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Elezioni, pareggio di bilancio e recessione: attenti alle frottole.

di MARCO PALOMBI-Il Fatto Quotidiano
Quale sarà la vera agenda del prossimo governo? È questa la domanda da cui siamo partiti per spiegare che la libertà d’azione macroeconomica di qualunque esecutivo si insedi a marzo sarà, per usare un eufemismo, piuttosto limitata. Se si volesse usare uno slogan, ad esempio, si potrebbe dire che le vere elezioni italiane saranno quelle tedesche del prossimo ottobre: è tutto nel rapporto con l’Unione europea infatti – e, ancor più, con gli altri paesi dell’eurozona – che si gioca il destino del nostro paese e, per quelli a cui interessa, del prossimo governo. Ecco un breve riassunto per capitoli dello stato dell’arte e di quel che c’è da aspettarsi tra poche settimane.

Il punto di partenza. Gli schieramenti in campagna elettorale possono promettere molto, ma occorre sempre ricordare che gli esecutivi si muovono ormai in un meccanismo di sovranità limitata. Il governo italiano, infatti, non solo ha rinunciato tempo fa alla leva monetaria, ma in sostanza anche a quella fiscale: il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, e promesso ai partner continentali entro quest’anno, lo obbliga infatti ad agire in una sola direzione. La faccenda si farà ulteriormente complicata con la legge di stabilità del prossimo anno: dal 2015 scatta, infatti, l’obbligo sancito dal Fiscal compact (approvato in tutta fretta dalla strana maggioranza nell’ultimo scorcio di legislatura) di diminuire la parte del debito pubblico che supera il 60% del Pil di un ventesimo l’anno. In soldi fanno una cinquantina di miliardi l’anno: siccome i conti si faranno sul prodotto nominale – e non quello depurato dall’inflazione – il problema non sarebbe insormontabile se ci fosse un po’ di crescita. Solo che non c’è, e qui veniamo al vero problema.

La recessione. Dall’inizio della crisi abbiamo perso 7 punti di Pil, dice Bankitalia, e l’emorragia non accenna a finire e colpisce ormai la struttura stessa del tessuto produttivo che ha fatto grande l’economia del nostro paese. Sempre dal 2008, per dire, la produzione industriale è scesa del 25%, il suo volume rilevato all’indice grezzo segna 82,9, al minimo dal 1990. Riassunto: le aziende chiudono, aumentano i disoccupati, calano i consumi e le entrate dell’erario. Questa è la spirale, questa è la priorità di qualsiasi governo nell’immediato. Poteri di intervento? Nei limiti di bilancio di cui abbiamo parlato, molto pochi, anche perché lo stato dei conti pubblici non è quello raccontato da Mario Monti in questi mesi (“siamo fuori dall’emergenza”).

Una nuova manovra? Forse sarà la prima cosa che il prossimo esecutivo dovrà fare per ottenere il famoso pareggio di bilancio obbligatorio, nonostante sia pensiero comune che la cosa non farà che peggiorare la recessione in atto (se mi tassi spendo meno, se lo stato spende meno qualcuno – pensionati, lavoratori, aziende – vedrà diminuire i suoi introiti e spenderà meno). I problemi sono due. Intanto nel bilancio pubblico 2013 ci sono alcune spese non finanziate interamente: le missioni militari all’estero sono scoperte da settembre, il rinnovo dei contratti di oltre 200mila precari della P.A. da giugno e anche le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in deroga su tutti) scarseggiano. Totale: 5-7 miliardi di euro. In secondo luogo, le previsioni del governo sulla (non) crescita sono assai ottimiste: -0,2% nel 2013, mentre quelle di Bankitalia, Confindustria, Fmi etc veleggiano verso una contrazione dell’1%. Essendo il rapporto deficit/Pil appunto un rapporto, se il denominatore è più basso il risultato è peggiore. In sostanza la manovra necessaria potrebbe aggirarsi attorno ad un punto di Pil – circa 15 miliardi – ma fonti della Ragioneria generale dello Stato hanno parlato negli ultimi giorni di un importo più contenuto (7-10 miliardi). È tanto vero che il governatore della Banca d’Italia ha appena ribadito che “l’Italia non deve abbassare la guardia” sui conti pubblici e che per farlo servono “ulteriori, prolungati sforzi”.

Soluzioni. Mantenendo inalterata la struttura dei rapporti con l’Europa (moneta unica e relativi trattati di funzionamento), l’unica via d’uscita è rappresentata dalle scelte della Germania. Negli ultimi anni Berlino ha basato la sua strategia economica sulle esportazioni, in particolare nei paesi dell’eurozona, tenendo bassi i suoi salari e la sua inflazione. Il risultato è che ha mandato in deficit i suoi partner europei che ora, però, hanno smesso di comprare i suoi prodotti (e infatti recentemente le stime di crescita tedesca sono state tagliate). Ha spiegato al nostro giornale, ad esempio, il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo: “La nostra parte noi l’abbiamo fatta, ora la Germania deve fare la sua. Ha due strade: o rilancia la sua domanda interna aumentando i salari e/o la spesa pubblica oppure consente un certo grado di europeizzazione dei debiti pubblici”. Sulla stessa linea il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: “La Germania deve fare la sua parte aumentando i salari e spingendo la sua domanda interna e poi basterebbe una diversa politica di bilancio Ue che escludesse alcuni investimenti dai saldi validi per il Patto”. A guardare la campagna elettorale tedesca – Cdu o Spd non fa differenza – non c’è molto da sperare: non solo nessuno propone politiche espansive interne per essere davvero “la locomotiva d’Europa”, ma tutto si gioca sulla critica ai cosiddetti Piigs fannulloni (e, in qualche caso, ai “terroni germanici”, che sono i poveri del nord e dell’est).

Sogni elettorali. In questo contesto le promesse di mirabolanti tagli di tasse fatte soprattutto da Silvio Berlusconi e Mario Monti non solo sono poco credibili, ma non sembrano tener conto delle priorità nella situazione attuale: come ha recentemente ribadito un working paper del Fmi – firmato dal capo economista Olivier Blanchard e da Daniel Leigh – non solo l’austerità fa male, ma il moltiplicatore (l’effetto positivo/negativo delle varie politiche economiche) della spesa pubblica, in particolar modo quella per investimenti, è assai superiore a quello fiscale. Tradotto: in una recessione bisogna fare politiche anticicliche e, tra queste, meglio che lo Stato spenda di più piuttosto che tagliare le tasse. Una proposta in questo senso in campagna elettorale l’ha lanciata ad esempio Pier Luigi Bersani sui debiti della P.A. verso le imprese. Si tratta, ma non c’è una stima ufficiale, di 90 miliardi in tutto che, al momento, non sono registrati dal nostro bilancio: tutti sanno che c’è un debito e che andrà saldato ma, secondo le stesse regole Ue, può essere tenuto fuori dai conti finché lo Stato non paga. Il Pd adesso propone di stanziare 50 miliardi per rifondere le Pmi emettendo titoli di stato vincolati a quel fine. Il problema? È un’uscita che inciderebbe significativamente tanto sul deficit quanto sul debito pubblico e per fare una cosa del genere – o altre che prevedano questi livelli di spesa – serve il permesso di Bruxelles. Ce lo daranno? (Beh, buona giornata).

Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall'altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.
Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall’altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Politica Popoli e politiche Potere

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L’operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l’idiozia» – letterale – delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa – insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato – una pratica potentemente «progressiva». Nell’epoca dell’ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all’arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.

Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».

Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra – e l’affermarsi del «socialismo sovietico» – per convincere le classi dirigenti dell’Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».

Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c’è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.

Quando queste hanno preso a reagire meno – per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse – è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni ’70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d’ordine è diventata «tagliare la spesa».

Qui il contributo di Mazzetti diventa prezioso. L’accumulazione, dopo gli anni ’70, è in qualche modo andata avanti lo stesso; com’è stato possibile?
Negli anni ’80 Keynes viene archiviato, ma resta il problema del finanziamento in deficit per «stimolare» nuove produzioni. «Il credito privato (anni ’90, ndr) ha svolto la stessa funzione del keynesiano deficit di bilancio. È stato l’unico modo per sostenere quella domanda che se fosse mancata avrebbe determinato sin dall’inizio quel drammatico crollo intervenuto negli ultimi anni». Il crollo del «socialismo reale» – di lì a poco – ha messo a disposizione del mercato oltre due miliardi di lavoratori-consumatori, un polmone straordinario che ha rallentato l’esplosione delle antinomie economiche per altri venti anni. Ma i nodi sono arrivati comunque al pettine.

«A differenza del debito pubblico, (quello privato, ndr) pretende di appropriarsi di una ricchezza reale attraverso uno scambio, pur non avendo messo in moto alcun lavoro aggiuntivo». Pensiamo al mondo oscuro dei prodotti finanziari derivati, cds, ecc: righe di codice dentro un computer da cui scaturiscono obblighi reali. «Il credito speculativo alimenta il debito senza la misura imposta dal collegamento con la produzione, e lo scarto tra la richezza reale e la pseudo-ricchezza finanziaria diventa incolmabile». Creare denaro col denaro, senza produrre nulla, ha prodotto una cecità pervasa da senso di onnipotenza. Il film Margin call è quasi un paradigma. Senza «la misura del collegamento con la produzione», del prestito commisurato a un determinato progetto ben dimensionato, l’investimento finanziario diventa «speculazione» senza limiti. Per elaborare i «prodotti finanziari» si chiamano i matematici, invece degli economisti; così come l’economia accademica scade a econometria. L’unica «misura» che conta è un algoritmo esponenziale, senza più l’impiccio della «cosa reale».

Ovvero «il capitale pretende di diventare una variabile indipendente rispetto alla stessa produzione». Negli anni ’70 era il salario, con qualche ragion pratica e morale in più, a nutrire questa speranza.
La crisi, dunque, è il punto d’approdo «fisiologico» di una dinamica surreale. Ma «la crisi non è altro che il processo attraverso il quale una nuova forma di vita sociale preme per venire alla luce». Non torneremo a come stavamo prima. Lo dicono anche Draghi e Monti, ma in direzione totalmente opposta a quella auspicabile per la stragrande maggioranza degli esseri umani («un innovativo processo di coordinamento generale»).

Il liberismo trionfante ha ammanettato lo stato come soggetto economico, concedendogli solo tre possibilità: «lo stato viene costretto a limitare le sue spese; lo stato continua a spendere, ma aumenta le tasse; lo stato attua le spese necessarie, ma indebitandosi con i privati e come un privato». È la storia degli ultimi 30 anni. Ma per questa via «non c’è soluzione alla crisi». Perché è l’imprenditoria privata a non saper come utilizzare l’eccesso di risorse disponibili.
«Quando la spesa dello stato ha cominciato a crescere senza generare un aumento multiplo del reddito, ciò testimoniava che il processo di riproduzione del rapporto di valore era bloccato».

Ma invece di prendere atto di questa realtà e «far recedere il potere oppressivo dei capitalisti» (Keynes!) si è proceduto nella direzione opposta. Per mantenere la libertà di impresa vengono ricostruite le condizioni della scarsità. Quindi «più povertà per tutti (quelli che lavorano)», così riprende l’accumulazione. Pardon, la crescita…
Qui l’invito di Mazzetti non può che essere quello di fare come Keynes (e Marx): «ristrutturare del senso del problema con cui ci si confronta», guardarlo da un altro lato. Insomma: pensare di nuovo.

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