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Veline&politica: “E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico.”

Le veline e l’evoluzione
della specie (im)politica
di Ilvo Diamanti -la Repubblica

Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l’indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.
Amplificando la vicenda. Come, d’altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che – non da oggi – la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l’informazione, l’informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d’altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di “Striscia la notizia”. Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l’icona e il simbolo dell’informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica – e non – sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell’informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all’informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire…

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po’ ambiguo. Strizzando l’occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da “momenti alti” di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l’intera giornata. Mattine sull’Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c’è politico disposto a rinunciare a un’occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c’è la televisione? Ma se c’è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all’altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l’immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant’altro sono già stati – taluni sono ancora – in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all’altro dello spazio politico, da un partito all’altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all’abbandono dei luoghi sociali della politica.

All’evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L’evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista. (Beh, buona giornata).

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Se il capo dello Stato e il capo del Governo parlano due lingue diverse.

Napolitano/ Berlusconi: due democrazie, due linguaggi- da blitzquotidiano.it

Due presidenti, due democrazie, due linguaggi. Il capo dello Stato parla con chiarezza, con precisione, con rigore logico. Niente “politichese”, affermazioni dirette e concrete. Ma “parla in latino“, una lingua madre eppur morta. Una lingua razionale, eppur ai più incomprensibile. Una lingua esatta come la matematica, giusta come la geometria, eppure una lingua non parlata.

Dice Napolitano che la democrazia è che nessuno abbia un potere che un altro potere non possa controllare e fermare. Dice Napolitano che la bilancia, l’equilibrio dei poteri e il reciproco limite non sono un peso, una zavorra della democrazia, sono invece la democrazia che altrimenti sfuma, evapora, svanisce. La storia dei popoli e la storia delle dottrine politiche concordano con Napolitano: la democrazia parlamentare, liberale e borghese nasce e si sviluppa intorno alla divisione dei poteri.

Silvio Berlusconi parla invece altra lingua. Immaginifica, emotiva, allusiva e suggestiva. Una lingua imperfetta e imprecisa, tanto ammiccante e sorridente quanto culturalmente ibrida. Dice Berlusconi che democrazia è il popolo che vota e sceglie e poi il leader che esegue, decide e realizza. In mezzo niente o meglio: meno c’è in mezzo e meglio è. Dice che i controlli sono vincoli, vincoli che fanno male all’azione di governo e quindi agli interessi della gente. Dice che la vera democrazia è quella del votare che spetta agli elettori e quella del fare che spetta al leader. Nel resto, in quel che di altro c’è si annida la cattiva politica.

Non è quella di Berlusconi democrazia liberale, parlamentare e neanche borghese. È una miscela di democrazia diretta, cesarismo, assemblearismo e tecno-democrazia. Non certo dittatura e neanche necessariamente autoritarismo. La differenza è che la democrazia, classica e da manuale di Napolitano, presuppone dei cittadini, cioè dei soggetti di diritto che cittadini sono in quanto portatori di diritti e doveri. La democrazia di Berlusconi presuppone invece un popolo, cioè una somma di portatori di bisogni e interessi.

Come detto, è il “latino” la lingua esatta. Ma l’altra è la lingua parlata. Non ci sono dubbi su quale sia il “giusto” parlare, non c’è dubbio su quale sia la lingua che risulta vincente: l’altra. (Beh, buona giornata).

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