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Fini, Berlusconi e il “muck-raking” del Giornale di Feltri.

Feltri&Fini:giornalismo d’inchiesta e i “rimestatori del fango” in Italia, di Mimmo Càndito-lastampa.it

Nella tradizione del giornalismo americano (che non è affatto perfetto ma in larga parte segue standard elevati di professionalità e di indipendenza), una categoria di riferimento è quella del “muck-raking”, che letteralmente si può tradurre come “il rimestamento del fango”. Non è difficile capire che cosa s’intenda: un giornalismo che rimesta nei rifiuti – nella merda, verrebbe da dire – per scoprire che cosa ci sia dentro. Ora, la parte più nobile di questo raking è certamente il giornalismo d’inchiesta; la parte invece più volgare è il giornalismo scandalistico. La linea di demarcazione tra i due giornalismi non è sempre netta, e però alla fine non appare difficile trovare il campo di appartenenza, pur nelle inevitabili contaminazioni.

Facciamo un esempio concreto: alcuni mesi fa “la Repubblica” condusse una dura campagna di stampa contro certe abitudini del presidente B per l’ inveterato costume di mescolare con il suo privato la sua funzione pubblica e di farsi “utilizzatore finale” di prostitute, e di signore compiacenti, in una forma spregiudicata, che inquinava pesantemente l’esercizio del suo ruolo di capo di un governo.

La campagna era partita – o aveva comunque trovato una spinta decisa – dalla denuncia che la stessa moglie (oggi separata) di B aveva fatto pubblicamente, che il marito era “fortemente malato” e si accompagnava con ragazzine. Appare evidente come in quel caso si intervenisse sulla sfera privata del presidente B, ma – appunto – poichè non del “signor Berlusconi” si trattava ma del “presidente B” , le implicazioni politiche oltre che quelle etiche generali erano fortemente significative. Ricorderete: si discusse a lungo se ci fosse violazione della privatezza, e se fosse comunque un affare soltanto personale del signor Berlusconi, o se invece il pesidente B travolto dallo scandalo (si sussurrò a lungo di scelte politiche – perfino di nomine di ministre, non solo di selezione per le candidature al Parlamento, al Parlamento europeo, o a livello locale – dettate dalle compiacenze di letto o di sotto il tavolo, stile Clinton, che il signor B aveva ricevuto nel suo ruolo, non di Dongiovanni, ma di capo di governo oltre che di potentissimo uomo di potere: la televisione etc.), si discusse se B travolto dalla scandalo non dovesse avere la decenza minima di dimettersi per salvare l’immagine fortemente compromessa di istituzioni centrali dello Stato.

Finì che B non si dimise, anzi non fu nemmeno sfiorato dall’ipotesi che l’opinione pubblica intesamente dibatteva, ma certo l’ulteriore danno all’immagine della politica fu rilevante e significativo. Il giornalismo muck-raking de “la Repubblica” aveva svolto con efficacia il proprio lavoro, ma non aveva ottenuto il risultato, altrove inevitabile, del rimestamento del fango (l’analisi delle ragioni fu ampia e partecipata, resta la realtà di quella inefficacia).

Un altro caso concreto di muck-raking è quello che sta affollando molte pagine dei quotidiani ( e molti minuti televisivi) in questi giorni: la casa di Montecarlo affittata al “cognato” di Fini e con procedure che ancora non appaiano affatto chiare. Questa volta il raking è condotto dal quotidiano “il Giornale”, ma anche dal suo parente “Libero” (oltre che dal consanguineo “il Tempo”) ,tutte testate di proprietà o di forte contiguità con B, in una intensità d’intervento che non ha nulla da invidiare alla intensità messa in campo da “la Repubblica” nel caso delle “escort” (le puttane) con cui si accompagnava il capo del nostro governo. La similitudine appare evidente: uomo pubblico nell un caso e nell’altro, faccende poco edificanti nell’un caso e nell’altro, richiesta di dimissioni nell’un caso come nell’altro, giornali con linee editoriali schierate nell’un caso e nell’altro.

Tuttavia, essendo questo blog dedicato alla riflessione sui processi della comunicazione e non all’analisi dei fatti politici, mi pare utile, oltre che necessario, tralasciare l’analisi specificamente politica e tentare soltanto la decodifica dei due “messaggi”, che si mostrano simili nella loro “apparenza” e però mostrano disssimilituini rilevanti nella loro realtà. E’ soltanto la definizione delle diversità – ammmesso che ce ne sia una, e a me pare di sì – che può smontare il meccanismo perverso delle similitudini, e consentire dunque di colloccare con maggior esattezza questa operazione di muck-raking nel campo del giornalismo d’inchiesta o, invece, in quello del giornalismo scandalistico, pur con la inevitabilità delle contaminazioni.

Qual è la dissimilitudine più rilevante? Che nel caso 1 si trattava di realtà denunciate e sostenute da prove inattaccabili,oggettive, documentali, mentre nel caso 2 ci troviamo di fronte a ipotesi ancora non confermate e anzi, in alcuni episodi, addirittura inquietanti per l’a’mbiguità o, peggio, la scorrettezza nell’uso delel “fonti” (penso al dipendente del mobilificio romano che se ne va via dal lavoro e – subito dopo! – spiffera a “il Giornale” che Fini ha comprato i mobili “per Montecarlo” mentre altri quotidiani intervistano il titolare del mobilificio che assicura che mai si è detto di spedire quei mobili a Montecarlo:uso scorretto, o poco professionale, delle fonti; e penso a questa dichiarazione di ieri, di un testimone che “Fini andò a visitare la casa di Montecarlo”, dichiarazione che poi il testimone smentisce con controreplica parziale de “il Giornale” e con accertamenti presso la nostra ambasciata che, anche loro, smentiscono la denuncia de “il Giornale”: e anche qui, lavoro assai poco professionale dell’inchiestista, che non incrocia mai le “fonti”, unico metodo invece per garantirsi l’attendibilità delle testimonianze, come ben sanno tutti gli studenti di giornalismo prima ancora di diventare giornalisti ).

Nel caso 1 come nel caso 2 ci troviamo di fronte a un’aspra lotta politica, ma l’evidenza delle prove del caso 1 non si manifesta nel caso 2 e, anzi, solleva molte perplessità per le forme e i tempi dell’attacco de “il Giornale”, forme e tempi assai simili a quelli del “caso Boffo” (il direttore de “l’Avvenire” costretto alle dimissioni) quando alla fine venne dimostrato che la campagna de “il Giornale” era stata basata su documenti palesemente falsi e usati strumentalmente come mezzi di denigrazione di un direttore, Boffo, che stava manifestando critiche severe ai comportamenti pubblici/privati di B. Anche qui – cioè nel caso 2 – ci troviamo di fronte a forme e tempi che si mostrano rigidamente legati al ruolo critico che Fini si è scelto nei confronti di B, e “il Giornale” appare dunque come uno strumento servile, più che della denuncia e della ricerca della verità, di un attacco spregiudicato contro chi “ha osato” attaccare il presidente B.

Qual è il punto di rottura della spregiudicatezza? Quando il muck-raking abbandona il campo del giornalismo d’inchiesta e si sposta nel terreno del giornalismo scandalistico o, peggio ancora, del giornalismo servile? E’ possibile immaginare una indagine dell’Ordine dei giornalisti che definisca con autorevolezza se vengano rispettati i principi ai quali l’Ordine lega la’ttività giornalistica?
Sono domande complessse, e anzi, meglio ancora, sono domande cui appare molto difficile dare risposte chiare e univoche, proprio per quella ambiguità delle “contaminazioni” tra le due identità del muck-raking. Lascio a voi l’invito a discuterne, con una notazione che è utile fare, perchè attiene direttamente all’anslisi dei processi della comunicazione: la teoria dell'”effetto consumato”, che sostiene che, un a volta emesso il messaggio, questo consuma il suo risultato, e questo risultato non sarà più cancellato (o comunque sarà cancellato solo in minima parte) anche qaundo il messaggio venga successivamente smentito. In aggiunta: chi ricorda più le ragioni – la difesa della legalità nell’azione politica – che hanno mosso Fini alla sua denuncia critica? chi le ricorda più, dopo la campagna de “il Giornale”?

Una sola osservazione finale: se il potere politico può usare con tanta spregiudicatezza al proprio servizio il giornalismo, allora davvero questi si vanno facendo tempi bui assai, non solo per il giornalismo ma anche per il ruolo di una opinione pubblica che è tale – come insegnava Pulitzer – soltanto quando è informata correttamente. (Beh, buona giornata).

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Enzo Baldoni è tornato dall’Iraq.

Le spoglie di Enzo Baldoni sono finalmente a casa.

Dopo i rilievi scientifici eseguiti dai Ris e la controperizia fatta eseguire dai familiari, è certo che le spoglie di Enzo sono state restituite.

Sandro Baldoni, suo fratello, in un’intervista telefonica rilasciata a RepubblicaTv conferma che i resti di Enzo sono finalmente tornati. Ma Sandro dice anche che si è perso tanto, tanto tempo e che il ritrovamento si deve alla pervicacia di un pm, all’abnegazione di un ufficiale dei servizi e alla perseveranza di Giusy, moglie di Enzo, la mamma dei suoi due ragazzi.

Sandro dice che si è riaperta un ferita per la sua famiglia. Vorrei dirgli che quella ferita, noi amici a colleghi suoi e di Enzo la porteremo nel cuore.

Perché è il cuore di un paese che ripudiava la guerra che porta la ferita della morte violenta di un uomo pacifico come Enzo, catturato e ammazzato mentre era al seguito di un convoglio della Croce Rossa. Così pacifico da essere apostrofato da un noto direttore di giornale come ‘pirlacchione’. Quello stesso direttore che aveva come vice una ‘barba finta’.

Dico che l’Italia ripudiava, perché poi è finita che si è voluto travestire la partecipazione bellica da ‘missione umanitaria’.

L’uccisione di Enzo sta lì a dimostrare che i sofismi politico-diplomatici servono a poco: quanti morti abbiamo pianto in questi anni, per la ‘missione di pace’ in Iraq e in Afghanistan? Pare che la guerra in Afghanistan costi al nostro paese un paio di milioni di euro al giorno. Non so. So che la morte di Enzo è stata un’ingiustizia insopportabile. Ecco: Sandro Baldoni ha davvero ragione, quando dice che si è riaperta una ferita. Beh, buona giornata.

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Pulizia etnica a Rosarno.

Maroni, ministro dalla parola doppia. E la pulizia… etnica
di Lucio Fero-bltizquotidiano.it

Prima la promessa di non espellere, poi il fermo: “Espelleremo” Prima la circolare per sconsigliare la sospensione delle partite di calcio in caso di razzismo, poi l’ordine agli arbitri: “Sospendete” Ma Maroni non è il solo a giocare con le parole.

Roberto Maroni, un ministro che ha una sola parola, anzi due. Ai suoi uomini, dirigenti di polizia, questori e prefetti spediti a Rosarno ha dato il via libera, ha detto che potevano, dovevano promettere agli immigrati che, se si prestavano docilmente allo sgombero, non sarebbero stati espulsi. La promessa è stata fatta e resa pubblica. È stata una «promessa di ordine pubblico»: l’importante era portare in fretta via da lì tutti i “neri”. Prima che ammazzassero qualcuno, prima che ci «scappasse il morto». Parole dello stesso Maroni.

Lo stesso Maroni che poi, a sgombero attuato, dice: «Li espelliamo tutti». Maroni, che deve aver tratto ispirazione da un qualche film western visto in gioventù, quelli dove si firmavano trattati con gli indiani per convincerli a farsi portate nelle riserve e poi dei trattati si faceva carta straccia. Deve essere sembrata a Maroni una buona e consolidata strategia.

Maroni che aveva detto: «Troppa tolleranza con i clandestini». Salvo poi scoprire che tra quelle migliaia di “negri” clandestini c’erano. Ma c’erano e ci sono immigrati con permesso di soggiorno regolare. Mancano al momento dichiarazioni di Maroni al riguardo, arriveranno.

Ne sono arrivate altre, sempre di Maroni. Ecco l’ultima: «In caso di cori razzisti negli stadi gli arbitri devono sospendere le partite». Parla chiaro Maroni. Lo stesso Maroni che da molto tempo dà istruzione ai suoi funzionari di polizia e responsabili dell’ordine pubblico negli stadi di «sconsigliare» la sospensione delle partite.

Infatti in Italia le norme per sospendere le partite ci sono e infatti prevedono che il responsabile di polizia indichi all’arbitro quando è il caso di farlo. Le norme, scritte in una circolare del ministero degli Interni di Maroni, danno alla polizia l’ultima parola. Alla polizia, non agli arbitri. Come ha ricordato a Maroni la Lega Calcio.

Arbitri che esitano a sospendere le partite per quieto vivere. Con la polizia che “sconsiglia” e con le tv che avrebbero danni economici da uno sconvolgimento del calendario e dello spettacolo con annessa pubblicità via spot televisivi.

Maroni, il ministro dalla parola ferma, a condizione che le “parole” siano almeno due e l’una pronta a “parare il sedere” all’altra. Non è solo Maroni però, bisogna riconoscerlo, ad avere paura delle parole troppo fedeli alla realtà. A Rosarno pulizia è stata fatta, dei neri, anzi dei “negri” come li chiama Feltri nei suoi titoli su “Il Giornale”. Mazze, milizie, fucili, ruspe e pullman hanno fatto pulizia. Pulizia etnica. Questa è stata. Ma nessuno la chiama così. È pulizia etnica se la fanno in Bosnia o in Iraq, da noi è soltanto pulizia. Forse perché è stata pulizia etnica in miniatura, in un pezzetto d’Italia e per poche migliaia di neri. Alla prossima si vedrà quale parola usare.

Per ora la corretta e tecnica definizione la si evita. I benpensanti e democratici si rifugiano, riparano e in parte nascondono dietro e sotto la tonaca papale: «Avete visto, il Papa dice che gli immigrati sono uomini anche loro…». Si manda avanti il Papa perché si teme che a dirlo da laici si incorra nella “scomunica” dell’opinione della maggioranza indigena. Gli “anti buonisti” dicono, recitano e intonano lo scongiuro: «Clandestini!». Parola magica che toglie ai neri la dimensione di esseri umani e assolve i bianchi da ogni razzismo.

Oppure si parla, si accusa la ‘ndrangheta. Che c’è e “lotta” insieme a chi ha fatto pulizia. Ma scaricare tutto sulla ‘ndrangheta finisce per essere un alibi. La pulizia etnica è stata fatta a furor di popolo. La ‘ndrangheta al massimo ci ha messo il “concorso esterno”. (Beh,buona giornata).

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“Se il premier cerca un riavvicinamento con la Chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, deve semplicemente fare il politico e non il manager o l’uomo di spettacolo”.

Boffo, La Cei torna all’attacco: “Avvertimento mafioso”-Repubblica.

Nel fascicolo riguardante il procedimento per molestie a carico di Dino Boffo “non c’è assolutamente alcuna nota che riguardi le sue inclinazioni sessuali”. A confermarlo è il gip di Terni Pierluigi Panariello. Che cos’è allora la “velina” anonima recapitata ai vescovi italiani (che l’hanno cestinata) e finita nelle mani di Feltri (che l’ha citata testualmente sul Giornale)? “Un’intimidazione che da siciliano definirei di tipo mafioso”, risponde monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del consiglio Cei per gli affari giuridici.

La Cei. Ricevuta l’informativa sul direttore dell’Avvenire, il monsignore racconta di averla “cestinata” e di essere “rimasto indignato della cosa”. Un testo del genere, “indirizzato a più persone”, ha lo scopo di “un avvertimento” che, osserva il vescovo, “io da siciliano definirei di tipo mafioso” in particolare “nei confronti dei due cardinali citati, Camillo Ruini e Dionigi Tettamanzi”. L’intera vicenda legata a questa informativa per Mogavero è “un affaraccio brutto”,”inquietante”, “spazzatura maleodorante” e “prestarsi a un gioco di questo genere è offensivo della dignità delle persone, della libertà di stampa e anche di una certa professionalità. Non credo proprio – sottolinea – si tratti di un autentico scoop”.

Il vescovo di Mazara del Vallo ragiona anche sulle conseguenze del caso Boffo. “Bisogna capire – spiega – che quando si entra nel piano della rappresaglia si sa da dove si comincia ma non si sa dove si va a finire, soprattutto perchè esistono persone che poi in queste situazioni ci sguazzano. Certi signori – rimarca – si sono assunti la responsabilità morale di aver messo in moto un meccanismo che speriamo si fermi qui”. In merito alla rivendicazione del direttore del Giornale di avere agito in autonomia dal presidente del Consiglio, Mogavero afferma: “Nessuno nega autonomia a Feltri ma non sono disponibile a pensare che nessuno della proprietà del Giornale fosse al corrente di quanto si stava per pubblicare, saremmo fuori dal mondo se si sostenesse una cosa del genere. Può essere che non lo sapesse il presidente del Consiglio – conclude – ma non la proprietà”.

Tutta la vicenda “peserà sui rapporti Stato-Chiesa”. Infatti, “se il premier – continua il vescovo – cerca un riavvicinamento con la Chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, deve semplicemente fare il politico e non il manager o l’uomo di spettacolo”. Poi, prosegue Mogavero, “il giudizio sulla sua politica lo daranno il Parlamento e la storia ma se cerca la vicinanza con il mondo ecclesiastico deve assumere un rigoroso stile di vita”. “Non ci interessa la sua vita privata – conclude – ci interessa che non ne faccia motivo di spettacolo”. Secondo Mogavero la vicenda si trasformerà in “una bomba a orologeria” e, aggiunge, “mi dispiace che il povero Boffo abbia dovuto pagare un prezzo così alto ma se questo è servito a far saltare l’incontro tra il segretario di stato vaticano il card. Tarcisio Bertone e il premier Silvio Berlusconi all’Aquila, sono contento”.

Il giudice di Terni. Il gip di Terni conferma che la “velina” utilizzata da Il Giornale di Feltri per la Giustizia non esiste e non è mai esistita, così come nessuna nota che riguardi l’orientamento sessuale di Boffo. Il giudice di Terni si sta occupando della vicenda essendo stato chiamato a decidere in merito alle richieste di accesso agli atti presentate da diversi giornalisti. Sulla medesima istanza deve esprimere un parere anche il procuratore della Repubblica Fausto Cardella. Dopo che lo avrà fatto gli atti passeranno al gip che dovrà pronunciarsi (una decisione è attesa non prima di domani mattina). Già in passato altri cronisti presentarono richiesta di accesso agli stessi atti ma il gip di allora respinse le istanze. La vicenda di Boffo venne definita con un decreto penale di condanna di 516 euro relativo al reato di molestie alla persona. Un atto al quale il direttore di Avvenire non fece opposizione e quindi la vicenda si chiuse senza la celebrazione del processo. Nell’indagine venne ipotizzato anche, inizialmente, il reato di ingiurie, ma la querela che ne era alla base – secondo quanto emerge dallo stesso fascicolo – venne poi rimessa. Tra gli atti del procedimento non figurano intercettazioni telefoniche. Ci sono invece i tabulati relativi al telefono di Boffo dal quale partirono le presunte chiamate moleste. (beh, buona giornata).

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“In attesa di sapere se Agnelli sia stato o meno un “furfante”, Feltri, che non è un maramaldo, ricorderà quanto sia furfantissimo il suo editore, come al fondo della fortuna di Berlusconi ci siano evasione fiscale e falso in bilancio, corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni.”

L’Avvocato e il Cavaliere di GIUSEPPE D’AVANZO-Repubblica.
SI E’ insediato ieri alla direzione del Giornale della famiglia Berlusconi, Vittorio Feltri, un tipo che – a quanto dice di se stesso – “non ha la stoffa del cortigiano”. Lo dimostra subito.
Feltri scatena, fin dal primo editoriale, un violentissimo, sbalorditivo assalto a Silvio Berlusconi, suo editore e capo del governo. Per dimostrare che, nel lavoro che lo attende, non sarà né ugola obbediente né sgherro libellista, il neo-direttore sceglie un astuto espediente. Le canta a nuora perché suocera intenda. O, fuor di metafora, ad Agnelli (morto) perché Berlusconi (vivo) capisca e si prepari.

Feltri si dice stupefatto per “quanto sta avvenendo sul fronte fiscale”. Trasecola per quel che si dice abbia combinato in vita Gianni Agnelli che “avrebbe esportato o costituito capitali all’estero sui quali non sarebbero state pagate le tasse”. Decide di liberarsi una buona volta di quell’inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo.

Questo “furfante” di un Agnelli, scrive Feltri, “ha sottratto soldi al fisco”, e quindi “ha procurato un danno allo Stato”, “ai cittadini che le tasse le pagano”; ha saccheggiato “per montagne di quattrini neri” le casse di società quotate in Borsa, “derubando gli azionisti”. E allora, si chiede, è più grave “rubare al popolo o toccare il sedere a una ragazza cui va a genio di farselo toccare”? Conclude quel diavolo di un Feltri: “Ne riparleremo”.

E’ l’impegno che Feltri assume dinanzi ai suoi lettori e la minaccia che il neo-direttore del Giornale riserva, nel primo giorno, al suo povero editore. Feltri non è ingenuo e non è uno sprovveduto. E’ un professionista tostissimo e soprattutto ha memoria lunga. E statene certi – questo annuncia il suo editoriale – parlerà presto di quel “furfante” del suo editore. Gli getterà in faccia, senza sconti, le 64 società off-shore “All Iberian” che Berlusconi si è creato all’estero, governandole direttamente e con mano ferma.

Gli ricorderà, e lo ricorderà ai suoi lettori, come lungo i sentieri del “group B very discreet della Fininvest” siano transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri, sottratti al fisco con danno di chi paga le tasse; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come “i politici costano molto… ed è in discussione la legge Mammì”).

E ancora, la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le “fiamme gialle” ); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma che hanno messo nelle mani del capo del governo la Mondadori; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato e in spregio dei risparmiatori, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.

In attesa di sapere se Agnelli sia stato o meno un “furfante”, Feltri, che non è un maramaldo, ricorderà quanto sia furfantissimo il suo editore, come al fondo della fortuna di Berlusconi ci siano evasione fiscale e falso in bilancio, corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; manipolazione, a danno degli azionisti, delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

E, giurateci, quel diavolo di Feltri non si fermerà qui. Ricorderà le diciassette leggi ad personam che hanno salvato il suo editore da condanne penali, protetto i suoi affari, alimentato i profitti delle sue imprese. Ricorderà, con il suo linguaggio concreto e asciutto, quanto quell’uomo che ci governa sia, oltre che “un furfante”, un gran bugiardo.

Rammenterà ai lettori del Giornale quando Berlusconi disse: “Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l’esistenza” (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17). O quando giurò sulla testa dei figli: “All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità”.

La trama dell’offensiva di Feltri contro il suo editore già fa capolino. Presto leggeremo un altro editoriale, altri editoriali all’acido muriatico. Nel solco delle menzogne diffuse dal premier che evade le tasse, Feltri ricorderà che è stato Berlusconi a mentire agli italiani negando di frequentare o di aver frequentato minorenni, giurando sulla testa dei figli di condurre una vita morigerata da buon padre di famiglia, prossima alla “santità”, per intero dedicata alla fatica di governare il Paese.

Feltri concluderà che un uomo, un “furfante” che trucca bilanci, deruba i contribuenti e le casse dello Stato, si cucina legge immunitarie perché governa il Paese e per di più mente senza vergogna sull’origine della sua fortuna e sulla sua vita privata, diventata pubblica, non può essere affidabile quando parla del destino dell’Italia, qualsiasi cosa dica o prometta. (Beh, buona giornata).

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