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Radio Padania come Radio Maria: molte chiacchiere, poche tasse.

La notizia è che Radio Padania è stata riconosciuta dalla Ue come un’emittente, non più a carattere commerciale, ma la concessione è stata ritenuta comunitaria.

In pratica, a Radio Padania viene riconosciuto essere espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose. In sostanza, a Radio Padania viene riconosciuta l’esenzione ad avere dipendenti regolarmente assunti a tempo indeterminato, di non essere soggetta a obblighi fiscali attraverso il meccanismo delle questue, donazioni o raccolta fondi, che risultano essere esentasse.

Radio Padania è stata equiparata a Radio Maria (!!), quella del Vaticano: tanti vantaggi, pochissimi obblighi. E in più, la fantastica possibilità di accaparrarsi frequenze libere, gratuitamente su tutto il territorio nazionale. In una interpellanza parlamentare al ministro Passera, l’on. Giuseppe Caforio dell’Italia dei Valori (il partito di Di Petro), scrive: . così (Radio Padania, ndr), oltre a ricevere finanziamenti milionari per fare della propaganda basata sull’intolleranza, può attivare nuovi impianti ed occupare le frequenze assegnate ad altre emittenti.”
Fosse solo per questo fatto, si capirebbe il connubio tra la Lega, Berlusconi, l’ultra-destra, e la benedizione della Chiesa cattolica: fu proprio uno degli alleati della Lega, l’on Gasparri incaricato di firmare la legge omonima, grazie alla quale, secondo Antonio Diomede, presidente dell’associazione delle Radiotelevisioni Europee Associate (REA): “Fu l’inizio di un nuovo Far West dell’Etere, legalizzato, firmato da Berlusconi e Gasparri i quali, successivamente, ebbero la sfacciataggine di consolidarlo ed estenderlo anche alle concessioni commerciali (…) Quelle frequenze- dice ancora Diomede- la maggioranza delle quali furono sanate con false dichiarazioni, hanno costituito il coronamento di un commercio illecito delle frequenze e del peggioramento dello stato interferenziale nell’etere provocando danni non indifferenti alle emittenti locali oneste e osservanti la legalità”.

Il quadro sarebbe già inquietante di suo, se non vi si aggiungesse una breve riflessione sulle motivazioni che hanno premiato Radio Padania. Come siano riusciti i leghisti al Parlamento europeo a convincere qualcuno che Radio Padania fosse meritevole del titolo di emittente comunitaria lo si può spiegare solo con l’alleanza a geometrie variabili, nel segno del più democristiano dei precetti politici: io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me. Vale a dire che con tutta la buona volontà del mondo si farebbe davvero molta fatica a riconoscere a Radio Padania l’essere espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose. Lasciamo subito perdere la cultura, dal momento che il responsabile della radio è tal Matteo Salvini, i cui sproloqui ci è toccato spesso sentire durante taluni talk show. Etniche? Con rispetto parlando, di etnia c’è niente di autoctono: furbi, chiacchieroni e xenofobi ce n’è mica solo nella presunta Padania. Religione? Quella del dio Po? Boh. Rimane la peculiarità politica di un partito che facendo finta di essere un movimento è diventato peggio del peggior partito della Prima Repubblica: dall’uso personale dei finanziamenti pubblici, al nepotismo, dalle ruberie dei rimborsi elettorali ai più sordidi, quanto smaccati calcoli politici elettoralistici.
Un ospite d’onore alla grande mangiatoia del debito pubblico, logica spartitoria cui anche questa vicenda di Radio Padania non sembrerebbe affatto sfuggire.
Si avvicinano i giorni delle elezioni, quelle amministrative in Lombardia, provocate dalla giunta Formigoni che è rimasta in piedi grazie all’appoggio della Lega. Quelle politiche nazionali, in cui la Lega non sembra affatto intenzionata ad affrancarsi dal berlusconismo. Anche perché leggi come quelle che permetteranno a Radio Padania di fare il proprio comodo e i propri affari la Lega se li sarebbe sognati, senza Berlusconi e soci. Beh, buona giornata.

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Dibattiti Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

L’Italia alle prese con BBB+ /3.

di BILLY EMMOTT-lastampa.it

L’indisciplina degli Stati membri che ha portato alla crisi dell’euro, ha scritto nel giugno scorso un saggio, è nata da «una malsana cortesia reciproca e dall’eccessiva deferenza verso gli Stati membri di grandi dimensioni». Questo saggio è il professor Mario Monti, autore di un blog per il «Financial Times».
Ora che è il presidente Monti, e ora che la crisi dell’euro si sta di nuovo intensificando, è tempo che segua il suo stesso eccellente consiglio.

Dobbiamo sperare che, nei suoi incontri con il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, abbia già parlato in modo chiaro e diretto. Se così non fosse, questo è ciò che dovrebbe dire.

«Cari colleghi, come ben sapete mi piace dire che io sono il più tedesco tra tutti gli economisti italiani. Bene, ora sarò anche americano e senza peli sulla lingua. Sotto la vostra guida, la zona euro non riesce ancora ad affrontare la realtà. Sì, noi italiani siamo stati molto, molto lenti ad affrontarla, ma ora stiamo lavorando sodo. Adesso tocca a voi.

«In un attimo tornerò alla realtà italiana perché il nostro lavoro, lo so, è appena iniziato. Ma se la zona euro prosegue così com’è allo stato attuale, il nostro lavoro sarà distrutto in ogni caso, perché le nostre banche e la valuta crolleranno. Ci sono due realtà che finora avete rifiutato di accettare e affrontare.

«La prima è che la Grecia getta ancora un’ombra fosca su tutti gli altri membri dell’eurozona. Perché? Perché chiunque sia in possesso di una calcolatrice tascabile, per non dire di un computer, può capire che non sarà in grado di rimborsare i debiti, anche se i creditori privati accetteranno un’enorme riduzione del valore dei loro prestiti. Le voci sulla riduzione per ora sono cessate, ma anche se alla fine si farà, la Grecia, secondo previsioni piuttosto ottimistiche, ridurrà semplicemente il suo debito pubblico al 120% del Pil entro la fine del decennio.

«Le finanze pubbliche italiane sono state sull’orlo di una crisi con gli oneri finanziari saliti a oltre il 7%. Siamo molto più deboli, in termini economici, di quanto ci siamo raccontati nel decennio passato, ma siamo ancora molto più forti della Grecia, quindi se siamo vicini a una crisi con il nostro debito al 120% del Pil, come sopravviverà la Grecia con oneri finanziari sempre maggiori e con un’economia molto più debole? Questo significa solo che ci sarà una nuova crisi greca ogni pochi mesi, che per contagio ci danneggerà tutti.

«Sappiamo tutti che, in primo luogo la Grecia non avrebbe dovuto essere autorizzata a partecipare all’euro, e la verità è che anche all’Italia non avrebbe dovuto essere consentito farlo, perché i nostri debiti erano troppo alti. Ma questa è storia. La realtà attuale è che ora la Grecia deve lasciare l’euro, perché altrimenti la sua insolvenza continuerà ad avvelenarci tutti. Dovrebbe farlo con tutto l’aiuto finanziario possibile che noi e il Fondo monetario internazionale possiamo offrire, ma il punto importante è che dovrebbe farlo presto.

«Quando ciò accadrà, gli altri Paesi altamente indebitati, prima fra tutti l’Italia, saranno duramente colpiti dalla speculazione dei mercati sul nostro prossimo default e successiva uscita di scena. Il lavoro principale per dimostrare che ciò non è vero sta a noi: in Italia occorre fare di più per dimostrare che abbiamo un piano credibile a lungo termine per ridurre il nostro debito pubblico al livello del Trattato di Maastricht, il 60% del Pil, probabilmente entro 10 – 15 anni, introducendo allo stesso tempo misure per far crescere di nuovo la nostra economia con un tasso medio annuo di almeno il 2%.

«Stiamo lavorando a questo, come sapete, e il mio governo si accinge a presentare la prossima fase del programma di riforme. Ma la seconda realtà è che abbiamo bisogno del vostro aiuto, sia per sopravvivere abbastanza a lungo perché le riforme producano il loro effetto, e ancora di più per sopravvivere all’inevitabile e auspicabile uscita greca dall’euro.
«Pubblicamente, avete dichiarato che il fiscal compact, il patto fiscale che tutti noi (tranne la Gran Bretagna) abbiamo accettato di 9 dicembre, è la soluzione che l’euro richiede. Ma cerchiamo di affrontare la realtà, non dobbiamo essere troppo educati e deferenti: sappiamo tutti che questo non è vero. Non è vero perché anche con un trattato non c’è motivo perché i mercati credano alle nostre promesse di contenere il disavanzo pubblico e (nel caso dell’Italia) dimezzare il debito pubblico in rapporto al Pil. Queste promesse sono necessarie e importanti, ma non sono sufficienti e non sono credibili.

«Non sono credibili a causa della Grecia, come ho già detto, ma anche perché il passaggio dal peccato alla virtù sta andando troppo per le lunghe. La politica e gli imprevisti sono destinati a intervenire, mettendo in forse le nostre promesse. E come ha sottolineato la Banca centrale europea, i mercati possono già vedere come tutti stiamo cercando di indebolire le disposizioni del trattato, per renderci più accettabile l’idea di mancare gli obiettivi del deficit e del debito. I mercati sanno che la Germania e la Francia nel 2003 hanno distrutto il patto di stabilità e crescita, quindi ci sta che diffidino ancora una volta di noi e delle nostre promesse.

«No, miei cari colleghi, questo fiscal compact non è sufficiente, né i miei piani nazionali di austerità e liberalizzazione dei piani basteranno per distinguere in modo sicuro l’Italia dalla Grecia quando quel Paese andrà in default. L’unico modo per risolvere questo problema, l’unico modo per far sì che l’inevitabile uscita della Grecia non sia un disastro, è che voi due, il che significa soprattutto la Germania, accettiate la responsabilità collettiva per i debiti della zona euro, emettendo eurobond garantiti congiuntamente.

«Questi eurobond possono avere una durata limitata nel tempo e devono essere subordinati sia al fiscal compact sia ai nostri piani di liberalizzazione interna. Ma senza di essi, l’euro semplicemente non sopravviverà. So che questo significherà che il credito di ognuno verrà declassato, proprio come lo è stata la Francia e che ci sarà un grande scontro nella politica tedesca. Mi dispiace di essere maleducato, ma come direbbero gli americani: Guardate in faccia la realtà. Svegliatevi e sentite l’odore del caffè. E voi sapete che il miglior caffè lo facciamo noi italiani».
(Beh, buona giornata).

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia Popoli e politiche

L’Italia alle prese con BBB+ /2.

di MASSIMO GAGGI – corriere.it
L’abbassamento di due punti del rating dell’Italia è di certo un duro colpo per il governo Monti che ha ereditato una situazione difficilissima, ha adottato misure correttive assai penose per i cittadini ma apprezzate in Europa, e che da oggi si ritrova a dover percorrere un sentiero ancora più stretto e pieno di insidie. Ma se la decisione annunciata ieri sera da Standard & Poor’s è una bocciatura dell’Italia – pur con un apprezzamento per l’azione del governo Monti, mitigato però dal timore che le sue riforme, definite ambiziose, vengano frenate da un’opposizione politica -, il «declassamento di massa» è una dichiarazione di sfiducia nell’euro. Dunque un giudizio con una larga componente politico-istituzionale da parte di un’agenzia di rating americana: cioè di un Paese da sempre scettico sul destino della moneta unica, che negli eventi degli ultimi mesi ha trovato la conferma della fondatezza dei suoi dubbi.

Reagire prendendosela con gli Usa o invocando compartimenti stagni, con l’Europa giudicata da organismi di valutazione europei, non avrebbe, però, senso: tra l’altro le strutture di analisi di queste agenzie sono ormai globalizzate e al «downgrading politico» non sono sfuggiti nemmeno gli Stati Uniti che ne hanno subito uno sei mesi fa motivato con la caotica gestione del debito pubblico da parte del Congresso. Washington, poi, ha già ricevuto più di un avvertimento: presto arriverà un’altra bocciatura, con motivazioni analoghe.

Il nodo vero è che questi giudizi, che dovrebbero servire a mettere in allarme gli investitori segnalando loro rischi che non hanno ancora percepito (adeguando di conseguenza i relativi rendimenti), in realtà arrivano quando quelle preoccupazioni sono ormai ampiamente diffuse nei mercati che hanno già eseguito le loro correzioni: un intervento prociclico, che rischia di portare a un eccessivo squilibrio della reazione di mercati fin troppo reattivi, coi nervi messi a dura prova da quattro anni di crisi durante i quali ha quasi sempre piovuto sul bagnato.

Negli Stati Uniti e anche in Europa sono stati fatti vari tentativi di ridurre l’impatto di questi giudizi negativi. Ad agosto, dopo il downgrading Usa, il Tesoro americano autorizzò le banche locali a continuare a sottoscrivere titoli del governo federale senza effettuare gli accantonamenti di bilancio richiesti quando c’è un aumento del rischio. E le norme sui mercati finanziari varate a Washington l’anno scorso riducono per molte emissioni di bond l’obbligo di essere corredate dai giudizi di una pluralità di agenzie. È, inoltre, aumentata l’attenzione sui conflitti d’interesse che possono condizionare questi organismi.
Ma alla fine, trattandosi di società private, la soluzione verrà solo dall’allargamento della platea degli operatori, superando l’oligopolio S&P-Moody’s-Fitch. È il caso delle nuove agenzie che stanno emergendo in America e anche di quella cinese che, peraltro, Francia e Italia le aveva già declassate a dicembre.

Insomma dobbiamo abituarci – opinione pubblica e mercati – ad avere reazioni meno «accaldate» cogliendo, al tempo stesso, il messaggio, non nuovo, che esce rafforzato dal giudizio di Standard & Poor’s: quella europea è una crisi profonda che non ha soluzioni facili. Il percorso da compiere è lungo e pieno di insidie. Decise le manovre necessarie per disinnescare i meccanismi della crescita del debito pubblico, ora l’enfasi va posta sullo sviluppo delle economie dell’Unione e su una maggiore solidarietà tra le varie capitali per rafforzare l’euro con un’unità d’intenti almeno sulle politiche fiscali, di bilancio e del lavoro.

Certo, anche se accompagnata dalle «bocciature» di parecchi altri Paesi, dalla Francia all’Austria, dalla Spagna al Portogallo, il passo indietro di due caselle dell’Italia, che la porta al livello di Paesi come il Perù, non è di certo incoraggiante per il nostro governo. Ma questo declassamento non può cancellare la consapevolezza che il Paese sta finalmente tentando di imboccare la direzione giusta. Un dato che, oltre che dalle istituzioni e dai partner europei, viene riconosciuto anche dai mercati che col positivo andamento delle aste dei titoli del Tesoro, soprattutto a breve termine, dimostrano di avere una certa fiducia sulla stabilizzazione della situazione italiana, almeno nei prossimi 12-18 mesi.

Ma è difficile andare oltre questa scadenza nelle previsioni, le nuvole all’orizzonte sono ancora troppo fitte: alle incertezze di un quadro politico caratterizzato da una tregua che potrebbe non durare a lungo, si aggiungono quelle che derivano dalla stagnazione. Per questo da oggi diventano ancora più importanti le politiche per la crescita che Monti, varata la manovra fiscale, ha messo al centro del suo programma. Per rendere gestibile il debito pubblico e farlo diminuire rispetto al Pil il governo ha bisogno di far crescere le attività produttive, evitando, al tempo stesso, impennate dei tassi. Qui, purtroppo, la mossa di S&P, che arriva proprio quando si vedeva qualche spiraglio di luce, non aiuta: già ieri sera a Wall Street alcuni analisti invitavano gli investitori a cautelarsi rispetto a rischi crescenti di «monetizzazione» del debito pubblico dei Paesi europei. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Politica Popoli e politiche

L’Italia alle prese con BBB+

di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
All’indomani del cosiddetto “tsunami” provocato dall’agenzia di rating Standard&Poor’s ci sono alcuni fatti certi dai quali bisogna partire. Sono i seguenti:
1. Lo “tsunami” non c’è stato. Le Borse hanno registrato modesti ribassi, Piazza Affari ha perso l’1 per cento, le altre Borse europee hanno oscillato intorno al mezzo per cento di perdita, l’Austria, colpita anch’essa dal “downgrade”, ha addirittura chiuso in rialzo.
2. Standard&Poor’s ha declassato nove paesi su diciassette, cioè ha attaccato non un paese specifico ma l’intera economia europea e quindi, indirettamente, anche la Germania che senza l’Europa vivrebbe malissimo. Si è trattato dunque d’un giudizio politico più che economico.
3. Per quanto riguarda l’Italia questo attacco ha avuto come effetto quello di rafforzare il governo Monti, tanto più che la stessa Standard&Poor’s ha apprezzato la politica di Monti nel momento stesso in cui declassava di due punti il nostro debito sovrano mandandolo in serie B.
4. I rendimenti dei nostri Bot e dei nostri Btp alle aste di giovedì e di venerdì sono stati ottimi per i Bot e buoni per Btp triennali.
5. La Bce ha confermato che il valore dei “collaterali” che le banche danno in garanzia dei prestiti loro accordati dalla Banca centrale non subiranno alcun mutamento; la Bce cioè non terrà in nessun conto i giudizi negativi dell’agenzia di rating. Le notizie che davano per certo un peggioramento del valore dei collaterali erano dunque sbagliate o false.

Le aste italiane di giovedì e venerdì hanno comunque confermato che la fiducia nel nostro debito sta tornando e dai Bot si sta gradualmente allargando anche sui Btp ed infatti, confrontando i tassi spuntati alle aste di gennaio con quelli delle aste di novembre si hanno i seguenti risultati: Bot a sei mesi dal 6,5 al 3,2; Bot a dodici mesi dal 5,9 al 3,2; Btp a tre anni da 7,9 a 4,8; Btp a dieci anni da 5,7 a 4,9.

È possibile che nella seduta di domani alcuni di questi tassi peggiorino sul mercato secondario che però, per quanto riguarda gli oneri del Tesoro, non hanno alcuna ripercussione. Per quanto riguarda l’Italia, se ne riparlerà soltanto alle aste di febbraio e marzo che avranno dimensioni imponenti. Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un’operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.

La prima conclusione che questi dati suggeriscono nel loro complesso è dunque abbastanza rassicurante. I risparmiatori e le banche hanno ricominciato a investire in titoli italiani di breve scadenza ma anche in Btp di scadenza media. Auspichiamo che questo processo si estenda tenendo presente che il 19 febbraio la Bce aprirà un secondo sportello alle banche europee per prestiti triennali di ammontare illimitato al tasso dell’1 per cento e con collaterali a valore invariato. Si tratta di fatto di uno schiaffo sulla faccia dei dirigenti di Standard&Poor’s.

* * *

Il presidente Napolitano ha indirizzato due messaggi pubblici all’Europa con due principali destinatari: la Merkel e Sarkozy, che saranno a Roma nei prossimi giorni. Un messaggio, il giorno precedente al downgrade di Standard&Poor’s, puntava sulla necessità di un governo economico europeo e in particolare dei diciassette paesi dell’Eurozona; il secondo auspicava un ruolo non solo economico ma politico dell’Unione, esteso dunque non solo all’economia ma all’immigrazione, alla giustizia, agli investimenti intraeuropei e a una diversa configurazione della governance.

La Francia continua ad essere riottosa alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali all’Unione; la Germania lo è altrettanto, ma ambedue cominciano a rendersi conto dell’urgenza di un nuovo trattato e della necessità di ridurre al minimo i poteri di veto dei singoli Stati. Sullo sfondo ci dovrebbe essere l’istituzione degli eurobond e i poteri di intervento diretto della Bce anche sui debiti sovrani.
Le dichiarazione della Merkel di ieri non dicono granché su questi obiettivi di sfondo ma finalmente puntano anche sulla necessità della crescita oltreché del rigore. Ma soprattutto vogliono sottoporre le agenzie di rating a una disciplina giuridica che vada al di là di un semplice codice etico peraltro inesistente, almeno finora.

Non c’è dubbio che l’esigenza di disciplinare le agenzie di rating con regole oggettive sia a questo punto una necessità senza tuttavia negare ad esse la libertà di esprimere documentati giudizi. L’attenzione va posta soprattutto su quell’aggettivo: documentati. Ma lo spazio pubblico europeo non può esser negato a nessuno. Se le agenzie di rating passano da giudizi strettamente economici a giudizi prevalentemente politici come è avvenuto l’altro ieri, le regole non valgono più ma in compenso l’oggettività del giudizio economico diminuisce di altrettanto.
Se l’onorevole Di Pietro e il senatore Bossi reclamano elezioni a primavera nessuno può né deve metter loro il bavaglio ma ogni persona sensata e consapevole del fatto che durante tutto l’anno ci saranno in Europa 1200 miliardi di titoli pubblici in scadenza non può che giudicarli demagoghi pericolosi o personaggi fuori di testa. Analogo giudizio daranno i mercati se le agenzie di rating attaccheranno l’esistenza d’una moneta e le politiche di un intero continente anziché dimostrare la fragilità dei suoi “fondamentali”.
Da questo punto di vista la Merkel è sulla buona strada quando dice – come ha dichiarato ieri – che il Fondo di intervento sui debiti sovrani opererà comunque, anche se non otterrà la tripla A dalle agenzie di rating e Draghi ha fatto benissimo a mantenere inalterato il valore dei collaterali di garanzia ai prestiti della Bce anche se composti da titoli di debiti svalutati da quelle agenzie.

* * *

Abbiamo già osservato che il downgrade di Standard&Poor’s ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo. Soprattutto gli ha dato ottime carte da giocare nei prossimi incontri trilaterali e alla riunione del vertice europeo di fine gennaio. Ma ha rafforzato il governo anche di fronte alle forze politiche e a quelle sociali.
Il programma di liberalizzazioni sarà varato tra pochissimi giorni. Ha già il pieno favore del Pd e del Terzo Polo. Il Pdl manifesta alcune incertezze e le maschera dietro la distinzione tra poteri forti da liberalizzare e poteri deboli (leggi tassisti ed altri) da risparmiare o postergare. La risposta di Monti è ineccepibile: le liberalizzazioni riguarderanno tutte le categorie, poteri forti e poteri diffusi. Tutti nello stesso decreto.

Osservo dal canto mio che i tassisti sono un potere diffuso ma non un potere debole. Come lo sono i camionisti. Come lo sono gli allevatori di mucche inadempienti alle regole comunitarie. Chiamarli poteri deboli è un errore lessicale e alquanto demagogico. Ci sono certamente alcuni punti sostenuti da queste categorie che vanno risolti con equità a cominciare da quello che riguarda le vecchie licenze dei tassisti. Per il resto, il trasporto urbano è un pubblico servizio e va regolato a vantaggio dei consumatori, altrimenti che servizio pubblico sarebbe?
Farmacie, notai, ordini professionali, vanno tutti ripensati alla luce del concetto di tutela della concorrenza. Così sembra formulato il decreto che sta per essere emesso. Gli ordini non vanno aboliti ma debbono avere un solo e fondamentale obiettivo: essere i custodi del canone etico e deontologico degli associati. Gli ordini non sono un sindacato, perciò non possono occuparsi di tariffe e di altre questioni economiche. Debbono occuparsi dell’etica e lo debbono fare nell’interesse della società civile per la quale l’esistenza degli ordini deve essere una garanzia di professionalità dei loro aderenti……..(Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia Leggi e diritto Popoli e politiche

I casi di Grecia e Italia hanno fatto scuola: la Ue è autorizzata a scavalcare le sovranità nazionali.

Arriva la tutela dell’Eurozona. Ispettori Ue per Paesi in difficoltà
Il ‘six pack’ approvato dall’Unione prevede la nascita a livello nazionale di un ‘Consiglio indipendente di bilancio’ autonomo e con il compito di monitorare l’applicazione delle regole di bilancio. La Commissione europea deciderà se inviare ispettori che raccomanderanno gli aiuti finanziari

Un Paese dell’Eurozona con problemi di stabilità potrà essere sottoposto alla “vigilanza rafforzata” della Commissione Ue che poi invierà regolarmente ispettori che verificheranno l’operato e proporranno al Consiglio di ‘raccomandare’ aiuti finanziari. Secondo due regolamenti che saranno varati mercoledì, rappresentanti dei Paesi sotto tutela potranno essere invitati a riferire al Parlamento Ue, così come esponenti della Commissione potranno andare a spiegare la situazione ai Parlamenti nazionali.

Il nuovo giro di vite sul controllo dei conti pubblici nazionali e sui piani destinati ad assicurare la loro sostenibilità, si spiega nei due provvedimenti, deriva dalla necessità di applicare in concreto e in dettaglio la riforma della governance economica sancita nel cosiddetto ‘six pack’ da poco approvato dall’Ue. Oltre a prevedere la nascita a livello nazionale di un ‘Consiglio indipendente di bilancio’ – totalmente autonomo dalle autorità preposte e con il compito di monitorare l’applicazione delle regole di bilancio – i provvedimenti in arrivo fissano il calendario delle politiche fiscali.

Entro il 15 aprile dovrà essere presentato il programma di bilancio a medio termine, per il 15 ottobre dovrà arrivare la bozza della legge finanziaria, la Commissione potrà presentare le sue osservazioni entro il 30 novembre e per il 31 dicembre la legge di bilancio dovrà essere approvata. Se un Paese soggetto a un programma di aggiustamento dei sui conti dimostrerà un’insufficiente capacità amministrativa e altri problemi nell’applicazione del programma stesso – si legge ancora nei testi dei provvedimenti – “dovrà chiedere” assistenza tecnica alla Commissione.

La Commissione potrà anche proporre al Consiglio che deciderà a maggioranza qualificata di dichiarare “inadempiente” un Paese che non ha saputo mantenere gli impegni presi. Esponendolo così, si ricorda nella proposta di regolamento, al rischio di sospensione del versamento dei fondi strutturali, sociali, di coesione, per lo sviluppo rurale e per le politiche marittime.
(Beh, buona giornata).

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Il CEO di Palazzo Chigi.

Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, Angela Merkel e Nikolas Sarkozy vorrebbero mettere sotto pressione Silvio Berlusconi al prossimo vertice europeo anticrisi.

Contemporaneamente, il quotidiano tedesco Handelsblatt riferisce quanto affermato dal commissario economico dell’Ue Olly Rehn, secondo cui: ”L’Italia deve sgombrare il campo da ogni dubbio sulla sua politica fiscale”. Non solo.

Si apprende anche che la Commissione Ue “prende nota dello slittamento del decreto sviluppo in Italia e chiede al governo di finalizzare con la massima urgenza forti misure per la crescita”: lo avrebbe detto proprio il portavoce del Commissario Ue agli Affari Economici Olli Rehn.

In epoca di presentazione dei risultati del terzo trimestre, possiamo immaginare che questa scena stia succedendo, più o meno con le stesse parole, in tutte agenzie di pubblicità che fanno parte di network globali.

Non c’è network, infatti, in cui non si mettano sotto pressione i CEO nostrani perché taglino più costi e spingano con più energia verso una sostanziale crescita dei fatturati. E la minaccia, sempre meno velata di essere rimossi per venire sostituiti da manager più giovani e dinamici incombe, come la famigerata spada di Damocle, a ogni meeting internazionale.

Che, mutatis mutandis, è esattamente quello che sta succedendo al CEO di Palazzo Chigi. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia Leggi e diritto

Artefice della crisi greca è una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs. Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché è facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziari.

di Loretta Napoleoni-www.caffe.ch/news/firme/47284.

Finanza ed economia sono invischiate in una singolare catena di Sant’Antonio. Percorriamola a ritroso. Questa settimana la Grecia, che da un mese é sull’orlo della bancarotta, ha chiesto aiuto al Fondo Monetario. Ha un buco finanziario di 300 miliardi di euro. Sembra una storia degli anni ‘70 quando il FMI era l’autoambulanza delle agonizzanti economie occidentali colpite dall’epilessia energetica.

Artefice della crisi greca é una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs che in cambio di lauti compensi ha manipolato i conti dello stato facendoli apparire molto più solidi di quello che erano. L’equivalente insomma del falso in bilancio di un’impresa. Eppure per decenni questa banca ha fornito al Tesoro americano spavaldi ministri delle finanze, gente che ha svolto anche e sopratutto un’attivita’ di controllo e regolamentazione del sistema finanziario.

La scorsa settimana la Sec, la Security and Exchange Commission statunitense, ha accusato Goldman Sachs di frode nei confronti di altri clienti, l’accusa e’ di essersi approffittata dei propri clienti nella formazione e vendita di un fondo di mutui spazzatura americani con la complicità di un grosso hedge fund di Wall Street.

A gennaio uno studio di avvocati di Pasadena, in California, ha citato in giudizio per frode 5 membri della Sec. Tra il 2004 ed il 2007 avrebbbero archiettato vendite di azioni fittizie utilizzando una società finanziaria canadese per un valore di quasi 3 miliardi di dollari.

Se volessimo potremmo continuare il nostro viaggio a ritroso, ma bastano questi fatti per farci capire che il problema attuale dell’economia e della finanza occidentale é il sistema di controllo. Ebbene il presidente Obama questa settimana ha presentato il tanto atteso programma di riforma finanziaria, peccato che non aiuti a riparare questa falla.

Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché é facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziario. Esistono troppi organi preposti tutti con poteri limitati, nessuno ha dunque una visione di grand’angolo e nessuno ha le risorse per fare bene il suo lavoro. Il presidente Obama vorrebbe allargare il numero dei controllori, propone addirittura di un organo gestito dai consumatori all’interno della Riserva federale con i poteri di regolarne i prestiti alle banche. Perché non razionalizzare invece l’intero sistema e creare un’unica e potentissima istituzione? Perche’ per far passare la riforma finanziaria Obama ha bisogno dell’approvazione del Congresso dove non ha una maggioranza schiacciante. E la sua riforma piace poco.

Difficle dunque mettere fuori legge la catena di Sant’Antonio della finanza globalizzata. La limitazione che il presidente vorrebbe imporre alle banche, e cioé l’obbligo di giocarsi in borsa soltanto i soldi propri o quelli dei clienti consenzienti, sarebbe auspicabile ma bisognerebbe verificare come questo consenso viene raggiunto. Anche il contenimento dell’investimento bancario negli hedge funds e nelle società di private equities necessita di un controllo statale capillare Persino che al momento non é possibile. Persino il contenimento dell’attività dei i lobbisti, i grandi burattinai di Washington, ha bisogno di un rigido sistema di controllo. Ma concepire un organo in grado di ‘spiare’ il comportamento dei membri del Congresso sarebbe inconcepibile in America. Il problema quindi persiste: chi controlla i controllori? (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia Lavoro

La crisi economica, il convitato di pietra delle elezioni europee.

DOVE MORDE LA CRISI IN EUROPA di Jean Pisani-Ferry -lavoce.info
Col passare dei mesi la crisi nata negli Stati Uniti è diventata sempre più europea. Basta guardare i dati. Eppure, le risposte sono scarse, come se si faticasse a prendere coscienza dell’enormità del disastro. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un programma di rilancio dell’economia che per ampiezza supera di gran lunga i piani europei. In gioco c’è la credibilità dell’Unione Europea. Le elezioni per il Parlamento europeo avrebbero potuto essere la buona occasione per un dibattito approfondito su molti temi cruciali. Peccato non sia stata colta in nessun paese.

Diciotto mesi fa, la crisi nata dai mutui subprime sembrava essere solo americana e si discuteva degli effetti che avrebbe avuto sul resto del mondo. Ma, col passare dei mesi, è divenuta sempre più europea. Basta osservare alcuni dati.

UN CONFRONTO DI DATI

1. La produzione industriale è diminuita, rispetto ai massimi livelli raggiunti, del 18 per cento nella zona euro contro il 13 per cento negli Usa. Nell’aprile 2008, il Fmi prevedeva, per il 2009, un tasso di crescita dello 0,6 negli Stati Uniti e dell’1,2 nella zona euro. Oggi, prevede un calo del Pil del 2,8 negli Usa e del 4,2 in Europa. Altre previsioni sono dello stesso tenore. Anche se gli indicatori avanzati suggeriscono che la ripresa è prossima in Francia, in Italia e nel Regno Unito, la recessione rischia di essere più forte in Europa.

2. Nell’ambito della zona euro, Spagna e Irlanda sono alle prese con una depressione immobiliare che, nel caso dell’Irlanda, è ulteriormente aggravata dal tracollo bancario. L’anno prossimo il tasso di disoccupazione spagnolo toccherà il 20 per cento. I tassi di interesse sui titoli di Stato, che fino all’anno scorso erano ovunque quasi gli stessi, sono ora molto diversi gli uni dagli altri. La Grecia, conosciuta per la sua negligenza in fatto di finanze pubbliche, e l’Irlanda, il cui debito pubblico triplicherà in tre anni, chiedono prestiti a due punti percentuali di tasso di interesse in più rispetto alla Germania.In queste condizioni, non c’è più solo da chiedersi se possa avvenire una crisi finanziaria in uno Stato della zona euro, ma di chi – tra Fmi e i suoi partner – potrà soccorrerlo al bisogno

3. L’Europa centrale e orientale vive una violenta crisi, probabilmente della stessa portata di quella asiatica del 1998. A parte la Polonia, che probabilmente soffrirà solo di una moderata recessione, gli altri Stati della regione, la cui crescita si basava principalmente sul risparmio straniero, sono colpiti in pieno dal mancato afflusso di capitali esteri. I paesi baltici, quest’anno, vedranno una caduta della produzione del 10 per cento, l’Ungheria e la Romania del 5 per cento. La Lettonia, seguendo il programma del Fmi, si è impegnata a ridurre i salari e la spesa pubblica, con intervento rispetto al quale la politica deflazionistica di Laval – nella Francia degli anni Trenta – era all’acqua di ros

4. Il Fmi ha appeno rivisto le sue stime sulle perdite delle banche e sulla necessità di capitali freschi. Stima che, nel periodo 2007-2010, le banche europee (zona euro e Gran Bretagna) subiranno perdite per 1.200 miliardi di dollari dei loro attivi, contro i 1.050 negli Stati Uniti. Ma soprattuto, rispetto a questo ammontare, le banche europee hanno accertato a oggi perdite per 260 miliardi di dollari (meno di un quarto) contro i 510 miliardi degli Stati Uniti. Le banche europee, dunque, dovrebbero ricapitalizzare per 500 miliardi di dollari, quelle statunitensi per 275 miliardi. In poche parole, le banche europeee hanno ancora due terzi del cammino di fronte a loro, mentre quelle americane sono sono già a metà strada. Alcuni ministeri del Tesoro europei contestano tali cifre, ma non hanno finora saputo darne altre. Del resto quello che le valutazioni dell’Fmi sottolineano è proprio la totale assenza di valutazioni comuni sulla situazione, da parte degli europei. I mercati finanziari ne hanno ovviamente tratto le conseguenze: i titoli delle banche europee sono scesi in borsa molto più di quelli delle banche americane.

Tutti questi fattori sono, del resto, interdipendenti. Se l’Europa va peggio degli Stati Uniti, ciò dipende sia dal fatto di essere maggiormente esposta al commercio mondiale, sia dal fatto che alla crisi mondiale si aggiungono le sue crisi interne, sia infine dalla brutta situazione delle sue banche. Se l’Europa dell’Est è in crisi è perché i suoi sbocchi europei si sono chiusi e le banche occidentali non le fanno più credito. Se l’Austria è in allarme per le sue banche, dipende dalla sua forte esposizione in Europa centrale. E così via. La difficoltà consiste non nello sbrogliare la matassa delle cause, cosa in fondo facile, bensì nel trovare risposte e soluzioni.

MANCANO LE RISPOSTE

Tuttavia, le risposte europee sono scarse, come se si faticasse a prendere coscienza dell’enormità del disastro. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un programma di rilancio dell’economia su due anni, la cui ampiezza supera di gran lunga i piani europei, anche tenendo conto della differenza di misura dei sistemi pubblici e dei loro effetti di stabizzazione automatica. La Federal Reserve americana, da parte sua, ha azzerato i tassi di interesse e si è lanciata in un programma d’acquisto di attivi finanziari pubblici e privati. In Europa, ci si muove con maggiore cautela e in maniera esitante, sia da parte degli Stati, sia da parte della Bce, che ha abbassato i suoi tassi col contagocce ed è solo parzialmente impegnata nelle operazioni di “alleggerimento quantitativo”. Persino nel settore in cui la sua politica è meno convincente, vale a dire quello della crisi bancaria, Barack Obama ha perlomeno sottoposto tutte le grandi banche al medesimo stress test. In Europa, ogni paese si affanna a dichiarare che le proprie banche sono in condizioni migliori di quelle degli Stati vicini.

Difficile spiegare questa differenza di atteggiamento. Infatti, non solo in Europa la congiuntura è più negativa e il bisogno di capitali da parte delle banche più forte, ma l’economia è assai più dipendente dal settore bancario. Per ogni dieci euro di indebitamento delle aziende non-finanziarie, nove euro sono rappresentati da prestiti bancari nella zona euro, contro i sette del Regno Unito e i sei degli Stati Uniti. In altri termini, molte aziende americane riescono ad aggirare un sistema bancario deficitario, emettendo titoli di debito sul mercato dei capitali (anche a costo che sia la Fed stessa ad acquistare quei titoli), mentre in Europa, soprattutto nella zona euro, ciò è permesso solo alle grandi aziende.

UNA SFIDA ESISTENZIALE

Sostanzialmente, l’Unione Europea è sottoposta a una sfida esistenziale, sfida che invece non si pone per gli Stati Uniti. Sono in gioco infatti sia la sua credibilità in quanto istituzione sia quella coesione costruita con un faticoso processo di integrazione.

È in gioco la sua credibilità, perché è proprio in situazioni come queste che i cittadini valutano la qualità di un sistema politico. Gli europei si ricorderanno sicuramente, per decenni, ciò che avranno appreso durante questa crisi acuta e il loro atteggiamento futuro nei confronti dell’istituzione dipenderà da come essa ha reagito. Ora, se è vero che nell’ottobre 2008, di fronte al rischio di crollo del sistema finanziario, i paesi della zona euro e la Gran Bretagna si sono coordinatiper fornire una risposta comune e che qualche settimana più tardi, con il pericolo incombente della recessione, hanno convenuto di lanciare programmi comuni di risanamento finanziario, è anche vero che l’attuazione dei programmi è stata a dir poco disomogenea. In generale, resta il dubbio se un sistema edificato per tempi “di pace”sia altrettanto valido per quelli “di guerra”. Come è chiaro dal Patto di Stabilità stesso, il sistema di governo europeo si basa proprio sull’idea che una politica comune prudente serva a evitare le crisi, ma non prevede una capacità istituzionale di gestirle, qualora sopravvengano.

Persino due pilastri dell’integrazione europea, quali il mercato unico e l’allargamento ad altri Stati membri, ne risultano scossi. Come ha detto Charles Goodhart, sappiamo adesso che le banche “vivono globali, ma muoiono nazionali”, perché solo gli Stati-nazione possiedono i mezzi per intervenire, onde evitare il loro fallimento. E quando gli Stati forniscono il loro appoggio alle banche, si aspettano in contropartita che esse concedano crediti alle famiglie e alle aziende nazionali, non a quelle dei paesi vicini. Ciò mina le fondamenta di un mercato unico costruito sull’ipotesi che le banche del futuro ignorino le frontiere. Per quanto riguarda l’allargamento dell’Unione, se ne rimette in questione l’opportunità per via della battuta d’arresto di un modello di crescita che, in molti paesi dell’Est, si basava sulla domanda di capitali esteri per finanziare gli investimenti. Ma la richiesta di sicurezza che oggigiorno si è impossessata dei mercati internazionali dei capitali minaccia la stabilità dei nuovi paesi membri e fa dubitare che, in un prossimo futuro, possano convergere ai livelli di benessere dei paesi occidentali. Come risposta, l’Unione ha incrementato le risorse disponibili per il sostegno finanziario dell’Europa centro-orientale, ma è contraria a intraprendere strategie regionali ed esita sull’allargamento della zona euro.

La posta in gioco è quindi altissima. Tuttavia, con una presidenza attualmente tenuta da un paese in cui è caduto il governo e una Commissione che presa tra i due fuochi del Trattato attuale e quello in corso di ratifica, termina il suo mandato senza sapere quando sarà sostituita, la guida dell’Unione Europea è semi-vacante.Quanto alle elezioni per il Parlamento europeo, che avrebbero potuto essere la buona occasione per dibattere su tutti questi problemi, si presentano come un avvenimento di debole intensità politica. È un vero peccato. Il 2009 passerà alla storia come l’anno delle occasioni perdute? (Beh, buona giornata).

Traduzione dal francese di Daniela Crocco

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Telos.

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A proposito di rifugiati, sarebbe bene che il ministro della Difesa si rifugiasse in un doveroso silenzio. Sperando in nessun “respingimento”.

Non si placa la polemica suscitata dalle dichiarazioni di La Russa, ministro della Difesa, che aveva detto che l’Unhcr conta “un fico secco”. L’Alto commissario, che nei giorni della polemica si trovava in Pakistan per seguire la crisi dei rifugiati dello Swat, interviene al fianco del delegato italiano Laurens Jolles e la portavoce Laura Boldrini: “Gli attacchi immotivati e personali sono inaccettabili, non mutano e non muteranno l’impegno dell’Unhcr nel perseguire il suo mandato e la sua missione umanitaria – afferma Guterres”, venuto “a conoscenza dei commenti negativi e infondati che sono stati rivolti al mio Ufficio e a singoli funzionari da un esponente del governo italiano”.

E ribatte alle critiche mosse al suo organismo dal governo italiano confermando l’impegno dell’agenzia dell’Onu che “ha una responsabilità globale nella protezione dei diritti dei rifugiati”. “Continueremo a esercitare il nostro mandato in Europa – prosegue – così come lo facciamo in altre parti del mondo. Il mio ufficio è ben consapevole delle sfide che l’immigrazione irregolare pone all’Italia e ad altri Paesi europei. Continueremo a lavorare con i governi e con tutti gli altri partner per affrontare queste sfide in modo da garantire il pieno rispetto dei diritti dei rifugiati e di quanti hanno bisogno di protezione internazionale”.

L’Alto commissario ribadisce poi la sua “piena fiducia nel rappresentante in Italia, Laurens Jolles, e nella portavoce, Laura Boldrini nel portare avanti questo importante compito”.

A proposito di rigugiati, è il caso che il ministro della Difesa la smetta in penosi tentativi di autodifesa e si rifugi in un doveroso silenzio. Sperando in nessun “respingimento”. Beh, buona giornata.

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L’attacco di La Russa all’ Unhcr dell’Onu: il ministro degli Esteri cerca di metterci una pezza, ma inciampa su se stesso.

Le organizzazioni internazionali vanno sempre rispettate anche quando sbagliano, e nel giudicare il governo in questo caso sbagliano”. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, a quanto si apprende da ambienti vicini al ministro, riferendosi alla polemica innescata dalle dichiarazioni del responsabile della Difesa, Ignazio La Russa, sull’Unhcr.

“Il rispetto delle regole è garanzia e tutela anche per tutti quegli immigrati regolari che hanno seguito le regole. La politica della sinistra sull’immigrazione e’ a scapito dell’identita’italiana ed europea. – ha aggiunto Frattini – Noto che siamo in piena campagna elettorale eppure si parla poco di Europa.

Il tema della sicurezza deve invece divenire un impegno europeo, non puo’ gravare solo sui paesi del mediterraneo”.

Il Ministro Frattini, evidentemente non si ricorda chi fosse il Commissario europeo alla Sicurezza , fino un hanno fa, quando è stato nominato agli Esteri. Glielo ricordiamo noi: era Franco Frattini, che è stato in carica circa quattro anni. Sarà mica per questo che ” in campagna elettorale si parla poco di Europa?” Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Popoli e politiche

Ai partiti italiani impegnati nella campagna elettorale dell’Europa gli importa un fico.

L’Europa e i nostri figli: stando da soli si esce dalla storia/ di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Potremmo ancora continuare nell’elencare i punti di forza di questo grande protagonista del nuovo mondo globalizzato.

Eppure dobbiamo fermarci perché, in questo mondo, l’Europa non è attore ma, nonostante le cifre della sua economia, un semplice spettatore.

Le grandi decisioni internazionali ci vedono assenti o irrilevanti, anche quando si tratta di problemi che sono a noi vicini per geografia o per interessi, come è stato il caso del Kossovo. Per questo motivo, dopo infiniti dibattiti, è iniziato negli scorsi anni un processo di riforma delle istituzioni europee fondato sulla premessa fondamentale ed inconfutabile che l’Europa non può ottenere risultati ambiziosi se non passando attraverso riforme altrettanto ambiziose. Il processo è partito, ha dato vita ad una Costituzione, bocciata però dal referendum francese, e quindi al trattato di Lisbona, ora fermo a metà strada per il no dell’Irlanda.

Eppure il trattato di Lisbona contiene alcune ovvie indispensabili proposte innovative, come la fine di una ridicola rotazione semestale della presidenza dell’Unione, un inizio di coordinamento della politica estera, un presidente della Commissione eletto dal Parlamento e una pur minima riduzione delle decisioni da prendere all’unanimità.

Si tratta di passi in avanti concreti ma ancora insufficienti per giocare un ruolo da protagonista perché in tutti i numerosi campi in cui è prevista l’unanimità, la paralisi europea è destinata a durare. Eppure il voto irlandese ci impedisce di compiere anche questi piccoli passi in avanti.

Sarebbe tuttavia ingiusto addossare le colpe solo all’Irlanda: lo spirito europeo si è ovunque affievolito e perfino i tre grandi protagonisti della prima Europa, cioè Germania, Francia e Italia pensano più ai loro problemi interni che non ai grandi risultati che potrebbero ottenere lavorando insieme.

Naturalmente non si tratta solo di mettersi d’accordo sulle nuove regole di decisione, ma di convenire su alcune priorità senza le quali l’Europa non può funzionare, come la dotazione di risorse adeguate per affrontare le sfide comuni quali la sufficienza energetica, i cambiamenti climatici e le disparità fra Paesi e Continenti. Per vincere queste sfide la dimensione nazionale è del tutto inadeguata. Per rendersi conto di tutto questo non occorre essere raffinati politologi o economisti: basta dare un’occhiata ad un mappamondo. Eppure stiamo andando a votare senza che si sia ancora aperto un minimo di dibattito sul ruolo che vogliamo dare all’Europa nel mondo.

La preparazione elettorale è esclusivamente dedicata alla politica nazionale e all’influenza che i risultati delle urne avranno sui futuri equilibri politici interni. Continuiamo correttamente a ripetere che senza una politica continentale usciremo solo per ultimi dalla crisi economica ma, nello stesso tempo, non vogliamo dare alle istituzioni comunitarie la forza per prendere le necessarie decisioni.

Ogni giorno assistiamo a gridi di allarme per lo strapotere europeo e non vogliamo ammettere che il costo di tutte le politiche dell’Unione (compresa la politica agricola, gli aiuti alle regioni più povere e il costo della burocrazia) è inferiore all’uno per cento del Prodotto Lordo Europeo.

Invece di ragionare sui fatti e di discutere quanto e come si deve spendere e si deve decidere a livello europeo, si preferisce usare Bruxelles come caprio espiatorio per tutte le cose che non vanno nel nostro Paese. Queste contraddizioni non sono certo solo italiane: esse sono comuni a quasi tutti i Paesi europei. Questi Paesi, tuttavia hanno almeno l’astuzia di inviare al parlamento di Strasburgo persone che, per esperienza, padronanza linguistica e conoscenze specifiche, difendono con continuità ed efficacia i propri interessi. Un primo sguardo alle liste dei candidati ci dice invece che i nostri partiti si sono solo marginalmente posto questo problema.

Per cui, se l’elettore non sarà abilissimo nelle sue scelte, non saremo nemmeno in grado di difendere i nostri elementari interessi nazionali.

Abbiamo ancora quattro settimane di tempo per prepararci a scrivere la nostra preferenza nel modo che riterremo più adatto a raggiungere i nostri obiettivi. Mi permetto tuttavia di consigliare agli elettori, prima di recarsi in cabina, di dare ancora un’occhiata al mappamondo per vedere quanto siamo piccoli noi e quanto sono grandi gli altri. Un altro esercizio utile, che noiosamente ripeto in ogni occasione in cui parlo dell’Europa, è quello di ripensare per un attimo alla storia dell’Italia. Ai tempi del Rinascimento (cioè al tempo della prima globalizzazione) gli Stati italiani primeggiavano in ogni campo, dall’arte della guerra, alle scienze, dalla tecnologia all’architettura, dalla filosofia alla finanza. Non abbiamo avuto la capacità politica di metterci assieme e l’Italia è per sempre scomparsa dai grandi protagonisti della storia mondiale. Oggi per i singoli Paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna compresi) la situazione è del tutto identica. Rimanendo soli si esce dalla storia. Prima di andare a votare è quindi bene pensare anche a quello che succederà ai nostri figli. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Leggi e diritto

L’Italia e la crisi economica:”nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere.”

Bersani, ecco le domande che nessuno fa mai alla destra di Bianca Di Giovanni -l’Unità
«E’ un governo più impegnato ad accrescere consensi che a risolvere i problemi veri. Passa per il governo del fare? Certo, nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere». Pier Luigi Bersani dà un giudizio senza appello sul primo anno del governo Berlusconi quater. Detto in due parole: racconta favole. Evidentemente, però, le racconta bene, visto che la popolarità è in aumento (dicono). «Certo, questo è un governo nato per accrescere consenso: è la sua prima missione», spiega Bersani.

Quali sono le domande non fatte?

«Per esempio nessuno ha chiesto a Giulio Tremonti e colleghi come mai l’Europa parla di un milione di disoccupati in più in Italia per quest’anno (nelle previsioni di primavera, ndr) che non compaiono nella sua Relazione unificata. Gran parte di quei nuovi disoccupati è costituita da precari, a cui non è stato dato nulla. Altro che governo del fare. Nella stessa Relazione si stima che gli investimenti diminuiranno di 5 miliardi in un anno. E tutte le chiacchiere sulle infrastrutture e le promesse sul Ponte?».

Altre domande?

«Ci aspettiamo qualche risposta per esempio sulle garanzie date dal Tesoro sull’operazione Alitalia, in cui sono rimasti intrappolati piccoli azionisti e obbligazionisti che ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Ancora: c’è qualcuno che ricordi a Tremonti che abbiamo speso 1,7 miliardi per coprire i “buchi” delle sue cartolarizzazioni? È più di quanto è costato il bonus famiglie. E qualcun altro che rammenti le perdite della finanza locale, avviata grazie a una circolare del Tesoro dell’altro governo Berlusconi? Nessuno ricorda nulla. D’altro canto questo governo è una macchina del consenso, per cui bisogna ogni giorno attivare un meccanismo di rappresentazione di nuove “conquiste”, che poi si perdono».

Cosa si è perso?

«Dov’è finito il maestro unico, su cui si scatenò all’inizio una guerra di religione? Dov’è l’esercito nelle strade? Dove sono i Tremonti bond? Lo sa la gente che li ha richiesti solo in una banca, il banco popolare? Cosa fanno esattamente i prefetti sul credito? Nessuno lo sa e nessuno vuole saperlo».

Insomma, con la crisi che morde, i problemi sociali, gli italiani crederebbero alle favole?

«Dopo gli ultimi fatti di cronaca su Veronica, consentitemi di dire che ci raccontano cose inverosimili e vogliono farcele credere. Non voglio parlare di divorzi, ma si sentono delle tesi sulle feste, l’arrivo all’ultimo minuto, il gioiello ritrovato per caso, che in altri paesi ci si vergognerebbe pure a raccontarle».

Resta il fatto che di fronte alla crisi (che è reale) il centrodestra non perde consensi.

«La loro tesi è che la crisi viene da altrove, che noi siamo solo delle vittime e dobbiamo resistere e dunque che non si può fare molto. Su questo comunque io andrei a contare i voti reali dopo le elezioni. Se si fa questo esercizio ci si accorge che Berlusconi non ha mai sfondato nell’altro campo. Quello che è riuscito a fare è rendere utilizzabile tutto il voto di destra del paese. Quando il centrosinistra si è unito, è riuscito a batterlo, ma poi si è visto che l’unità era una composizione piuttosto che una sintesi. Questo è il problema».

Non c’entra nulla la poca credibilità dell’opposizione?

«Anche noi ci abbiamo messo del nostro, rimanendo poco credibili sul come si costruisce un’alternativa. Dobbiamo lavorare a costruire e rilanciare un progetto».

Lei è ancora candidato alla segreteria?

«Su questo ho già parlato e non voglio aggiungere altro. Ora pensiamo alle elezioni, poi si vedrà».

Sul centrosinistra resta forte l’accusa di non saper leggere la realtà. Il Corsera scrive che ha bisogno di alfabetizzarsi per parlare alle partite Iva e alle piccole imprese.

«Le piccole imprese sono arrabbiatissime anche con la destra, che non le aiuta a superare la crisi. Mi pare che lo scriva proprio il Corsera. Dunque non mi pare che sia un fatto di alfabetizzazione. La verità è quella che il centrosinistra ripete ormai da mesi: noi siamo l’unico Paese che non ha fatto nulla di espansivo per fronteggiare l’emergenza, ma si è limitato a spostare fondi da una voce all’altra, per di più senza avere la cassa. Si impacchettano nuove voci di spesa, per l’Abruzzo o per la sicurezza, ma in cassa non c’è un euro».

Le preoccupazioni di Tremonti per il debito sono sacrosante.

«E lo dice a noi che abbiamo sempre rimediato al debito della destra? Ma correggere il debito vuol dire anche far crescere il Pil».

Questo lo dicevano loro quando facevano ancora i liberisti.

«Sì, ma loro giocavano con i numeri. Spargevano ottimismo e scrivevano una crescita del 3% quando il Pil era a 1. Noi proponiamo misure concrete per un punto di Pil e un percorso di rientro in due anni. Se non si sa come reperire mezzo punto di Pil in un anno, significa che non si sa governare. Il governo Prodi ha corretto il deficit dal 4,5% al 2,7% erogando anche il cuneo fiscale. Per rientrare di mezzo punto basta diminuire la circolazione del contante rendendo tracciabili i pagamenti e controllare meglio la spesa corrente».

Perché il centrosinistra ha proposto il prelievo sull’Irpef dei ricchi (che sono più poveri comunque degli evasori) e nulla sulle rendite?

«La proposta era di un contributo straordinario per la povertà estrema, e prevedeva anche misure contro l’evasione. Quanto alle rendite, abbiamo contrastato la seconda operazione Ici, dicendo chiaramente che non andava fatta». (Beh, buona giornata).

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Chi ci ha messo nella crisi può portarci fuori dalla crisi?

di Pino Cabras – Megachip.info

Il presidente statunitense Barack Obama sembra cercare un punto mediano impossibile, mentre passa fra gli scuotimenti della Grande Crisi, scossoni che richiedono scelte senza precedenti, come vedremo. Ai conservatori le sue parole provocano ribrezzi da rivoluzione. A chi invece vuole una qualche Revolution, Obama appare come un assiduo conservatore. Le fanfare per l’annunciata chiusura di Guantanamo non offuscano il fatto che sia ancora aperta, le parole distensive verso Cuba non sono partite da un ammorbidimento dell’embargo, la condanna della tortura non si estende ai torturatori, i tuoni della Casa Bianca contro gli extraprofitti dei banchieri non si traducono in lampi su Wall Street, dove anzi arriva un fiume di liquidità. Sullo sfondo ci sono sfide estreme.

I toni sono cambiati tanto dai tempi di Bush, ma la forza d’inerzia dei grandi fatti sociali, economici, finanziari, politici e militari dell’ultimo decennio domina ancora la risultante delle forze. Le grandi navi non si fermano subito.

Poteri influenti aspirano a chiudere la parentesi della crisi, innanzitutto nell’informazione, in nome di un qualche ‘status quo ante’ che si vorrebbe dietro l’angolo. Obama prova a cogliere questa impazienza per dare ali alla speranza, e invoca anche lui i futuri «segnali di risalita». Essendo più prudente di altri, prova però a dire che ci saranno ancora molte sofferenze prima di toccare il fondo. Ma gli altri, quelli che vorrebbero che il viaggio riprendesse come prima, quelli della parentesi, loro non sono prudenti, neanche ora. Se i commerci a livello planetario sono in picchiata, per loro è comunque un buon segno che almeno non sia più a caduta libera. Se negli ultimi due mesi è evaporato un quarto dei commerci, magari nei prossimi due si volatilizzerà solo un ottavo ancora.

Nel mainstream perciò non trovano grande spazio certe analisi quantitative che appaiono nei media che invece fanno poche riverenze all’ortodossia del liberismo in rotta. Fra queste analisi circola in particolare quella di Leap/Europe 2020, un sito francese che in questi ultimi anni ha visto lontano. Dai dati a disposizione viene estrapolata una tendenza: la discesa degli USA porta a una depressione senza precedenti, vicina a un punto di insostenibilità che, se varcato – e potrebbe essere molto presto – segnerebbe una rottura storica drammatica, a partire dalla moneta [«Eté 2009: La rupture du système monétaire international se confirme», Europe 2020, 15 aprile 2009].

Gli USA hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi grazie all’afflusso di denaro di prestatori esterni, la Cina su tutti. Ora gli USA vorrebbero che anche il salvataggio fosse al di sopra dei propri mezzi, finanziato ancora una volta dalla Cina. Al gigante asiatico infatti non converrebbe far crollare di botto il sistema se per caso volesse uscire dalla trappola del dollaro, visto che ha già incamerato 1400 miliardi di titoli di debito in dollari, sempre più scottanti.
Se consideriamo la dimensione degli “stimulus” e “bailout” messi in campo negli ultimi mesi, l’unica via di uscita ancora “normale” per gli USA è che i risparmiatori cinesi e di qualche altro paese puntino ancora (e questa volta soltanto) sui bond statunitensi, rendendosi ancora più prigionieri del gioco pericoloso.

Solo che – fanno notare gli analisti di Europe 2020 – i prigionieri dedicano i loro pensieri migliori al modo di evadere, magari senza farsi riacciuffare e senza rompersi le gambe. E lo fanno con circospezione. Il 24 marzo 2009 il governatore della Banca centrale di Pechino lanciava un ‘ballon d’essai’. Ipotizzava che il dollaro lasciasse il posto nei commerci a una valuta di riserva internazionale. Sondava e avvertiva insieme, consapevole della forza immensa che i nuovi equilibri spostavano nel mondo (un G20 anziché un esangue G8).

Secondo Europe 2020 tutti i nuovi membri del club del potere mondiale sono pronti a concordare i loro passi con la Cina, quando si renderà necessario. Si è parlato molto degli accordi swap fra Cina e Argentina, ma sono rilevantissimi anche quelli fra Brasile e Argentina, fra Cina e Sud Corea, e così via. Sono una sorta di “baratti” bilaterali che tagliano fuori il dollaro. Ovviamente il club anglosassone prova a resistere ripetendo all’infinito le strade già battute (e qui vediamo le carenze strategiche del progetto obamiano). L’Europa si barcamena e non ha un progetto politico che possa suonare come una sfida a quel che resta della subalternità a Washington.

La Cina c’è, invece. I passi li fa alla chetichella, ma li fa. Il ritmo della fuga, sebbene graduale e attento a non smarrire un suo ruolo stabilizzante, ha numeri impressionanti.

Ogni mese la Cina si sta liberando di 50-100 miliardi di titoli in dollari. La depressione dei prezzi in questo caso favorisce lo shopping pechinese. Sotto lo sguardo benevolo di Hu Jintao i cinesi comprano minerali, metalli industriali, terreni agricoli e risorse energetiche a prezzi bassi. In certi casi ne fanno incetta, e i prezzi risalgono, ma non più di tanto. Se pure i cinesi si tengono lontani dalle azioni nel mercato USA, ne comprano in Europa e Asia. Cercano di tesaurizzare i dollari USA trasformandoli rapidamente in beni non statunitensi più durevoli. Una corsa alla Roba, perché il resto, il dollaro, sarà carta straccia.

Puoi coprire le scarpe da tip tap con tre paia di calze, ma se fai passi come questi farai comunque rumore. Entro settembre 2009 la Cina avrà tolto dalle sue mani 600 miliardi di patate bollenti col simbolo del dollaro. Ma non acquisterà nemmeno quel che gli USA – fra stimoli e salvataggi – saranno costretti a emettere in più dell’ordinario, ossia un ammontare tra i 500 e i 1000 miliardi di nuovi titoli di debito. E chi li compra, allora? Gli USA si troveranno a dover inventare qualcosa per risolvere lo sbilancio. Uno squilibrio che può raggiungere i 1600 miliardi di dollari.

È uno scenario che diventerà ancora più drammatico, una volta giunto al ‘redde rationem’. Il governatore della Federal reserve Ben Bernanke sarà forzato ad acquistare i suoi stessi Buoni del Tesoro.
Questo si chiama: stampare dollari.
La cosa non è nuova. Quando Bernanke dichiara in pratica che la Fed è pronta a oliare la zecca, i T-bond crollano del 10% in un solo giorno.
Il momento X della prossima estate, con un simile scenario, segnerebbe anche una perdita secca di centinaia e centinaia di miliardi per i cinesi. Ma per loro sarebbe il male minore. Perché a quel punto l’insolvenza USA sarebbe conclamata e la salvezza starebbe nell’essersi posizionati meglio nel frattempo.

Siamo davvero alla vigilia di una tale insolvenza? Secondo Europe 2020 i dati dicono proprio questo. La spesa pubblica è esplosa per tenere a galla Wall Street (+41%) e si associa a un crollo mai visto prima degli introiti tributari (-28%). Soltanto nel mese di marzo 2009 il deficit federale ha toccato quota 200 miliardi di dollari, poco meno della metà del deficit di tutto il 2008, che Bush aveva comunque portato troppo fuori misura. Le cose non vanno meglio a livello degli Stati, a partire dalla California di Schwarzenegger, giù “per li rami” fino ai livelli di governo locale. Non c’è verso per fermare la spirale, per ora. Le professioni di ottimismo nella ripresa sono solo parole.
Il Fondo Monetario Internazionale ha rifatto i conti delle perdite che sono e saranno determinate dal collasso finanziario in corso: non più 2.200 miliardi di dollari, bensì 4.100 miliardi. Sono oltre 600 dollari di perdite pro capite a livello mondiale, inclusi i neonati della Nuova Guinea, i vecchietti degli ospizi, e gli evasori totali. Chi pagherà? Andrebbe richiesto a quelli che «i segnali di ripresina» e a quelli che «il peggio è ormai alle spalle».

Insomma, inevitabile che dopo la fase 1 arrivi la fase 2. La Cina sarà costretta a non misurare i passi come prima e a trovare una soluzione diversa. Secondo gli studiosi francesi sono plausibili diversi scenari.
Uno di questi potrebbe essere lo yuan renminbi che diventa valuta di riserva internazionale al posto del dollaro, in compagnia dell’euro, dello yen e di altre monete. Oppure si può accelerare l’istituzione di una nuova valuta di riserva che risiederà su un paniere di monete che lascia da parte il club anglosassone.
Inutilmente sarà lubrificata la zecca di Bernanke, il dollaro non dominerà più.

In alternativa a questi due scenari, che comunque presuppongono uno scheletro di globalizzazione ancora presente, ce n’è un altro: una dislocazione geopolitica globale, imperniata su blocchi economici continentali, che basano ciascuno i propri scambi su una diversa moneta di riserva “regionale”. Da noi l’euro, altrove nuove monete con funzioni simili. Il WTO diventerebbe una voce morta delle enciclopedie. Una soluzione a suo modo ben accomodata, ma proprio per questo più improbabile, perché le convulsioni attese non sono affatto ordinate.

Europe 2020 punta la sua attenzione sulla riunione di New York del G20, nel Settembre 2009, a ridosso dell’Assemblea generale dell’ONU. I dati sin qui esposti addensano intorno a quel periodo l’ora X delle rotture monetarie. Il summit assisterà alla gravità della crisi che starà martoriando gli Stati Uniti, un paese in cui già oggi un cittadino su due sostiene di essere ad appena due stipendi di distanza dalla bancarotta), all’interno di una tendenza già in atto che vede la crescita drammatica della violenza urbana e degli omicidi.

Sarebbe uno scenario di ‘default’ degli Stati Uniti. Un tracollo alla massima potenza. Che a sua volta innescherebbe tante reazioni. Quali? Difficile dirlo, e capire le interazioni.

Per Europe 2020 il default potrebbe avverarsi secondo quattro diversi modi, o con una combinazione di essi. Due scenari implicano vie d’uscita ordinate, gli altri due avvengono nel caos:

1) il Fondo Monetario Internazionale fa per la prima volta agli USA quello che ha fatto centinaia di volte agli altri stati: prende in carico il budget federale e prescrive severi tagli al bilancio (da tagliare ce n’è: l’immane spesa militare, ma anche i programmi sociali). È uno sbocco quasi insostenibile dal punto di vista politico, in presenza di un complesso militare-industriale che incorpora riserve di golpismo, e di una società che non saprebbe metabolizzare le rinunce, perché politici e pubblicità le hanno lisciato il pelo per decenni dicendo al mondo che “il tenore di vita americano non è negoziabile”;

2) il Dipartimento del Tesoro decide di emettere buoni del Tesoro in altre monete invece che in dollari. Ripeterebbe un atto di circa trent’anni fa, su scala più piccola, ossia un’emissione di yen e marchi decisa nel corso di una crisi minore del dollaro. Il difetto di questo esito è che i bond emessi sarebbero così tanti da mettere nei guai gli altri paesi coinvolti. Non si dimentichi ad esempio che in un solo anno il Fondo monetario Internazionale prevede che il debito pubblico italiano passerà dal 106% al 121% del PIL.

3) il dollaro dimezza di colpo il suo valore in rapporto alle altre valute. L’amministrazione Obama darebbe respiro finanziario al bilancio federale e ai bond posseduti dagli stranieri con dollari deprezzati. Una soluzione unilaterale che aumenterebbe però il disordine globale .

4) poiché vendere ai soliti investitori esteri i bond del Tesoro risulta sempre più difficoltoso, la Federal Reserve è costretta a incrementare il programma TARP (Troubled Asset Relief Program), così che si innesca la svalutazione del dollaro, che risulta a quel punto meno desiderato da chi investe su beni in dollari. È il canovaccio in parte già intrapreso. Come si combinerà questa dinamica con gli altri sbocchi?

Per capire quanto le evocazioni di una “ripresina” siano solo pensieri illusori, basti considerare che negli USA i principali istituti di credito beneficiati dai massicci aiuti pubblici, a febbraio 2009 hanno diminuito del 23% i finanziamenti concessi in rapporto a ottobre 2008, quando il Tesoro avviò il sostegno alle banche attraverso il TARP. Segno che anche l’economia reale precipita.

In questo quadro di crisi gli analisti francesi, nonostante l’afasia dell’Europa, vedono in essa un’area «meno esposta ai fattori destrutturanti», perché meno dipendente – con l’eccezione del Regno Unito – dal «dollaro-debito» e perché la sovranità degli Stati membri della UE è molto più forte dei singoli Stati che compongono gli USA (dove non a caso si affaccia nel dibattito politico lo spettro della secessione). La Germania considererà di vitale importanza avere intorno a sé un’area di integrazione che sia ancora il mercato di riferimento per la sua industria. Forzando il senso dell’analisi, il default degli USA ha più possibilità di verificarsi della disgregazione della UE.

Un default, o comunque una crisi che si avvita, non sarà un evento come tanti. Sono tempi eccezionali. Europe 2020 arriva a consigliare di preoccuparsi dei paesi in cui circolano troppe armi da fuoco, nonché a prepararsi a una interruzione dei pubblici servizi essenziali, quelli sostenuti da organizzazioni vaste, per affidarsi invece nei giorni o settimane dell’emergenza alle reti comunitarie e familiari a corto raggio. E consiglia di fare in un certo senso come la Cina: usare come riserva di valore non il denaro ma metalli preziosi e beni fisici di facile scambio, utilizzabili anche nell’ipotesi che le banche restino chiuse nei giorni del crollo.

Quando il rapporto è uscito non era ancora nota la proiezione del FMI sul debito pubblico italiano che sfonda gli argini (come quello di altri paesi, del resto). Ma le previsioni per i risparmi erano già in linea con questa realtà. Il che implicherà pensioni integrative a lungo impoverite e pressioni più forti sui risparmiatori (dove ancora ce ne sono, non certo in USA) per ripagare la bolla del debito pubblico, l’ultima bolla. E questo senza considerare ancora la possibile grande ripresa dell’inflazione, una volta che la banchisa della liquidità si scongelerà.

Obama ha insomma una bella gatta da pelare.
Il 70% degli scambi di moneta avviene presso centri finanziari ricompresi nella sfera d’influenza del dollaro, a Londra, New York, Tokio: «Sono americane o inglesi 8 banche delle 10 più grandi per scambio di valute che sono scomparse dal panorama economico, come Lehman Brothers, o che sono a un passo dalla bancarotta o dalla nazionalizzazione, come Citigroup o Royal Bank of Scotland.» L’epicentro è lì.
Nel dicembre 2008 il Pentagono ha ricevuto un rapporto di Nathan P. Freier dell’Istituto di studi strategici dello US Army War College, nel quale viene descritto il rischio di disgregazione del territorio USA e dei suoi confini per effetto della crisi.
Obama non ha fatto rotolare alcuna testa nell’apparato della Difesa, nonostante abbia vinto le elezioni proclamando di voler cambiare profondamente la strategia militare del predecessore. Le forze armate potrebbero essere chiamate a garantire l’integrità territoriale USA e la continuità di governo, suggerisce Freier.

Questi scenari previsionali si fermano lì. Bastano già le previsioni infondate degli ottimisti a oltranza per dover speculare più oltre.

Possiamo dire tuttavia che questi sono scenari di guerra, e che chi gioca con il facile ottimismo è un’irresponsabile. In perfetta continuità con l’irresponsabilità beota degli anni che ci hanno portato al disastro.
Dovremo essere pronti a non accettare nessuna scorciatoia: guerre all’Iran, ossessioni antiterroristiche alimentate a bella posta, poteri speciali, il catalogo è vasto. Obama si mostra ancora come il punto d’equilibrio in cui si intrecciano insieme fili di credibilità e di speranza. Ma una volta che quell’equilibrio si spezzerà saremo tutti in pericolo. (Beh, buona giornata).

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