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Missione missina.

Si palesa una situazione simile a quella che per decenni fu il terreno della missione del Msi, cioè quella di essere lo spauracchio dell’avanzata delle rivendicazioni operaie e popolari, del protagonismo diritti delle donne,  dei giovani, della difesa dello Stato sociale.

La destra e le paure dell’establishment.

Scrive su Domani Stefano Feltri: “Se oggi Giorgia Meloni può ambire ad andare a palazzo Chigi è anche grazie al cinismo dell’establishment italiano che ha deciso di legittimarla”. 

Manco a farlo a posta, contemporaneamente, Angelo Panebianco scrive sul Corriere: “C’è sempre, nelle elezioni italiane, un “sovraccarico etico” dato che, secondo le minoranze politicizzate, a scontrarsi sono il Bene e il Male. Per la minoranza di destra la parte del Paese che vota per la sinistra è dominata dai comunisti, per la minoranza di sinistra l’altra parte è in mano ai fascisti”. 

Tralasciando il cerchiobottismo, che è il massimo della moderazione raggiungibile dagli argomenti di Panebianco, pasdaran dell’establishment, la bocca buona della borghesia italiana su certe disgustose formazioni politiche non è una novità. 

Pensiamo al partito di Berlusconi e come in questo ultimo quarto secolo la borghesia italiana abbia sorvolato su tutto, pur di avere a disposizione qualcuno cui affidare i propri privilegi. O alla Lega, che da Bossi è diventata di proprietà di Salvini e delle sue sconcezze politiche sulla legalità, la sicurezza, i diritti umani e la politica estera. 

Per arrivare a Meloni, cui potrebbe essere affidato il ruolo di garante dell’autoritarismo necessario a comprimere le tensioni sociali, inevitabili a fronte del previsto “tzunami” sociale che si preannuncia per via dell’intreccio tra crisi energetica, crisi ambientale e inflazione, con l’aggravio, per i redditi bassi, dell’aumento del costo del denaro. 

Si palesa una situazione simile a quella che per decenni fu il terreno della missione del Msi, cioè quella di essere lo spauracchio dell’avanzata delle rivendicazioni operaie e popolari, del protagonismo diritti delle donne,  dei giovani, della difesa dello Stato sociale, oltre che rifugio di generali felloni e golpisti, ed essere nei fatti il bacino militante dei responsabili delle stragi, anche quelle di mafia, dei tentativi di colpo di stato, della cospirazione antidemocratica ordita dalla P2. 

Perché questo è stato il neofascismo italiano, file da cui Meloni e i suoi “fratelli” provengono: è da questo che non hanno mai preso le distanze, questo è il vero problema politico,  questa è la vera fiamma che arde nella loro storia, non certe pagliacciate nostalgiche, più patetiche che disgustose. 

Il “cinismo dell’establishment” come lo chiama il direttore di Domani è figlio di quella lunga stagione. La borghesia italiana, quella grande e quella piccola, i ceti ricchi e medi temono con tutto il sistema nervoso del lobbismo, delle caste, delle oligarchie, del familismo che prima o poi esploda la rivolta. 

E che redistribuzione della ricchezza, attraverso investimenti nel welfare pubblico, – cioè Istruzione, Sanità e Previdenza, – adeguamenti salariali al pari dei paesi del G7, pieno riconoscimento dei diritti delle donne, degli omosessuali, degli immigrati siano provvedimenti inevitabili.

Per la salvaguardia del nostro sistema politico, della coesione sociale, della stessa produzione delle merci, della loro distribuzione interna ed esportazione e dell’ambiente sarà necessario intervenire con una decisa “agenda sociale”.

Tutto questo fa paura. A ben vedere è proprio questo che la destra sta sfacciatamente dicendo in campagna elettorale, cioè se non votate per noi certi privilegi rischiano grosso. 

Ed è proprio su questo che si misura, al contrario, la timida cautela delle proposte sociali del centrosinistra, cui fa da sponda la goffaggine politica del M5s. 

Invece che puntare a mobilitare la coscienza e gli interessi materiali della stragrande maggioranza degli elettori con una piattaforma, che attivi il loro protagonismo nella lotta politica, per un concreto miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, hanno paura di spaventare l’establishment italiano, che invece sembra pronto a puntare decisamente a destra. 

Per mantenere rendite (esentasse) di posizione, per mettere la mani sui vantaggi del Pnrr, sono disposti a tutto. Tanto da pensare possibile affidarsi a una nuova missione missina.

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La pubblicità italiana, ovvero regressioni d’autunno.

“E mo’ vene Natale, non tengo denari, me leggo ‘o giurnale, e me vado a cuccà”, mitica canzoncina jazz di Renato Carosone del 1955 che, a saldi pari, calza a pennello alla comunicazione italiana, che si appresta a chiudere un altro anno terribile, smentendo, senza che nessuno abbia il coraggio di farne pubblica ammenda, la previsione di un pareggio, se non di un sia pur lieve incremento.

Siamo, invece, ancora nella melma, per non dire di peggio. E non si tratta di numeri, ma d’idee.

Succede, per esempio, che una nota e potente organizzazione nella grande distribuzione mette sui suoi scaffali un nuovo prodotto a marchio: un preservativo. Ma la campagna è moscia. E non vi sembri un volgare ossimoro.

Oppure che un grande editore italiano metta in distribuzione opzionale un prodotto multimediale su Giacomo Leopardi. La creatività radiofonica è niente meno che una serie di brani tratti al Cd, uno dei quali recita:
“Leopardi era un ragazzo allegro”. Peccato che l’agenzia non si chiami Monty Python.

Potremmo andare avanti in un lungo e noioso elenco.

D’altra parte, vanno in continuazione sul web ideuzze risibili, supportate da volonterosi copy e account che tentano di “virarli” attraverso i loro rispettivi profili sui social network.

Però si alzano peana alla comunicazione olistica. Dimenticando che è il marketing che

La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
deve essere olistico. La comunicazione o è settaria o non è.

Siamo in un’epoca di frantumazione. Si è frantumata la Repubblica, ormai ogni potere fa i casi suoi, spesso in contrasto gli uni con gli altri. Si è frantumato il sogno europeo, ormai divenuto il ricorrente incubo dell’austerity: il suo mantra è “ricordati che devi pagare le tasse”.

Si è frantumata la politica, che oltretutto sta frantumando anche la pazienza degli elettori: neanche la pubblicità degli Anni Ottanta sparava fandonie così roboanti. Manco il leggendario “vavavuma!” della Citroen diesel di Seguélá sarebbe arrivato a tanto.

Certo, la frantumazione dei media è la caratteristica attuale. Usciti (male) dall’impero della tv e dalla satrapia di Auditel, oggi vaghiamo in un limbo in cui per raggiungere i consumatori le marche si devono fare in mille pezzi, tanti quanto è la somma tra i vecchi e i nuovi media.

Ma a forza di avvitarsi in tecnicalità e a credere che i mezzi siano tutto, il messaggio langue, il contenuto è esangue. C’è anche un aspetto grottesco, per non dire gotico, una specie di noir de noantri, non tano del dibattito, che forse non c’è mai stato, quanto del chiacchiericcio lamentoso: quelli che urlano “la pubblicità è morta” non riescono a nascondere le mani sporche di sangue della strage di idee.

Guardare a certe importanti campagne fa impressione; vedere immagini, testi, claim, cioè i contenuti, fa pena. Una regressione stilistica, estetica e sintattica; una povertà d’immaginazione e di comunicativa; una fretta nell’esecuzione che fa cadere ogni voglia di interessarsi al narrare delle marche, dunque ai loro prodotti.

La grande corsa all’irrilevanza della comunicazione commerciale italiana fa sudare, boccheggiare e ansimare tutti, su una strada che vede allontanarsi via via il traguardo della ripresa economica.

Come fosse la vocazione a essere comparse, invece che protagonisti, poco vale consolarsi per la partecipazione straordinaria di creativi italiani alla messa in scena di campagne internazionali.

Mentre da più parti ci verrebbe proposto un nuovo modello di comportamento emotivo, basato sulle migliori qualità italiane, si dimentica che il paradigma gramsciano aveva nell’ “ottimismo della volontà” il contrappeso del “pessimismo della ragione”. Cioè di una visione critica, analitica, non conformista, utile alla modificazione positiva della realtà. Che dovrebbe cominciare col rifiutare di credere ancora che tecnicalità e mezzi, invece che idee e contenuti siano la comunicazione del nuovo modo di fare marketing.

E visto che continuiamo a importare acriticamente dall’estero assiomi del marketing moderno, per concludere ci starebbe bene una famosa citazione di “Un americano a Roma”, interpretato da un Sordi giovane e pimpante.

Quando qualcuno viene a farvi il pistolotto sulle nuove opportunità, rivolgetevi a chi vi sta accanto e dite ad alta voce: “Armando, questo mo’ cacci via, subito”. Magari funziona. Beh,buona giornata.

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Generazioni contro

Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Un Grillo nella testa dei giovani

Marco Albertini, Roberto Impicciatore e Dario Tuorto-lavoce.info

Una prima analisi dei risultati elettorali sembra mettere in luce un voto generazionale. Alla Camera, quasi la metà dei giovani hanno votato il Movimento 5 stelle. Sarebbe il più rilevante spostamento di voto della storia elettorale italiana.

UN VOTO GENERAZIONALE

Nei primi commenti al risultato delle elezioni molti opinionisti hanno suggerito che l’affermazione del Movimento 5 Stelle (M5S) ha fatto finalmente emergere il tema della frattura tra le generazioni – sia nel modo di fare politica, sia nella visione di cosa debba fare e di chi debba proteggere lo stato sociale. Lo stesso Grillo, il 27 febbraio, attraverso twitter e il suo blog, ha suggerito tale interpretazione: “Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto”; “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età” (post del “6 Febbraio). E anche la composizione per età degli eletti del M5S sembra confermare questa interpretazione: 33 e 46 anni l’età media per Camera e Senato.
Se così fosse queste elezioni avrebbero dato una risposta a uno dei puzzle di più difficile soluzione per gli studiosi di relazioni intergenerazionali: l’assenza di conflitto generazionale pur in presenza di forti squilibri di welfare tra giovani e anziani.
La natura del rompicapo può essere sintetizzata come segue. Negli ultimi decenni v’è stato in Italia (e, in misura minore, anche in altri paesi Europei) un forte inasprimento delle disparità tra le condizioni socio-economiche della popolazione giovane e quelle dei non-giovani:

1) una flessibilizzazione del mercato del lavoro avvenuta “al margine”, ovvero scaricandola completamente sui nuovi entrati nel mercato senza nemmeno sfiorare chi nel mercato del lavoro c’era già (gli insider, i protetti)
2) un sistema di welfare in cui la spesa sociale per la popolazione anziana è pari a 12 volte a quanto speso per i giovani (la media nella EU15 è di 3 volte)(1);
3) la rottura del patto generazionale alla base del sistema pensionistico con il passaggio da sistema retributivo a quello contributivo.

Nonostante tutto questo, però, numerosi dati sembravano indicare l’assenza – o irrilevanza – di conflitto generazionale.

a) le indagini mostravano che i giovani, al pari dei loro genitori, erano a favore del mantenimento degli attuali assetti di welfare (pensioni incluse);
b) erano assenti movimenti di protesta giovanile chiaramente connotati a livello anagrafico e che coinvolgessero quote rilevanti di popolazione;
c) la distribuzione del voto giovanile era relativamente omogenea rispetto a quella del voto dei genitori (2).

Non sorprende, quindi, che molti studiosi suggerivano che quello del conflitto generazionale fosse solo un mito delle società contemporanee (3). L’unica risposta plausibile al rompicapo sembrava essere che le differenze tra classi sociali (attorno a cui si è fin qui organizzata buona parte della rappresentanza politica) e l’influenza delle subculture politiche superavano di molto le diseguaglianze tra generazioni.

QUALCOSA È CAMBIATO

Le recenti elezioni sono un segnale che il panorama è mutato? è vero che è emerso un chiaro comportamento di generational voting?
In attesa dei dati di future indagini campionarie sul tema, tentiamo di dare una prima risposta al quesito utilizzando l’informazione relativa alla differenza nella quota di voti ai vari partiti alla Camera e al Senato. Attribuire tale differenza al voto giovanile, in particolare ai giovani nella fascia 18-24 anni (presenti alla Camera, assenti al Senato) necessita di due assunti forti. Primo, assumiamo che l’astensione sia sostanzialmente simile per giovani e non. Secondo, dobbiamo assumere che tra gli ultra 24enni il voto disgiunto risulti trascurabile, cioè che tutti, o quasi, abbiano votato al Senato lo stesso partito scelto alla Camera. Il primo assunto è sostenuto dal fatto che il tasso di partecipazione non presenta differenze tra Camera (75,19 per cento) e Senato (75,11 per cento ) (dati Ministero dell’Interno). Per quanto riguarda il secondo va detto, innanzitutto, che in assenza di dati completi sui flussi e da indagini campionarie post-elettorali è molto difficile depurare l’effetto del voto giovanile dalla pratica del voto disgiunto nello spiegare la differenza di voti al M5S tra Camera e Senato. Non possiamo escludere a priori che un gruppo consistente di individui abbia votato M5S alla Camera e un altro partito al Senato. Elettori mossi da calcolo razionale (votare diversamente al Senato nelle regioni più contendibili) o anche elettori “critici” – in particolare del Pd – che lanciano un segnale di protesta rivolto al partito o all’area politica in cui si identificano. Nel primo caso dovremmo attenderci uno scarto maggiore tra Camera e Senato nelle regioni in cui alla vigilia si pensava che ci sarebbe stato un risultato incerto (particolarmente in Lombardia), nel secondo che lo scarto sia maggiore nelle regioni “rosse”. Tuttavia, come mostrano le analisi seguenti, la stima del voto per il M5S tra gli under 24 rimane di molto sopra la media in tutte le regioni e non solo in quelle cosiddette contendibili (dove poteva agire una scelta razionale di voto difforme) o in quelle “sicure” della protesta da sinistra (le regioni della “zona rossa”): un possibile indizio del fatto che il voto disgiunto abbia giocato un ruolo marginale nel determinare il differenziale Camera-Senato nei voti per il M5S.

LA DIFFERENZA TRA CAMERA E SENATO

Al netto di questi caveat passiamo alle nostre stime. In tabella 1 abbiamo riportato i voti ottenuti dai principali partiti alla Camera e al Senato, e la relativa differenza. In termini assoluti, il M5S ha incassato un numero di consensi alla Camera superiore di oltre 1.400.000 voti rispetto a quanto ottenuto al Senato. Tra i principali partiti è quello che registra il differenziale più elevato. Sotto l’ipotesi che la differenza sia in toto voto giovanile possiamo stimare la percentuale di voti al M5S tra giovani di età 18-24. La percentuale, calcolata a livello regionale e nazionale, si ottiene dal rapporto tra la differenza nel numero di voti ottenuti alle due Camere e la stima dei voti validi attribuibili alla fascia di età 18-24. Quest’ultima viene calcolata riproporzionando i voti validi totali alla quota dell’elettorato di questa fascia di età (essendo la popolazione di riferimento quella fornita dall’Istat al 1.1.2011, abbiamo considerato come gruppo di interesse quello di età 17-23 anni).

Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Adottando questa procedura arriviamo a stimare che la quota di consensi per il partito di Grillo tra i giovani tra i 18 e i 24 anni ha superato il 47 per cento, contro una percentuale media del 25,6 per cento. Tale dato sembrerebbe indicare con tutta chiarezza l’emergere di un fenomeno di generational voting, ovvero un profilo di voto per i giovani drasticamente diverso rispetto a quello generale, con una forte sotto-rappresentazione del voto per gli altri partiti e per il Partito democratico in particolare. Un dato particolarmente significativo se si considera che applicando la stessa procedura all’elezione del 2008 la stima della percentuale di 18-24enni che votavano Pd non si discostava dal valore dell’intero elettorato. Il fenomeno peraltro rappresenterebbe la conferma di un trend rilevato già nel periodo pre-elettorale: nel corso del 2012, infatti, le intenzioni di voto per il M5S erano cresciute esponenzialmente prima e dopo la tornata di elezioni comunali, e con una velocità maggiore proprio nella fascia 18-24 anni (4). Nello stesso senso vanno anche i risultati di una recentissima indagine pubblicati sul Corriere della Sera: Tecné, infatti, stima che il 37,9 per cento degli elettori con meno di 30 anni hanno votato M5S alle ultime elezioni politiche (5).

CONCLUSIONI

I dati di survey pre-elettorali lasciavano intravvedere che l’attesa crescita dei consensi verso il M5S fosse trainata dai new voters o, comunque, dagli elettori più giovani. I risultati delle elezioni del 24-25 febbraio sembrano aver confermato (e rafforzato) questo fenomeno, tanto che è plausibile argomentare che il voto “grillino” abbia agito in modo deflagrante sulle dinamiche elettorali anche sul piano generazionale. La nostra tesi è che probabilmente siamo di fronte a una nuova dinamica del comportamento elettorale, con un forte e rapido allineamento del voto (anche) su basi generazionali. L’emergere di tale dinamica è di particolare rilevanza non solo dal punto di vista della soluzione del puzzle dell’assenza del conflitto generazionale, ma anche perché i giovani, al primo o al secondo voto importante, potrebbero avere trovato il loro partito e iniziato a esprimere un chiaro pattern politico, diverso da quello delle altre generazioni, con conseguenze importanti per le future tornate elettorali. Se ciò non fosse avvenuto, e il differenziale positivo di voti per il M5S alla Camera risultasse effettivamente da una generalizzazione su larga scala del voto disgiunto, saremmo di fronte a uno dei più rilevanti spostamenti di voto della storia elettorale italiana, assolutamente inatteso almeno quanto il riallineamento compatto dei giovani attorno a un nuovo partito. Attendiamo dati più solidi per scoprire il seguito. (Beh, buona giornata).

(1) Börsch-Supan, A. (2007) European Welfare State Regimes and their Generosity Towards the Elderly, in «Mea Discussion Papers», n. 128.
(2) Si veda ad esempio Arber, S. e Attis-Donfut, C., 2007, “The myth of generational conflict”, Routledge.
(3) Si veda l’indagine Demos 2008, http://www.demos.it/a00200.php
(4) Corbetta, P.G. e Gualmini, E. 2013 “Il partito di Grillo”, Il Mulino. Pagina 96.
(5) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1T9KQJ

Bio dell’autore
Marco Albertini: è ricercatore presso l’Università di Bologna e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Carlo Cattaneo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la sociologia della famiglia e i sistemi di welfare. Sito personale https://sites.google.com/site/mrcalbe. Twitter @madmakko.

Roberto Impicciatore: è ricercatore presso l’Università di Milano e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana per gli Studi di Popolazione. Si occupa di comportamenti demografici e transizione allo stato adulto.

Dario Tuorto: È ricercatore presso l’Università di Bologna, membro di Itanes (Italian National Election Studies). Ha fatto ricerca e pubblicato prevalentemente nell’ambito della sociologia politica.

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Elezioni, pareggio di bilancio e recessione: attenti alle frottole.

di MARCO PALOMBI-Il Fatto Quotidiano
Quale sarà la vera agenda del prossimo governo? È questa la domanda da cui siamo partiti per spiegare che la libertà d’azione macroeconomica di qualunque esecutivo si insedi a marzo sarà, per usare un eufemismo, piuttosto limitata. Se si volesse usare uno slogan, ad esempio, si potrebbe dire che le vere elezioni italiane saranno quelle tedesche del prossimo ottobre: è tutto nel rapporto con l’Unione europea infatti – e, ancor più, con gli altri paesi dell’eurozona – che si gioca il destino del nostro paese e, per quelli a cui interessa, del prossimo governo. Ecco un breve riassunto per capitoli dello stato dell’arte e di quel che c’è da aspettarsi tra poche settimane.

Il punto di partenza. Gli schieramenti in campagna elettorale possono promettere molto, ma occorre sempre ricordare che gli esecutivi si muovono ormai in un meccanismo di sovranità limitata. Il governo italiano, infatti, non solo ha rinunciato tempo fa alla leva monetaria, ma in sostanza anche a quella fiscale: il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, e promesso ai partner continentali entro quest’anno, lo obbliga infatti ad agire in una sola direzione. La faccenda si farà ulteriormente complicata con la legge di stabilità del prossimo anno: dal 2015 scatta, infatti, l’obbligo sancito dal Fiscal compact (approvato in tutta fretta dalla strana maggioranza nell’ultimo scorcio di legislatura) di diminuire la parte del debito pubblico che supera il 60% del Pil di un ventesimo l’anno. In soldi fanno una cinquantina di miliardi l’anno: siccome i conti si faranno sul prodotto nominale – e non quello depurato dall’inflazione – il problema non sarebbe insormontabile se ci fosse un po’ di crescita. Solo che non c’è, e qui veniamo al vero problema.

La recessione. Dall’inizio della crisi abbiamo perso 7 punti di Pil, dice Bankitalia, e l’emorragia non accenna a finire e colpisce ormai la struttura stessa del tessuto produttivo che ha fatto grande l’economia del nostro paese. Sempre dal 2008, per dire, la produzione industriale è scesa del 25%, il suo volume rilevato all’indice grezzo segna 82,9, al minimo dal 1990. Riassunto: le aziende chiudono, aumentano i disoccupati, calano i consumi e le entrate dell’erario. Questa è la spirale, questa è la priorità di qualsiasi governo nell’immediato. Poteri di intervento? Nei limiti di bilancio di cui abbiamo parlato, molto pochi, anche perché lo stato dei conti pubblici non è quello raccontato da Mario Monti in questi mesi (“siamo fuori dall’emergenza”).

Una nuova manovra? Forse sarà la prima cosa che il prossimo esecutivo dovrà fare per ottenere il famoso pareggio di bilancio obbligatorio, nonostante sia pensiero comune che la cosa non farà che peggiorare la recessione in atto (se mi tassi spendo meno, se lo stato spende meno qualcuno – pensionati, lavoratori, aziende – vedrà diminuire i suoi introiti e spenderà meno). I problemi sono due. Intanto nel bilancio pubblico 2013 ci sono alcune spese non finanziate interamente: le missioni militari all’estero sono scoperte da settembre, il rinnovo dei contratti di oltre 200mila precari della P.A. da giugno e anche le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in deroga su tutti) scarseggiano. Totale: 5-7 miliardi di euro. In secondo luogo, le previsioni del governo sulla (non) crescita sono assai ottimiste: -0,2% nel 2013, mentre quelle di Bankitalia, Confindustria, Fmi etc veleggiano verso una contrazione dell’1%. Essendo il rapporto deficit/Pil appunto un rapporto, se il denominatore è più basso il risultato è peggiore. In sostanza la manovra necessaria potrebbe aggirarsi attorno ad un punto di Pil – circa 15 miliardi – ma fonti della Ragioneria generale dello Stato hanno parlato negli ultimi giorni di un importo più contenuto (7-10 miliardi). È tanto vero che il governatore della Banca d’Italia ha appena ribadito che “l’Italia non deve abbassare la guardia” sui conti pubblici e che per farlo servono “ulteriori, prolungati sforzi”.

Soluzioni. Mantenendo inalterata la struttura dei rapporti con l’Europa (moneta unica e relativi trattati di funzionamento), l’unica via d’uscita è rappresentata dalle scelte della Germania. Negli ultimi anni Berlino ha basato la sua strategia economica sulle esportazioni, in particolare nei paesi dell’eurozona, tenendo bassi i suoi salari e la sua inflazione. Il risultato è che ha mandato in deficit i suoi partner europei che ora, però, hanno smesso di comprare i suoi prodotti (e infatti recentemente le stime di crescita tedesca sono state tagliate). Ha spiegato al nostro giornale, ad esempio, il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo: “La nostra parte noi l’abbiamo fatta, ora la Germania deve fare la sua. Ha due strade: o rilancia la sua domanda interna aumentando i salari e/o la spesa pubblica oppure consente un certo grado di europeizzazione dei debiti pubblici”. Sulla stessa linea il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: “La Germania deve fare la sua parte aumentando i salari e spingendo la sua domanda interna e poi basterebbe una diversa politica di bilancio Ue che escludesse alcuni investimenti dai saldi validi per il Patto”. A guardare la campagna elettorale tedesca – Cdu o Spd non fa differenza – non c’è molto da sperare: non solo nessuno propone politiche espansive interne per essere davvero “la locomotiva d’Europa”, ma tutto si gioca sulla critica ai cosiddetti Piigs fannulloni (e, in qualche caso, ai “terroni germanici”, che sono i poveri del nord e dell’est).

Sogni elettorali. In questo contesto le promesse di mirabolanti tagli di tasse fatte soprattutto da Silvio Berlusconi e Mario Monti non solo sono poco credibili, ma non sembrano tener conto delle priorità nella situazione attuale: come ha recentemente ribadito un working paper del Fmi – firmato dal capo economista Olivier Blanchard e da Daniel Leigh – non solo l’austerità fa male, ma il moltiplicatore (l’effetto positivo/negativo delle varie politiche economiche) della spesa pubblica, in particolar modo quella per investimenti, è assai superiore a quello fiscale. Tradotto: in una recessione bisogna fare politiche anticicliche e, tra queste, meglio che lo Stato spenda di più piuttosto che tagliare le tasse. Una proposta in questo senso in campagna elettorale l’ha lanciata ad esempio Pier Luigi Bersani sui debiti della P.A. verso le imprese. Si tratta, ma non c’è una stima ufficiale, di 90 miliardi in tutto che, al momento, non sono registrati dal nostro bilancio: tutti sanno che c’è un debito e che andrà saldato ma, secondo le stesse regole Ue, può essere tenuto fuori dai conti finché lo Stato non paga. Il Pd adesso propone di stanziare 50 miliardi per rifondere le Pmi emettendo titoli di stato vincolati a quel fine. Il problema? È un’uscita che inciderebbe significativamente tanto sul deficit quanto sul debito pubblico e per fare una cosa del genere – o altre che prevedano questi livelli di spesa – serve il permesso di Bruxelles. Ce lo daranno? (Beh, buona giornata).

Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall'altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.
Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall’altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.

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di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L’operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l’idiozia» – letterale – delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa – insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato – una pratica potentemente «progressiva». Nell’epoca dell’ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all’arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.

Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».

Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra – e l’affermarsi del «socialismo sovietico» – per convincere le classi dirigenti dell’Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».

Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c’è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.

Quando queste hanno preso a reagire meno – per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse – è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni ’70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d’ordine è diventata «tagliare la spesa».

Qui il contributo di Mazzetti diventa prezioso. L’accumulazione, dopo gli anni ’70, è in qualche modo andata avanti lo stesso; com’è stato possibile?
Negli anni ’80 Keynes viene archiviato, ma resta il problema del finanziamento in deficit per «stimolare» nuove produzioni. «Il credito privato (anni ’90, ndr) ha svolto la stessa funzione del keynesiano deficit di bilancio. È stato l’unico modo per sostenere quella domanda che se fosse mancata avrebbe determinato sin dall’inizio quel drammatico crollo intervenuto negli ultimi anni». Il crollo del «socialismo reale» – di lì a poco – ha messo a disposizione del mercato oltre due miliardi di lavoratori-consumatori, un polmone straordinario che ha rallentato l’esplosione delle antinomie economiche per altri venti anni. Ma i nodi sono arrivati comunque al pettine.

«A differenza del debito pubblico, (quello privato, ndr) pretende di appropriarsi di una ricchezza reale attraverso uno scambio, pur non avendo messo in moto alcun lavoro aggiuntivo». Pensiamo al mondo oscuro dei prodotti finanziari derivati, cds, ecc: righe di codice dentro un computer da cui scaturiscono obblighi reali. «Il credito speculativo alimenta il debito senza la misura imposta dal collegamento con la produzione, e lo scarto tra la richezza reale e la pseudo-ricchezza finanziaria diventa incolmabile». Creare denaro col denaro, senza produrre nulla, ha prodotto una cecità pervasa da senso di onnipotenza. Il film Margin call è quasi un paradigma. Senza «la misura del collegamento con la produzione», del prestito commisurato a un determinato progetto ben dimensionato, l’investimento finanziario diventa «speculazione» senza limiti. Per elaborare i «prodotti finanziari» si chiamano i matematici, invece degli economisti; così come l’economia accademica scade a econometria. L’unica «misura» che conta è un algoritmo esponenziale, senza più l’impiccio della «cosa reale».

Ovvero «il capitale pretende di diventare una variabile indipendente rispetto alla stessa produzione». Negli anni ’70 era il salario, con qualche ragion pratica e morale in più, a nutrire questa speranza.
La crisi, dunque, è il punto d’approdo «fisiologico» di una dinamica surreale. Ma «la crisi non è altro che il processo attraverso il quale una nuova forma di vita sociale preme per venire alla luce». Non torneremo a come stavamo prima. Lo dicono anche Draghi e Monti, ma in direzione totalmente opposta a quella auspicabile per la stragrande maggioranza degli esseri umani («un innovativo processo di coordinamento generale»).

Il liberismo trionfante ha ammanettato lo stato come soggetto economico, concedendogli solo tre possibilità: «lo stato viene costretto a limitare le sue spese; lo stato continua a spendere, ma aumenta le tasse; lo stato attua le spese necessarie, ma indebitandosi con i privati e come un privato». È la storia degli ultimi 30 anni. Ma per questa via «non c’è soluzione alla crisi». Perché è l’imprenditoria privata a non saper come utilizzare l’eccesso di risorse disponibili.
«Quando la spesa dello stato ha cominciato a crescere senza generare un aumento multiplo del reddito, ciò testimoniava che il processo di riproduzione del rapporto di valore era bloccato».

Ma invece di prendere atto di questa realtà e «far recedere il potere oppressivo dei capitalisti» (Keynes!) si è proceduto nella direzione opposta. Per mantenere la libertà di impresa vengono ricostruite le condizioni della scarsità. Quindi «più povertà per tutti (quelli che lavorano)», così riprende l’accumulazione. Pardon, la crescita…
Qui l’invito di Mazzetti non può che essere quello di fare come Keynes (e Marx): «ristrutturare del senso del problema con cui ci si confronta», guardarlo da un altro lato. Insomma: pensare di nuovo.

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali

L’ennesimo inutile vertice europeo sulla crisi del debito.

di Bruno Steri-rifondazione.it

Il vertice tenutosi ieri a Bruxelles era atteso come una sorta di “ultima spiaggia” per le sorti dell’euro, una tappa decisiva per decidere il futuro di un’ “Europa in bilico”. Oggi vediamo che la montagna ha partorito un topolino: niente che sia all’altezza delle aspettative. Per la verità, c’era chi lo aveva previsto. Ad esempio, qualche giorno fa, Marco Moussanet concludeva così un editoriale de Il sole 24 ore: “Si metteranno d’accordo. Su un testo che parlerà di project bond, di sblocco dei fondi strutturali, di maggiori risorse per la Banca Europea per gli Investimenti e di Tobin Tax.

Evitando accuratamente temi spinosi come il ruolo della Bce o la mutualizzazione del debito”. L’articolo si riferiva in realtà all’incontro tra Angela Merkel e François Hollande e a un’ipotizzabile “sintesi franco-tedesca”; ma la citata argomentazione può essere estesa all’incontro di Bruxelles. In sostanza si tratta di un ben magro risultato, una mediazione che non ferma l’incipiente sprofondamento del Titanic.

Mario Monti si è affrettato a rilasciare dichiarazioni rasserenanti (“Il fatto che il tema degli eurobond sia chiaramente sul tavolo (…) significa che la cosa si muove”), le quali tuttavia non convincono nessuno. Men che meno i cosiddetti “mercati”, che ieri hanno fatto precipitare gli indici azionari nelle borse di mezzo mondo, facendo toccare minimi storici a quella di Milano (- 3,68%) e innalzando il differenziale tra titoli italiani e tedeschi da 411 a 435 punti base. Disastro comprensibilmente riassunto nel titolo: “le borse non credono nel vertice Ue”.

E, in effetti, alle parole di Monti fanno da contraltare i nein della signora Merkel, le precisazioni di Mario Draghi (“L’emissione degli eurobond ci sarà solo quando avverrà un’unione di bilanci”), i traccheggi del Presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy (“Nessuno ha chiesto che gli eurobond fossero immediatamente adottati”). Così come in pochi credono alle mielose perorazioni del “salvataggio” della Grecia (“Vogliamo che resti nell’euro”): soprattutto quando, contemporaneamente e per via ufficiosa – voci “dal sen fuggite” – i tecnici Ue chiedono ai singoli Paesi di predisporre piani per affrontare un’uscita della Grecia dall’euro. Nei confronti del Paese ellenico, è la classica politica del bastone e della carota, delle premurose esortazioni unite a ricatti e secche minacce: vi vogliamo bene, ma dovete fare quel che diciamo noi (e, soprattutto, alle prossime elezioni politiche non dovete votare Syriza, la sinistra anticapitalista).

Questi signori sono pronti ad abbandonare la Grecia al suo destino – peraltro sottostimando, da veri apprendisti stregoni, gli inevitabili dirompenti effetti a catena sulla stessa tenuta dell’Unione Europea – e, nei fatti, spianano un’autostrada alle prevedibili incursioni speculative ai danni dei singoli Paesi e, in ultima analisi, dell’euro. Ciò rende quanto mai pertinente un interrogativo: qual è il gioco a cui questi signori giocano? E a vantaggio di chi? In proposito, non riusciamo a trattenere la tentazione di menzionare qui i due editoriali con cui Le monde diplomatique ha aperto i suoi ultimi due numeri di aprile e maggio. Il primo (Gli economisti sul libro paga della finanza) fa le pulci in tasca agli “esperti” di mezza Europa, evidenziando come “gli accademici invitati dai media a illuminare il dibattito pubblico, ma anche i ricercatori designati come consiglieri dai governi, sono a libro paga di banche e grandi imprese”. E che paga! Il secondo editoriale (Il volto dei signori del debito) passa al setaccio i big della politica europea, anche in questo caso puntando i riflettori sulla materialità dei loro incarichi da rendita e da capitale. I nomi di casa nostra meritano un’ampia citazione: “La copertura giornalistica della nomina di Mario Monti alla Presidenza del consiglio in Italia fornisce un perfetto esempio di discorso-paravento, che chiama in causa ‘tecnocrati’ ed ‘esperti’ laddove semplicemente si fa un governo di banchieri”. Non si tratta di metafore evocative ma di cruda realtà: “A uno sguardo più attento si vede come la maggior parte dei ministri sieda nei consigli d’amministrazione dei principali gruppi d’affari della Penisola. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, è amministratore delegato di Intesa San Paolo; Elsa Fornero, ministro del Lavoro e professoressa di economia all’università di Torino, è vicepresidente della stessa banca; Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione e della ricerca e rettore del Politecnico di Torino, è amministratore di UniCredit Private Bank e di Telecom Italia – controllata da Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca e Telefonica – dopo esser transitato anche per Pirelli; Piero Gnudi, ministro del Turismo e dello sport, è amministratore di UniCredit Group; Piero Giarda, incaricato dei Rapporti con il parlamento, professore di Scienza delle finanze all’università Cattolica del Sacro cuore di Milano, è vicepresidente del Banco popolare e amministratore di Pirelli. Quanto a Monti è stato consulente di Coca Cola e Goldman Sachs e ha fatto parte dei consigli di amministrazione di Fiat e Generali”.

L’intento sarà forse un po’ schematico; ma, all’opposto, glissare su tali fatti equivale a imbrogliare la gente. (Beh, buona giornata).

Manifestazione degli Occupy a Francoforte: la polizia appare molto rilassata al corteo.

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Finanza - Economia Lavoro Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

I governi tanto sono stati capaci di entrare nella crisi, quanto sono incapaci di saperne uscire.

di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Vedere che la disoccupazione giovanile esplode -da un già inquietante 31% di pochi mesi fa al 36% di marzo 2012 – impone di cercare risposta alla domanda che viene subito alla mente: non sarà che con la «riforma» che ha portato l’età pensionabile a 67 anni questo governo – sempre pronto a riempirsi la bocca con «lo facciamo per i giovani» – ha di fatto precluso l’ingresso nel mondo del lavoro ad almeno quattro-cinque scaglioni di «coscritti»?

Per Roberto Pizzuti, docente di politica economica a Roma, «è evidente e accertato il legame tra aumento dell’età pensionabile e disoccupazione, soprattutto giovanile». Del resto, «se c’è un certo numero – già insufficiente – di posti di lavoro, e riduci all’improvviso il turnover, quei posti non possono essere occupati da altre persone». Ma c’è di più: «è una cosa che danneggia anche le aziende, perché i lavoratori anziani costano di più, sono mediamente meno istruiti e inevitabilmente meno reattivi all’innovazione». Una politica di questo tipo «in questo momento è un autogol, vengono ridotti i redditi e la domanda quando dovrebbe invece essere sostenuta».

Giovanni Mazzetti, docente di economia politica, agginge una considerazione ulteriore: «se si è capaci di creare lavoro aggiuntivo, puoi anche lasciare sul posto gente che potrebbe andare in pensione; ma se non lo sai fare – e tutte le società avanzate non sono più capaci di crearne di nuovo – allora devi mandar via con soluzioni decorose quelli che hanno lavorato già un bel po’ (senza fare quei pasticci orrendi sugli ‘esodati’), e sostituirli con dei giovani».

L’obiezione del governo è nota: se si fossero lasciati andare in pensione quelli che avevano già maturato i requisiti «sarebbero saltati i conti Inps». Non è vero nemmeno questo, spiega Pizzuti (tra l’altro ex membro del cda Inpdap), «tutto il sistema pensionistico pubblico è da anni in attivo di 26 miliardi e contribuisce ai conti pubblici nella proporzione di una grande finanziaria ogni anno; è solo una scelta politica di colpire queste fasce, perché danno un’entrata certa e sono facili da colpire».

Se usciamo dal piano generale della macroeconomia e andiamo a vedere cosa accade nei diversi settori produttivi, la valutazione non cambia, ma assume una concretezza davvero drammatica. «Noi vediamo che la crisi non solo non passa, ma si acuisce – spiega Laura Spezia, segretario nazionale Fiom – Molte aziende chiedono ‘esuberi’ e finiamo a discutere di fatto di ‘esodati’». Perché «la riforma del mercato del lavoro non va certo nella direzione di favorire le assunzioni dei giovani». Dopo l’aumento dell’età del ritiro, infatti, «si prevede di ridurre gli ammortizzatori sociali nel tipo e nella durata; di fatto vengono rigettati sul mercato lavoratori che potrebbero e dovrebbero andare in pensione». E non è vero neppure che le aziende abbiano «tanta voglia di assumere giovani; basta guardare le reazioni della Marcegaglia e non solo all’ipotesi di restringere appena un po’ la ‘flessibilità in entrata’». La precarietà conclude – «è rimasta tale e quale, disoccupazione è aumentata; ora che vanno a scadenza gli ammortizzatori che sono stati concessi per le crisi degli ultimi anni esploderà con grandi numeri». Tanto più se andrà in porto la nuova «riforma»…

«Il fenomeno più preoccupante dice Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil – è la perdita di senso del sistema istruzione. Diplomati e laureati vengono buttati nella disperazione proprio quando il paese ne avrebbe più bisogno; si rischia una perdita totale di credibilità del sistema, che nel frattempo non è più nemmeno gratuito, negando il diritto allo studio. Questo è un paese che rinuncia al futuro, a partire dal governo Monti che non fa nulla per invertiore la tendenza».

L’ultima conferma arriva dal pubbblico impiego, ora sotto la lente della spending review. «Qui il turnover è bloccato da 7-8 anni», racconta Massimo Betti, Usb. «E già stiamo affrontando il problema di circa 100.000 dipendenti che vengono dichiarati in esubero. 65.000 dalle Province, diecimila dal personale civile della Difesa e 30.000 militari». Ma anche al ministero degli Interni si prepara un taglio «del 10% del personale». Per i «pubblici» c’è la mobilità per due anni, all’80% dello stipendio; poi, se non possono essere ricollocati in altro comparto o sede, c’è il licenziamento. La spending review punta a eliminare 4,2 miliardi di spese subito; ma «prima di nominare Bondi, Monti aveva illustrato tagli per 25-27 miliardi». Se ci si aggiunge la «delega» data a Patroni Griffi per applicare anche qui il «nuovo» art. 18, dice Betti, «diventa possibile licenziare per motivi economici praticamente tutti i 3,5 milioni di dipendenti. ‘Per Costituzione’, visto che hanno inserito l’obbligo al pareggio di bilancio».

Insomma: la crisi crea disoccupazione, ma il governo ci mette molto di suo…(Beh, buona giornata.

La ricetta della Bce per uscire dalla crisi non sta funzionando.

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democrazia Finanza - Economia Lavoro

La Seconda Repubblica è finita. Tremonti lo dice, ma non lo ammette.

Tremonti: No a governi tecnici di MASSIMO GIANNINI-repubbica.it

«IL GOVERNO Berlusconi è forte,e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l’ Europa non approverebbe». Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3e dei conflitti sulla manovra, vede un’ Italia solida e coesa,e un governo in pieno «controllo», da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell’ Economia nega conflitti e dimissioni. «Mai minacciato nulla. Tutt’ al più ho detto qualche volta “non firmo”».

Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, «al massimo una cassetta di mele marce», alle intercettazioni, «tutt’ al più una legge-bavaglino». E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, o di larghe intese senza Berlusconi. «Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla “democrazia dei contemporanei”…».

D’ accordo, allora, partiamo pure dalla “democrazia dei contemporanei”. Cosa intende dire?

«La democrazia dei contemporanei è diversa da quella “classica”, e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative- la democrazia- pur dentro la intensissima “mutatio rerum” che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia.

La scienza muta l’ esistenza. La “medicina”, la “ars longa” sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L’ iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai comee forse più di uno Stato G7.

E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull’ asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia».
Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia?
«Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza.E la politica era la forma di esercizioe di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere.

Ora non è più così. L’ asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, erosoe diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d’ intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli».


Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi..
.

«Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della “poliarchia” disegnata nell’ enciclica “Caritas in veritate”.

È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova “architettura politica”».


Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell’ Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione…

«In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c’ è una “melior pars” fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell’ Europa».

Cioè? Lei sta dicendo che l’ Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia?

«È così. E non solo perché l’ Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l’ Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva».


Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell’ Udc?

«La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell’ Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma “economico”, non un trauma “esterno”, non un trauma “giudiziario”».

Sull’ economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l’ attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così?

«Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L’ ipotesi non si è verificata. Era un’ ipotesi basata tanto su di una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo. 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell’ ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un’ ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così».

Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia…

«Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea.I numeri dell’ Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo per la forza propria e sottovalutata dell’ Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e per la forza nell’ azione di governo».

Eppure, basta parlare con un po’ di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare?

«Sarebbe questo il secondo trauma, quello “esterno”. Una volta si diceva “tintinnare di sciabole”. Ora, in un’ età più pacifica, si parla di “voci di Cancelleria”. Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell’ Italia. Per essere chiari, in giro per l’ Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all’ opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l’ Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell’ Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la “Lezione europea”. E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana».

Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l’ implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3?

«Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C’ è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l’ albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell’ etica, e se vuole anche dell’ estetica».

Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni?

«La politica deve sempre distinguere tra ciò che è “reato” e ciò che è “peccato”, e non confondere l’ uno con l’ altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato».

Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di “Cesare”. Dove vede la banalità?

«Per banalità intendo la “banalità del male”. E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all’ etica politica».

Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all’ eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3…

«Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di «poteri» impotenti, se si guarda i risultati, di reati più “tentati” che “consumati”. Più si affolla la scena, più tutto si confonde. E la presunta “tragedia” si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale…».

Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra?

«Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti “governi” locali si sono clonati e derivati in galassie societarie “parallele”. Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la “cifra” della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l’ affare degli affariè quello dell’ eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all’ improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l’ albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L’ unica, l’ ultima forma per riportare nella trasparenza e nell’ efficienza la cosa comune».


Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Leiè d’ accordo anche con questo?

«La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all’ informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un “bavaglino”. Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini».

Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese?

«Al Parlamento è bastato un mese per fare la “manovra”. Un’ azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall’ Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la “manovra” non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l’ effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica».


Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c’ è niente di strutturale…

«Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d’ Europa in questi anni e pari data c’ è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno.E forse queste due, pensionie Pomigliano, sono dueP più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l’ azione del governo contro la criminalità organizzata ha un’ intensità e un’ efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia».

Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini?

«Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito con i Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all’ interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell’ insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale».

E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo?

«Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c’ è comunque una prima “cifra” dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in attoè portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro.E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla “battaglia per il diritto”, troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d’ investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato».


Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta?

«La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa».

E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl?

«Anche questo tema rientra nell’ idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene».

Non può negare che l’ altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l’ ha rimproverata in Consiglio dei ministri?

«Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra “personale” e “politico”. Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi “scontri” ho letto troppo folklore…».

È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni?

«Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto “non firmo”. E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po’ più della politica economica, l’ ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese.E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

A Pomigliano lo scontro capitale-lavoro all’epoca della globalizzazione della crisi econimica: “Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.”

A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo, di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n’è una che è d’una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: “Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”.
Il dopo Cristo per l’amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un’epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l’accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d’un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l’hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell’opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l’apripista d’un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l’alta marea costruendo un muro che blocchi l’oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell’opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l’obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell’epoca “prima di Cristo” debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell’epoca del “dopo Cristo”. Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall’emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l’inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, “buscando el levante por el ponente”, cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

C’è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall’Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all’esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell’Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l’ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l’Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell’Eurozona le seguenti domande: “Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell’Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l’entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell’occhio del ciclone?” (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all’interno dei paesi. Non c’è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell’articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell’urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell’abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l’abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l’intento di stravolgere l’architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all’Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l’ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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Come la crisi economica diventa la crisi della democrazia occidentale.

Con la crisi democrazie a rischio, di Barbara Spinelli, la Stampa, 20 giugno 2010

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato – l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 – ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(…) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.

Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma – quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi – sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Leggi e diritto

Per rilanciare l’economia italiana, cambiamo governo non la Costituzione.

Lasciate in pace la Costituzione, per liberalizzare sfidate le corporazioni, di Romano Prodi-ilmessaggero.it

Non posso nascondere di essermi sorpreso quando qualche giorno fa ho letto che, per dare un contributo alla liberalizzazione della nostra economia, bisognava assolutamente modificare l’articolo 41 della nostra Costituzione. Anche se già lo conoscevo, mi sono tuttavia preso cura di rileggere il suddetto articolo che, come tutti gli articoli della prima parte della nostra Carta fondamentale, brilla per semplicità e chiarezza.

Esso scrive che “l’iniziativa privata è libera”. E aggiunge semplicemente che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà (opportuna questa insistenza sulla libertà) e alla dignità umana”. Come ovvio completamento, l’articolo aggiunge che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Terminata questa lettura mi sono messo il cuore in pace, nella sicurezza che né la lettera né lo spirito di quest’articolo mai avrebbero messo in rischio o semplicemente resa più difficile la libertà di intrapresa in quanto in qualsiasi sistema, anche nel più liberista, la legge ha il compito di dettare le norme di comportamento perché l’esercizio dell’attività economica non rechi danno all’esercizio dei diritti dei cittadini, sia che essi si organizzino in forma individuale che associata.

Tutti noi abbiamo infatti il diritto di essere tutelati dalla legge riguardo ai requisiti igienici o sanitari di un prodotto o della pericolosità di un giocattolo, così come in ogni parte del mondo i lavoratori e gli imprenditori trovano nella legge (italiana o europea) i diritti e gli obblighi che derivano dall’esercizio della propria attività. È peraltro evidente che, se esistono regolamentazioni eccessive, queste possono e debbono essere eliminate dall’attività legislativa, affidata all’iniziativa del Governo e del Parlamento.

Assolta la Costituzione da qualsiasi colpa in materia, mi è sorto il sospetto che potesse essere stata la Corte Costituzionale, attraverso le sue interpretazioni, ad impedire una maggiore liberalizzazione della nostra economia. Ho letto tuttavia a questo proposito un esauriente articolo dell’ex presidente della corte Valerio Onida che dimostra che mai la corte in tutta la sua storia ha dichiarato l’illegittimità di una legge liberalizzatrice e che, al contrario, esistono numerose decisioni che hanno rimosso limiti ingiustificati alla libertà di iniziativa contenuti nelle leggi nazionali o in quelle regionali.

Tranquillizzato su tutti i fronti, ho quindi ritenuto la proposta come un semplice errore o come un ormai rituale messaggio di avversione allo spirito (visto che non è possibile farlo alla lettera) della nostra Costituzione.

L’ipotesi dell’inconsapevole errore è stata poi esclusa dal fatto che il presidente del Consiglio è ritornato ripetutamente sull’argomento ribadendo la necessità di una riforma dello stesso articolo 41, alla quale proposta, per abbondanza, il ministro dell’Economia, ha aggiungo ieri l’altrettanto inutile proposta di abolire l’altrettanto innocuo articolo 118 della Costituzione.

Non riuscendo a raggiungere altre spiegazioni razionali per simili comportamenti, sono ricorso alla mia esperienza passata quando, insieme con l’allora ministro Bersani, ci accingemmo a fare un programma sistematico e generalizzato di liberalizzazioni e mi è facilmente saltato alla memoria il panorama di impressionanti proteste che ci veniva dalla piazza. E ricordo benissimo che nessuno agitava il libretto della Costituzione ma cartelli minacciosi nei confronti del Governo come risposta corale e violenta alla presunta violazione delle prerogative, dei diritti e dei privilegi delle categorie interessate.

Ed allora mi sorge il sospetto che l’accusa rivolta alla Costituzione e l’inutile scelta di un cammino tortuoso per procedere alla semplice riduzione di lacci e laccioli sia il comprensibile desiderio di evitare le rumorose manifestazioni e le reazioni, anche spesso incontrollate, delle infinite categorie e corporazioni che su questi lacci prosperano non da decenni ma da secoli.

E vorrei anche aggiungere che, sempre secondo la mia esperienza, lo scontento e le pressioni non prendono solo la via dell’opposizione, ma anche le insidiose strade degli alleati di governo. In poche parole, a fare sul serio queste riforme, si perdono consensi e voti. Posso in coscienza dire che le abbiamo ugualmente portate avanti, pur con la piena consapevolezza delle possibili conseguenze negative, anche se non arrivo al punto di affermare che il mio Governo sia caduto esclusivamente per questo motivo. Auguro quindi buon lavoro al ministro Tremonti. Sulle conseguenze sul Governo veda lui. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia Natura

E l’Islanda mandò tutta Europa a Eyjafjallajokull (traduzione: e iate a piallo in o cul).

L’attività eruttiva dell’Eyjafjallajokull, il vulcano sotto i ghiacci che sta facendo impazzire il mondo, non rallenta. Anzi si è intensificata. E le conseguenze sono imprevedibili e le previsioni impossibili sulle conseguenze. Secondo i vulcanologi può durare per un anno. Forse.

Anche secondo gli economisti la bolla speculativa dei subprime, che ha gettato nel lastrico l’Islanda, con il fallimento di quasi tutte le bance, si diceva potesse durare un anno. Ma non è stato e non è così. Il mondo economico è impazzito, come sta impazzendo ora il mondo del trasporto aereo. E siccome siamo stupidi, invece di preoccuparci del perché ci chiediamo: quanto durerà? E quanto potrà resistere il sistema sociale ed economico europeo (e, di rimbalzo, del mondo) senza collegamenti aerei?

La stessa stupida domanda che ci siamo fatti nei primi giorni della grande crisi economica. Tutti facevano previsioni, nessuno ci ha azzeccato. I disagi saranno temporanei o si profila una lunga emergenza? La risposta, purtroppo, non c’è. Perché detta legge la natura, mica i governi che hanno salvato le banche

E se finora la reazione è stata simile a quella di un evento straordinario ma breve, come un’ondata di maltempo, o come se si fosse trattato di una semprice crisi di assestamento dell’economia, è difficile dare assicurazione che tutto ciò finisca dopo un weekend di caos e blocchi.

Il vulcano islandese Eyjafjallajokull, infatti, continua nella sua eruzione, prorpio come la crisi economica. Anzi, purtroppo l’acqua del ghiacciaio sta intensificando l’attività eruttiva e di conseguenza continua ad alimentare la nubea di ceneri che si sta spostando verso Sud Est. Dunque, è propio vero che l’impronunciabile nome del vulcano islandese, Eyjafjallajokull, può essere tradotto così:”e iate a piallo in o cul”. Traduzione volgare? Ne riparleremo. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

L’Italia il Paese che ha meglio affrontato la crisi? Berlusconi lo dice, l’Istat lo smentisce.

Le vendite al dettaglio dei prodotti alimentari sono diminuite a gennaio dell’1% rispetto a dicembre e del 3,3% rispetto allo stesso periodo del 2009. Lo rileva l’Istat precisando che il dato congiunturale è il peggiore da aprile 2007 mentre quello tendenziale è il peggiore dal marzo 2009, quando segnò il -5,2%. Nel complesso le vendite al dettaglio a gennaio sono diminuite dello 0,5% rispetto a dicembre e del 2,6% rispetto a gennaio 2009. Lo rileva l’Istat precisando che il dato congiunturale è il peggiore da dicembre 2008 (allora segnò -0,7%).

Secondo l’istituto di statistica il calo delle vendite su dicembre (-0,5%) è la sintesi tra il -1% delle vendite alimentari (il dato peggiore da aprile 2007) e dello 0,3% dei prodotti non alimentari. Rispetto a gennaio 2009 le vendite alimentari sono diminuite del 3,3% (il calo più consistente da marzo 2009) mentre quelle dei prodotti non alimentari sono diminuite del 2,3%. Il calo tendenziale è stato forte soprattutto nelle imprese della grande distribuzione (-3,1%) mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno segnato un -2,2% su gennaio.

Nell’alimentare le imprese della grande distribuzione hanno segnato un calo delle vendite del 3,5% mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno registrato un calo delle vendite del 3,1%. Nel comparto non alimentare le aziende della grande distribuzione hanno segnato un calo delle vendite del 2,9% a fronte del calo del 2% dei piccoli negozi. Nell’alimentare gli ipermercati e i supermercati hanno perso il 3% del fatturato al livello tendenziale mentre i discount alimentare hanno segnato un -2,9%. Sul calo complessivo del 2,6% delle vendite a gennaio spicca quello dei prodotti farmaceutici (-4,2%) e delle dotazioni per l’informatica (-4,3%). Reggono meglio la crisi l’abbigliamento e le calzature (-1,2% per entrambi i comparti) la foto ottica (-0,6%) e il settore dei giocattoli, sport e campeggio (-0,9%). Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

Da un anno Berlusconi dice che l’Italia è il paese che ha meglio affrontato la crisi economica. Non è vero.

Secondo l’Ocse cresce il divario tra Italia e paesi industrializzati. Il divario tra l’Italia e i principali Paesi industrializzati in termini di Pil pro capite e produttività «si è ampliato in modo sostanziale». Lo segnala l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico nel rapporto Obiettivo Crescita che vede la Penisola 20esima per Pil pro capite sui 30 Paesi aderenti all’Organizzazione. Il gap rispetto ai primi della classe, vicino al 30%, deriva in primis dalla minore produttività (-25% rispetto alla metà migliore dei Paesi Ocse). «La performance della produttività resta modesta», tuttavia «le azioni di liberalizzazione e incremento della concorrenza ne hanno migliorato le prospettive», anche se resta la necessità di altre riforme.

L’Italia è tra i Paesi dell’Ocse che maggiormente subiranno gli effetti della crisi. L’Ocse stima che complessivamente, nel lungo periodo, la crisi si tradurrà per l’Italia in un calo di 4,1 punti di Pil, contro una media Ocse di 3,1 punti. In situazione peggiore rispetto all’Italia ci sono solo l’Irlanda (sulla quale la crisi si tradurrà in una perdita di 11,8 punti di Pil), la Spagna (-10,6) e la Polonia (-4,4). Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

“Siamo tutti operai”. Ieri gli operai Fiat a Sanremo, oggi gli operai Alcoa in campo a Cagliari.

(fonte:la nuova sardegna).
Dopo la partecipazione di tre operai della Fiat di Termini Imerese al festival di Sanremo, approda oggi sui campi della serie A la protesta dei lavoratori dell’Alcoa. Prima dell’inizio di Cagliari-Parma, una delegazione degli operai sardi dello stabilimento di Portovesme, impegnati da mesi in una mobilitazione a sostegno della vertenza per il mantenimento della produzione di alluminio della multinazionale americana, ha sfilato per il campo con uno striscione, mentre dalle gradinate altri 200 operai, con il caschetto in testa, cantavano “Non molleremo mai”.

Applausi da tutto lo stadio mentre dalla Curva Nord gli ultras rossoblu, in segno di solidarietà, hanno risposto cantando “Siamo tutti operai”.

I lavoratori dell’Alcoa non sono nuovi a questo tipo di proteste, stavolta autorizzata dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni e con la collaborazione del Cagliari Calcio.

Recentemente hanno occupato l’aeroporto di Cagliari, bloccato la Statale 131 in Sardegna e manifestato per le vie di Roma e con presidi sotto Palazzo Chigi in occasione degli incontri nella Capitale per lo sblocco della vertenza. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Lavoro

La Fiat manda la polizia contro gli operai di Avellino.

Tensione a Pratola Serra davanti alla “Fabbrica motori Avellino” della Fiat, dove questa mattina circa 200 poliziotti in assetto antisommossa hanno sgomberato il presidio di lavoratori per far entrare nello stabilimento alcuni camion porteranno i motori negli stabilimenti del gruppo a Cassino e in Turchia. Poco dopo i lavoratori hanno bloccato i tir ma, anche in questo caso, l’intervento delle forze dell’ordine, ha messo fine alla protesta.

Gli operai della Fma sono stati messi in cassa integrazione già da novembre e fino al mese di gennaio scorso. A febbraio hanno lavorato una sola settimana, per poi tornare in cassa integrazione. Da questo la scelta di presidiare la fabbrica fino a questa mattina. “La questione da porre – dice il coordinatore nazionale auto della Fiom Cgil Enzo Masini – è quella che la Fiat per l’ennesima volta di fronte a lavoratori che chedono di conoscere il loro futuro e avere certezza della loro occupazione, risponde facendo intervenire la polizia e, cosa ancora più grave, senza aver chiesto un confronto su eventuali urgenze di consegna motori. Poteva almeno porre il problema, prima di far ordinare uno sgombro”.

Dura la reazione del segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini: “L’atteggiamento della Fiat ha superato ogni limite di decenza e di possibili relazioni sociali e sindacali”.

Per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista “è vergognoso l’impegno delle forze di polizia contro la lotta dei lavoratori FIAT di Pratola Serra (AV), che stanno praticando il blocco delle merci per impedire, come forma di lotta, lo smantellamento dello stabilimento, il licenziamento degli addetti delle ditte esterne e la messa in cassa integrazione dei lavoratori FIAT”. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Società e costume

La festa degli innamorati nell’epoca dei disoccupati: “Godetevi il giorno di san Valentino ragazzi miei, amatevi di marca e sbaciucchiatevi di lusso. Domani ci ritroveremo come l’altro ieri: io e te tre metri di fila all’ufficio di collocamento”.

di GIORGIA SPINA
Mentre l’Italia cerca di divincolarsi alla meno peggio dall’abbraccio della Crisi, gli italiani oggi si concedono il lusso di abbracciarsi e sbaciucchiarsi come San Valentino comanda.
Anche quest’anno è arrivata la festa degli innamorati. Le vetrine dei negozi si riempiono di cuori rossi, i telegiornali incastrano un servizio sui buoni sentimenti dietro a quelli del Paese che va a puttane e chi ieri si mandava a fanculo oggi si ripete pateticamente “ti amo pucci pucci pu”. Tutto come da copione.
A quanto pare la crisi delle minchiate non è contemplata nella parola generica. Il giorno prima c’è chi si lamenta che il lavoro va male, che si sta con il fiato sospeso perché stanno facendo dei tagli, e il giorno dopo i tagli sono quelli di grosse banconote che entrano nelle casse di Mister Perugina, dei signori Fiorai, del completino intimo QuantoSeiZoccola da regalare alla fidanzata, moglie, amante, massaggiatrice (pare che anche loro inizino a rivendicare qualcosina…). E il giorno dopo, è chiaro, si ricomincia da capo: siamo senza futuro, non arrivo a fine mese e via dicendo.
A quanto pare Cupido colpisce al cervello: il 14 Febbraio si crea una sorta di amnesia dei giorni precedenti e un’idea vaga, vaghissima, di quelli a venire. Sono tutti pronti a spendere e spandere nel porno kitsch, per peluche di dimensioni spropositate per i quali dovresti affittare un monolocale apposito vicino casa, per gioielli che il giorno prima guardavi con il naso appiccicato alla vetrina come la Piccola Fiammiferaia. E poi cioccolatini, tubi e tubetti a profusione, rose rosa alla signora (con cui non si tromba più da un po’) e rosse all’amante (con la quale l’ultima risale a ieri sera).
Da tutto questo spettacolino aberrante non si risparmiano affatto i giovani, a furor di popolo la categoria più colpita dalla terribile Crisi. Trentenni al secondo anno di Università, disoccupati, stagisti e fancazzisti fanno una corsa agli armamenti che costa molto più di una paghetta. Alla faccia del “non ho neanche i soldi per la pizza il sabato sera”!
Ristoranti di lusso prenotati per la cena in cui sarete i più “fidanzatissssimi innamoratisssimi” di tutti, lotte per accaparrarsi la miglior lingerie di pizzo, seta o pelo rosso grazie alla quale la tua lei te la darà quella notte come mai altre, se non quella dell’anno prossimo, ovvio. E poi ancora cuori gonfiabili da far invidia alle mongolfiere, mazzi e mazzi di fiori da scatenare l’ira di Greenpeace, ciondoli, bigliettini dai profumi metifici e tante altre cazzate perché siamo giovani e spensierati… oggi. Domani si ricomincerà con il pianto e con “non trovo lavoro, non riesco a finire gli studi, mamma aiutami tu perché sono proprio sfigato”.
Godetevi il giorno di san Valentino ragazzi miei, amatevi di marca e sbaciucchiatevi di lusso. Domani è un altro giorno, avrebbe detto qualcuna. Domani ci ritroveremo come l’altro ieri: io e te tre metri di fila all’ufficio di collocamento.
E scusa Paese caro, ma ti chiamo coglione! (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

C’è chi fa qualcosa per la crisi economica in Italia.

(fonte: il blog di paolo ferrero):

ARANCIA METALMECCANICA IN TUTTA ITALIA. DOMANI ALLE 10.00 A TORINO A PIAZZA CASTELLO IL PORTAVOCE DELLA FEDERAZIONE PAOLO FERRERO A VENDERE LE ARANCE IL CUI RICAVATO SOSTIENE LE LOTTE DELLE/I LAVORATRICI/ORI
13 Febbraio 2010

Arancia Metalmeccanica continua a svilupparsi in tutta Italia. Da oggi, e per tutta la settimana, si venderanno in molte parti d’Italia 10 mila kg di arance il cui ricavato servirà a sostenere le casse di resistenza dei lavoratori in lotta.
Arancia Metalmeccanica ha fino ad oggi venduto circa 50 mila kg di arance in tutta Italia per sostenere le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, per portarle con i banchetti dai presidi delle fabbriche in lotta al centro delle città.
La Federazione della Sinistra ha scelto di essere utile nella crisi e di rimettere al centro la solidarietà tra le/i lavoratrici/ori e tra queste/i ed il territorio, motivo per cui l’iniziativa riscuote successo.
La scorsa settimana a Bergamo e provincia sono stati fatti 12 banchetti vendendo 3000 kg di arance con i lavoratori della Pigna e della Frattini.
Questa settimana i banchetti di Arancia Metalmeccanica saranno in Sicilia per sostenere la lotta dei lavoratori di Termini imerese, in Umbria per sostenere la lotta dei lavoratori della Merloni, nel Lazio a Civitavecchia, a Milano per i lavoratori di MAFLOW (Trezzano sul Naviglio), METALLI PREZIOSI (Paderno Dugnano), LARES (Paterno Dugnano), MARCEGAGLIA (Milano) e OMNIA SERVICE (Milano). in Toscana per i lavoratori di Agile ex Eutelia.
A Brescia per alimentare le casse di resistenza dei lavoratori in lotta.

Domani mattina, a Torino, in p.zza Castello, dalle 10.00 in poi sarà presente il portavoce della Federazione della Sinistra Paolo Ferrero.
Le/i lavoratrici/ori di Agile ex Eutelia e la Federazione della Sinistra oltre ad organizzare l’iniziativa per la vertenza in attto, vogliono ricordare a tutti che non si può morire di lavoro o di non lavoro.

Per questo hanno deciso di dedicare l’iniziativa ad Emanuele, il ragazzo suicidatosi ieri a Torino dopo aver saputo del suo licenziamento.
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro

La crisi? Non ne siamo ancora usciti.

«Siamo ancora dentro la crisi, e purtroppo il 2010 sarà ancora peggiore del 2009 dal punto di vista dell’occupazione: ci aspettano altri 10-12 mesi di grande sofferenza». Guglielmo Epifani, segretario generale della CGIL dixit. Ben buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Ripresa economica in Italia? Non ci siamo.

I dati dell’Istituto per l’anno passato, quello della recessione, fissano il Pil a -4,9%. Si tratta del dato peggiore dal 1971 (da quando è iniziata la serie storica). In particolare è stato il Pil del quarto trimestre, sceso dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti, a cogliere di sorpresa il mercato. Gli analisti contattati dall’agenzia Bloomberg avevano stimato una crescita dello 0,1%. Su base tendenziale il Pil del quarto trimestre è diminuito del 2,8%.

La diminuzione congiunturale del Pil è il risultato di una riduzione del valore aggiunto dell’industria, di una sostanziale stazionarietà del valore aggiunto dei servizi e di un aumento del valore aggiunto dell’agricoltura.

Confrontando con gli altri Paesi del G7, nel quarto trimestre il Pil è aumentato in termini congiunturali dell’1,4% negli Stati Uniti e dello 0,1% nel Regno Unito. In termini tendenziali, il Pil è aumentato dello 0,1% negli Stati Uniti ed è diminuito del 3,2% nel Regno Unito.

Incoraggianti invece i dati del Bollettino statistico della Banca d’Italia sul debito pubblico italiano, che nel dicembre 2009 si è attestato a 1.761,191 miliardi di euro, rispetto ai 1.784,168 miliardi segnati a novembre.

Ma non quelli sulle entrate: nel 2009 le entrate tributarie si sono attestate a quota 401,677 miliardi di euro, in calo del 2,5% rispetto ai 412,318 miliardi di euro del 2008. Tuttavia a dicembre le entrate tributarie sono tornate a crescere, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, dopo tre mesi di cali consecutivi, sempre in rapporto al mese corrispondente del 2008.

Nell’ultimo mese dell’anno le entrate si sono attestate infatti a quota 71,363 miliardi di euro, in crescita dell’1,4% rispetto ai 70,362 miliardi di dicembre 2008. Beh, buona giornata.

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