoli Lizard, si presenta come una graphic novel che, partendo dal 26 ottobre 2001, giorno del 39esimo compleanno della giornalista, racconta il cammino percorso da Maria Grazia per diventare la grande inviata di guerra che è stata. Frequenti flash back rimandano all’inizio della carriera della giornalista che nel 1986 fu costretta a lasciare Catania, città in cui era molto difficile fare informazione a livello professionale, per trasferirsi a Milano dove, prima di approdare al Corriere lavorò per Epoca, rivista per cui, in cambio delle ferie, cominciò a fare trasferte all’estero.

Fil rouge del racconto è l’etica professionale del giornalismo, caratteristica che ha sempre contraddistinto Maria Grazia. Non mancano descrizioni particolareggiate del carattere della reporter, rese possibili grazie alla viva collaborazione della famiglia Cutuli. Sullo sfondo della narrazione una dettagliatissima ricostruzione delle fasi della guerra afghana, molto utile a chi voglia documentarsi dal punto di vista storiografico. Un lavoro durato due anni quello di Galeani e Cannatella, fatto di decine di interviste ad amici e colleghi di Maria Grazia oltre che ad un’opera di approfondimento della realtà afghana.

Un modo per raccontare, senza fronzoli, la storia di una professionista che per amore della verità ha rischiato la vita.
Ma Maria Grazia Cutuli non rivive solo nel fumetto. Per iniziativa della Fondazione a lei dedicata e di cui è presidente Mario Cutuli, fratello della giornalista, è uscita a fine ottobre un storia epistolare: Maria Grazia Cutuli, libro scritto con passione, intelligenza e curiosità da una collega dell’inviata catanese, Cristina Pumpo. Il volume, inserito nella collana

Maria Grazia Cutuli
(il cui ricavato verrà devoluto alla Onlus “La Città del Sole”), è dedicato alla scrittura di viaggio al femminile.

Tra il carteggio privato e numerose fotografie viene raccontata la storia di una giovane donna che ha dedicato tutta la sua vita alla passione: un viaggio che Maria Grazia ha deciso di intraprendere contro tutto e tutti, dettato da inquietudine, curiosità e forte determinazione, ragioni contro le quali ogni reticenza avrebbe perso.
La Fondazione “Maria Grazia Cutuli” ha fatto sua la volontà della giornalista di essere concretamente vicina all’uomo: quest’anno, il decimo dalla morte dell’inviata, è stata completata ed inaugurata la scuola elementare di Herat, in Afghanistan, già in funzione da sette mesi.

Un progetto dal costo di 150mila euro interamente versati dalla Fondazione. A completamento della scuola verrà realizzata una struttura polifunzionale dal valore di 20mila euro, fondi donati dalla Provincia regionale di Catania mentre grazie ad altri 10mila euro devoluti dall’Ance Catania verrà costruita una biblioteca. A Maria Grazia Cutuli è dedicato anche un “Premio Internazionale di Giornalismo”, diviso in sei sezioni, giunto quest’anno alla sua settima edizione. Angela Rodicio (stampa estera), Claudio Monici, Domenico Quirico, Elisabetta Rosaspina, Giuseppe Sarcina (stampa italiana) e Fabrizio Villa (giornalista siciliano emergente) i nomi dei giornalisti premiati lo scorso 24 ottobre da Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere. Ad Emma Lupano è andato il premio per “Miglior Tesi di Dottorato” mentre i premi per la “Migliore Tesi Triennale” e “Specialistica” sono stati assegnati, rispettivamente, a Clelia Passafiume e Andrea de Georgio.

Tra le altre iniziative a settembre e ottobre si è tenuto il quarto “Corso di Perfezionamento in Giornalismo per Inviati in Aree di Crisi”, realizzato in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata”, il Ministero della Difesa e la Croce Rossa Italiana: 170 ore di lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per insegnare agli aspiranti inviati come deve comportarsi un giornalista quando si trova in un’area di crisi. Un progetto sostenuto, così come gli altri, da una grande volontà: che Maria Grazia e la sua passione continuino a vivere.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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Attualità Guerra&Pace Popoli e politiche

Il generale Mini: “In Afghanistan chiudiamo il gas e andiamo via”.

di Carlo Mercuri-Il Messaggero.

Generale Fabio Mini, l’ennesimo soldato italiano ucciso in Afghanistan potrebbe indurci a un ripensamento di strategia militare, magari a fare le valigie prima del tempo? «Prima dovrebbe spingere le Autorità a verificare che cosa si è fatto in Afghanistan negli ultimi 10 anni. A rispondere alla domanda: quale eredità lasciamo agli afghani?».

Quale eredità?
«Nessuna. In Afghanistan abbiamo fatto poco, male e mai niente di nostra iniziativa».

Vuol dire che noi italiani facciamo quello che gli altri ci dicono di fare?
«Esattamente. In Afghanistan abbiamo seguito la linea americana della caccia a bin Laden e ora che bin Laden è morto, noi continuiamo lo stesso a dare la caccia a qualcuno o a qualche cosa. Mai proposto una strategia diversa, né in Afghanistan né in Iraq né nei Balcani».

Ma gli americani sono nostri alleati…
«Già. Però nelle missioni del Libano nel 1982, nel Kurdistan iracheno, in Albania, noi conducemmo operazioni che tendevano a risolvere i conflitti senza rompere gli equilibri regionali. Questa fu una caratteristica delle nostre missioni: operazioni militari che non avevano lo scopo di distruggere ma di costruire rapporti. Ora questa nostra caratteristica si è persa».

Perché, secondo lei?
«Perché ora abbiamo una politica estera ispirata al criterio della mera partecipazione. Dove c’è qualcun altro dobbiamo esserci anche noi. Ce lo impongono i trattati, dicono. Falso. Veda la questione delle nostre basi concesse ai britannici e ai francesi per la crisi libica».

Francesi e britannici non sono nostri alleati?
«Noi abbiamo concesso le basi prima del via alla missione Nato. Non è che noi si debba concedere qualsiasi cosa che gli altri, per le loro ragioni interne, ritengano opportuno».

Fa bene la Lega, allora, a dire: via dalle missioni?
«La Lega mira a far affondare la barca grande per poter comandare la scialuppa. Ma questo autolesionismo, paradossalmente, potrebbe favorire la riappropriazione della nostra sovranità in ambito internazionale».

Lei parlava prima della Libia: anche lì ci sono dei punti oscuri?
«La Libia è la somma di tutte le vacuità. Prima con il trattato bilaterale abbiamo calpestato la Nato, poi abbiamo cancellato d’un colpo tutte le ragioni del rapporto bilaterale decidendo di bombardare, infine abbiamo invocato la Nato per rallentare i raid… Qual è il nostro ruolo internazionale? Non c’è. Finirà come quando abbiamo lasciato l’Iraq, che Rumsfeld disse: tanto non servivate».

Disse proprio così?
«Certo, c’è la dichiarazione ufficiale».

Ora la nuova strategia Usa in Afghanistan prevede i colloqui con i talebani. Lei che ne pensa?
«Bene. E’ un assioma militare: se non si conoscono i nemici è inutile fare alcunché».

In conclusione, come si esce dall’Afghanistan?
«Chiudendo il gas e andando via. E chiedendoci: che cosa lasciamo laggiù, oltre a tutte queste giovani vite spezzate?». (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Popoli e politiche

E’ come se l’uccisione di Osama andasse in onda a puntate su Fox Crime.

La ricerca di una verità credibile sul come sia stato fatto fuori Osama bin Laden è stata deliberatamente ostacolata dalla stessa sceneggiatura da telefilm d’azione, dagli stessi effetti speciali, modello fiction con cui si è costruita la gestione mediatica dell’attacco militare. Vi mettereste a caccia di incongruenze narrative, per esempio della serie 24, piuttosto che dell’ultima stagione di NCIS ? Tutti vi diranno: e piantala! fammi vedere come va a finire questa nuova puntata. E tutto diventa come se fosse stato appena trasmesso da Fox Crime.

Sarà perché quanto è successo a proposito delle controverse ricostruzioni dell’Attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre ha fornito un precedente prezioso e istruttivo, quanto sta avvenendo dopo l’uccisione di Osama bin Laden sembra perfettamente scontato. Le reticenze dell’Amministrazione Obama, le mezze verità rilasciate alla stampa da Leon Edward Panetta, il capo della Cia, le contraddizioni sulla ricostruzione ufficiale della meccanica degli avvenimenti che hanno portato all’individuazione del nascondiglio, all’attuazione del piano di attacco e alla successiva morte del ricercato globale n.1, senza contare la decisione di non divulgare foto e video del corpo di Osama bin Laden, tutti questi fatti messi insieme congiurano perché nascano dubbi, dietrologie, teorie complottiste. La domanda è semplice: perché? C’è chi dice che Barak Obama ha fatto un grande cosa dando l’ordine di eliminare fisicamente Osama, ma che ha sbagliato a farlo uccidere, invece che catturare. E che il suo secondo errore è stata la decisione di non divulgare le foto, alimentando la possibile leggenda di un Osama ancora vivo.

Ma se ben guardiamo le cose, dobbiamo contestualizzarle, in almeno tre scenari contemporanei e in un certo senso contigui. Il primo scenario è la ripercussione sulla politica interna agli Stati Uniti, ben sapendo che la politica interna degli Usa è vissuta con la stessa importanza che assume la politica estera. Alla notizia della morte di Osama, data dallo stesso presidente Obama in diretta televisiva, le tv di tutto il mondo hanno trasmesso le scene di giubilo a Washington e a New York. Di li a qualche ora le Borse di tutto il mondo hanno registrato un incremento del valore del dollaro Usa e un calo del prezzo del petrolio. I sondaggi hanno dato il gradimento Obama in risalita di un decina di punti. Un grande viatico alla rielezione del 2012, dopo la debacle elettorale di medio termine. Poiché tutti i commentatori dicono che i temi della prossima campagna elettorale saranno prettamente sociali ed economici, ecco che è di tutto interesse per lo staff di Obama che la memoria dell’uccisione di Osama rimanga attivo il più a lungo possibile: polemiche, sospetti e dietrologie sono utilissime allo scopo. Rilasciare informazioni col contagocce dilata i tempi di attenzione sull’evento, a tutto vantaggio della reputazione del presidente in carica.

Il secondo scenario è la guerra in Afghanistan: da nove anni si trascina una guerra, senza apprezzabili né visibili risultati. La morte di Osama può essere una svolta: l’uccisione del nemico globale n.1 può dare impulso a una exit strategy, che coinvolga i Taliban del mullah Omar, per dare quel tanto di stabilizzazione, che permetta agli Stati uniti e alla Nato, dunque ai governi europei coinvolti nelle operazioni belliche di sganciarsi dalla regione, senza perdere la faccia davanti alle rispettive opinioni pubbliche, stanche di aver perso tanti uomini sul terreno, ma anche di aver speso un sacco di soldi, sin qui inutilmente. Anche in questo caso tutti i mezzi sono utili, per tener vivo e presente a tutti il più a lungo possibile il successo dell’uccisione di Osama, anche, appunto polemiche, sospetti e dietrologie sulla morte del capo di al Qaeda.

Il terzo scenario è proprio collegato alla situazione in Afghanistan: è il Pakistan. Per anni gli Usa hanno finanziato il Pakistan, prima per sostenere i Taliban contro i Russi, poi per sostenere gli alleati occidentali contro i Taliban e al Qaeda. Siccome il Pakistan è strategico per la stabilizzazione dell’Afghanistan, la decisione di far fuori dallo scacchiere la pedina Osama è stata un passaggio decisivo. Ma agli occhi del mondo arabo non si possono far passare i potenti servizi segreti come “traditori”. Quindi le contraddizioni della ricostruzione circa il ruolo dei servizi segreti, circa il ruolo della polizia pakistana, circa la proprietà del villone di Abbottabad sembrano molto funzionali a creare quella confusione che possa permettere al Pakistan di assumere un ruolo pubblicamente diverso nella “guerra”al terrorismo in Afghanistan.

Dunque, siccome i media sono un terreno di scontro politico, molto moderno e sofisticato, ma non per questo meno feroce, le presunte defaiances della strategia di comunicazione dell’Amministrazione Obama altro non appaiono che leve sapientemente utilizzate per guidare il consenso verso i prossimi salti mortali in politica estera Usa, senza rinunciare a una eccellente spendibilità nella prossima campagna elettorale. Chi da noi critica la versione ufficiale sembra avere lo stesso atteggiamento scettico dei repubblicani negli Usa, così come la totale accettazione della verità ufficiale da parte dell’opinione pubblica orientata a destra in Italia è, paradossalmente, omologabile ai sentimenti dei democratici americani, come a dire: abbiamo fatto fuori il nemico globale n.1, che altro andate cercando?

Il che è un altro modo per dire che chi fa dietrologia sta semplicemente giocando, forse inconsapevolmente lo stesso gioco di chi depista la verità. Tutto il mondo è paese, le campagne elettorali sono per i partiti politici nelle democrazie occidentali come gli esami per Edoardo De Filippo: non finiscono mai. Beh, buon giornata.

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“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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Attualità

La Procura della Repubblica di Roma apre un’inchesta sulla sparatoria che ha provocato la morte della ragazzina di 13 anni a Herat.

A quanto apprende l’ADNKRONOS, la Procura della Repubblica di Roma aprirà un’inchiesta sull’incidente avvenuto questa mattina nella zona di Herat, dove una bambina afghana di 13 anni e’ morta e altri tre cittadini afgani sono rimasti feriti in uno scontro a fuoco con una pattuglia italiana dell’Omlt (Operation mentoring liason team). Secondo la ricostruzione fin qui resa dai militari italiani, si afferma che l’auto è stata fatta oggetto di colpi di mitraglia di avvertimento prima in aria, poi sull’asfalto e infine sul cofano. Ma qualcosa non va: in una foto pubblicata da repubblica.it si vede chiaramente il foro di entrata di una proiettile nel montante sinistro del lunotto posteriore della vettura, una Toyota Corolla. Beh, buona giornata.(http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/auto-afghanistan/2.html)

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