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La quarta crisi: una stagione di tagli per l’editoria italiana.

Editoria in crisi/ Esuberi: 90 al Corriere, 60 alla Stampa. Tagli anche ad agenzie e free press
Dopo settimane di voci, indiscrezioni e soprattutto numeri approssimativi, sembra delinearsi un quadro completo sulla stagione dei tagli che coinvolgerà le principali testate italiane. -blitzquotidiano.it

Fra pensionamenti, prepensionamenti e mancati rinnovi ecco le cifre dell’autunno caldo della stampa italiana, come riporta il sito Affari Italiani.

La cura dimagrante al gruppo Rcs comprende i 90 esuberi al Corriere della Sera, cui si aggiungono le 180 unità in meno previste per il gruppo spagnolo Unedisa, controllato dall’editrice del Corriere.

Fra i primi quotidiani a varare un piano di ristrutturazione è stato La Stampa, poco dopo l’insediamento del nuovo direttore Mario Calabresi: il quotidiano della Fiat dal 1 settembre entrerà ufficialmente in stato di crisi per due anni. Il quotidiano torinese prevede di portare l’organico giornalistico al di sotto delle 190 unità: 26 i pensionamenti (ordinari) già concordati, cui si aggiungeranno altri 34 prepensionamenti volontari dopo il 1° settembre. Previsto anche il taglio di 76 poligrafici, sfruttando le nuove tecnologie che consentono di affidare direttamente ai redattori le funzioni di impaginazione. La strategia complessiva della società – scrive Italia Oggi – comporterà anche uno spostamento di pesi sulla parte multimediale e la chiusura del settimanale Specchio, il cui ultimo numero uscirà a luglio.

Sempre secondo Italia Oggi, anche il gruppo Mondadori si prepara ad accedere alle procedure previste dalla legge 416 e al fondo di 20 milioni stanziato dal Governo per i prepensionamenti: si dovrebbe arrivare a una riduzione di 80 giornalisti fra i periodici, e non è esclusa la chiusura (o la cessione) di qualche testata (nel mirino Economy).

Non si salva nemmeno la free press, con Dnews – il quotidiano fondato e diretto dai fratelli Cipriani dopo l’uscita da E Polis – che si trova a fare i conti con bilanci in rosso: facile prevedere una ristrutturazione e dunque pesanti tagli. Fra i quotidiani sportivi, quello più in crisi è Tuttosport il cui editore ha messo a punto un piano che prevede il taglio del 34% della redazione. Un piano definito “irricevibile” dai giornalisti.

Capitolo agenzie di stampa: la redazione di Apcom è in sciopero per protestare contro il taglio di 30 giornalisti sui 90 deciso dopo il passaggio sotto il controllo del Gruppo Abete, già proprietario dell’Asca. Dove si comincia a parlare di stato di crisi è anche all’Agi, controllata dall’Eni: l’ipotesi è di un tagli di una quindicina di redattori, su un totale di oltre un centinaio. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: l’intreccio politica-pubblicità fa bene al mercato italiano della comunicazione commerciale?

LE MINACCE DI BERLUSCONI, LA SORTITA DI D’ALEMA
Elezioni anticipate: «possibili» per le concessionarie di pubblicità,di Fr.Pi-Il Manifesto

«Una campagna pubblicitaria “ottimista” sarebbe smentita in un attimo
dallo stesso media che la veicola». Marco Ferri, copywriter e creativo tra
i più noti in Italia, sintetizza a suo modo le difficoltà di rapporto tra
gli inviti del premier e la realtà desolante del settore che pure lo ha
avuto come dominus dagli anni ’70 in poi. Come se non bastasse, è lo
stesso premier a evocare lo spettro di elezioni anticipate per «mettere a
posto» i suoi alleati, resi inquieti dal brusco stop elettorale delle
europee. Un’eventualità che i pubblicitari considerano una iattura, ma che
viene già metabolizzata nelle relazioni commerciali. «Ho chiesto a una
concessionaria – racconta Ferri – la pianificazione di una campagna su 12
mesi per conto di un cliente. Mi hanno risposto: “ma come, un anno? E se
poi ci sono elezioni anticipate e il cliente ci ripensa?”». Parliamo di un
settore produttivo, che segue i boatos della politica per dovere
professionale, anche per calcolare il possibile intasamento degli spazi e
le variazioni di prezzo. E «che però sente tutte le incertezze che la
crisi economica sta provocando nei consumi, naviga a vista, e quindi trova
incredibili le pianificazioni a lungo termine». Sull’editoria la crisi sta
picchiando duro. «Siamo in epoca di semestrali, dopo relazioni trimestrali
drammatiche, dove le principali holding della pubblicità hanno lasciato
sul campo perdite che vanno dal 5% alla doppia cifra», e che
consolideranno questi risultati negativi. L’istituto Nielsen Global
Research calcola una flessione complessiva del 18% nei confronti del primo
quadrimestre 2008 (-15,3% per la Televisione, -22,7% per i quotidiani).
Un quadro di minori risorse per tutti, dove Berlusconi – capo del governo
e proprietario di Publitalia – ha più volte invitato gli imprenditori a
«non investire sui media catastrofisti». L’ultima volta lo ha fatto dallo
stesso palco dove poco prima la presidente di Confindustria, Emma
Marcegaglia, aveva chiesto «100 giorni di azioni». Lo aveva già fatto a
Villa Madama, mesi fa; lo ha ripetuto poi a Porta a porta. E’ una minaccia
esplicita rivolta in primo luogo agli imprenditori, ovvero a quel «potere
forte» che – se non venissero accolte le richieste nei prossimi 100 giorni
– potrebbe girargli le spalle. Sembra quasi che, dopo 15 anni da
«fenomeno» politico, Berlusconi sia regredito a capo di Publitalia,
convinto di poter trattare i capi di stato come clienti un po’
sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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Per uscire dalla quarta crisi Murdoch ha deciso di far pagare le news su internet. Gli editori italiani ci stanno facendo un pensierino.

di G.Bal.-sole24ore.com
L’era delle news online come commodity gratuita è finita. «Finalmente i grandi editori hanno capito che non tutto può essere gratis», dice Andrea Riffeser Monti, a.d. del gruppo Poligrafici Editoriale. Il dibattito sul futuro della stampa su internet è partito con l’annuncio del magnate Rupert Murdoch: «In futuro i giornali online si pagheranno».

Una riflessione continuata giovedì sulle pagine del Sole 24 Ore con l’intervento del presidente del gruppo L’Espresso, Carlo De Benedetti che ha sottolineato come per i giornali esista «certamente uno spazio per conquistare utenti web disposti a pagare i contenuti giornalistici». A patto però che siano contenuti ad «elevato tasso di esclusività e di valore aggiunto », un aspetto che mette in prima fila i giornali di settore, dallo sport all’economia, e locali, perché più legati al territorio. In serata poi la presa di posizione di Google. Dopo aver riflettuto sulla possibilità di entrare nel capitale del New York Times, il gruppo ha annunciato di voler abbandonare le ambizioni editoriali e l’a.d. Eric Schmidt ha confessato a Financial Times di essere scettico sulle proposte di Murdoch. Di certo la questione sarà all’ordine del giorno del convegno “Crescere tra le righe” (al via oggi a Borgo La Bagnaia in provincia di Siena) organizzato dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori, guidato da Andrea Ceccherini. Il futuro dell’editoria online sarà uno dei punti centrali della relazione d’apertura del presidente Ceccherini, così come in quelle di Giancarlo Cerutti e Claudio Calabi, presidente e a.d. del Gruppo 24 Ore, e di Maurizio Costa, a.d. di Mondadori.

«La prospettiva è complicata, bisogna capire come fare», spiega Alessandro Zegler, a.d. di Athesis, il gruppo editoriale dei quotidiani locali L’Arena, Il Giornale di Vicenza e BresciaOggi, che aggiunge: «Abbiamo lavorato molto per essere pronti al grande passo, ma si devono trovare le giuste modalità. Finora abbiamo scoperto che tra i nostri lettori c’è una bassa sovrapposizione tra carta e online». Scommette sui giornali locali anche Repubblica che ha lanciato,solo su internet, l’edizione di Parma non disponibile in cartaceo: «Con l’abbonamento – spiega il gruppo –si può accedere ai contenuti premium, dall’archivio storico al giornale in formato pdf», una formula proposta anche da Athesis, ma che – almeno per il momento – non raccoglie molti consensi: «Gli abbonati online – dice Zegler – sono alcune centinaia, per lo più studi professionali ». Più scettico il d.g. di Avvenire, Paolo Nusiner che dice: «La chiave di volta è il consumatore, dobbiamo assecondare i nostri lettori». A dicembre il gruppo editoriale ha terminato il restyling del sito, «ma non abbiamo ancora una linea definita».

Sul futuro dell’informazione su internet si divide anche il Parlamento. Per Maurizio Gasparri (Pdl) «alcuni contenuti internet saranno a pagamento, ma ci sarà sempre una grande offerta free»; così l’ex premier Massimo D’Alema (Pd): «Dato che i giornalisti andranno sempre pagati, forse bisognerà pagare i giornali online, soprattutto se dobbiamo pensare che il cartaceo tenderà a scomparire ». Assolutamente contrario Massimo Donadi (Idv): «La libera circolazione delle notizia è un’enorme ricchezza». «Di certo –dice l’a.d.di Microsoft Italia, Pietro Scott Jovane – non si può cambiare di punto in bianco senza offrire qualcosa di diverso, di nuovo e di speciale ». Un ragionamento condiviso da Riffeser Monti che parla di una transizione lunga almeno 3- 4 anni durante la quale si lavorerà a contenuti speciali, «ma finché non si muoveranno i grandi gruppi internazionali – conclude – non cambierà nulla». (G.Bal.)

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La quarta crisi: Il Messaggero manda a casa il 25% dei giornalisti.

Stato di crisi a Il Messaggero, lo storico quotidiano della Capitale. Il piano dei tagli prevede, dal 1° luglio 48 tra pensionamenti, prepensionamenti ed esodi vari . Si tratterebbe di un ridimensionamento pari a circa il 25% della redazione del giornale più importante di Roma, di proprietà della famiglia Caltagirone. Beh, buona giornata.

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Quanto è difficile uscire dalla quarta crisi.

La potenza della qualità di JOHN LLOYD -repubblica.it

I giornali, una volta diventati aziende di primaria importanza in vari momenti del XIX secolo, avevano due funzioni ben distinte. In primo luogo riportavano le notizie riguardanti gli affari esteri e la cronaca nera locale, i successi parlamentari e i fallimenti commerciali. In secondo luogo i giornali erano un veicolo commerciale per i popoli che stavano diventando consumatori di massa. Come scrive Judith Flanders, nella sua storia del commercio in epoca vittoriana, Consuming Passions, “Fu sulla base di una pubblicità sempre più onnipresente che i giornali acquisirono quella stabilità finanziaria che, nel XIX secolo, consentì la loro espansione in mercati sempre più ampi”.

Il servizio pubblico che hanno reso le case automobilistiche e i grandi magazzini, le rubriche dei cuori solitari e le compagnie aeree cercando di catturare l’attenzione dei lettori, ora come ora nella sua forma classica è in forte calo, forse addirittura agli ultimi giorni.

Quanto meno, al momento la pubblicità non costituisce una fonte abbastanza sicura di introiti per mantenere i potenti giornali che ogni Stato sviluppato e ricco ha dato per scontati per intere generazioni. Dal New York Times al Dagens Nyheter, da Le Monde al Yomiuri Shimbun, hanno tutti alle spalle una loro storia di potere. Tutti, in misura diversa, sono a rischio di tagli alle spese e perfino di chiusura. Nel momento stesso in cui questi grandi giornali entrano in crisi, vediamo molto meglio quanto subordinati fossero i nostri principi di “giornalismo come servizio pubblico” in fondo in fondo dipendessero dai consumi dei cittadini. Mentre tutto ciò viene meno, diventa palese che la capacità di mantenere in vita questo tipo di giornalismo è profondamente a rischio.

Le televisioni commerciali si trovano nella stessa situazione: per quasi 60 anni le tv non finanziate dallo Stato si sono arricchite grazie al boom pubblicitario. Adesso anche loro devono fare i conti con la crisi. La Cbs aveva 24 sedi distaccate all’estero, ora sei. Le emittenti televisive britanniche stanno abbandonando i notiziari regionali lasciandoli alla Bbc, finanziata dallo Stato. In Francia la tv privata più importante, Tf1, ha smesso di produrre informazione seria. Il suo amministratore delegato, Patrick Le Lay, nel 2004 ha detto: “Cerchiamo di essere realistici: in sostanza il nostro compito è aiutare la Coca Cola – giusto per fare un esempio – a vendere il suo prodotto. Ciò che noi vendiamo alla Coca Cola è il tempo del materiale cerebrale che abbiamo disponibile: dobbiamo sempre cercare programmi che siano popolari, seguire le mode, cavalcare varie tendenze, in un contesto nel quale l’informazione è sempre più veloce, diversa e banalizzata”.

Secondo Markus Prior (in Post Broadcast Democracy) i bei tempi in cui la maggior parte del pubblico seguiva i notiziari e l’attualità con scadenza quotidiana perché c’era poca scelta sono giunti al termine. Nel momento in cui una famiglia può scegliere tra 100 o 200 canali, gli ascolti dei programmi seri sono precipitati. Al contempo una piccola percentuale di pubblico fa zapping per raccogliere quante più notizie esaurienti possibile. Di conseguenza, per l’informazione si registra un equivalente di quello che è il sempre più crescente divario di reddito, un gap sempre più incolmabile tra i news junkies e i news dropouts.

Per ora non c’è una soluzione facile a questa crisi. Ma una risposta tuttavia esiste e si cela nella capacità dei professionisti di reinventarsi. Se da un lato stiamo assistendo alla crisi, dall’altro vediamo anche la crescita, specialmente su Internet, grazie al quale oggi sempre più lettori leggono quasi tutti i giornali. Ma sono in crescita anche le riviste serie e la produzione di documentari in tv e al cinema. Possiamo iniziare a intravedere un futuro caratterizzato da molte più fonti di informazione, nel quale i giornali affermati, come questo su cui scrivo, saranno in grado di sopravvivere associandosi con nuove, piccole start-up, specializzate in regioni particolari del mondo o in un particolare genere di giornalismo. Come ha dichiarato di recente lo studioso americano Yochai Benkler, “Grazie a un impegno professionale nel giornalismo di qualità sufficientemente alta, abbinato ai contributi forniti dai lettori impegnati, da freelancer, da professori universitari, anche un’azienda piccola potrà attirare un numero elevato di lettori per vendere pubblicità a livelli tali da garantire questo grado di operazioni”. Ci occorrono dunque media potenti perché il potere può essere chiamato a rispondere delle proprie azioni soltanto da un altro potere. Dovremo trovare nuove modalità con le quali finanziarli, ma una cosa è sicura: il mondo e la democrazia hanno bisogno del giornalismo e dipende dunque da noi giornalisti fare il possibile per poter continuare ad assicurarlo.(Beh, buona giornata).

L’autore è direttore
del Reuters Institute
for the Study of Journalism
della Oxford University
(Traduzione di Anna Bissanti)

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La “quarta crisi” colpisce ancora.

Dalle stime fornite da Nielsen e relative al 2008 emerge che gli investimenti pubblicitari sulla stampa nel suo complesso sono calati del -7,1% sul 2007. Nel dettaglio, l’adv sui quotidiani a pagamento ha registrato un -7%, mentre sui periodici è stata registrata una flessione del -7,3%. E a inizio 2009 la situazione è tutt’altro che migliorata. Nel primo bimestre, sempre stando ai dati Nielsen, gli investimenti sulla stampa sono calati del -27,4% sul primo bimestre 2008, -29,6% invece per i periodici e -26,4% per i quotidiani a pagamento.

Una conferma della flessione della pubblicità sulla carta stampata viene anche dai dati dell’Osservatorio Stampa Fcp. Dal confronto tra quelli relativi al periodo gennaio-febbraio 2009 e quelli relativi allo stesso periodo del 2008 emerge che il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale ha registrato un calo del -28%. In particolare, il fatturato dei quotidiani ha perso il 26% e gli spazi sono calati del 13%. Segno meno anche per i periodici, che risultano in calo del 31% in termini di fatturato e del 24% in termini di spazi.

Numeri in forte ribasso, che hanno avuto notevoli ripercussioni sui bilanci 2008 e sull’andamento del primo trimestre 2009 dei più importanti gruppi editoriali operanti nel nostro Paese, come appare dal seguente schema che presenta i dati più significativi relativamente a ciascun Gruppo.

RCS MediaGroup: nel 2008 i ricavi netti consolidati si sono attestati a 2.673,9 milioni di euro, ovvero a -1,9% rispetto ai 2.728,2 milioni del 2007. I ricavi pubblicitari si sono attestati invece a 942,1 milioni (-2,1% sui 963,2 milioni del 2007).
Area Quotidiani: ricavi pari a 711,3 milioni (734,6 nell’esercizio 2007); ricavi pubblicitari a -2,7%.
Area Periodici: ricavi pari a 313 milioni (330,7 nell’esercizio 2007); ricavi pubblicitari a -3,4%.
Area Web: ricavi pubblicitari in crescita di oltre il 40%.

Mondadori: nel 2008 fatturato consolidato a 1819, 2 milioni di euro (-7,1% rispetto ai 1.958,6 milioni di euro del 2007).
Area Periodici Italia: ricavi consolidati a 575,7 milioni di euro (-12,5% rispetto ai 657,8 milioni del 2007); ricavi pubblicitari a -5,3%
Mondadori Pubblicità: ricavi pari a 331 milioni (-5,3% rispetto ai 349,5 milioni di euro del 2007). Sui periodici raccolta a 242,6 milioni (-4,8%)

Gruppo 24Ore: nel 2008 ricavi consolidati a 573 milioni di euro, in linea rispetto ai 572,1 milioni di euro del 2007. La pubblicità mostra un incremento di 7,4 milioni di euro (+3,1%) raggiungendo i 244, 6 milioni di euro, con un’incidenza del 42,7% sui ricavi totali.
Area Editrice: ricavi pari a -11,3% rispetto all’esercizio 2007.
Area System (divisione che svolge l’attività di concessionaria di pubblicità dei principali mezzi del gruppo, a eccezione dell’editoria specializzata): ricavi pari a 204,146 milioni (+2,1% sui 199.992 milioni del 2007).

Cairo Communication: nel 2008 ricavi lordi consolidati pari a 256,6 milioni di euro (265,8 milioni nel 2007). Raccolta pari a 51,8 milioni di euro (-8% rispetto ai 56,5 milioni)

Gruppo Hachette Rusconi: nel 2008 ricavi consolidati pari a 144,2 milioni di euro di cui 100 milioni derivanti dalla raccolta pubblicitaria (-0,5% rispetto al 2007). Area Web: ricavi pubblicitari in crescita del 46% sul 2007. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Freedom House: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati. L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale».

Rapporto di Freedom House, organizzazione non-profit e indipendente-da Freedomhouse.org
Libertà di stampa: l’Italia fa un passo indietro, unica nazione in Europa di Alessandra Farkas-corriere.it

La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati. L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale». La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati». Lo afferma in un rapporto Freedom House, un’organizzazione non-profit e indipendente fondata negli Stati Uniti nel 1941 per la difesa della democrazia e la libertà nel mondo, la cui prima presidente fu la first lady Eleanor Roosevelt. Lo studio viene presentato venerdì al News Museum di Washington e sarà accompagnato da un live web cast che si potrà scaricare sul sito Freedomhouse.org.

CLASSIFICA – Nell’annuale classifica di Freedom House, l’Italia va indietro come i gamberi, insieme a Israele, Taiwan e Hong Kong. «Un declino che dimostra come anche democrazie consolidate e con media tradizionalmente aperti non sono immuni da restrizioni alla libertà», ha commentato Arch Puddington, direttore di ricerca per Freedom House. Su un punteggio che va da 0 (i Paesi più liberi) a 100 (i meno liberi), l’Italia ottiene 32 voti: unico Paese occidentale con una pagella così bassa. I «migliori della classe» restano le nazioni del Nord Europa e scandinave: Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca e Svezia (prime cinque a livello mondiale). Le «peggiori»: Corea del nord, Turkmenistan, Birmania, Libia, Eritrea e Cuba.

PROBLEMA ITALIA – Il «problema principale dell’Italia», secondo Karin Karlekar, la ricercatrice che ha guidato lo studio, è Berlusconi. «Il suo ritorno nel 2008 al posto di premier ha risvegliato i timori sulla concentrazione di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida», spiega. Altri fattori: l’abuso di denunce per diffamazione contro i giornalisti e l’escalation di intimidazioni fisiche da parte del crimine organizzato. Intanto giovedì il Committee to Protect Journalists, un’organizzazione non-profit che lavora per salvaguardare la libertà di stampa nel mondo, ha pubblicato la top ten dei peggiori Paesi al mondo per i blogger. La Birmania guida la lista, seguita da Iran, Siria, Cuba e Arabia Saudita. Sesto il Vietnam, seguito a ruota da Tunisia, Cina, Turkmenistan ed Egitto. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: Newsweek scrive che “l’industria dei quotidiani ha un managment incapace e un futuro molto incerto».

I fallimenti dei giornali vanno attribuiti più che alla crisi ”a straordinariamente stupidi (e a volte criminali) comportamenti padronali”. da blitzquotidiano.it

Ogni volta che negli Stati Uniti un giornale chiude per bancarotta, come hanno fatto questa settimana il Chicago Sun-Times ed altri 58 quotidiani, gli analisti accorrono subito per inserire un altro chiodo nella bara dell’informazione scritta, puntando invece i loro occhi sulla nuova versione del giornale elettronico, il Kindle 2, a quanto scrive il settimanale Newsweek.

E ora che a Chicago, la seconda città degli Stati Uniti, i principali giornali sono sotto l’ombrello del Chapter 11 (che regolamenta i casi di bancarotta), e a Denver e Seattle i giornali stanno chiudendo, è difficile dissentire, rileva il settimanale, «con chi sostiene che l’industria dei quotidiani ha un managment incapace e un futuro molto incerto».

Ma secondo Newsweek le previsioni sulla morte dell’informazione scritta sono largamente esagerate. Perché se è vero che i giornali sono nei guai, i recenti fallimenti delle aziende che li possedevano non devono necessariamente «far pensare che l’apocalisse è vicina».

Ogni quotidiano ha subito drastici cali della pubblicità ed ha i conti in rosso. «Ma non tutte le aziende editrici sono finite in bancarotta per questi motivi», perchè i fallimenti sono da attribuire più «a straordinariamente stupidi (e a volte criminali) comportamenti padronali».

È vero, prosegue il settimanale, che molti piccoli giornali annaspano, ma molti altri tirano avanti, «come la nostra consorella Washington Post, posseduta da un’azienda che ha altre fonti di introito». O come il New York Times, la cui azienda ha la flessibilità finanziaria di per reperire capitali. O come la catena Gannett, che gestisce le spese in maniera aggressiva.

«Tutta l’informazione scritta – conclude Newsweek – è stata duramente colpita dalla recessione. Tutti i giornali sono in crisi esistenziali e potrebbero alla fine trovarsi in bancarotta. Ma ad essere finiti in bancarotta fin da subito sono quelle aziende i cui padroni che hanno considerato i loro giornali come assets da rigirare da un parte all’altra, aumentando il livello di indebitamento o semplicemente spogliandoli delle loro risorse». (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi colpisce anche Mondadori.

Il Consiglio di Amministrazione di Arnoldo Mondadori Editore, riunitosi oggi, 25 marzo, sotto la presidenza di Marina Berlusconi , ha esaminato e approvato il progetto di bilancio e il bilancio consolidato al 31 dicembre 2008 presentati dal vice presidente e amministratore delegato Maurizio Costa .

Come noto il quadro macroeconomico ha subìto nell’ultimo trimestre dell’esercizio 2008 un ulteriore peggioramento, di entità superiore alle già pessimistiche previsioni: la crisi che ha investito il settore finanziario a livello internazionale ha prodotto gravi effetti sui settori produttivi, sui livelli di impiego e sui consumi nei Paesi industrializzati, frenando la crescita anche dei Paesi in via di sviluppo.

Per quanto riguarda Mondadori e i suoi mercati di riferimento, si evidenziano i seguenti fenomeni:
– in Italia la contrazione delle diffusioni e dei prodotti collaterali non ha avuto particolari accelerazioni e in questo contesto la quota di mercato del Gruppo Mondadori è rimasta sostanzialmente invariata; sul fronte pubblicitario, gli investimenti hanno registrato una decisa flessione nell’ultima parte dell’esercizio. In sostanziale tenuta il volume d’affari nel settore libri, in cui il Gruppo Mondadori ha consolidato la propria posizione di leadership;
– in Francia è proseguita la tendenza alla riduzione degli investimenti pubblicitari, mentre la diffusione dei periodici in edicola e in abbonamento è risultata in linea con l’anno precedente.

Il fatturato consolidato nell’anno è stato di 1.819,2 milioni di euro (-7,1% rispetto ai 1.958,6 milioni di euro del 2007). A perimetro omogeneo la flessione è del 6%; al netto anche dell’attività sui collaterali, il giro d’affari ha registrato un decremento del 2,5%. Il margine operativo lordo consolidato è risultato di 249,2 milioni di euro (-7,3% rispetto ai 268,9 milioni di euro dell’esercizio precedente).

L’incidenza sul fatturato è stata del 13,7%, in linea rispetto al 2007. Escludendo il risultato dell’attività di Mondadori Printing, di cui, come già comunicato al mercato nell’ottobre 2008, Mondadori ha ceduto l’80% del capitale al Gruppo Pozzoni, il differenziale del margine operativo è negativo per 2,7 milioni di euro (-1,2%), per effetto essenzialmente di: buon andamento dei business (+6,5 milioni di euro); minore attività sui prodotti collaterali (-13,3 milioni di euro); maggiori investimenti per business in sviluppo (-7,9 milioni di euro); maggiori costi di ristrutturazione organizzativa (-4,7 milioni di euro) e maggiori plusvalenze (+16,7 milioni di euro).

Il risultato operativo consolidato nel 2008 è stato di 203,5 milioni di euro (-9,6% rispetto ai 225,2 milioni di euro del 2007). L’utile netto consolidato al 31 dicembre 2008 è risultato di 97,1 milioni di euro (-13,8% rispetto ai 112,6 milioni di euro dell’esercizio precedente). Il cash flow lordo è stato di 142,8 milioni di euro rispetto ai 156,3 milioni di euro del 2007.

La posizione finanziaria netta è passata da -535,3 milioni di euro di fine 2007 a -490,3 milioni di euro al 31 dicembre 2008.

Libri
In un quadro economico generale di contrazione dei consumi, l’andamento del comparto trade del mercato librario italiano nel 2008 è stato sostanzialmente in linea rispetto al 2007 (-0,6% a valore, relativo alle librerie medio-grandi: fonte Nielsen Bookscan). In questo contesto la Divisione Libri Mondadori ha ampiamente confermato la propria leadership, con una quota di mercato del 28,8%; i ricavi complessivi sono stati di 434,3 milioni di euro (-2,4% rispetto ai 445 milioni dell’esercizio precedente).

Tra le case editrici del Gruppo, Edizioni Mondadori ha registrato nel 2008 ricavi per 144 milioni di euro (+4,7% rispetto ai 137,6 milioni di euro all’anno precedente). Einaudi ha registrato nell’anno ricavi netti per 51,7 milioni di euro, in crescita del 3,6% rispetto ai 49,9 milioni di euro del 2007. Tale incremento è stato determinato dall’ottimo andamento delle vendite nei 3 canali libreria e grande distribuzione, grazie all’esito molto positivo di numerosi libri a media e alta tiratura. Con il 13,4% di quota di mercato, Mondadori Education ha mantenuto nel 2008 una posizione di rilievo nel mercato scolastico e la leadership nel settore dell’editoria per la scuola primaria: i ricavi netti di vendita realizzati dalla casa editrice nel periodo sono stati di 86,1 milioni di euro (-1,1% rispetto agli 87,1 milioni di euro dell’esercizio precedente).

Periodici
La Divisione Periodici ha registrato nel 2008 ricavi consolidati per 949,8 milioni di euro (-9,3% rispetto ai 1.047,7 milioni di euro del 2007).
Italia
Mondadori ha mantenuto nel 2008 la propria posizione di preminenza, registrando in Italia un fatturato di 575,7 milioni di euro (-12,5% rispetto ai 657,8 milioni di euro del 2007); al netto delle vendite congiunte il calo è stato del 4,4%. L’andamento dell’esercizio è stato caratterizzato dai seguenti fenomeni: ricavi diffusionali in riduzione del 5,1%, in linea con il mercato di riferimento; ricavi da vendite congiunte in forte flessione (-28,6%), in linea con il settore, ma con buoni livelli di redditività; ricavi pubblicitari in calo del 5,3%, in un mercato in flessione del 7,1%: si tratta di un decremento fortemente accentuatosi nel secondo semestre dell’anno.

Tra i femminili, Donna Moderna ha consolidato la propria leadership; nel settore dei newsmagazine, Economy ha incrementato in modo significativo i propri ricavi da edicola. Per quanto riguarda il settore dei televisivi, interessato da un calo diffusionale generalizzato, TV Sorrisi e Canzoni si è contraddistinto per aver mantenuto vendite settimanali superiori al milione di copie. Nell’area delle testate dedicate all’entertainment, Chi si è confermato il magazine più vivace con ricavi in linea con il 2007. L’area dell’up market femminile, in cui operano Grazia e Flair, ha registrato diffusioni più limitate ma in linea con l’anno precedente e con una forte penetrazione pubblicitaria; buoni, infine, gli andamenti dei periodici di cucina e dell’area design.

Francia
Nel 2008 Mondadori France ha conseguito un fatturato complessivo di 374,1 milioni di euro (-4,1% rispetto ai 389,9 milioni di euro del corrispondente periodo del 2007). I ricavi da diffusione di Mondadori France, che rappresentano circa il 70% del totale, si sono confermati sui livelli del precedente esercizio (+0,6% a perimetro omogeneo, al netto della cessione delle testate specializzate del polo Sport e Loisirs), grazie anche al buon andamento delle testate leader, tra cui Closer che ha confermato la propria leadership nel comparto.

I ricavi di Mondadori France derivanti dalla vendita di spazi pubblicitari hanno evidenziato nel 2008 un decremento del 14,5%, in linea con un mercato pubblicitario in forte difficoltà; a perimetro omogeneo la flessione è del 12,3%. La società, penalizzata anche dalla scarsa presenza nell’alto di gamma, unico settore in crescita rispetto all’anno precedente, ha comunque salvaguardato la propria quota di mercato.

A livello reddituale Mondadori France ha mostrato nel 2008 un’incidenza del margine operativo lordo sul fatturato del 10,5% (12,5% al netto delle vendite congiunte), grazie anche a una costante attività di controllo e riduzione costi che ha garantito economie sui costi industriali, di distribuzione e del personale.

Attività internazionali
Il 2008 è stato caratterizzato da un’intensa attività di lancio delle testate del Gruppo Mondadori sui mercati esteri, tra i quali Flair in Austria, Casaviva in Grecia, Bulgaria e Serbia, Sale e Pepe in Romania, Grazia Casa in Croazia. Il network di Grazia si è arricchito nel periodo di nuove edizioni in India e Australia, che hanno conseguito risultati molto positivi fin dai primi mesi.

Nel corso dell’esercizio sono inoltre state poste le basi per i lanci di Grazia in Cina e di Casaviva in India, avvenuti nel primo trimestre del 2009. Complessivamente, a fine esercizio, le edizioni dei periodici Mondadori presenti nel mondo hanno raggiunto le 19 unità, con ricavi da licensing e da commissioni derivanti dalla vendita di spazi delle testate in licenza in crescita del 30% rispetto al 2007. Positivi i risultati della consociata Attica, leader in Grecia nelle diffusioni e nella raccolta pubblicitaria, con una buona presenza anche in Romania e Bulgaria.

Pubblicità
Mondadori Pubblicità ha chiuso l’anno con ricavi per 331 milioni di euro (-5,3% rispetto ai 349,5 milioni di euro del 2007). Grazie al buon andamento del primo semestre, la società è riuscita a contenere almeno parzialmente il forte rallentamento manifestatosi sul mercato nella seconda parte dell’anno. In particolare, in un mercato dei periodici che ha perso il 7,3%, la concessionaria ha registrato una raccolta sul proprio portafoglio testate di 242,6 milioni di euro (-4,8%). Per quanto riguarda invece il mercato radiofonico che ha segnato un +2,3% a livello complessivo, R101 ha registrato ricavi pubblicitari in aumento del 23,9%. Significativo anche l’incremento registrato sui siti del Gruppo (+27%), in un mercato cresciuto del 13,9%.

Direct marketing
Nel 2008 Cemit Interactive Media ha registrato un fatturato di 22,3 milioni di euro, in calo del 6,7% rispetto ai 23,9 milioni di euro del precedente esercizio, mantenendo comunque un ottimo livello di redditività (+18,4%).

Retail
Il fatturato complessivo della Divisione Retail nel 2008 è stato di 194,5 milioni di euro (+6,2% rispetto ai 183,2 milioni di euro del 2007). Nel periodo la rete di negozi del Gruppo ha raggiunto le 434 unità diventando per numero di punti vendita il network di prodotti editoriali più esteso in Italia. Mondadori Retail ha conseguito nel 2008 un fatturato di 128 milioni di euro (+2,7% rispetto ai 124,6 milioni di euro del 2007).

Radio
Nel 2008 R101 ha registrato un fatturato netto di 14,8 milioni di euro (+ 31% rispetto agli 11,3 milioni di euro nel 2007), corrispondente a ricavi pubblicitari lordi per 21,8 milioni di euro (+23,9% rispetto ai 16 milioni di euro del 2007), a fronte di un mercato cresciuto del 2,3%. Sul fronte degli ascolti, la radio del Gruppo Mondadori ha raggiunto quota 2,1 milioni nel giorno medio, incrementando del 7% la propria audience, confermandosi tra le prime sei radio commerciali italiane, con circa 8,4 milioni di ascoltatori nei 7 giorni.

Il bilancio della Capogruppo Arnoldo Mondadori Editore al 31 dicembre 2008 presenta un utile netto pari a 66,2 milioni di euro (90 milioni al 31 dicembre 2007).

Evoluzione prevedibile della gestione
Come è noto i dati relativi ai consumi dei primi mesi dell’anno in corso mostrano, in tutti i principali settori dell’economia, valori in ulteriore riduzione rispetto alla fine del 2008. Il Gruppo Mondadori, a fronte di un 2009 già pesantemente influenzato dalle conseguenze della situazione generale sul settore editoriale e dalle accelerazioni imposte dalle discontinuità tecnologiche, proseguirà nel taglio dei costi, nella semplificazione organizzativa e nella reingegnerizzazione dei processi, anche con una specifica allocazione di investimenti dedicati.

L’andamento dei volumi di fatturato dei primi mesi dell’anno e l’oggettiva difficoltà di previsione degli scenari e dell’evoluzione dei consumi e degli investimenti, soprattutto pubblicitari, nei prossimi mesi, suggeriscono prudenza nella stima delle performance reddituali per il 2009, che non si prevedono comunque al livello dello scorso esercizio. (Beh, buona giornata),

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La brutta stagione della carta stampata.

da blitzquitidiano.it
Sembra ormai un bollettino di ospedale durante un’epidemia. In America chiudono giornali importanti, il New York Times prevede ancora chiusure, alcuni hanno abbandonato la carta, optando per l’on line only.

Leggendo dell’America, e non solo per i giornali, bisogna fare attenzione alle abissali differenze, sia nella flessibilità della forza lavoro, cioè la possibilità di licenziamento; sia nella crisi, che da loro ha preso una piega molto più brutta, ameno per ora, che da noi.

Molti dei giornali che chiudono sono giornali della sera, travolti non solo dal crollo della pubblicità ma anche dal cambiamento delle abitudini di vita degli americani che vivono fuori dei grandi centri urbani (causa la smisurata offerta tv degli ultimi anni); da noi i giornali della sera hanno chiuso da decenni.

Ora c’è anche chi parla di affidare i giornali in fondazioni. L’ex direttore del Wall Street Journal, Paul Steiger, ha trovato finanziatori per un suo sito dedicato al reporting investigativo, uno dei tipi di giornalismo messi più a rischio dal crollo dei ricavi e quindi delle disponibilità economiche dei giornali per investire nel prodotto.

Sono idee molto affascinanti. C’è da dubitare che in Italia possano funzionare delle fondazioni che controllano dei giornali, specie se il capitale è pubblico o si tratta di una fondazione con diversi finanziatori.

In Europa c’è un modello che funziona, quello della fondazione che controlla il quotidiano inglese the Guardian. Ma la fondazione, costituita negli anni trenta da un ricco industriale di Manchester per impedire che i suoi eredi vendessero il giornale, con tutti i vantaggi fiscali connessi, è un’istituzione privatissima, dove comandano solo i discendenti del fondatore, non entrano altri padroni e meno che mai i partiti.

In Italia una legge speciale per l’editoria prevede particolari vantaggi per fondazioni che posseggano giornali. Ma non si tratta di iniziative destinate a stare sul mercato, bensì a far affluire soldi pubblici in modo diverso. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
new york times
the american

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Finanza - Economia Media e tecnologia

Il governo italiano manovra per piazzare uomini di fiducia al comando della stampa?

di Miguel Mora – «El País» (da megachip.info)

Il cataclisma finanziario, il calo della pubblicità, l’adattamento all’universo digitale e i licenziamenti dei giornalisti sono questioni che occupano tutti i giornali del mondo. Molti esperti, e non pochi lettori, temono che il processo incida sulla qualità della stampa. In Italia, forse il paese europeo, assieme alla Russia, nel quale il controllo politico dei media è meno discutibile, l’inquietudine è duplice. Al duopolio televisivo, o piuttosto al monopolio tout court, formato da Mediaset e RAI, potrebbe presto aggiungersi una sorta di rivoluzione della stampa scritta.

Al fondo di questo movimento tellurico in incubazione risuona il solito nome: Silvio Berlusconi, magnate dei media e primo ministro, il cui nuovo obiettivo sono due testate milanesi molto prestigiose, il «Corriere della Sera», il più grande quotidiano italiano, e «Il Sole 24 Ore», il grande quotidiano economico del paese.

«Questa volta, Berlusconi non farà prigionieri, vuole controllare tutto e lo farà», ha detto Giancarlo Santalmassi, giornalista della RAI dal 1962 al 1999 e direttore di Radio24 fino a quando non è stato epurato, l’autunno scorso, dopo essere stato dichiarato nemico ufficiale da parte del governo del Cavaliere nel 2006. Enzo Marzo, giornalista veterano del Corriere, ha concordato “pienamente” con Santalmassi. Giovedì, nel corso di un dibattito sulla libertà di stampa tenutosi presso la sede della Commissione europea a Roma, ha detto che la battaglia per la direzione del quotidiano è già iniziata.

Il nucleo dirigente del gruppo RCS – editore di Unedisa in Spagna – nonché proprietario del «Corriere», ha spiegato Marzo, ha ritirato la sua fiducia al direttore del quotidiano, Paolo Mieli, e tratta su due sostituti. Il primo è Carlo Rossella, sponsorizzato da Berlusconi, e il secondo è Roberto Napoletano, direttore de «Il Messaggero», che, ricorda Marzo, «divenne famoso nell’ultima notte elettorale, perché fu immortalato da una telecamera mentre patteggiava al telefono con il portavoce di Casini (leader della democristiana UDC dei Democratici e genero dell’editore del quotidiano) il titolo principale che doveva piazzare il giorno dopo».

Rossella è il presidente di Medusa, la casa distributrice cinematografica di Berlusconi, e ha ricevuto la benedizione de «Il Giornale», il quotidiano della famiglia del magnate, che ha ricordato che questi lo «ha in grande simpatia, e lo ha già incaricato di dirigere le sue due più importanti testate, «Panorama» e Tg5 [il telegiornale di Canale 5].»

All’interno di RCS, Rossella conta su altri sostegni significativi: Diego Della Valle, proprietario di Tod’s e della Fiorentina, e Luca Cordero di Montezemolo, patron della Fiat e di Ferrari nonché amministratore delegato de «La Stampa».

Ma la parola di Berlusconi sarà decisiva, ragiona senza nessun cenno di pudore il quotidiano di suo fratello, perché, mentre la crisi strangola i giornali, «l’intero sistema bancario dipende dal primo ministro.»

Napoletano ha le sue carte: non spiace a Berlusconi ed è uno dei pochi a parlare al telefono con Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e editorialista per «Il Messaggero». Secondo «Il Giornale», il ministro «sa che il peggio della crisi economica sta per arrivare» e la sua idea è quella di collocare Napoletano a «Il Sole» (proprietà, come Radio24, del padronato di Confindustria) e dare al suo attuale direttore, Ferruccio De Bortoli, il timone del «Corriere». Se non parlassimo dell’Italia, tutto questo fermento risulterebbe inverosimile, degno tutt’al più di una citazione in un pezzo di gossip. Ma tutte le fonti concordano nel segnalare che si tratta di “manovre serie e reali”, il cui effetto produrrà “un terremoto”.

Il malcontento del governo nei confronti di un altro grande giornale, «La Stampa» di Torino, di proprietà Fiat, è lampante. Secondo gli ambienti berlusconiani, il suo direttore, Giulio Anselmi, verrà tentato con una grande poltrona: quella di presidente dell’agenzia Ansa. Se accetta, verrà messo al suo posto un direttore meno ostile al governo.

Mentre questo disegno politico prende corpo, i media italiani tengono testa come possono alla tempesta. Il presidente di RCS, Piergaetano Marchetti, che ha visto i profitti del gruppo abbassarsi nel 2008 a 38 milioni di euro rispetto ai 220 milioni del 2007, ha confermato che stanno soffrendo «gravi e immediati tagli di pubblicità.» E il suo amministratore delegato ha annunciato che l’andamento del gruppo nei primi mesi dell’anno obbligherà a «ridurre il personale». «Dobbiamo agire sui costi e sui modelli di business, in Italia e all’estero.»

Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, prevede ugualmente «chiusure e riallineamenti». In modo ironico, Benedetto non è pessimista sul futuro del settore: «Entro dieci anni sarà splendido.» Beh, buona giornata).

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il mainstream e la quarta crisi.

di Pino Cabras – Megachip.info

Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.

Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.
Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi – che però ancora facevano massa critica – per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali – molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l’analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All’opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato – gradualmente ma inesorabilmente – la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l’altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira – quella vera, non gli sfottò – che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L’esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo. Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un’impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato. Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l’impresa e la libertà d’intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l’insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un’idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E’ un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell’ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l’ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l’unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall’impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze. (Beh, buona giornata).

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Risolto lo strano caso.

Ho scritto: “Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.” Antonio Tricomi, sabato 22 ha commentato:“Vedendo l’intervista, ho notato anch’io l’amara coincidenza”. E ha aggiunto, nel suo commento di domenica 23: “L’articolo è stato impaginato alle 22 di domenica e gli spazi pubblicitari vengono decisi la mattina.”

Al netto di attacchi personali e non richieste difese d’ufficio di una prestigiosa testata giornalistica, ciò che si evince è che ho scritto il vero: si è effettivamente verificato “un banale incidente di percorso nella confezione del giornale”. Lo strano caso di product placement sulla carta stampata è risolto. Il caso è chiuso. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Uno strano caso di product placement sulla carta stampata.

Il giorno dopo che a Secondigliano un commando ha aperto il fuoco su un gruppo di ragazzini, ferendoli alle gambe all’interno di una sala giochi, il quotidiano La Repubblica dà conto di un’ intervista con il pm Raffaele Cantone, titolare delle indagini anti-camorra nella zona di Scampia.

A pagina 2, in taglio basso, Antonio Tricomi firma l’intervista intitolata “Una volta il quartiere era sicuro, ora a Scampia di notte regnano i killer”. Per poter arrivare al punto della questione che qui sollevo, devo citare un brano dell’intervista.

Dopo aver ricordato ai lettori che Raffaele Cantone ha appena pubblicato “Solo per giustizia”,un libro sulla manovalanza giovanile della camorra, Tricomi chiede al pm:
-Sembra averla colpita in modo particolare la morte di un giovane killer delle “case celesti” di Scampia, episodio a cui dedica pagine molto significative. Può spiegarcene il motivo?

Cantone risponde:-Ci stavamo recando sul luogo del delitto. Con me c’era un capitano dei carabinieri, mi stava raccontando nel dettaglio le vicende di cui la vittima era stata protagonista: si era trovato a essere prima un killer del clan Di Lauro e poi degli “Scissionisti”. Era stato protagonista di numerose azioni di fuoco.

Tricomi chiede:- Il capitano non aveva fatto in tempo a dirle l’età?
Cantone risponde:- No. E dai suoi racconti tutto mi aspettavo tranne che di trovare sull’asfalto un ragazzo di diciannove anni. Notai che portava un paio di Hogan (…).

Interrompo questa citazione, per arrivare subito al punto. Infatti, anch’io tutto mi sarei aspettato, tranne che di trovare un annuncio pubblicitario a piè di pagina del quotidiano: tecnicamente si chiama piedone, perché l’annuncio confinava perfettamente con l’intervista, che come ho già detto era in taglio basso della seconda pagina.

Era un annuncio pubblicitario della Hogan.

Si tratta di un macabro episodio di product placement, come si chiama l’inserimento nelle fiction di prodotti, la cui marca è appositamente resa visibile?
Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.
Ciò non toglie che cose del genere fanno accapponare la pelle, oltre proprio a non giovare alla testata, all’inserzionista, né ai lettori. Beh, buona giornata.

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