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Popoli e politiche

La democrazia e i pericoli del leader carismatico.

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva – a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile». (Beh, buona giornata).

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