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Agnes Heller accusa: «L’Europa tiene più al debito pubblico che ai diritti umani e civili».

di MARIAROSA SCIGLITANO-il Manifesto (via dirittiglobali.it)-

Nata nel 1929, la filosofa ungherese Ágnes Heller è una delle principali protagoniste del dibattito sulla complessità filosofica e storica della modernità. Sfuggita negli anni dell’adolescenza all’Olocausto, diventa allieva del filosofo György Lukács, del quale condivide il difficile rapporto con il partito comunista. Diviene docente alla New School di New York negli anni ’70 e tra le opere che contribuiscono alla diffusione del suo pensiero in Occidente vi è La teoria dei bisogni in Marx. Interprete autorevole del dibattito etico-politico contemporaneo, la Heller osserva criticamente le dinamiche politico-sociali che caratterizzano l’Ungheria di oggi e l’operato dell’attuale governo conservatore ungherese guidato da Viktor Orbán. Le abbiamo rivolto alcune domande, incontrandola nella sua casa di Budapest.

Abbiamo la sensazione che questo, per l’Ungheria, sia tra i periodi più difficili se non il più difficile dalla caduta del regime. Concorda?
Dipende da cosa significa difficile. Perché per la popolazione ungherese il cambiamento di sistema è stato un periodo difficile ma non in tutto, visto che all’epoca la gente ha cominciato a conoscere la libertà. D’altra parte, come dicevo, è stato difficile in quanto caratterizzato dalla chiusura di tantissime fabbriche con conseguente perdita di numerosi posti di lavoro. Se non consideriamo quel periodo, dobbiamo dire che senza dubbio quello attuale è il più difficile, perché si sono verificate contemporaneamente due cose: una è la limitazione del diritto alla libertà, soprattutto quella di stampa, l’altra è la soppressione di contrappesi, cioè di istituzioni opposte al governo oppure l’inserimento di persone fedeli al Fidesz in quelle istituzioni. Insomma, tutte cose che, secondo me, rientrano in un sistema di potere bonapartista che elimina il pluralismo. Il governo Orbán tende a sopprimere i diritti, per esempio quello alla pensione anticipata di poliziotti, pompieri o conducenti di autobus e tenta di abolire o diminuire le pensioni di invalidità in modo che nessuno possa andare in pensione prima del limite d’età, provvedimento che colpisce un gran numero di persone, questo sistema di cose causerà guai gravissimi.

Anche la scuola risente di questa situazione.
Certamente. La decisione di assegnare allo Stato il controllo delle scuole gestite finora dai governi locali corrisponde a un nuovo processo di statalizzazione che prevede di decidere cosa insegnare e cosa non, soprattutto per quel che riguarda la storia. Alcuni temono che le scuole passeranno sotto il controllo di istituzioni religiose, cosa che potrebbe in qualche modo eliminare la divisione tra stato e chiesa che è uno dei principi sui quali si basa la democrazia. A parte questo non so fino a che punto sia realistica la scuola dell’obbligo fino a 15 anni. Chi lascia la scuola a quell’età dove va? Potrebbe mai inserirsi nel mondo del lavoro in un paese con un alto tasso di disoccupazione? Lo stesso si può dire di coloro che hanno diritto alla pensione di invalidità: dove potranno andare queste persone? Tali misure colpiscono i più poveri. Consideri che a complicare le cose contribuisce il fatto che è stata introdotta in maniera dogmatica l’aliquota del 16% che facilita la vita ai più ricchi e aggrava la situazione degli indigenti. Questa non è politica sociale. Non dico che quella del governo precedente fosse particolarmente valida, se non altro, però, cercava di garantire ai più poveri una forma di sicurezza sociale. Le conseguenze della politica attuale ridurranno la popolarità del governo che, peraltro, è già diminuita in modo significativo e diminuirà ancora. Il problema, però, è che manca un’alternativa mentre aumentano l’astensionismo alle urne e l’apatia. Ci vorrebbe un’opposizione rappresentata non dai vecchi politici che hanno perso consenso, ma da volti nuovi.

Una situazione molto grave, insomma, e la cosa salta agli occhi a maggior ragione se si pensa alle buone valutazioni date gli anni scorsi all’Ungheria dalla Commissione europea.
Ma sa, nemmeno ora l’opinione è negativa, l’Ue è felice solo di apprendere che in Ungheria, a differenza di Grecia, Spagna e Portogallo, non aumenta il debito pubblico. Sembra che le cose stiano proprio così, ma sono state organizzate con una soppressione della certezza del diritto. Ostacolare la crescita del debito pubblico non garantisce prospettive per il futuro. Se non c’è certezza del diritto non ci sono investimenti e senza di essi il futuro non è roseo. Per l’Ue è più importante che si crei l’immagine di uno stato partner affidabile e che i conti siano a posto, la situazione della libertà e dei diritti passa in secondo piano.

Vorrei tornare alla definizione di bonapartismo che lei ha dato del governo Orbán.
Mi riferisco all’opera di Karl Marx Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte). L’elezione di Luigi Bonaparte a presidente avvenne con i due terzi dei voti popolari – una situazione analoga alla nostra -, poi Bonaparte centralizzò i poteri e sciolse il Parlamento. Questo, Orbán, non può farlo, ma adotta la stessa tecnica: concentra tutto il potere, lo centralizza. Dicono che il nostro premier sia populista: no, la sua retorica è populista ma non lui. Il suo governo non avvia trattative con i sindacati, non tratta con i lavoratori, non fa da tramite tra datori di lavoro e sindacati. Quello che è fondamentale per un potere populista è assente nel governo Orbán. Quindi non confondiamo la retorica con la politica de facto.

In che modo la nuova Costituzione cambierà la vita della popolazione?
Alla maggior parte degli ungheresi non interessa la Costituzione. In quanti la conoscono? Secondo me nemmeno quelli che l’hanno votata. Io l’ho letta, l’ho criticata, ma è molto difficile leggerla. La definizione migliore l’ha data l’ex presidente della Repubblica, László Solyom, che l’ha descritta come il nuovo Teatro Nazionale fatto costruire dal vecchio Fidesz: brutto, kitsch e antiquato, ma ci si può recitare. Da gennaio scopriremo a quali scenari darà luogo, per il momento è ancora valida la vecchia Costituzione che continua ad essere modificata fino a divenire quasi irriconoscibile, sarà così fino alla fine dell’anno. Poi c’è la legge sui media che limita fortemente la libertà di stampa, perché in sostanza crea un centro di censura che valuterà il contenuto delle informazioni diffuse da radio, tv, carta stampata e giornali online per verificare se sia conforme o meno alle nuove leggi. In più quest’organo sarà composto esclusivamente da membri eletti dall’attuale governo. Ecco, anche qui viene escluso il pluralismo.

A cosa attribuisce il successo ottenuto l’anno scorso dai partiti di destra?
Esso è dovuto in primo luogo alla perdita di fiducia della gente nei riguardi dei partiti tradizionali: questa è la cosa fondamentale. Nell’Ungheria orientale una parte degli elettori socialisti ha votato Fidesz. Quelli che si ribellano alla politica attuale sono finiti nell’estrema destra che convoglia l’insoddisfazione popolare. La questione fondamentale è il razzismo: questo distingue Jobbik dal Fidesz. Il Fidesz non è un partito razzista, è pieno di razzisti, ma la politica del partito non è razzista. Quella di Jobbik, invece, lo è, in primo luogo nei riguardi dei Rom. I membri di questo partito diffondono slogan anti-Rom e lo fanno soprattutto nei piccoli centri in cui vivono cospicue comunità Rom e si verificano spesso conflitti tra le persone un pochino più agiate e quelle povere. Chi vive in miseria e non ha da mangiare ruba. Gli altri cercano di difendere la loro piccola proprietà privata e odiano gli indigenti. Questo conflitto c’è e viene cavalcato dagli estremisti non solo a parole: vengono, infatti, create delle formazioni paramilitari che evocano brutti ricordi, sono state proprio organizzazioni del genere a occuparsi delle deportazioni in Ungheria. Ora il Fidesz sta cercando di scoraggiare il fenomeno con una legge contraria alle attività di questi gruppi.

Si parla di una ripresa dell’antisemitismo in Ungheria. Ritiene che sia un problema reale?
Non dico che Orbán sia razzista, ma forse tollera cose che non dovrebbero essere tollerate, le tollera fino a quando non disturbano la sua politica. In Ungheria il problema del razzismo non riguarda solo i partiti, ma anche la popolazione. Qui la gente non respinge il razzismo, non lo fa neanche se non lo condivide, non ha un minimo di coraggio civile. Qui non è d’abitudine obiettare, piuttosto si resta in silenzio. Non solo i partiti ma anche la popolazione dovrebbe essere educata a un diverso comportamento. Certo, i partiti non hanno dato il buon esempio, non perché fossero propensi a emarginare etnie e strati sociali, ma forse perché non hanno coinvolto i cittadini in un processo che li portasse ad apprendere il rispetto dei valori della convivenza e dell’indignazione civile contro l’intolleranza.

Allo stato dei fatti che futuro immagina per l’Ungheria?
Il filosofo non è un indovino, inoltre in politica il caso gioca un ruolo di estrema importanza. Guardi i successi e il declino di certe personalità della politica. Senza Berlusconi l’Italia sarebbe diversa, senza Viktor Orbán l’Ungheria sarebbe diversa. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

L’Europa, la gallina dalle uova marce: l’Ungheria scivola in pieno fascismo tra l’indifferenza della Ue.

di ANDREA TARQUINI-la Repubblica (via dirittiglobali.it)
Budapest, estate 2011: ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in uno Stato membro dell´Ue. La grande purga non risparmia nessuno. Ai posti di comando solo uomini fedeli al premier Orban. E un´unica newsroom centrale distribuisce notizie ai media pubblici. La paura di perdere il lavoro perché sospettati di idee critiche la cogli in ogni ambiente. Nuove proposte di legge prospettano campi d´ospitalità per disoccupati o elementi asociali

 
Budapest. I giornalisti della radio pubblica l´hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l´ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l´altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato.

Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici.

Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite.

Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro.

Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d´acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.

“Koezmunka”, lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po´ lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell´Unione europea.

«È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsàg, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l´odio, l´invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà mediatica, né l´istituzione della Nmhh, l´autorità-Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un´unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes.

«La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell´Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un´intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell´agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di “Arcipelago Gulash”: dal tollerante, morbido “socialismo del gulash” della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l´Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn.

L´epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L´Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all´intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d´alto livello. È finita per la trasmissione culturale di Sandor Szenési, troppo critica e aperta al mondo.

Parlava anche delle infami indagini contro Agnes Heller, Mihaly Vajda, Sandor Radnoti e gli altri grandi filosofi della Scuola di Budapest, quegli epigoni di Gyorgy Lukacs accusati di “malversazione di pubblico denaro” per spese documentate di ricerca scientifica e letteraria. La newsroom unica funziona a meraviglia: in radio e tv, notano diplomatici europei, Orban ha 35 volte più spazio rispetto all´opposizione. Si tace persino delle critiche ordinate da Hillary Clinton alla scelta di cambiare nome alla centralissima Piazza Roosevelt, dedicata dal dopoguerra al presidente americano che sconfisse l´Asse. Il cinema ungherese, che fu tra i più illustri dell´Impero comunista, ora è in mano a un magnate di Hollywood amico di Orban, Andy Vajna: vuole telenovelas da cassetta, addio alla qualità di Miklos Jancsò e degli altri grandi di ieri.

Appena celata dalla gentilezza d´animo e dalla vivacità di questo adorabile popolo nel cuore dell´Europa, la paura di perdere il lavoro perché sospetti di idee critiche la cogli in ogni ambiente, la leggi su tanti volti, e per chi visita spesso l´Ungheria fin dai Settanta è uno shock triste. Il ricordo del misto allegro e cinico di umor nero, ironia e disprezzo con cui i magiari vivevano nella “migliore baracca dell´Impero del Male” si allontana.

Diffamano anche Pal Lendvai, principe dell´emigrazione anticomunista e grande firma del Financial Times: lo accusano contro ogni prova di spionaggio per la vecchia dittatura. Liberal, cosmopolita, amico degli stranieri ostili alla patria, amico del grande capitale internazionale – ricalcano i sinonimi con cui Goebbels parlava degli ebrei – qui sono termini entrati nel nuovo salotto buono della newsroom unica. La paura blocca i Rom, le prime vittime del lavoro utile obbligatorio: se rifiutano la vita da forzati, addio ai miseri sussidi-povertà. Nuove proposte di legge prospettano “campi d´ospitalità” per disoccupati non collocabili o “elementi asociali”. In altri ghetti, squallidi prefabbricati come quelli dei terremotati italiani, sono finiti, come nella cittadina di Ocsa, gli ungheresi impoveriti dalla crisi, che hanno perso la casa comprata con mutui (oltre trecentomila, tanti in un paese di 10 milioni scarsi di abitanti) ormai troppo cari in franchi svizzeri.

«Non è finita, aspettiamo i prossimi passi, la fascistizzazione strisciante verrà», dicono i colleghi del Népszabadsàg: il governo prepara leggi che vorrebbero autorizzare il licenziamento immediato anche di malati o donne incinte, imporre ai lavoratori di andare in ferie soprattutto quando lo dice il padrone, esautorare i sindacati. Nell´Arcipelago Gulash, mi dicono amici preferendo l´anonimato, incontri professori che hanno paura di chiedere all´antennista di sintonizzare la tv su canali critici.

O vedi un razzismo da banalità del male. Come l´altro giorno in un paesino, a una festa per i bambini. Il clown scritturato dal sindaco a un certo punto ha teso la mano ai bimbi per avviare un girotondo. A tutti, fuorché a due piccoli visibilmente Rom di cinque e tre anni, rimasti là soli senza che nessuno volesse giocare con loro. Nemmeno sembravano sorpresi: emarginazione naturale fin da piccoli, evoca quel sentimento dei bambini ebrei in guerra che Gyorgy Konrad descrisse: «A cinque anni sapevamo che prima o poi Hitler ci avrebbe uccisi». L´Arcipelago Gulash è così, l´Unione europea tace e stronca le speranze. Il dolore per l´Ungheria te lo allevia l´Airbus della Lufthansa quando, ai comandi d´una giovane pilota, stacca le ruote rombando dalla pista di Budapest e punta verso la Germania: a bordo vien quasi voglia di applaudire, come usava sotto Breznev decollando da Mosca. (Beh, buona giornata).
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