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Informazione, stampa e televisione nella globalizzazione.

Mentre, come è giusto che sia, ci si occupa del ruolo di Al Jazira nel mondo arabo e ci interroga sui condizionamenti che gli Usa gli avrebbero imposto in questi anni, mentre tutto questo succede, dunque, bisognerebbe fare due conti con la realtà dell’informazione ai tempi della globalizzazione.

Perché se il rapporto tra stampa e potere è sempre stato problematico, in questa epoca l’informazione, soprattutto televisiva, ha assunto un ruolo sproporzionato, sempre più spesso incentrato su una funzione di supplenza della politica, per non dire di alcuni casi in cui il maistream ha letteralmente surrogato partiti, governi, cancellerie.

Se la gestione imperiale dell’Amministrazione Bush impose al modo la guerra preventiva al terrorismo, questo fu possibile per un atteggiamento “patriottico” della stampa americana, un atteggiamento che sorprese un po’ tutti. Ci si è chiesti più di una volta: ma dov’è finito lo spiritaccio indipendente del giornalismo made in Usa, quello che non guarda in faccia a nessuno, men che meno se si tratta dell’inquilino della Casa Bianca?

Negli anni dell’amministrazione Bush, la stampa americana, consapevole della ferita provocata dall’Attacco alle Torri Gemelle ha avuto una condotta, diciamo così, morbida. Cominciavano le grandi difficoltà economiche strutturali della carta stampata, il grande sorpasso informativo della tv su quella che fino allora era stata la supremazia della stampa, cioè l’approfondimento, il commento, la formazione dell’opinione, il dialogo con l’opinione pubblica. Mentre il governo Bush faceva il bello e il cattivo tempo, praticamente senza contraltare, la tv lo ha sostenuto nella sua strategia mediatica. Non dimentichiamo che proprio la tv, la Fox in particolare, ebbe un ruolo strategico per la prima elezione di Bush, ai danni dello sfidante Al Gore.

Dunque non stupisce che Rumsfeld, allora ministro della Difesa degli Usa in guerra contro il terrorismo in Afghanistan e in Iraq, cercasse di addomesticare Al Jazira, visto che c’era riuscito in patria. Né che l’attuale amministrazione Obama, attraverso il ministro degli Esteri, la signora Clinton, cerchi un megafono in Al Jazira per supportare le rivolte della così detta primavera araba.

Non stupisce neppure che l’emiro del Qatar usi Al Jazira per accreditarsi verso gli Usa. Succede regolarmente nel modo occidentale, come dimostra lo scandalo che ha coinvolto Murdoch e Camerun in Uk, perché non nei paesi arabi?

Insomma, per portare avanti i suoi piani di sviluppo, la globalizzazione usa il mainstream, e la tv in particolare, per ridefinire quegli assetti finanziari, quegli equilibri geopolitici, quegli sbocchi ai mercati, quelle politiche commerciali sovrannazionali che la politica ci metterebbe troppo tempo a mettere in atto.

E per stare al passo coi tempi scanditi dal commercio globale, dalla finanza sovrannazionale la politica deve trovare alleanze coi media globali. I quali, a loro volta, rinunciano a porzioni consistenti di indipendenza verso i loro lettori e telespettatori, a favore di un autorevolezza e un accreditamento presso i nuovi poteri forti globali.

Se questo è quanto sta succedendo, ancora più comica è la funzione della tv in Italia rispetto al morente berlusconismo. La tv italiana sembra non vedere altre prospettive che il passato politico dei Berlusconi. Uno come Minzolini, per esempio, è più vicino alla disperazione professionale di un giornalista libico che va in onda e dice che va tutto bene e che Geddafi vincerà, di quanto egli stesso non si renda conto. Se ne accorgono però i telespettatori del TgUno, che continuano a abbondare in massa la rete ammiraglia della tv pubblica italiana. Beh, buona giornata.

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Condoleeza Rice non sa spiegare a un bimbo americano perché il «waterboarding» era una tortura giustificabile.

Scolaro di 9 anni mette in crisi Condy Rice, di Umberto De Giovannangeli-l’Unità

Lezione di giornalismo. E di coraggio civile. A impartirla è un bambino di nove anni. A riceverla è Condoleezza Rice. L’ex segretaria di Stato Usa «interrogata» da un bambino di quarta elementare sul «waterboarding» e le altre torture adottate dalla Cia con i sospetti terroristi. Quella che fino a pochi mesi fa è stata tra le donne più potenti del mondo si è trovata a dover affrontare imbarazzanti, ed effettivamente non previste domande, sui metodi duri di interrogatorio approvati, tra gli altri, anche da lei durante l’amministrazione Bush, in occasione della sua visita ad una scuola elementare ebraica di Washington, prima sua uscita pubblica nella capitale dall’insediamento del presidente Barack Obama.

Dopo prevedibili domande sulla sua infanzia nell’Alabama segregazionista, è arrivata quella di Misha Lerner che ha chiesto cosa ne pensasse la Rice delle critiche espresse da Obama sui metodi di interrogatorio duro adottati dall’amministrazione Bush. In realtà, ha raccontato al Washington Post la mamma del bambino, Imma Lerner, originariamente la domanda del piccolo Misha era ancora più dura e le maestre lo hanno convinto a formularla in modo diverso evitando la parola tortura. «Fatemi dire subito una cosa – è stata la risposta della un po’ spiazzata Rice – il presidente Bush è sempre stato molto chiaro nel dire che avrebbe fatto di tutto per proteggere il Paese dopo l’11 settembre. Ma allo stesso tempo è stato sempre molto chiaro nell’affermare che non avrebbe mai fatto niente, proprio niente che fosse contrario alla legge ed i nostri obblighi internazionali e che era disposto ad autorizzare solo pratiche legali per difendere il Paese». Ai bambini ha ricordato che «eravamo tutti terrorizzati dall’idea che il Paese potesse essere attaccato di nuovo, l’11 settembre è stato il giorno più brutto del mio mandato di governo, costretta a vedere 3mila americani morire: ed in quelle condizioni difficili il presidente non era pronto a fare qualcosa di illegale, spero che la gente capisca che stavamo cercando di difendere il Paese».

Non è la prima volta che la Rice è costretta a difendere in pubblico le controverse pratiche di interrogatorio, equiparate a vere e proprie torture ora anche da esponenti dell’amministrazione Obama, adottate da Bush e che lei è stata una dei primi ad approvare, secondo quanto emerge da documenti pubblicati recentemente. L’altra settimana si era trovata sotto il fuoco di fila delle domande degli studenti della sua Stanford, l’università della California dove la Rice è tornata ad insegnare conclusa l’esperienza a Washington. Interrogata sullo stesso argomento, «Condi» aveva dato una risposta che aveva suscitato qualche perplessità, affermando che «noi non abbiamo mai torturato nessuno: per definizione, se autorizzata dal presidente, questa non è una violazione dei nostri impegni con la Convenzione Contro la Tortura» una frase che presentava qualche somiglianza con la famosa affermazione di Richard Nixon, dopo le dimissioni per il Watergate, nella sua intervista con David Frost, che «quando il presidente Usa fa qualcosa, per definizione non è illegale». Invece quelle pratiche sono illegali. A testimoniarlo sono anche le foto, il cui contenuto l’Unità ha anticipato nei giorni scorsi, che il Pentagono si è impegnato a rendere pubbliche entro il 28 maggio. Foto di abusi, di torture. Che rispondono alla domanda del piccolo Misha molto più delle giustificazioni di Condi Rice. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Quando Bush voleva militarizzare tutto il Nord America.

di Stephen Lendman – GlobalResearch.ca

Il titolo si riferisce alla Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità (il cui acronimo in inglese è SPP), conosciuta anche come North American Union. Questa organizzazione ebbe origine il 23 marzo del 2005 a Waco, in Texas, durante una conferenza a cui parteciparono George Bush, il presidente messicano Vincente Fox e il premier canadese Paul Martin. Il suo obiettivo è la promozione di un accordo che stimoli l’integrazione economica e politica delle nazioni coinvolte, nonché la collaborazione dei rispettivi servizi di sicurezza. Le sue attività si svolgono senza clamore mediatico, attraverso gruppi governativi che architettano direttive politiche vincolanti bypassando l’opinione pubblica ed il normale dibattito parlamentare.

In sintesi, è un colpo di stato corporativo spalleggiato dall’esercito, che affossa la sovranità delle tre nazioni partner, la loro popolazione e i loro organismi legislativi. E’ un pugnale infilzato nel loro cuore democratico, anche se il pubblico è in gran parte inconsapevole delle sue attività.

L’ultimo summit dell’SPP si è tenuto a New Orleans lo scorso aprile. Da allora, la sua azione è stata in gran parte intralciata dalla gravità della crisi economica globale, che richiede la completa attenzione dei leader coinvolti. Ciononostante, le decisioni prese finora saranno riportate nelle righe che seguono, insieme a qualche informazione addizionale.

Lo scorso settembre, l’«Army Times» ha riportato che il terzo Team d’Assalto della prima Brigata (al tempo dispiegato in Iraq) sarebbe stato trasferito sul suolo americano entro il primo ottobre, per entrare in una «forza federale pronta all’azione in caso di emergenze o disastri di origine umana o naturale, attentati terroristici inclusi».

«E’ la prima volta che un’unità attiva viene messa sotto il comando della NorthCom, un comando congiunto creato nel 2002 per coordinare e controllare le iniziative di difesa federali e le azioni di supporto alla difesa delle autorità civili».

Poi, il primo dicembre, il «Washington Post» ha dichiarato che il Pentagono avrebbe dispiegato 20mila soldati sul suolo statunitense entro il 2011, con l’obiettivo di «aiutare gli ufficiali statali e locali in caso di attacco nucleare o altre catastrofi». Sono state impostate tre unità di combattimento capaci di una reazione rapida. Altre due potrebbero aggiungersi al progetto. Saranno integrate con 80 unità della National Guard, addestrate per rispondere ad attentati di natura chimica, biologica, radiologica, nucleare, con esplosivi ad alto potenziale o altri attacchi di natura terroristica. In altre parole, si pensa di usare plotoni addestrati ad uccidere per militarizzare ed occupare gli Stati Uniti.

Il pretesto è la sicurezza nazionale. Queste unità saranno operative in caso di attentato terroristico, genuino o no, e anche in caso di tumulti da parte della popolazione, provata dalla crisi economica. Considerando la portata e la gravità della crisi, esiste una discreta probabilità che qualcuno, prima o poi, si decida a reagire. In questo caso, pattuglie armate di soldati si affiancheranno alla polizia locale (già militarizzata) non appena sarà dichiarata la legge marziale o arrivi l’ordine di effettuare azioni di sicurezza repressive.

Secondo il documento “Essere pronti al prossimo disastro catastrofico”, pubblicato nel 2008 dalla DHS/FEMA, dono state sviluppate procedure di “Emergenza Catastrofica” per reagire a situazioni “naturali” o “causate dall’uomo”. Se le condizioni lo richiederanno, si parla di sospensione della Costituzione e legge marziale. Si propone anche di militarizzare gli Stati Uniti per proteggere il mondo degli affari.

Lo scorso primo ottobre, in conseguenza all’annuncio che l’amministrazione Bush intendeva dispiegare pattuglie di soldati sul suolo americano, con un budget di “100 miliardi di dollari (di bailout)”, il Partito d’Azione Canadese ha pubblicato un post intitolato “ALLARME: GOLPE NEGLI USA”.

Probabili esiti

Gli sforzi dell’SPP si sono arrestati durante il periodo di transizione da Bush a Obama, ma il progetto di “integrazione profonda” rimane in piedi.
Il 19 gennaio, il Centro per la Politica Commerciale dell’Università di Ottawa ha tracciato le linee direttrici per un progetto di approfondimento dei rapporti tra Canada e USA. Il loro documento afferma che una «cooperazione repentina e sostenuta nel tempo» in questo periodo di crisi globale, avrebbe dovuto includere le forze di sicurezza e di difesa, il commercio e la competitività.

Il testo, inoltre, sostiene «che l’argomento cruciale è la necessità di ripensare l’architettura di gestione degli spazi economici comuni del Nord America, inclusa la liberalizzazione del commercio». Il linguaggio impiegato è ricco di espressioni come «ripensare (e) modernizzare le frontiere» e il loro significato contestualizzato sembra alludere ad un annullamento delle stesse. Sia quelle canadesi che quelle messicane. Allo stesso modo, il documento raccomanda di «integrare i regimi regolatori in un unico sistema che si possa applicare ad entrambi i lati della frontiera». Sostiene che l’arrivo di una nuova amministrazione a Washington è «un’opportunità d’oro» per forgiare un «programma che porti ad un mutuo beneficio e ridisegni la governance nordamericana e globale negli anni a venire».

Il testo sventola lo spettro del protezionismo e la necessità di evitarlo, dato l’attuale clima economico. Propone una «partnership USA-Canada più ambiziosa», che superi il NAFTA, in accordo con il Messico.

Un altro documento, prodotto dal Centro Nord Americano per gli Studi Transfrontalieri dell’Università Statale dell’Arizona ed intitolato “North America Next”, chiede una «competitività sostenibile nella sicurezza» ed una maggiore integrazione tra USA, Canada e Messico attraverso «una sicurezza sostenibile, un commercio ed un sistema di trasporti efficace» per rendere «le tre nazioni nordamericane più sicure, più economicamente funzionali e più prospere».

Sia il progetto dell’Università dell’Arizona che quello di Carleton mirano a rafforzare le iniziative dell’SPP grazie alla collaborazione della nuova amministrazione di Washington, specialmente in un clima di crisi economica globale che porta il problema in primo piano.

Altre tematiche in discussione

Il giornalista Mike Finch, in un articolo intitolato “North American Union Watch”, pubblicato sul quotidiano «The Canadian», riferisce che esistono organizzazioni statunitensi e canadesi il cui obiettivo è porre fine al libero flusso d’informazione su Internet.
Cita la scoperta di un «progetto per la eliminazione della libertà su Internet entro il 2010 in Canada» ed entro il 2012 in tutto il mondo, effettuata da un «gruppo di attivisti a favore della neutralità della rete».

Secondo la sua ricostruzione dei fatti, i due più grandi ISP canadesi, la Bell Canada e la TELUS, intendono limitare il browsing, bloccare alcuni siti e rendere a pagamento la maggior parte degli altri, in un’iniziativa articolata dal SPP che avrà inizio nel 2012. Reese Leysen, del servizio di web hosting I-Power, lo definisce un progetto «oltre la censura: vogliono uccidere il più grande ecosistema di libera espressione e libertà di parola mai esistito nella storia dell’uomo». Cita fonti interne a grandi aziende, che l’hanno informato su «accordi di esclusività tra gli ISP e i grandi fornitori di contenuti (come le TV e le case editrici di videogiochi) per decidere quali siti saranno inclusi nel Pacchetto Standard offerto agli utenti, mentre il resto della rete sarà irraggiungibile se non dietro una tariffa supplementare.»

Per Leysen, le sue fonti sono «affidabili al 100%». Anzi, indica che un quadro analogo è emerso da un articolo pubblicato su «Time» ad opera di Dylan Pattyn. Anche le fonti di quest’ultimo sarebbero interne alla Bell Canada e la TELUS. Secondo queste, si pensa di far rientrare solo i 100-200 siti più visitati nel pacchetto d’abbonamento base che, con tutta probabilità, includerà le agenzie di notizie più blasonate e terrà fuori tutto il circuito della stampa alternativa. «Internet diventerebbe un parco giochi per creatori di contenuti miliardari» come le TV via cavo, a meno che non si mettano in atto azioni per fermare questo processo.

Leysen pensa che gli Stati Uniti e gli ISP mondiali hanno idee simili sulla limitazione alla libertà di parola e le invasioni della privacy. Se ha ragione, la posta in gioco è altissima. Ma anche il margine di profitto è sostanzioso e, quindi, i governi amichevoli potrebbero essere d’accordo. Si parla anche di usare «marketing ingannevole e tattiche terroristiche» (come, ad esempio, sventolare la minaccia della pornografia infantile) per ottenere il consenso pubblico a queste norme liberticide mascherate da regole per la sicurezza della rete. È necessario fermarli immediatamente.

Progetti per ribattezzare l’SPP/NAU

Lo scorso marzo, il Fraser Insistute canadese lo ha proposto in un articolo intitolato: “Salvare la Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità” a causa dell’ondata di critiche suscitata dall’organizzazione. Suggerisce di scartare la sigla SPP/NAU, optando per NASRA (North American Standards and Regulatory Area) per nascondere il suo vero obiettivo. Secondo l’articolo, il “brand SPP” è ormai infangato, quindi è necessario sostituirlo per proseguire le iniziative che il NAFTA ha lasciato orfane: integrare la sicurezza a tematiche riguardanti la qualità della vita, come la sicurezza alimentare, il riscaldamento globale, il cambiamento climatico e le pandemie. Reclama anche un maggiore sforzo comunicativo per blandire la pubblica opinione. Vogliono ingannare il maggior numero di persone possibile, finché non sarà troppo tardi per intervenire.

Malcontento in America a livello statale

Il 23 febbraio, obiettando al concetto di “integrazione profonda”, il giornalista Jim Kouri di «News with Views» (NWV) ha pubblicato un articolo intitolato: “Che i singoli stati dichiarino la propria sovranità”. Il testo ripropone le parole dello stratega politico Mike Baker, quando disse: «Gli americani sono sempre più disillusi dalla mancanza di prospettiva a lungo termine dimostrata dal governo federale su tematiche come l’immigrazione clandestina, il crimine ed il caos economico. Il governo federale intende addirittura insinuarsi nella vita privata dei cittadini, attraverso leggi sul controllo della circolazione delle armi da fuoco ed altre iniziative», temi che i Padri Fondatori «relegavano alla discrezionalità dei singoli stati».
È anche preoccupante che gli stati non riescano a finanziare i loro progetti a causa di budget troppo ristretti e siano costretti a fare tagli. Oltre a questo, anche l’intrusione di Washington nell’amministrazione della giustizia locale è preoccupante.

Finora, nove stati hanno dichiarato la loro sovranità ed un’altra dozzina sta pensando di farlo. Le leggi già approvate o proposte variano dai diritti generali a quelli selettivi, come il controllo della circolazione delle armi da fuoco e l’aborto.

Il 30 gennaio, lo stato di Washington si è schierato con loro ed ha approvato la legge HJM-4009, che dichiara:
«Il Decimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che “i poteri non delegati dagli Stati Uniti ad opera della Costituzione, e non proibiti da essa, sono riservati rispettivamente ai singoli Stati, o alla popolazione”. Lo stesso emendamento definisce la portata totale del potere federale, stabilendo che esso è limitato a ciò che è esplicitamente scritto nella Costituzione.»
All’inizio di gennaio, anche il New Hampshire ha approvato una norma simile, la HCR-6, “che afferma i diritti degli Stati basandosi sui principi jeffersoniani”. Gli altri stati che, parzialmente o totalmente, concordano su questa linea sono la California, l’Arizona, il Montana, il Michigan, il Missouri, l’Oklahoma e la Georgia. Oltre a questi, i seguenti stati stanno attualmente dibattendo misure di questo tipo: il Colorado, la Pennsylvania, l’Illinois, l’Indiana, il Kansas, l’Arkansas, l’Idaho, l’Alabama, il Maine, il Nevada, le Hawaii, l’Alaska, il Wyoming e il Mississippi.

Oltre al dibattito sui diritti dei singoli stati, le tematiche principali di questo movimento sono:
— la crisi economica;
— il controllo nocivo che Wall Street esercita sulla politica;
— il suo effetto sul sistema dei Checks & Balances;
— i bailout eccessivi concessi ad un sistema bancario insolvente e corrotto a scapito dei budget degli stati individuali e dei loro diritti;
— la spesa pubblica spudorata ed insostenibile. Il debito pubblico che sta portando la federazione alla bancarotta, ponendo un peso insostenibile sulle spalle degli stati.

In linea di massima, ci si preoccupa che Washington sia complice nella crisi che attanaglia il paese e che voglia sbarazzarsi delle sue responsabilità oppure che, almeno, tenda ad assumere comportamenti di questo tipo. Se questo movimento si rafforza, servirà a rallentare il processo di “integrazione profonda” o a bloccarlo per un periodo considerevole, ma è improbabile che lo fermi del tutto. L’America delle corporazioni lo vuole, e generalmente ottiene ciò che vuole.

Potrebbe volerci più tempo, molto più tempo, a causa della crisi globale e del periodo necessario a superarla. Alcuni esperti annunciano a breve un’altra Grande Depressione peggiore della precedente ed addirittura peggiore dei “decenni perduti” del Giappone, dal 1990 ad oggi.
La priorità nel mondo dell’alta finanza e nei CdA delle grandi aziende è sfuggire alla crisi, se possibile. Eccetto che per motivazioni di “sicurezza nazionale”, tutto il resto viene in secondo piano. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: SPP: Updating the Militarization and Annexation of North America.
Traduzione per Megachip a cura di Massimo Spiga

Stephen Lendman is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization. He lives in Chicago and can be reached at lendmanstephen@sbcglobal.net

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Mr Dick Cheney continua a mostrare i muscoli.

da blitzquotidiano.it

L’ex-vice-presidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, ha accusato il presidente Obama di aver messo a repentaglio la sicurezza del Paese, con i suoi tagli alla difesa ed altre iniziativese e di aver reso piu’ probabili altri attacchi terroristici come quello alle Torri Gemelle.

Nella sua prima intervista televisiva da quando ha lasciato la Casa Bianca, rilasciata alla Cnn, Cheney ha criticato le dicisioni di Obama di chiudere il centro detentivo di Guantanamo, di aver messo fuori legge l’uso della tortura negli interrogatori dei sospetti terroristi e di aver sospeso per costoro i processi condotti dalle autorita’ militari.

”Credo – ha detto l’ex-vice di George Bush – che alcune delle iniziative annullate da Obama fossero assolutamente necessarie. Noi le abbiamo usate per prevenire altri attacchi contro gli Stati Uniti, e tutto è stato fatto legalmente ed in accordo con i principi della nostra costituzione”.

Le critiche di Cheney ad Obama non sono finite qui. Ha anche deplorato la nomina di Christopher Hill a nuovo ambasciatore a Bagdad.

”Non e’ l’uomo che io avrei scelto – ha dichiarato Cheney – perchè non possiede talento e nessuna delle qualità che ha il suo predecessore Ryan Cocker”.

FONTI INFORMATIVE
The Huffington Post

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di Paul Joseph Watson – Prison Planet.com

Il premiato reporter investigativo Seymour Hersh ha sganciato un’altra delle sue bombe questa settimana, quando ha rivelato che l’ex vice-presidente Dick Cheney disponeva di una sua unità di assassinio politico in stile SS che faceva capo direttamente a lui.

Martedì [10 marzo 2009] Hersh, dinanzi alla platea della University of Minnesota, ha affermato: «Non avevo ancora parlato di ciò dopo l’11/9, ma la CIA era profondamente coinvolta in attività all’interno della nazione contro persone ritenute nemiche dello Stato. Senza averne alcuna autorità giuridica. Non sono stati ancora chiamati a rispondere di questo».

Hersh poi è passato a descrivere in che modo il Comando congiunto delle operazioni speciali (JOSC) è stato un unità di assassinio politico che ha compiuto omicidi politici all’estero. «Si tratta di un braccio speciale della nostra comunità delle operazioni speciali che si muove in modo indipendente», ha spiegato. «Non devono fare rapporto a nessuno, tranne che nel periodo Bush-Cheney, quando riferivano direttamente all’ufficio di Cheney. Il Congresso non ha alcun controllo su di esso.»

La rivelazione che Cheney disponeva di una sua unità privata di assassinio non raffigura un quadro troppo lontano dalla famigerata SA (Sturmabteilung) di Hitler, la tanto temuta ala paramilitare del partito nazista, che fu utilizzata per colpire, torturare e uccidere gli oppositori politici del partito nazista nella Germania degli anni Trenta né dalle Waffen-SS, che successivamente furono utilizzate in guerra per compiere esecuzioni e crimini di guerra.

Le SA furono più avanti prese di mira da Hitler nel corso della Notte dei Lunghi Coltelli, una brutale purga volta a eliminare degli avversari politici sia all’interno che all’esterno del partito nazionalsocialista. Centinaia di persone furono liquidate a sangue freddo dalla Gestapo e dalle SS.

Significativamente, i tribunali e il governo tedeschi rapidamente spazzarono via secoli di leggi che proibivano le esecuzioni stragiudiziali per dimostrare la loro fedeltà a Hitler. Le Waffen-SS furono ritenute non perseguibili, nonostante fossero flagrantemente coinvolte in crimini di guerra patenti e in corso, così come in omicidi a livello interno.

Il Comitato congiunto delle operazioni speciali, l’unità di assassinio in capo a Cheney, è anche descritto come un settore di operazioni ‘extra-legali’.

«Si tratta essenzialmente di un circuito esecutivo per gli assassinii, ed è andato avanti a oltranza», ha affermato Hersh. «Sotto l’autorità del Presidente Bush, si sono introdotti in certi paesi senza parlare con l’ambasciatore né con il capo della stazione CIA, e lì hanno rintracciato delle persone prese da un elenco, le hanno uccise e poi se ne sono andati. Questa cosa è continuata, in nome di tutti noi».

Ed è ancora in corso. Nessuno dei capovolgimenti degli ordini esecutivi di Bush da parte di Obama dice nulla circa l’abolizione del Comitato congiunto delle operazioni speciali. Di fatto, l’unità speciale è parte integrante degli ampiamente intensificati bombardamenti di Obama e delle altre incursioni in Pakistan. (Beh, buona giornata).

Traduzione per Megachip a cura di Paolo Maccioni e Pino Cabras.

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