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Anche in Cina gli indignados.

Da:http://www.china-files.com/archivea.php?author=Simone%20Pieranni,%20Gabriele%20Battaglia

Eccoli qui gli indignados con caratteristiche cinesi. L’Occidente – abituato a proiettare l’immagine di se stesso in tutto il mondo, come se rappresentasse il tutto e non la parte – li attendeva forse sotto forma di dissidenza politica. La Cina traduce invece a suo modo, del tutto materialista, una lotta comune a livello globale: quella contro il capitale finanziario che prima promette e poi affama.
Update 29 ottobre

Stamattina è stato ufficializzato il blocco dell’aumento di tasse previsto prima dei riots che hanno avuto luogo nei dintorni di Huzhou.

Il South China Morning Post, ha riportato alcune testimonianze: ” Il mio capo mi ha appena detto di tornare al lavoro domani, altrimenti sarò messo in una lista nera”, ha detto un lavoratore, aggiungendo che molti altri avevano respinto questo tipo di ordini. “Non voglio andare a lavorare perché il governo sta creando un’aria di tensione con l’invio di poliziotti armati. Questi gesti non fanno altro che aumentare il risentimento.

Il lavoratore in questione inoltre conferma le voci di possibili morti negli scontri: “ho visto due lavoratori migranti perdere i sensi dopo essere stati picchiati dalla polizia armata, ma le autorità locali affermano che nessuno è morto.”

La cronaca.

Il South China Morning Post li ha definiti – oggi 28 ottobre – gli indignati cinesi. Non hanno hashtag su Twitter, stickers stilosi e portavoci noti, ma sono inferociti: si tratta dei proprietari di piccole aziende e i loro lavoratori. Dopo un periodo di crisi dovuta a mancanza di credito dalle banche, ieri si sono riversati per strada per protestare contro l’aumento delle tasse. Una novità assoluta per la Cina: padroncini e operai insieme contro le autorità.

E’ accaduto a Huzhou, nello Zhejiang considerata la capitale mondiale dell’abbigliamento per l’infanzia: da lì provengono tutti i vestiti dei bambini cinesi e occidentali, da lì è partita una nuova stagione di proteste in Cina. Dopo aver rifiutato il pagamento delle tasse, da una piccola fabbrica di abbigliamento è partita la protesta che ha portato i proprietari di piccole imprese e i loro lavoratori a distruggere strutture pubbliche, rovesciando e incendiando veicoli. Si tratta di un fenomeno nuovo in Cina, che vede per la prima volta dalla stessa parte piccoli imprenditori e lavoratori.

La situazione nella regione che costituisce il polmone economico del paese ha vissuto così un aumento della tensione. Dopo la fuga di molti imprenditori, schiacciati dagli usurai, e il fallimento delle piccole e medie imprese, la protesta è sfociata in scontri. Sarebbero 28 gli arrestati, mentre le forze dell’ordine cercano di riportare la calma nella città. Il malcontento però, non sarebbe limitato ad Huzhou, l’intera regione è ormai in fibrillazione, in attesa delle annunciate manovre di sostegno del governo centrale. Xinhua ha riferito che diversi agenti di polizia e responsabili della gestione della città sono stati feriti quando oltre 100 manifestanti si sono recati presso la sede del governo, scagliando pietre contro gli edifici e distruggendo lampioni e insegne. Sempre secondo l’agenzia ufficiale cinese, le violenze si sarebbero inasprite dopo che mercoledì un gran numero di manifestanti aveva bloccato una strada principale e un veicolo aveva abbattuto dieci manifestanti.

Secondo quanto riportato dai media locali, la folla di manifestanti avrebbe lasciato gli uffici del governo solo nella notte di mercoledì, salvo riunirsi alle prime luci dell’alba di giovedì 27 ottobre: avrebbero nuovamente assaltato il palazzo distruggendo almeno trenta macchine parcheggiate nelle vicinanze e altri edifici pubblici. Secondo alcuni abitanti della zona che si sono espressi attraverso Weibo, il Twitter cinese, i manifestanti sarebbero stati in realtà migliaia, mentre non si è ancora a conoscenza dell’eventuale numero dei feriti tra chi protestava. L’incidente è stato l’ultimo di una serie di sollevazioni di massa che hanno scosso le regioni meridionali negli ultimi mesi. A settembre, centinaia di residenti avevano bloccato una strada e preso d’assedio la stazione di polizia nel villaggio di Wukan, per protestare contro la presunta cessione di un allevamento di maiali di proprietà collettiva. Secondo alcuni blogger la rabbia dipenderebbe dall’aggravio del carico fiscale, come nel caso di una fabbrica che si è vista aumentare le tasse sulle proprie macchine da cucire.

Il commento.

Tra mercoledì e giovedì, centinaia (secondo Xinhua) o migliaia (secondo testimonianze locali) di piccoli imprenditori con i loro dipendenti sono scesi in piazza a Huzhou, nello Zhejiang, assaltando uffici pubblici e incendiando automobili, per protesta contro l’aumento delle tasse locali.

La rivolta trasversale, una vera e propria alleanza dei ceti produttivi, prende di mira i simboli del potere politico e discende direttamente dalla stretta del credito alle piccole imprese, imposta dall’alto per frenare l’inflazione, che sta di fatto strangolando quel settore che è stato la vera e propria spina dorsale del boom cinese. Fine dei finanziamenti, aumento delle tasse, diminuzione degli ordinativi internazionali, crescita dell’inflazione: una miscela letale per una piccola industria che attraverso l’export ha trainato il Paese per trent’anni. Il South China Morning Post li ha definiti “indignati”: un caso?

Se vogliamo, si tratta di una protesta che assomiglia più alle degenerazioni italiane che alla consapevolezza mostrata dal movimento nel resto del mondo. Ma l’immagine non inganni: se dalle nostre parti l’esito violento è stato provocato da una spinta ideologica – l’azione premeditata del Black Bloc non si sa quanto infiltrato – qui assomiglia a migliaia di “incidenti” che si verificano ogni anno, e anche questo ci racconta un po’ di Cina.

L’assenza dei cosiddetti “corpi intermedi” e di un compiuto Stato di diritto non lascia che una via d’uscita: l’esplosione. Dopo di che, sarà il potere politico stesso a tentare di introiettare nel sistema ciò che può rafforzarlo e farlo progredire, reprimendo invece l’indigeribile, ciò che potrebbe rivelarsi un cancro che lo consuma dall’interno. Se non ci riesce è il caos, il disordine, l’idea che più terrorizza la Cina tutta. Ciò che c’è di comune con il resto del mondo, in questa rivolta, è il nemico: l’economia finanziaria che tradisce le aspettative e fa ricadere sul lavoro i costi del suo fallimento. Ciò che c’è di nuovo e di specifico, è l’inedita alleanza dei produttori.

È questo di Huzhou, se vogliamo, un evento imparentato più alle manifestazioni del ceto medio di Dalian contro lo stabilimento chimico che appesta l’aria, che alle ricorrenti jacquerie di contadini espropriati delle terre. A noi ricorderebbe forse il contesto della Rivoluzione Francese, quando i nuovi ceti borghesi emergenti non trovarono più nell’Ancien Regime l’humus adatto a garantire la propria ulteriore crescita. E lo decapitarono. Quello che sembra leggersi tra le righe – con tutti i benefici d’inventario che questa sorprendente Cina ci impone di premettere – è una sempre maggiore difficoltà del potere politico a prevedere questi eventi inediti.

A Pechino se ne rendono conto benissimo: nelle province le autorità locali agiscono lontano dagli occhi, spesso in una condizione di emergenza finanziaria che le costringe a vendere terreni agli speculatori edilizi o, come in questo caso, ad aumentare le tasse. E quando tali misure si innestano su altri provvedimenti del governo centrale, ad esempio la riduzione del credito, l’effetto dirompente si moltiplica e il controllo viene meno. È come se centro e periferia non si parlassero. La prossima mutazione potrebbe essere dunque proprio quella del potere politico stesso e della sua organizzazione sul territorio. Ovviamente “secondo caratteristiche cinesi”.

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La Cina è vicina, ma solo a Eni, Enel e Finmeccanica.

Da http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER1-1

Ci sono cascati già a Madrid e Atene: dando per acquisito un “salvataggio” cinese dei propri titoli di Stato, per poi accorgersi che gli acquisti di Pechino erano modesti. Ora sull’intervento del “cavaliere bianco” da Pechino spera Tremonti, quello che per anni aveva dipinto la Cina come il demonio. Ma quando investono, se investono, i cinesi cercano solidità (Treasury Bond, Bund tedeschi) oppure attività strategiche: porti in Grecia, la Volvo in Svezia, le banche in America. La lista delle aziende italiane che possono interessare non è lunghissima: Eni, Enel, Finmeccanica. (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Vietato globalizzare il mondo delle idee.

Perché il potere ha paura del web
Scontro tra Cina e Usa sul motore di ricerca. In gioco c’è la libertà d’informazione. E il concetto di sovranità nazionale ai tempi di Internet di FEDERICO RAMPINI-repubblica.it

“Il nostro obiettivo è cambiare il mondo”, è uno slogan di Eric Schmid, il chief executive di Google. Lo stesso Schmid che quattro anni fa, all’inaugurazione del motore di ricerca in mandarino, con l’indirizzo locale segnato dal suffisso “. cn”, dichiarò: “Siamo qui in Cina per rimanerci sempre”. Ora quelle due affermazioni – cambiare il mondo, rimanere in Cina – sono diventate tra loro inconciliabili. Se Google non accetta le regole di Pechino, e la censura delle autorità locali, la sua avventura cinese dovrà chiudersi. Lo scontro epico che si è aperto fra la più grande potenza di Internet e la più grande nazione del pianeta, è destinato a ridefinire nei prossimi anni l’architettura globale del web, i limiti geopolitici della libertà d’informazione, e il nuovo concetto di sovranità nello spazio online.

Il precipitare degli eventi ha colto tutti di sorpresa, almeno in Occidente. Questo copione non è stato scritto né a Mountain View, il quartier generale di Google nella Silicon Valley californiana, né tanto meno a Washington nelle sedi del potere politico. Negli scenari più pessimisti elaborati dal Pentagono, quando due anni fa l’Esercito Popolare di Liberazione centrò in pieno un proprio satellite in un test di guerre stellari, fu detto che la conquista dello spazio sarebbe stata la prossima sfida tra l’America e la Cina. Nessuno aveva messo in conto quello che sta accadendo da due settimane: l’improvviso gelo tra i soci del G2 per il controllo del cyber-spazio.

Eppure quando Google lanciò la sua versione in mandarino nel 2006, la censura di Stato esisteva già. Come Microsoft, come Yahoo, come Rupert Murdoch, anche il colosso di Mountain View accettò il patto con il diavolo: collaborare con il regime facendo propri i suoi tabù, interiorizzarne i limiti alla libertà di espressione, autocensurarsi con dei filtri di software automatici approvati dalle autorità locali. Sembrava logico. Google si comportava come tante altre multinazionali “normali”, separava le regole universali del business capitalistico dal contesto politico locale. Come un qualsiasi fabbricante di auto o di jeans, Schmid pensò di poter chiudere gli occhi sugli abusi contro i diritti umani, e partire alla conquista del più vasto mercato mondiale. Anzi, nel 2006 la questione di coscienza per gli americani sembrava risolta una volta per tutti dalle parole ottimiste di Bill Gates: “Per quanti limiti possano mettere all’attività di Microsoft, l’avvento di Internet introduce nella società cinese un volume d’informazioni senza precedenti. La Cina sarà comunque migliore di prima, grazie a noi”. Ai vertici di Google, a onor del vero, non tutti la pensavano così. Sulle condizioni dello sbarco in Cina aveva dei forti dubbi uno dei due co-fondatori dell’azienda, Sergey Brin. Per la sua biografia personale – nato nell’Unione sovietica, emigrò in America da bambino con i genitori – aveva intuito un’incompatibilità insolubile, tra la “natura” profonda del business di Google e quella della Repubblica Popolare.

La casistica dei conflitti tra i regimi autoritari e la libertà online è ricca di precedenti, dall’Iran alla Birmania. Ma la questione cambia completamente quando la posta in gioco è un mercato di 330 milioni di utenti, ormai il più popoloso del pianeta. Il comunicato del governo cinese che stigmatizza Google e ribatte alle critiche di Hillary Clinton, fa esplicito riferimento alle “regole della rete cinese”. Nessuno immagina che possa esistere un “Internet iraniano”. Ci sono solo le barriere che Teheran frappone per l’accesso locale alla rete: che resta una, indivisa e globale. Ma l’idea che la Cina possa organizzarsi come un cyber-universo autonomo da noi, è altrettanto impensabile?
In Occidente diamo ormai per scontato da anni che la superficie terrestre sia scandagliata minuziosamente da GoogleMap. Ricordo il divertimento con cui mi accorsi, quando abitavo a San Francisco, che dalle foto satellitari si poteva vedere non solo casa mia ma anche la targa della mia auto. Non appena mi trasferii a Pechino nel 2004 scoprii che intere zone della capitale cinese invece erano oscurate, a cominciare dal quartiere di Zhongnanhai dove risiede la nomenklatura comunista. Ciò che a noi appare naturale, o inevitabile, cioè che la mappatura terrestre sia fatta da un’impresa privata americana, non è accettabile a Pechino. E’ un’intrusione virtuale nella sovranità: un valore per il quale gli Stati scendono in guerra da secoli. E visto da Pechino il confine che separa un colosso privato come Google dal governo di Washington, è labile.

Ken Auletta, autore del saggio “Googled” (il passivo del verbo “googlare”), osserva che “poche altre tecnologie – la stampa di Gutenberg, il telefono – hanno avuto effetti sociali rivoluzionari come questo motore di ricerca, che ha sconvolto il nostro modo di produrre informazione, selezionarla, consumarla”. Ma Internet essendo nato in America, tutta l’organizzazione del world wide web ha un’impronta made in Usa. Porta i segni inconfondibili di un “sistema”: regole e valori nati negli Stati Uniti, per estensione occidentali, non necessariamente percepiti come universali a Pechino. Dove noi parliamo di “architettura aperta”, altri capiscono “egemonia americana”.

La Grande Muraglia di Fuoco, è il nome che i dissidenti hanno affibbiato alla censura online della Repubblica Popolare. E’ il più moderno e sofisticato apparato di controllo dell’informazione, con almeno 15.000 tecnici informatici in servizio permanente. Eppure il governo di Pechino ha avuto bisogno fino a ieri di appoggiarsi sul “collaborazionismo” di Google, Yahoo, Microsoft. I dissidenti, o anche i giovani cinesi più curiosi e dotati per l’informatica, hanno appreso ad aggirare la Grande Muraglia. Usano metodi simili a quelli degli hacker: ad esempio per dissimularsi attraverso domicili online all’estero. Sono esattamente i metodi mutuati dai cyber-pirati al servizio del governo, nelle incursioni denunciate da Google il 12 gennaio. Hanno violato la privacy della posta elettronica Gmail di numerosi militanti dei diritti umani; nonché di un grande studio legale di Los Angeles impegnato in un processo contro aziende di Stato cinesi per violazioni di copyright. E hanno profanato le email di 34 aziende hi-tech nella Silicon Valley, un grave episodio di spionaggio industriale che getta un’ombra sulla sicurezza di tutto l’impero Google.

L’esperto d’informatica Holman Jenkins evoca per questa offensiva un precedente poco noto. “All’inizio degli anni Novanta ci fu un’escalation di episodi di pirateria navale nel Mare della Cina meridionale. Hong Kong, che era ancora una colonia inglese, raccolse le prove che i pirati erano in realtà al servizio delle forze armate cinesi. Era un modo per rivendicare la sovranità di Pechino su rotte di comunicazione strategiche”. I cyber-pirati che la Cina ha scatenato contro Google, innescando un conflitto che ha portato fino all’intervento dell’Amministrazione Obama, starebbero facendo un gioco simile. Come il corsaro Francis Drake al servizio di sua maestà Elisabetta I contro l’impero spagnolo. In palio stavolta c’è uno spazio virtuale, perfino più strategico delle rotte marittime. La Cina punta molto in alto, se ha sentito il bisogno di intimidire Google fino a mettere in discussione la privacy dei suoi clienti industriali: tutti ormai potenzialmente spiati. I dirigenti della Repubblica Popolare possono immaginare un Trattato di Yalta del terzo millennio, con cui l’America prenda atto della loro sovranità su una parte di Internet. Se passa il loro piano, il discorso visionario di Hillary Clinton che ha esaltato Internet come “il grande egualizzatore”, si applicherebbe solo al di qua della Grande Muraglia. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

“Se mettiamo a confronto tre famiglie medie: una cinese, una svizzera e una spagnola, ci rendiamo subito conto di quanto importante sia la politica economica dei governi sul bilancio familiare di fronte alla crisi economica.”

C’erano una spagnola, una svizzera e una cinese. Tre modi di vivere la Crisi
di Loretta Napoleoni – lanapoleoni.ilcannocchiale.it.

A un anno dallo scoppio della crisi, l’impatto della recessione altera il bilancio familiare e costringe le famiglie a modificare il livello di vita. Questo processo varia da paese a paese in funzione dell’impatto che la recessione ha sull’economia nazionale.
Se mettiamo a confronto tre famiglie medie: una cinese, una svizzera e una spagnola, ci rendiamo subito conto di quanto importante sia la politica economica dei governi sul bilancio familiare di fronte alla crisi economica.

Gli spagnoli si trovano nella situazione peggiore. Spagna e Irlanda sono le economie europee maggiormente colpite dalla recessione e questo perche’ negli ultimi 10 anni hanno abbracciato in toto il modello neo-liberista. Questo e’ stato l’artefice di una crescita fittizia che ha proiettato questi due paesi nella rosa di quelli maggiormente industrializzati creando la bolla immobiliare. In Spagna poi il boom del turismo di massa l’ha ulteriormente gonfiata. E’ quindi facile intuire perche’ il tasso di disoccupazione spagnolo sta per superare il 20%, una cifra da grande depressione, segue a ruota quello irlandese pari al 15%.

Anche se gli emigranti dell’area del Magreb – gente che ha lasciato la famiglia nel nord Africa e che quindi possiede una mobilita’ del lavoro molto elevata – incidono sul numero di disoccupati spagnoli, il problema dell’occupazione rimane centrale all’economia della famiglia. Gran parte dei nuovi disoccupati finiscono per essere mantenuti da quella d’origine: i piu’ giovani tornano a vivere a casa e le coppie vengono aiutate economicamente dai genitori. Questo processo impoverisce la popolazione e allo stesso tempo erode le riserve di risparmio della famiglia. Tutto cio’ porta alla caduta dei livelli di benessere. I dati della bilancia dei pagamenti spagnola ce lo confermano.

A luglio il deficit della bilancia commerciale e’ sceso a 2 mila miliardi di euro da piu’ di 7 mila appena un anno prima. Negli anni della grande crescita corrispondeva al 10% del Pil, oggi si sta velocemente riducendo al punto che entro il primo trimestre del 2010 la bilancia dovrebbe andare in pareggio. A monte c’e’ una forte contrazione delle importazioni. Se si considera che durante gli ultimi 12 mesi le esportazioni sono aumentate ci accorgiamo che la famiglia media spagnola sta riducendo drasticamente i propri consumi.

La disoccupazione riduce anche la domanda di nuovi alloggi, se ne vedono a centinaia di migliaia, tutti vuoti, nei nuovi quartieri alla periferia delle citta’ spagnole. La stagnazione del mercato immobiliare ha ripercussioni serie sul credito nazionale. La gran parte dei non performing loans NPL, i mutui non pagati, appartiene a questo settore. Si tratta di piu’ di 80 miliardi di euro, di cui circa un 70% sono stati ristrutturati e dovranno presto essere ripagati. Ancora piu’ preoccupante e’ il totale di crediti accumulato dal settore immobiliare spagnolo: 470 miliardi di euro, pari al 50% del Pil del paese. Di questi circa 320 miliardi di euro sono stati accesi per costruire immobili commerciali: uffici, negozi, cinema e centri commerciali. Se la famiglia spagnola non riprende a spendere questi mutui andranno ad aumentare i NPL delle banche e ci sara’ sempre meno liquidita’ per l’impresa e la famiglia.

In Svizzera, invece, la situazione e’ ben diversa. La recessione e’ stata meno seria di quanto ci si aspettasse al punto che il paese soffre meno della vicina Germania il suo partner commerciale piu’ importante. La contrazione delle esportazioni e la crisi finanziaria, con in testa le due maggiori banche la UBS e il Credit Suisse, hanno fiaccato l’economia. Ma la reputazione del paese, quale centro bancario internazionale, ha retto bene e le aspettative per il 2010 sono per una modesta crescita, pari allo 0.5%. E questa ripresa sara’ guidata proprio dal settore finanziario.

Molti addirittura credono che nel lungo periodo la crisi del credito sara’ positiva per la Svizzera perche’ rafforzera’ la solidita’ delle banche. I valori del NPL rispetto al totale dei prestiti sono scesi sotto l’1%, segno che il sistema e’ solido. Questi dati dovrebbero facilitare la penetrazione dei mercati esteri, condizione importantissima affinche’ il paese continui a crescere. A quanto pare la crisis del credito ha fatto crollare la fiducia nei confronti del settore bancario americano e britannico, i due principali rivali di quello Svizzero. Secondo il WEF Competitive Network, che compila una lista mondiale della competitivita’ dei settori finanziari, l’America e’ scesa a quota 108, al pari della Tanzania. La Svizzera ha retto ed si e’ stabilizzata al 44esimo posto mentre le banche inglesi sono precipitate al 126esimo.

E’ facile capire perche’ l’impatto economico della recessione sulla famiglia media svizzera e’ stato quasi nullo. Le spese non sono cambiate anche perche’ la disoccupazione rimane relativamente bassa rispetto al resto dell’Europa, 4,1% quando un anno fa’ era di 3,4%. Gli indicatori economici ci dicono che a sostenere l’economia e’ stata la domanda interna che e’ rimasta stabile, i consumi e l’investimento immobiliare che non sono crollati come in altri paesi ma si sono mantenuti a livelli medio alti. L’impatto psicologico invece c’e’ stato e ce ne accorgiamo quotidianamente. Nel paese si risparmia di piu’.

Dall’altra parte del mondo, in Cina, la crisi si e’ diventata fonte di grandi opportunita’. La famiglia media cinese oggi vive meglio che un anno o due anni fa’ perche’ ha piu’ denaro a disposizione. Il pacchetto di stimoli lanciato dal governo all’indomani del crollo della Lehman Brothers ha sostenuto la domanda interna, al punto che questa e’ riuscita a compensare la caduta di quella estera. Lo stato ha aperto linee di credito a tassi vantaggiosissimi per chi viveva in campagna e voleva acquistare beni di consumo durevoli, dalle lavatrici ai televisori al plasma. La domanda di piccole autovetture nelle campagne, ad esempio, e’ cresciuta al punto che la Cina oggi acquista piu’ macchine degli Stati Uniti. A giugno piu’ di un milione di nuove vetture hanno lasciato i concessionari, pari a un aumento del 36% rispetto all’anno precedente. E questo senza un programma di rottamazione simile a quello occidentale.

L’economia cinese si e’ contratta solo nel quarto trimestre del 2009 per poi riprendere a crescere subito dopo. Il governo ha immesso ingenti quantita’ di denaro nel circuito delle banche e le ha incoraggiate a concedere prestiti a chi ne avesse bisogno. Le prime ad attingere a questo credito sono state le piccole e medie imprese. Questa strategia e’ stata possibile perche’ la Cina negli ultimi quindici anni ha accumulato riserve monetarie ingenti che ammontano a piu’ di 2 mila miliardi di dollari, le piu’ alte al mondo. Allo stesso tempo il settore bancario e’ arrivato alla crisi con livelli di indebitamento bassissimi. I valori dei NPL sono tali da permettere alle banche di alzare la soglia del rischio, alla fine del 2009 ammonteranno a meno del 4% del Pil del paese.

La famiglia media cinese non si e’ quindi neppure resa conto della recessione che c’e’ stata solo per un brevissimo periodo di tempo. La disoccupazione, che rimane bassa, e’ aumentata nel 2007 e parte del 2008 tra i lavoratori migranti, quelli che lasciano le campagne per cercare lavoro nelle zone industriali speciali del sud del paese e in quelle a ridosso di Pechino e Shanghai. A far cadere l’occupazione non e’ stata la recessione a le imprese straniere che si sono de localizzate a seguito della nuova legislazione del lavoro che protegge maggiormente la manodopera cinese dallo sfruttamento dell’impresa. Lo stato e’ riuscito ad assorbire gran parte di questa manodopera impiegandola in lavoro pubblici di ogni tipo, dalla pulizia delle facciate dei palazzi di Shanghai alla costruzione di una nuova ed efficientissima rete ferroviaria.

Tre storie e tre realta’ diverse che ci ricordano quanto sia importante la protezione dello stato dagli abusi di ogni tipo, non solo quelli finanziari. Il mercato funziona, su questo non c’e’ dubbio, ma come tutti i meccanismi economici non e’ infallibile e quando sbaglia le conseguenze ricadono sulla societa’. Lo stato deve essere sempre pronto a proteggerci da questi cataclismi. (Beh, buona giornata).

(tratto da il Caffè-Link: http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/2009/10/22/crisi_e_famiglie.html.)

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Finanza - Economia Popoli e politiche

Romano Prodi sul G8: è assurdo che Cina, India e Brasile non partecipino da protagonisti.

Romano Prodi ha aperto i lavori del “Global think-tank summit” che si è svolto in questi giorni a Pechino alla presenza delle più alte autorità cinesi e dalla Capitale cinese ha inviato al Messaggero questa sua riflessione alla vigilia del G8-da ilmessaggero.it

” Nello scorso autunno il governo cinese decise, con una operazione senza precedenti, di iniettare nel sistema economico un’enormequantità di risorse, pari a 575 miliardi dollari, circa il 17% del Prodotto interno lordo.

La decisione veniva in un momento in cui qui a Pechino vi era paura. Era infatti la prima volta, dopo tanti anni, che il sistema rallentava vistosamente la propria crescita e la prima volta, probabilmente dalla fine della seconda guerra mondiale, che milioni di disoccupati affollavano le stazioni ferroviarie delle metropoli costiere per tornare verso le campagne.

Anche se i tassi di crescita non raggiungono ancora le incredibili cifre precedenti alla crisi, il motore dell’economia cinese ha dimostrato formidabili capacità di resistenza e di flessibilità. Oggi marcia, secondo le statistiche, tra il 6% e l’8% di crescita annua. Il piano d’intervento straordinario si è concentrato verso un colossale programma di lavori pubblici (ferrovie, autostrade, infrastrutture in genere), verso una rianimazione dell’ormai moribondo sistema sanitario e verso nuovi investimenti nel sistema scolastico per un migliore accesso allo studio. Sono stati inoltre previsti sussidi diretti alle popolazioni rurali e veri e propri aiuti finanziari alle classi più povere per l’acquisto di beni di consumo durevole, come gli elettrodomestici.

Un’operazione dedicata a rimediare, attraverso l’aumento della domanda interna, al crollo delle esportazioni. E, nello stesso tempo, a cambiare progressivamente i comportamenti economici dei cinesi finora spinti, in conseguenza dell’incertezza sul loro futuro, a risparmiare il più possibile a scapito dei consumi. L’intervento sembra funzionare: esso si esprime nel miglioramento della crescita ma, ancor di più, nel miglioramento delle prospettive future.

In questi giorni si sono riuniti, qui a Pechino, i rappresentanti di moltissimi think-tank e istituti di ricerca internazionali per discutere del futuro dell’economia del mondo. L’opinione largamente dominante è che sarà la Cina a guidare la ripresa. Naturalmente la Cina non potrà da sola cambiare lo stato delle cose dato che, nonostante i suoi giganteschi progressi, essa rappresenta ancora meno del 10% dell’economia mondiale. E chi, tra i grandi blocchi economici, seguirà la Cina nella via della ripresa? Ancora una volta la risposta degli esperti è quasi corale nel prevedere che il resto dell’Asia e gli Stati Uniti precederanno l’Europa, anche se poi nessuno è ancora in grado di dire quando questo avverrà.

Sul perché, invece, non vi sono dubbi: gli Stati Uniti hanno adottato anch’essi misure di politica economica forti e immediate, mentre i Paesi europei vanno ognuno per conto proprio, senza una strategia comune né nei confronti degli investitori, né dei consumatori. Ci si limita a constatare il raffreddamento dello spirito europeo emerso anche dalle precedenti elezioni, senza mettere in rilievo l’enorme costo che questo comporta sia in termini economici sia in termini politici.

L’evoluzione cinese è comunque così rapida che si fa sempre più strada l’idea che dagli otto grandi del G8 si possa, fra non molto, passare ad un mondo governato dai G2, cioè dagli Stati Uniti e dalla Cina. Un’idea che ritengo certo prematura e forse anche impossibile perché sono gli stessi cinesi, consapevoli dei propri problemi, a preferire un mondo con più protagonisti, in modo da assumere progressivamente un forte ruolo negli assetti mondiali senza però provocare tensioni per loro pericolose o addirittura irrimediabili.

È una strategia perfettamente in linea con la politica degli ultimi decenni, volta ad assumere responsabilità sempre più forti, usando come strumento una società che cambia più nelle cose e nei comportamenti che non nelle sue strutture istituzionali. Con un impressionante ritmo di cambiamento ma senza rotture di continuità che potrebbero bloccare il cambiamento stesso.

Chi pensava che la società cinese non fosse in grado di resistere a tutto questo si è finora sbagliato e credo che, come la reazione alla presente crisi ha dimostrato, la robustezza del sistema politico e sociale possa per ancora lungo tempo accompagnare la sua espansione economica.

I problemi da risolvere sono ancora tanti: più della metà dei suoi abitanti sono in situazione di povertà, le tensioni etnico-religiose nelle provincie periferiche ancora forti, mentre le impressionanti differenze sociali potranno essere solo marginalmente alleviate dal pacchetto delle misure economiche adottate dal governo. Il cammino della Cina è quindi lungo, anche se la direzione è già segnata, ed è quella di essere nel numero ristretto delle grandi forze politiche che guideranno il nostro futuro. Questo destino è inevitabile: dobbiamo semplicemente operare in modo che il ruolo che la Cina coprirà nel mondo (dato che essa ha ormai una politica globale) sia sempre più cooperativo e non conflittuale.

Considero quindi una assoluta bizzarrìa della storia che la Cina e gli altri grandi nuovi protagonisti della politica mondiale come l’India e il Brasile non si seggano attorno al tavolo dei G8 ma siano relegati, con complicate finzioni diplomatiche, a mangiare in cucina. Le finzioni possono mascherare la realtà per un periodo di tempo brevissimo. Il periodo per adattare il G8 alla realtà della storia è già passato da un pezzo.” (Beh, buona giornata).

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Ha ancora senso il G8?

L’ULTIMO G8 di Vito Tanzi -lavoce.info

Gli otto grandi del mondo si incontrano tra pochi giorni in Italia, a L’Aquila. Ma ha ancora senso una riunione dei G8, quando ne sono esclusi paesi come Brasile, Cina o India? Tanto più che le decisioni prese dal G8 non saranno certo accolte con entusiasmo da paesi che non hanno avuto nessuna voce in capitolo. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo.

Tra pochi giorni, l’Italia ospiterà a L’Aquila, presso la scuola della Guardia di Finanza, la trentaquattresima riunione dei G8, i cui rappresentanti sono spesso descritti dai giornali come gli otto “grandi” della terra. Con il passare degli anni il numero dei “grandi” è aumentato rendendo l’appartenenza al gruppo progressivamente meno esclusiva. Certo, è stato più facile aumentare il numero dei membri del club che sostituire i paesi diventati meno importanti con quelli che sono diventati più importanti: nel corso degli anni, i membri sono infatti aumentati da cinque a sette e, nel 2007, con l’ammissione della Russia, si è arrivati a otto. C’è da aspettarsi che nei prossimi anni i G8 diventeranno i G13, con l’ammissione di Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa.

COME DEFINIRLI PICCOLI?

Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa oggi sono ovviamente molto importanti nel mondo e la loro esclusione dal gruppo dei “grandi” sembra strana. Èdifficile considerare paesi come la Cina, l’India e il Brasile come “piccoli”. E forse lo stesso si può dire per il Messico e il Sud Africa. Nel loro insieme questi cinque paesi coprono una proporzione enorme della superficie terrestre. Includono la metà della popolazione del mondo. Posseggono enormi risorse minerarie ed energetiche. Realizzano una proporzione alta e crescente delle automobili prodotte nel mondo. Sono diventati leader in alcuni settori di alta tecnologia, come satelliti, fabbricazione di aerei, tecnologie delle comunicazioni. Con l’eccezione del Messico, questi paesi stanno crescendo più rapidamente degli attuali membri del G8. Non solo: oltre a Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, ci sono altri paesi che per la loro importanza meriterebbero di fare parte del club.È facile quindi capire perché il G20 sta progressivamente rimpiazzando in importanza il G8.

A L’Aquila i G8 prenderanno decisioni – se le dichiarazioni espresse alla fine del summit si potranno considerare “decisioni” – che poi cercheranno di “vendere” alle altre nazioni. Ma è facile anticipare la mancanza di entusiasmo da parte dei paesi che non fanno parte dei G8 verso queste decisioni, alla cui preparazione non hanno partecipato.

DIVISIONI TRA I G8

È allora interessante passare in rassegna i principali temi che saranno discussi a L’Aquila. La conferenza stampa, tenuta a Washington il 15 giugno dal presidente Obama e dal presidente del Consiglio Berlusconi, ci dà qualche informazione. Barack Obama ha menzionato quattro temi: (a) la creazione di una struttura legale permanente e internazionale per combattere il terrorismo; (b) la riduzione degli arsenali nucleari; (c) la sicurezza nella disponibilità di cibo nei paesi poveri; e (d) la discussione della situazione economica mondiale.

Silvio Berlusconi ha dichiarato che l’obiettivo del summit è quello di raggiungere “soluzioni concrete” su molte questioni “estremamente importanti”. E ne ha citate alcune. In primo luogo, sviluppare principi che impediscano il ripetersi della crisi economica e che possano essere accettati da tutti i paesi. Sembrerebbe una missione impossibile. Forse conscio delle difficoltà, il presidente del Consiglio ha aggiunto che questo lavoro probabilmente non sarà completato a L’Aquila, ma ha manifestato la speranza che possa essere ultimato nella prossima riunione dei G20 a Pittsburgh. Questo obiettivo non era stato menzionato da Obama. Sulla sicurezza alimentare nei paesi poveri, Berlusconi ha aggiunto che gli Stati Uniti metteranno a disposizione di vari paesi “una quantità enorme di moneta” per garantire il raggiungimento di quest’obiettivo. Stranamente, Obama non aveva fatto menzione alcuna di queste somme. E data la situazione dei conti pubblici negli Stati Uniti, è improbabile che voglia mettere “una quantità enorme di moneta” a disposizione di altri paesi. Berlusconi ha citato anche i cambiamenti climatici, la riduzione delle emissioni di CO2 e il rilancio del Doha Round. Anche questi sono temi che non erano stati citati da Obama.

Èchiaro che ci sono già divergenze all’interno dei G8 sugli obiettivi importanti da promuovere o raggiungere.
Berlusconi ha dichiarato anche che altri dodici paesi – India, Cina, Sud Africa, Messico, Brasile, Egitto, Corea del Sud, Indonesia, Australia, Olanda, Spagna e Danimarca – parteciperanno a vari incontri collaterali alla riunione dei G8. Due osservazioni. La prima è che è difficile credere che si potrà raggiungere qualcosa di concreto rispetto a temi così difficili in tre giorni. La seconda è che la partecipazione degli altri dodici paesi trasforma de facto il summit dei G8 in un summit dei G20. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo. Riunioni come quella dell’Aquila sono utili per creare rapporti tra i governanti dei paesi più importanti, non per risolvere questioni concrete.
(Beh, buona giornata).

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“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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Come e perché è nata l’influenza suina messicana.

Pandemia? Non ve la prendete con i maiali di Mike Davis-Il Manifesto

Le orde di turisti primaverili sono tornate quest’anno da Cancún con un invisibile ma sinistro souvenir. L’influenza suina messicana, chimera genetica probabilmente concepita in qualche pantano fecale di un industria di maiali, all’improvviso minaccia di portare la sua febbre in giro per il mondo.

Il suo rapido propagarsi nel continente nord americano rivela una velocità di trasmissione superiore all’ultima varietà pandemica ufficialmente riconosciuta, la febbre di Hong Kong del 1968. Rubando la scena all’assassino ufficialmente designato, l’H5N1 altrimenti conosciuto come influenza aviaria – che oltretutto ha dimostrato di mutare vigorosamente – questo virus suino costituisce una minaccia di sconosciuta magnitudo. Sicuramente, sembra meno letale della Sars del 2003 ma, essendo un’influenza, potrebbe durare molto più di questa ed essere meno incline a tornare nelle segrete caverne da cui è saltata fuori.

Ammesso che una normale influenza stagionale di tipo A uccide un milione di persone ogni anno, un suo anche modesto incremento di virulenza, specialmente se accoppiato con un’alta incidenza, potrebbe produrre una carneficina pari a un grande conflitto bellico. Intanto, una delle sue prime vittime sembra essere la consolante fiducia, per lungo tempo predicata dagli spalti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la pandemia potesse essere contenuta tramite una rapida risposta della burocrazia medica, indipendentemente dalla qualità dello stato di salute della popolazione locale.

Sin dalle prime morti causate dall’H5N1 a Hong Kong nel 1997, l’Oms, con il sostegno della maggior parte dei servizi sanitari nazionali, ha promosso una strategia concentrata sull’identificazione e l’isolamento del ceppo pandemico e della sua area di contagio, cui segue la distribuzione alla popolazione di medicinali antivirali e, se disponibili, di vaccini. Un esercito di scettici ha giustamente contestato questo metodo di risposta all’insorgere di nuove minacce virali, sostenendo che i microbi sono ormai in grado di volare intorno al mondo (letteralmente parlando per quanto riguarda l’aviaria) più velocemente rispetto ai tempi di reazione dell’Oms o dei servizi sanitari nazionali.

Sono finite sotto accuse anche le primitive, spesso inesistenti misure di sorveglianza del rapporto tra le malattie animali e umane. Ma il mito dell’audace, preventivo ed economico intervento contro l’aviaria non è stato valutabile per colpa dei paesi ricchi, come Stati uniti e Gran Bretagna, che preferiscono investire in una loro linea Maginot biologica, piuttosto che incrementare drammaticamente gli aiuti nelle frontiere delle epidemie fuori dai loro confini. Allo stesso modo agiscono le multinazionali farmaceutiche, che combattono la domanda dei paesi del terzo mondo di fabbricazione pubblica di antivirali generici come il Tamiflu della Roche.

Ad ogni modo, è probabile che l’influenza porcina dimostri che la versione Oms/Ccd (Centro di controllo sulle malattie) della preparazione contro una pandemia – senza nuovi corposi investimenti in sorveglianza, infrastrutture scientifiche e regolatorie, salute pubblica generale e accesso globale a medicinali di base – appartenga alla stessa classe di rischio del truffaldino management piramidale dei derivati della Aig o i titoli di Madoff. Non si tratta tanto di un fallimento del sistema di allarme della pandemia, quanto della sua completa inesistenza, persino negli Stati uniti e in Europa. Forse non sorprende che il Messico non abbia né la capacità né la volontà politica di monitorare le malattie del bestiame e il loro impatto sulla salute pubblica, ma la situazione è quasi la stessa a nord del confine, dove la sorveglianza è un fallimentare mosaico di giurisdizioni statali e le corporazioni di commercianti di bestiame trattano la salute con lo stesso atteggiamento con cui sono soliti trattare i lavoratori e gli animali. Allo stesso modo, una decade di avvisi urgenti da parte di scienziati nel campo non è riuscita ad assicurare il trasferimento di sofisticate tecnologie di saggi virali al paese sulla strada diretta di probabili pandemie.

Il Messico conta esperti di fama mondiale ma ha dovuto mandare i tamponi ai laboratori di Winnipeg (che ha meno del 3% ella popolazione di Città del Messico), per poter identificare il genoma del virus. Motivo per il quale si è persa quasi una settimana. Ma nessuno era meno in allerta dei leggendari controllori di Atlanta. Stando al Washington Post, il Cdc è rimasto all’oscuro dello scoppio della pandemia fino a sei giorni dopo che il governo messicano aveva iniziato ad impartire misure di sicurezza. Infatti il Post scrive: «A distanza di due settimane dal riconoscimento dell’epidemia in Messico, i funzionari dei servizi sanitari americani non hanno ancora valide informazioni a riguardo». Non ci sono scuse. Non si tratta di un evento straordinario. Di fatto, il vero paradosso di questo panico da virus suino è che, sebbene del tutto inaspettato, era stato previsto con precisione.

Sei anni fa “Science” aveva dedicato un lungo articolo (mirabilmente scritto da Bernice Wuetrich) per dimostrare che “dopo anni di stabilità, il virus nord americano dell’influenza suina è entrato in una fase di rapida evoluzione. Dalla sua identificazione all’inizio della Depressione, il virus H1N1 aveva solo leggermente deviato dal suo genoma originario. Poi, nel 1998, si è scatenato l’inferno. Una varietà altamente patogena cominciò a decimare le scrofe di un allevamento di maiali nella Carolina del nord, e nuove, virulente versioni iniziarono ad apparire quasi ogni anno, inclusa un’insolita variante dell’ H1N1 che conteneva geni interni di H3N2 (l’altro tipo di influenza A che circolava tra gli umani. Ricercatori da Wuethrich, intervistati, espressero la preoccupazione che uno di questi ibridi potesse diventare un’influenza che colpiva gli umani (si ritiene che le pandemie del del 1957 e del 1958 siano state originate da una mescolanza di virus aviari e umani nei maiali) e sollecitarono la creazione di un sistema ufficiale di sorveglianza per l’influenza suina. Quell’ammonimento, naturalmente, passò inosservato in una Washington che si preparava a gettare miliardi in fantasie bioterroriste e trascurava i pericoli più ovvii.

Ma cosa ha provocato l’accelerazione di questa evoluzione dell’influenza suina? Probabilmente la stessa cosa che ha favorito la riproduzione dell’influenza aviaria. I virologi hanno a lungo ritenuto che il sistema agricolo intensivo della Cina meridionale – un’ecologia immensamente produttiva di riso, pesci, maiali e uccelli selvatici e domestici – sia il motore principale delle mutazioni influenzali: sia degli “spostamenti” stagionali sia dei “cambiamenti” episodici del genoma. (Più raramente, può verificarsi un passaggio diretto dagli uccelli ai maiali e/o agli umani, come con l’H5N1 nel 1997). Ma l’industrializzazione indotta dalle corporation della produzione da allevamenti ha rotto il monopolio naturale della Cina sull’evoluzione dell’influenza. Come molti autori hanno evidenziato, nei recenti decenni la zootecnia è stata trasformata in qualcosa che somiglia più all’industria petrolchimica che all’allegra famiglia contadina raffigurata nei libri di scuola.

Nel 1965, ad esempio, c’erano in America 53 milioni di maiali per più di un milione di fattorie; oggi, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65mila strutture – la metà delle quali con più di 500mila animali. In sostanza, è avvenuta una transizione dai vecchi porcili a enormi inferni di escrementi, mai visti in natura, contenenti decine, persino centinaia di migliaia di animali con sistemi immunitari indeboliti, che soffocavano nel caldo e nel letame, mentre si scambiavano agenti patogeni a velocità accecante con i loro compagni di sventura e con la loro patetica progenie. Chiunque passi per Tar Heel, North Carolina o Milford, Utah – dove ogni partecipata di Smithfield Foods produce annualmente più di un milione di maiali, oltre che centinaia di pozze piene di merda tossica – capirebbe in modo intuitivo quanto profondamente l’agrobusiness ha interferito con le leggi della natura.

Lo scorso anno una rispettata commissione convocata dal Pew Research Center ha rilasciato un clamoroso rapporto sul tema «produzione animale in allevamenti industriali», sottolineando il grosso rischio che «i continui cicli di virus in larghe mandrie aumenteranno le possibilità di generazione di nuovi virus attraverso mutazioni o ricombinazioni che potrebbero risultare in una più efficiente trasmissione uomo-uomo. La commissione ha anche avvertito che l’uso promiscuo di diversi antibiotici negli allevamenti suini (alternativa meno costosa di un sistema di drenaggio o di ambienti più umani) stava causando l’aumento di resistenti infezioni da stafilococco, mentre le perdite fognarie producevano esplosioni da incubo di E. Coli e Pfisteria (l’apocalittico protozoo che uccise più di un milione di pesci negli estuari della Carolina, e fece ammalare decine di pescatori).

Tuttavia, ogni tentativo di migliorare questa nuova ecologia patogena è destinato a scontrarsi con il mostruoso potere esercitato dai conglomerati dell’allevamento come Smithfield Foods (maiale e manzo) e Tyson (pollo). I commissari della Pew, guidati dall’ex governatore del Kansas John Carlin, hanno raccontato di sistematiche ostruzioni alle loro ricerche da parte delle corporations, comprese sfacciate minacce di far ritirare i finanziamenti ai ricercatori. Inoltre questa è un’industria altamente globalizzata, con equivalente peso politico internazionale. Come il gigante thailandese del pollame Charoen Pokphand riuscì a sopprimere le inchieste sul suo ruolo nell’espansione dell’influenza aviaria attraverso il sudest asiatico, allo stesso modo è probabile che l’epidemiologia forense dell’esplosione della febbre suina vada a sbattere la testa contro le mura di pietra dell’industria delle costolette. Non vuol dire che la «pistola fumante» non sarà mai trovata: c’è già del gossip sulla stampa messicana circa un epicentro dell’influenza intorno a una gigantesca sussidiaria della Smithfield Foods nello stato di Veracruz.

Ma ciò che importa di più (specialmente a causa della continua minaccia costituita da H5N1) è il quadro più ampio: la fallita strategia anti-pandemie dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’ulteriore declino della salute pubblica mondiale, il ferreo controllo di Big Pharma sui farmaci vitali e la catastrofe planetaria di un allevamento industrializzato e ecologicamente disordinato. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Popoli e politiche

Fmi decide a tavolino che ci sono segnali di ripresa economica.

Crisi, recessione, ripresa/ Draghi, Geithner, Zhou, Tremonti: c’è ancora, ma quasi non c’è più da blitzquotidiano.it

Riuniti a Washington, nella sede dell’Imfc, braccio operativo del Fondo monetario internazionale, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha detto: “Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un modesto recupero di fiducia sul mercato. Sembra che gli scenari peggiori sulle prospettive dell’economia globale e del sistema finanziario non siano più così centrali nel pensiero dei partecipanti al mercato”.

Secondo l’agenzia di stampa Agi, Draghi ha detto che il miglioramento di clima “offre una finestra di opportunità unica sia per le azioni a breve termine tese a stabilizzare le istituzioni e promuovere l’espansione del credito sia per realizzare misure tese a rafforzare il sistema nel lungo periodo”.

Ha proseguito Draghi: il nostro obiettivo principale è rompere il circolo vizioso che si è instaurato tra il sistema finanziario e l’economia reale”. In questa direzione, ha sottolineato il governatore, “un punto chiave” è “ripulire i bilanci delle istituzioni finanziarie”. Dal canto loro, “le autorità hanno adottato un’ampia gamma di misure per iniettare capitale nelle banche, garantire i loro obblighi e ridurre o rimuovere la loro esposizione verso gli asset tossici”.

L’obiettivo finale di queste azioni, ha osservato ancora Draghi, è “creare un contesto in cui le banche siano in grado di ripulire i loro bilanci attraverso una crescita sostenibile dei profitti e raccogliere il capitale di cui hanno bisogno dal mercato privatoa un costo relativamente bassi”. Ciò, ha aggiunto Draghi,”significa anche fornire sufficiente trasparenza sulle esposizioni a rischio per consentire al mercato di distinguere tra banche deboli e banche forti e ridurne le incertezze”.

“Parte centrale di questo processo”, ha affermato il governatore, sono gli stress test, che rappresentano “uno sforzo per migliorare la trasparenza”. Proprio gli stress test negli Stati Uniti sono stati uno degli argomenti al centro della riunione, anche se, ha detto Draghi, se ne è parlato in termini generali senza andare nel dettaglio dei risultati dei singoli istituti.

Draghi però ha anche detto che la situazione di capitale delle banche italiane è positiva. ”Conduciamo regolarmente stress test: se avessero rilevato situazione di sottocapitalizzazione, l’autorità di vigilanza avrebbe reagito”.

Alla riunione del Fondo c’era anche il segretario al Tesoro americano, Timothy Githner. Ha detto: la ripresa economica negli Stati Uniti non è dietro l’angolo, anche se il peggio è forse ormai alle spalle. ”L’economia statunitense ha di fronte sfide serie e ci vorrà tempo perché i fondamentali migliorino”. Geithner non ha comunque mancato di sottolineare che “ci sono alcuni segnali positivi e gli sforzi per stabilire la stabilità del mercato finanziario e stimolare la crescita sono ben avviati”. Insomma, gli Usa “stanno facendo la loro parte ma siamo consapevoli”, ha concluso Geithner, “che la nostra ripresa dipendera’ da quella mondiale”.

C’era anche il presidente della Banca Centrale Cinese, Zhou Xiaochuan. La Cina, ha detto è nelle condizioni di poter mantenere un ritmo di crescita stabile e relativamente elevato. Zhou ha affermato che i trend di crescita cinesi non cambieranno nel lungo termine e che il governo di Pechino continuerà a portare avanti le politiche fiscali e di espansione monetaria adeguate a rispondere alla crisi.

E c’era anche il ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti: ”Sul fronte dell’occupazione non sono in vista nuovi interventi”, ha detto. “La base di riferimento è il recovery plan europeo. Riteniamo che quanto messo in campo sia sufficiente. Se servirà altro lo metteremo in campo”. (Beh, buona giornata).

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Chi ci ha messo nella crisi può portarci fuori dalla crisi?

di Pino Cabras – Megachip.info

Il presidente statunitense Barack Obama sembra cercare un punto mediano impossibile, mentre passa fra gli scuotimenti della Grande Crisi, scossoni che richiedono scelte senza precedenti, come vedremo. Ai conservatori le sue parole provocano ribrezzi da rivoluzione. A chi invece vuole una qualche Revolution, Obama appare come un assiduo conservatore. Le fanfare per l’annunciata chiusura di Guantanamo non offuscano il fatto che sia ancora aperta, le parole distensive verso Cuba non sono partite da un ammorbidimento dell’embargo, la condanna della tortura non si estende ai torturatori, i tuoni della Casa Bianca contro gli extraprofitti dei banchieri non si traducono in lampi su Wall Street, dove anzi arriva un fiume di liquidità. Sullo sfondo ci sono sfide estreme.

I toni sono cambiati tanto dai tempi di Bush, ma la forza d’inerzia dei grandi fatti sociali, economici, finanziari, politici e militari dell’ultimo decennio domina ancora la risultante delle forze. Le grandi navi non si fermano subito.

Poteri influenti aspirano a chiudere la parentesi della crisi, innanzitutto nell’informazione, in nome di un qualche ‘status quo ante’ che si vorrebbe dietro l’angolo. Obama prova a cogliere questa impazienza per dare ali alla speranza, e invoca anche lui i futuri «segnali di risalita». Essendo più prudente di altri, prova però a dire che ci saranno ancora molte sofferenze prima di toccare il fondo. Ma gli altri, quelli che vorrebbero che il viaggio riprendesse come prima, quelli della parentesi, loro non sono prudenti, neanche ora. Se i commerci a livello planetario sono in picchiata, per loro è comunque un buon segno che almeno non sia più a caduta libera. Se negli ultimi due mesi è evaporato un quarto dei commerci, magari nei prossimi due si volatilizzerà solo un ottavo ancora.

Nel mainstream perciò non trovano grande spazio certe analisi quantitative che appaiono nei media che invece fanno poche riverenze all’ortodossia del liberismo in rotta. Fra queste analisi circola in particolare quella di Leap/Europe 2020, un sito francese che in questi ultimi anni ha visto lontano. Dai dati a disposizione viene estrapolata una tendenza: la discesa degli USA porta a una depressione senza precedenti, vicina a un punto di insostenibilità che, se varcato – e potrebbe essere molto presto – segnerebbe una rottura storica drammatica, a partire dalla moneta [«Eté 2009: La rupture du système monétaire international se confirme», Europe 2020, 15 aprile 2009].

Gli USA hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi grazie all’afflusso di denaro di prestatori esterni, la Cina su tutti. Ora gli USA vorrebbero che anche il salvataggio fosse al di sopra dei propri mezzi, finanziato ancora una volta dalla Cina. Al gigante asiatico infatti non converrebbe far crollare di botto il sistema se per caso volesse uscire dalla trappola del dollaro, visto che ha già incamerato 1400 miliardi di titoli di debito in dollari, sempre più scottanti.
Se consideriamo la dimensione degli “stimulus” e “bailout” messi in campo negli ultimi mesi, l’unica via di uscita ancora “normale” per gli USA è che i risparmiatori cinesi e di qualche altro paese puntino ancora (e questa volta soltanto) sui bond statunitensi, rendendosi ancora più prigionieri del gioco pericoloso.

Solo che – fanno notare gli analisti di Europe 2020 – i prigionieri dedicano i loro pensieri migliori al modo di evadere, magari senza farsi riacciuffare e senza rompersi le gambe. E lo fanno con circospezione. Il 24 marzo 2009 il governatore della Banca centrale di Pechino lanciava un ‘ballon d’essai’. Ipotizzava che il dollaro lasciasse il posto nei commerci a una valuta di riserva internazionale. Sondava e avvertiva insieme, consapevole della forza immensa che i nuovi equilibri spostavano nel mondo (un G20 anziché un esangue G8).

Secondo Europe 2020 tutti i nuovi membri del club del potere mondiale sono pronti a concordare i loro passi con la Cina, quando si renderà necessario. Si è parlato molto degli accordi swap fra Cina e Argentina, ma sono rilevantissimi anche quelli fra Brasile e Argentina, fra Cina e Sud Corea, e così via. Sono una sorta di “baratti” bilaterali che tagliano fuori il dollaro. Ovviamente il club anglosassone prova a resistere ripetendo all’infinito le strade già battute (e qui vediamo le carenze strategiche del progetto obamiano). L’Europa si barcamena e non ha un progetto politico che possa suonare come una sfida a quel che resta della subalternità a Washington.

La Cina c’è, invece. I passi li fa alla chetichella, ma li fa. Il ritmo della fuga, sebbene graduale e attento a non smarrire un suo ruolo stabilizzante, ha numeri impressionanti.

Ogni mese la Cina si sta liberando di 50-100 miliardi di titoli in dollari. La depressione dei prezzi in questo caso favorisce lo shopping pechinese. Sotto lo sguardo benevolo di Hu Jintao i cinesi comprano minerali, metalli industriali, terreni agricoli e risorse energetiche a prezzi bassi. In certi casi ne fanno incetta, e i prezzi risalgono, ma non più di tanto. Se pure i cinesi si tengono lontani dalle azioni nel mercato USA, ne comprano in Europa e Asia. Cercano di tesaurizzare i dollari USA trasformandoli rapidamente in beni non statunitensi più durevoli. Una corsa alla Roba, perché il resto, il dollaro, sarà carta straccia.

Puoi coprire le scarpe da tip tap con tre paia di calze, ma se fai passi come questi farai comunque rumore. Entro settembre 2009 la Cina avrà tolto dalle sue mani 600 miliardi di patate bollenti col simbolo del dollaro. Ma non acquisterà nemmeno quel che gli USA – fra stimoli e salvataggi – saranno costretti a emettere in più dell’ordinario, ossia un ammontare tra i 500 e i 1000 miliardi di nuovi titoli di debito. E chi li compra, allora? Gli USA si troveranno a dover inventare qualcosa per risolvere lo sbilancio. Uno squilibrio che può raggiungere i 1600 miliardi di dollari.

È uno scenario che diventerà ancora più drammatico, una volta giunto al ‘redde rationem’. Il governatore della Federal reserve Ben Bernanke sarà forzato ad acquistare i suoi stessi Buoni del Tesoro.
Questo si chiama: stampare dollari.
La cosa non è nuova. Quando Bernanke dichiara in pratica che la Fed è pronta a oliare la zecca, i T-bond crollano del 10% in un solo giorno.
Il momento X della prossima estate, con un simile scenario, segnerebbe anche una perdita secca di centinaia e centinaia di miliardi per i cinesi. Ma per loro sarebbe il male minore. Perché a quel punto l’insolvenza USA sarebbe conclamata e la salvezza starebbe nell’essersi posizionati meglio nel frattempo.

Siamo davvero alla vigilia di una tale insolvenza? Secondo Europe 2020 i dati dicono proprio questo. La spesa pubblica è esplosa per tenere a galla Wall Street (+41%) e si associa a un crollo mai visto prima degli introiti tributari (-28%). Soltanto nel mese di marzo 2009 il deficit federale ha toccato quota 200 miliardi di dollari, poco meno della metà del deficit di tutto il 2008, che Bush aveva comunque portato troppo fuori misura. Le cose non vanno meglio a livello degli Stati, a partire dalla California di Schwarzenegger, giù “per li rami” fino ai livelli di governo locale. Non c’è verso per fermare la spirale, per ora. Le professioni di ottimismo nella ripresa sono solo parole.
Il Fondo Monetario Internazionale ha rifatto i conti delle perdite che sono e saranno determinate dal collasso finanziario in corso: non più 2.200 miliardi di dollari, bensì 4.100 miliardi. Sono oltre 600 dollari di perdite pro capite a livello mondiale, inclusi i neonati della Nuova Guinea, i vecchietti degli ospizi, e gli evasori totali. Chi pagherà? Andrebbe richiesto a quelli che «i segnali di ripresina» e a quelli che «il peggio è ormai alle spalle».

Insomma, inevitabile che dopo la fase 1 arrivi la fase 2. La Cina sarà costretta a non misurare i passi come prima e a trovare una soluzione diversa. Secondo gli studiosi francesi sono plausibili diversi scenari.
Uno di questi potrebbe essere lo yuan renminbi che diventa valuta di riserva internazionale al posto del dollaro, in compagnia dell’euro, dello yen e di altre monete. Oppure si può accelerare l’istituzione di una nuova valuta di riserva che risiederà su un paniere di monete che lascia da parte il club anglosassone.
Inutilmente sarà lubrificata la zecca di Bernanke, il dollaro non dominerà più.

In alternativa a questi due scenari, che comunque presuppongono uno scheletro di globalizzazione ancora presente, ce n’è un altro: una dislocazione geopolitica globale, imperniata su blocchi economici continentali, che basano ciascuno i propri scambi su una diversa moneta di riserva “regionale”. Da noi l’euro, altrove nuove monete con funzioni simili. Il WTO diventerebbe una voce morta delle enciclopedie. Una soluzione a suo modo ben accomodata, ma proprio per questo più improbabile, perché le convulsioni attese non sono affatto ordinate.

Europe 2020 punta la sua attenzione sulla riunione di New York del G20, nel Settembre 2009, a ridosso dell’Assemblea generale dell’ONU. I dati sin qui esposti addensano intorno a quel periodo l’ora X delle rotture monetarie. Il summit assisterà alla gravità della crisi che starà martoriando gli Stati Uniti, un paese in cui già oggi un cittadino su due sostiene di essere ad appena due stipendi di distanza dalla bancarotta), all’interno di una tendenza già in atto che vede la crescita drammatica della violenza urbana e degli omicidi.

Sarebbe uno scenario di ‘default’ degli Stati Uniti. Un tracollo alla massima potenza. Che a sua volta innescherebbe tante reazioni. Quali? Difficile dirlo, e capire le interazioni.

Per Europe 2020 il default potrebbe avverarsi secondo quattro diversi modi, o con una combinazione di essi. Due scenari implicano vie d’uscita ordinate, gli altri due avvengono nel caos:

1) il Fondo Monetario Internazionale fa per la prima volta agli USA quello che ha fatto centinaia di volte agli altri stati: prende in carico il budget federale e prescrive severi tagli al bilancio (da tagliare ce n’è: l’immane spesa militare, ma anche i programmi sociali). È uno sbocco quasi insostenibile dal punto di vista politico, in presenza di un complesso militare-industriale che incorpora riserve di golpismo, e di una società che non saprebbe metabolizzare le rinunce, perché politici e pubblicità le hanno lisciato il pelo per decenni dicendo al mondo che “il tenore di vita americano non è negoziabile”;

2) il Dipartimento del Tesoro decide di emettere buoni del Tesoro in altre monete invece che in dollari. Ripeterebbe un atto di circa trent’anni fa, su scala più piccola, ossia un’emissione di yen e marchi decisa nel corso di una crisi minore del dollaro. Il difetto di questo esito è che i bond emessi sarebbero così tanti da mettere nei guai gli altri paesi coinvolti. Non si dimentichi ad esempio che in un solo anno il Fondo monetario Internazionale prevede che il debito pubblico italiano passerà dal 106% al 121% del PIL.

3) il dollaro dimezza di colpo il suo valore in rapporto alle altre valute. L’amministrazione Obama darebbe respiro finanziario al bilancio federale e ai bond posseduti dagli stranieri con dollari deprezzati. Una soluzione unilaterale che aumenterebbe però il disordine globale .

4) poiché vendere ai soliti investitori esteri i bond del Tesoro risulta sempre più difficoltoso, la Federal Reserve è costretta a incrementare il programma TARP (Troubled Asset Relief Program), così che si innesca la svalutazione del dollaro, che risulta a quel punto meno desiderato da chi investe su beni in dollari. È il canovaccio in parte già intrapreso. Come si combinerà questa dinamica con gli altri sbocchi?

Per capire quanto le evocazioni di una “ripresina” siano solo pensieri illusori, basti considerare che negli USA i principali istituti di credito beneficiati dai massicci aiuti pubblici, a febbraio 2009 hanno diminuito del 23% i finanziamenti concessi in rapporto a ottobre 2008, quando il Tesoro avviò il sostegno alle banche attraverso il TARP. Segno che anche l’economia reale precipita.

In questo quadro di crisi gli analisti francesi, nonostante l’afasia dell’Europa, vedono in essa un’area «meno esposta ai fattori destrutturanti», perché meno dipendente – con l’eccezione del Regno Unito – dal «dollaro-debito» e perché la sovranità degli Stati membri della UE è molto più forte dei singoli Stati che compongono gli USA (dove non a caso si affaccia nel dibattito politico lo spettro della secessione). La Germania considererà di vitale importanza avere intorno a sé un’area di integrazione che sia ancora il mercato di riferimento per la sua industria. Forzando il senso dell’analisi, il default degli USA ha più possibilità di verificarsi della disgregazione della UE.

Un default, o comunque una crisi che si avvita, non sarà un evento come tanti. Sono tempi eccezionali. Europe 2020 arriva a consigliare di preoccuparsi dei paesi in cui circolano troppe armi da fuoco, nonché a prepararsi a una interruzione dei pubblici servizi essenziali, quelli sostenuti da organizzazioni vaste, per affidarsi invece nei giorni o settimane dell’emergenza alle reti comunitarie e familiari a corto raggio. E consiglia di fare in un certo senso come la Cina: usare come riserva di valore non il denaro ma metalli preziosi e beni fisici di facile scambio, utilizzabili anche nell’ipotesi che le banche restino chiuse nei giorni del crollo.

Quando il rapporto è uscito non era ancora nota la proiezione del FMI sul debito pubblico italiano che sfonda gli argini (come quello di altri paesi, del resto). Ma le previsioni per i risparmi erano già in linea con questa realtà. Il che implicherà pensioni integrative a lungo impoverite e pressioni più forti sui risparmiatori (dove ancora ce ne sono, non certo in USA) per ripagare la bolla del debito pubblico, l’ultima bolla. E questo senza considerare ancora la possibile grande ripresa dell’inflazione, una volta che la banchisa della liquidità si scongelerà.

Obama ha insomma una bella gatta da pelare.
Il 70% degli scambi di moneta avviene presso centri finanziari ricompresi nella sfera d’influenza del dollaro, a Londra, New York, Tokio: «Sono americane o inglesi 8 banche delle 10 più grandi per scambio di valute che sono scomparse dal panorama economico, come Lehman Brothers, o che sono a un passo dalla bancarotta o dalla nazionalizzazione, come Citigroup o Royal Bank of Scotland.» L’epicentro è lì.
Nel dicembre 2008 il Pentagono ha ricevuto un rapporto di Nathan P. Freier dell’Istituto di studi strategici dello US Army War College, nel quale viene descritto il rischio di disgregazione del territorio USA e dei suoi confini per effetto della crisi.
Obama non ha fatto rotolare alcuna testa nell’apparato della Difesa, nonostante abbia vinto le elezioni proclamando di voler cambiare profondamente la strategia militare del predecessore. Le forze armate potrebbero essere chiamate a garantire l’integrità territoriale USA e la continuità di governo, suggerisce Freier.

Questi scenari previsionali si fermano lì. Bastano già le previsioni infondate degli ottimisti a oltranza per dover speculare più oltre.

Possiamo dire tuttavia che questi sono scenari di guerra, e che chi gioca con il facile ottimismo è un’irresponsabile. In perfetta continuità con l’irresponsabilità beota degli anni che ci hanno portato al disastro.
Dovremo essere pronti a non accettare nessuna scorciatoia: guerre all’Iran, ossessioni antiterroristiche alimentate a bella posta, poteri speciali, il catalogo è vasto. Obama si mostra ancora come il punto d’equilibrio in cui si intrecciano insieme fili di credibilità e di speranza. Ma una volta che quell’equilibrio si spezzerà saremo tutti in pericolo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Crisi globale: “Il lavoro da fare in questa direzione sarà davvero durissimo, perché in questi mesi il mondo sta davvero cambiando e nessuno sarà comunque disposto a cerderci il passo.”

La ripresa verrà, ma nulla sarà come prima

di Romano Prodi- da Il Messaggero del 19 aprile 2009

Se si ragiona sui freddi dati bisogna necessariamente constatare che l’economia mondiale è ancora in recessione. Il suo tasso di sviluppo è ancora negativo, il commercio globale mostra anch’esso il segno meno e l’unico dato col segno positivo è purtroppo quello della disoccupazione.

Eppure, anche se ancora piove a dirotto, non si possono trascurare alcuni segnali che possono fare pensare che la grande crisi, anche se ancora lungi dall’essere risolta, stia entrando in una fase di minore turbolenza.

Il primo segnale è puramente politico. Pur non avendo preso nessuna decisione straordinaria, la riunione dei G20 tenuta a Londra all’inizio di Aprile, ha dimostrato che nel mondo si è ricostituito un possibile nucleo di comando. Il fatto che attorno allo stesso tavolo fossero seduti gli Stati Uniti, la Cina e, seppure in modo più defilato, l’Unione Europea, ha mandato a tutti il messaggio che si sta ricostituendo la struttura di comando di cui vi era assolutamente bisogno. Da una crisi anarchica stiamo cioè passando ad un mondo in qualche modo governato.
Anche all’interno delle grandi aree economiche mondiali la paura sta lentamente diminuendo, lasciando, di fronte ad azioni in grado di poterla contrastare.

L’area che sembra essere più avanti in quest’azione di contrasto è certamente la Cina dove le centinaia di miliardi di dollari di potere d’acquisto iniettate nel sistema economico durante gli ultimi mesi, stanno dando i primi frutti, che si sono tradotti in un sostanzioso aumento della produzione industriale e degli ordinativi delle imprese.

Il secondo messaggio (non così positivo ma almeno di minore pessimismo) arriva dagli Stati Uniti, dove gli ultimi dati di alcune grandi realtà economiche, come Citigroup e General Electric, sono meno negativi delle previsioni. La fiducia dei consumatori non potrà riprendersi in modo stabile se gli americani non verranno liberati dalle tre grandi paure da cui sono ancora afflitti , e cioè la paura di perdere le case in conseguenza delle ipoteche non pagate, di vedere i propri fondi pensione decurtati dalla crisi finanziaria e, infine la paura di ammalarsi da parte dei 50 milioni di cittadini che non sono ancora coperti da alcun tipo di assicurazione contro le malattie.

Per tutti questi motivi, e non solo per l’iniezione di capitale pubblico nelle banche, è diventato ormai un luogo comune ripetere che l’uscita dall’emergenza economica passa più dalla Casa Bianca che non da Wall Street. Tale uscita, infatti, deve essere forzatamente accompagnata dalla messa in atto di quella grande innovazione sociale che stava alla base del programma elettorale di Obama.

Più pallidi sono i segnali provenienti dall’Europa, sia per la mancanza di una politica comune a livello continentale, sia per la divergenza delle situazioni dei singoli Paesi europei. Tuttavia non possiamo trascurare il fatto che la caduta si sia molto rallentata anche da noi e che in alcuni settori, come quello dell’automobile, le politiche di incoraggiamento alla domanda abbiano dato frutti certamente incoraggianti e, in ogni modo, assai più positivi rispetto alle previsioni.

Naturalmente quest’elenco di dati meno catastrofici rispetto a qualche settimana fa non ci deve fare dimenticare che non solo il reddito e la produzione ma anche gli ordini alle imprese e i dati sull’occupazione continuano a manifestare un segno pesantemente negativo, anche se meno negativo di un mese fa.

Queste considerazioni però sono sufficienti per dirci che la ripresa nel mondo verrà. Probabilmente dopo l’estate ma verrà. Ma verrà con una radicale redistribuzione del potere fra i diversi Paesi e le diverse classi sociali. Credo perciò che dovremmo impiegare i prossimi mesi non tanto a fare previsioni, quanto invece a preparare le nostre imprese e la nostra società a svolgere un ruolo da protagonista in questo nuovo mondo. Il lavoro da fare in questa direzione sarà davvero durissimo, perché in questi mesi il mondo sta davvero cambiando e nessuno sarà comunque disposto a cerderci il passo. Il posto nel mondo ce lo dovremo conquistare noi.

Prepariamoci quindi a pensare a cosa dovremo fare per conquistarlo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

La Cina è vicina (alla ripresa economica)?

Pechino, segnali di ripresa
e riparte l’export dei vicini

di Federico Rampini da repubblica.it

A Pechino già si intravvede la luce in fondo al tunnel della crisi. Questo almeno è il messaggio reiterato in questi giorni dai più importanti esponenti della Repubblica Popolare. Il governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan (lo stesso che ha fatto notizia all’inizio della settimana con la proposta di una “valuta globale” per sostituire il dollaro) annuncia che vi sono già chiari segnali di una ripresa economica. “Gli indicatori più importanti – sostiene Zhou in un articolo pubblicato oggi sul sito online della banca centrale – concordano nell’annunciare una ripresa della crescita”.

Per la prima volta in modo così diretto, la tenuta dell’economia cinese viene usata per dimostrare la superiorità del sistema politico autoritario e dirigista. Il banchiere centrale infatti attribuisce esplicitamente la ripresa economica alla “azione decisiva del governo”, che mette in contrasto con i ritardi di altre nazioni. “Il nostro governo – scrive Zhou – ha varato misure di politica economica tempestive, energiche ed efficaci, dimostrando così la superiorità di questo sistema quando si tratta di prendre deicisioni politiche di vitale importanza”.

Qualche elemento di conferma sulla tenuta dell’economia cinese sembra venire anche da un paese vicino: la Corea del Sud ha visto rallentare il tracollo delle sue esportazioni. Dopo la pesantissima caduta del 34% a gennaio, a febbraio la discesa è stata del 18% e a marzo del 13%. Non sono certo cifre positive ma sembrano indicare che il crollo delle esportazioni incontra un “pavimento”. Molti esperti individuano questo pavimento nella domanda cinese. Dopo un ultimo trimestre 2008 in cui le imprese cinesi spaventate dalla crisi mondiale hanno drasticamente ridotto i loro acquisti, la necessità di ricostituire le loro scorte di magazzino ora sta rianimando gli investimenti. E i paesi vicini, molto dipendenti dal traino cinese, cominciano a risentirne qualche beneficio.

A Pechino intanto si conferma l’anomalia di un sistema bancario che gode di una salute eccezionale, se paragonata al resto del mondo. La Industrial & Commercial Bank of China Ltd., la più grande azienda di credito del paese, ha annunciato che i suoi profitti nel 2008 sono cresciuti del 35,2%. Unico segno della crisi è il rallentamento del tasso di crescita, visto che gli utili dell’istituto nel 2007 erano cresciuti del 65%. ICBC ha anche raggiunto un accordo con la Goldman Sachs per rinviare la cessione della partecipazione detenuta dal gruppo bancario americano nel suo capitale.

L’inflazione indiana rallenta allo 0,27%, un dato che offre alla banca centrale di New Delhi la possibilità di ulteriori riduzioni nei tassi d’interesse. Il rallentamento dell’indice dei prezzi è spettacolare, tenuto conto che un anno fa l’India era minacciata da una iperinflazione, e ancora a gennaio il carovita per i consumatori aveva segnato un rialzo del 10%. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

Crisi globale: sta arrivando la resa dei conti?

di Richard C. Cook (*) – «Global Research» da megachip.info

Il presidente Barack Obama ha mostrato un sacco di audacia nell’affrontare il Congresso la notte scorsa al momento di pronunciare il suo primo discorso alle camere riunite. Tutti i fronzoli del potere erano in mostra quando i membri della Camera e del Senato, della Corte suprema, i capi di stato maggiore riuniti, il gabinetto, e gli ospiti VIP si abbracciavano e si stringevano le mani, raggianti nei loro abiti su misura, appena due notti dopo che le star di Hollywood avevano allestito il loro show nella notte degli Oscar.

Peccato che né il presidente né il vicepresidente Joe Biden e la Speaker della Camera Nancy Pelosi che applaudivano sul podio dietro di lui, né i festanti democratici con la loro solida maggioranza, né gli scontrosi repubblicani che ciondolavano in minoranza lungo il corridoio, sappiano che cosa stiano facendo ora che l’estinzione economica fissa da vicino il volto degli Stati Uniti d’America.

Sì, va proprio così male. Il giorno dopo il discorso il Dow-Jones è sceso a 7.271, quasi il 50 per cento rispetto al picco di ottobre 2007, senza che il fondo sia in vista. Secondo il «Washington Post», le tre grandi case automobilistiche stanno ora per affrontare un crollo dal basso verso l’alto delle loro di linee di fornitura di componenti se la loro vasta rete di fornitori non riceverà nuovi prestiti federali entro una settimana. Anche nel mondo la situazione è altrettanto grave. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’ONU comunica:

«Quella che all’inizio era una crisi dei mercati finanziari è rapidamente diventata una crisi occupazionale globale. La disoccupazione è in aumento. Il numero di lavoratori poveri è in aumento. Le aziende stanno andando sotto.»

Il discorso del Presidente Obama è stato lungo quanto a determinazione, ma breve quanto a sostanza. Ha promesso alla nazione:
«Ricostruiremo, risaneremo, e gli Stati Uniti d’America riemergeranno più forti di prima.»
Ma giungere a un tale risultato dipende interamente da una cosa: una più elevata spesa federale in deficit da far funzionare come il motore economico di un’economia in cui i prestiti bancari si sono prosciugati perché le imprese ei consumatori non possono più rimborsare i loro prestiti.

Purtroppo, il disavanzo si sta avvicinando al punto di rottura.
Durante l’anno fiscale 2009 il Tesoro USA è sulla via di pagare più di 500 miliardi di dollari solo nel remunerare gli interessi per finanziare il debito già esistente. Il nuovo debito quest’anno probabilmente supererà il trilione di dollari. Il carico totale degli oneri del debito per l’economia nel suo complesso potrebbe arrivare a 70 trilioni di dollari entro il 2010, con un livello di pagamenti di interessi annuali per i singoli individui, le famiglie, le imprese, e tutti i livelli di governo che raggiungerebbe verosimilmente 3 trilioni di dollari su un PIL da 14 trilioni ora in brusco calo.

Il finanziamento del deficit continua a dipendere dal fatto che la Cina acquisti ancora le obbligazioni del Tesoro. Questo è il motivo per cui il Segretario di Stato di Hillary Clinton ha detto in tutta franchezza, durante l’ultima il viaggio della scorsa settimana in Cina: «Noi contiamo sul fatto che il governo cinese continui ad acquistare il nostro debito».
Ma almeno il presidente Obama ci sta provando. Sa che l’economia può recuperare solo se la crescita viene ravvivata. Pertanto si concentra su una creazione di posti di lavoro che si traduca in autentici redditi da lavoro. Ma può invertire una generazione di outsourcing del lavoro e di stagnazione dei redditi? Non conosco nessuno che ritenga che ce la possa fare. Potrebbe farcela la panacea repubblicana dei tagli delle imposte e della spesa? Non scherziamo. Non quando la disoccupazione si sta avvicinando ai livelli della Grande Depressione.

Ma né il Presidente Obama, né i suoi sostenitori democratici né gli antagonisti repubblicani, dovrebbero dispiacersi di ciò che sta accadendo. Questo è dovuto al fatto che il sistema che è stato loro fornito e attraverso cui operare è stato progettato per fallire. Agli Stati Uniti è stata molto tempo fa caricata la soma di un sistema monetario basato sul debito, in virtù del quale l’unico modo in cui il denaro può essere messo in circolazione è attraverso i prestiti bancari. È stato il sistema istituito nel 1913, quando il Congresso ha abdicato al suo potere costituzionale sulla creazione di moneta a favore dell’industria bancaria privata con l’approvazione del Federal Reserve Act.

Fu allora che la catastrofe cui ora ci troviamo di fronte divenne inevitabile. Ci è voluto quasi un secolo per arrivare fin qui, ma alla fine è accaduta. Avremmo dovuto saperlo che stava per arrivare quando le bolle coniate dalla Federal Reserve hanno sostituito la crescita economica della nostra scomparente industria pesante, a partire dalla recessione del 1979-83. Avremmo potuto vederla arrivare al momento in cui scoppiava la bolla della New Economy nel 2000-2001, e il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan lavorava con l’amministrazione di George W. Bush per sostituire la bolla immobiliare a un reale risanamento.
È arrivata la resa dei conti. Quindi non si preoccupi, signor presidente. Non è colpa sua. Quando il crollo ha luogo i banchieri internazionali, che prenderanno il sopravvento potrebbero perfino lasciarle mantenere il suo lavoro. (Beh, buona giornata).

(*)Richard C. Cook è un ex analista del governo federale USA. Il suo libro sulla riforma monetaria, We Hold These Truths: The Hope of Monetary Reform (Noi ci teniamo queste verità: La speranza della riforma monetaria), è ora disponibile su www.amazon.com. È anche l’autore di Challenger Revealed: An Insider’s Account of How the Reagan Administration Caused the Greatest Tragedy of the Space Age. Può essere contattato attraverso il suo sito web all’indirizzo www.richardccook.com.

Articolo originale: The U.S. Economy: Designed to Fail.
Traduzione di Pino Cabras per Megachip

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