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Romano Prodi: il G20 ha messo sotto torchio il governo, non il Paese.

di Romano Prodi-Il Messaggero
Il G20 di Cannes era partito con un obiettivo ed è finito con un altro. Per mesi la roboante regia francese ci aveva annunciato che questo sarebbe stato il vertice delle grandi riforme del sistema finanziario internazionale. Un obiettivo più volte ripetuto anche se politicamente impossibile perché le grandi riforme non si fanno in un periodo in cui nessuno ha interesse a farle. Non gli Stati Uniti perché con qualsiasi riforma perderebbero i loro ingiustificati privilegi, non la Cina perché ha tutto l’interesse a rinviare le riforme a quando sarà più forte e più pronta, non l’Europa perché a Bruxelles non comanda nessuno e nelle diverse capitali ognuno la racconta per conto suo. Tolto ogni grande progetto di riforma è rimasta in agenda l’emergenza della zona euro. In teoria il G20, rappresentando tutti i grandi Paesi del mondo, avrebbe dovuto aiutare il confezionamento di un paracadute per l’attuale crisi europea ma tutti i grandi, a cominciare dalla Cina, hanno fatto marcia indietro quando si sono resi contro che nemmeno i Paesi europei erano disposti ad aumentare il proprio contributo nei confronti del Fondo salva-Stati (Efsf).

Di fronte all’impossibilità di accordo su nuove regole e di fronte al rifiuto di raccogliere nuove risorse per fare fronte all’emergenza, l’unica strada rimasta al G20 è stata quella di fare la voce grossa di fronte ai Paesi devianti. A questo punto si è snodato l’aspetto per noi drammatico e inatteso: il processo cominciato nei confronti della Grecia si è trasformato in un serrato dibattimento contro l’Italia, con tanto di condanna ad un lungo periodo di libertà vigilata. E per essere sicuri che i comportamenti del condannato non si discostino dagli obblighi contenuti nella sentenza è stato deciso un doppio controllo sia da parte della Commissione Europea che del Fondo Monetario Internazionale.

Un’umiliazione nei confronti dell’Italia del tutto inedita e, da parte di molti osservatori, ritenuta eccessiva anche tenendo conto delle difficoltà oggettive della nostra economia. A Cannes non è stata tuttavia processata l’economia italiana ma la mancanza di credibilità del nostro governo e la sua incapacità sia nel prendere le decisioni necessarie per porre rimedio alle nostre anomalie, sia nel dare attuazione agli impegni faticosamente e tardivamente assunti.

Più che un processo contro l’Italia abbiamo assistito ad un processo contro il governo italiano, ritenuto da tutti gli organismi internazionali non credibile e perciò non degno di fiducia. Un fatto estremamente dannoso perché riportato e ossessivamente ripetuto in tutti i media del pianeta, forse perché dal vertice di Cannes non vi era null’altro da riportare o forse anche perché il folklore del nostro primo ministro fa notizia ovunque. Il primo ministro, durante la conferenza stampa conclusiva, si è difeso descrivendo l’immagine di un’Italia prospera, spendacciona e felice, che potrebbe navigare serena nelle acque tempestose della crisi se non fosse entrata nell’euro con un tasso di cambio sbagliato. Non vale nemmeno la pena di sottolineare l’aspetto tragicamente ridicolo di quest’affermazione: basta ricordare come la fissazione del livello di ingresso della nostra moneta nell’euro a 990 lire per marco tedesco sia stato riconosciuto da tutti gli osservatori stranieri e italiani (compresi quelli appartenenti alla parte politica dell’attuale presidente del consiglio) come un insperato successo per l’economia italiana che, con questo tasso di cambio, poteva entrare nell’euro con la massima capacità concorrenziale possibile.

È doveroso invece sottolineare come questi attacchi all’euro e le ripetute manifestazioni di sfiducia nei suoi confronti siano state nei giorni scorsi una delle principali cause di irrigidimento dei governi europei e di sfiducia dei mercati finanziari nei nostri confronti. La conferenza stampa del premier al termine del G20 ha lanciato infatti un messaggio chiaro: la responsabilità dei problemi e dei guai dell’Italia sarà, nei prossimi mesi e nella prossima o futura campagna elettorale, interamente imputata all’euro. Lasciamo in disparte (perché rientra nel genere del ridicolo) la contraddizione fra la gravità di questi guai e la descrizione del Paese di bengodi che ci è stata propinata e concentriamoci sui danni che anche in futuro ci verranno addosso da un governo che da un lato si è impegnato ad adottare una politica e una disciplina mirate a mantenere l’Italia nell’ambito della moneta unica e, dall’altro, tenterà continuamente di imputare alla stessa moneta unica le conseguenze dei propri ritardi e della propria inazione.

Di fronte a queste prospettive ci conviene prendere per buone le affermazioni di un Twitter che il Financial Times attribuisce al ministro Tremonti. Il ministro dell’Economia avrebbe dichiarato che domani i mercati si aggiusteranno e gli spread diminuiranno solo se Berlusconi si farà da parte. È assai probabile che Tremonti non abbia detto nulla di simile e che la battuta sia da attribuire alla consueta malignità dei giornali inglesi nei nostri confronti, ma ritengo comunque che il consiglio contenuto in questo messaggio sia degno di essere preso in considerazione. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Berlusconi si sente a Dien Bien Fu.

“Nel mio paese in questo momento ho qualche difficoltà”. Silvio Berlusconi si è rivolto così, parlando in inglese, al primo ministro vietnamita Nguyen Tan Dung, nelle primissime battute dell’incontro bilaterale a margine del G20. Beh, buona giornata.

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Il piccoletto Berlusconi cerca di difendere la piccola figura dell’Italia a un vertice piccino.

“I giornali disinformano. I lettori dovrebbero scioperare per insegnare a chi scrive a non prenderli in giro”. Il premier Silvio Berlusconi, a San Paolo del Brasile per una visita istituzionale, ha inaugurato il viaggio attaccando la copertura dedicata dalla stampa italiana al vertice G20 in Canada: “I resoconti sono l’esatto contrario della riunione”, ha detto. “Da molti mesi”, ha aggiunto, “vedo una disinformazione inconcepibile”. Beh, buona giornata.

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Ha ancora senso il G8?

L’ULTIMO G8 di Vito Tanzi -lavoce.info

Gli otto grandi del mondo si incontrano tra pochi giorni in Italia, a L’Aquila. Ma ha ancora senso una riunione dei G8, quando ne sono esclusi paesi come Brasile, Cina o India? Tanto più che le decisioni prese dal G8 non saranno certo accolte con entusiasmo da paesi che non hanno avuto nessuna voce in capitolo. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo.

Tra pochi giorni, l’Italia ospiterà a L’Aquila, presso la scuola della Guardia di Finanza, la trentaquattresima riunione dei G8, i cui rappresentanti sono spesso descritti dai giornali come gli otto “grandi” della terra. Con il passare degli anni il numero dei “grandi” è aumentato rendendo l’appartenenza al gruppo progressivamente meno esclusiva. Certo, è stato più facile aumentare il numero dei membri del club che sostituire i paesi diventati meno importanti con quelli che sono diventati più importanti: nel corso degli anni, i membri sono infatti aumentati da cinque a sette e, nel 2007, con l’ammissione della Russia, si è arrivati a otto. C’è da aspettarsi che nei prossimi anni i G8 diventeranno i G13, con l’ammissione di Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa.

COME DEFINIRLI PICCOLI?

Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa oggi sono ovviamente molto importanti nel mondo e la loro esclusione dal gruppo dei “grandi” sembra strana. Èdifficile considerare paesi come la Cina, l’India e il Brasile come “piccoli”. E forse lo stesso si può dire per il Messico e il Sud Africa. Nel loro insieme questi cinque paesi coprono una proporzione enorme della superficie terrestre. Includono la metà della popolazione del mondo. Posseggono enormi risorse minerarie ed energetiche. Realizzano una proporzione alta e crescente delle automobili prodotte nel mondo. Sono diventati leader in alcuni settori di alta tecnologia, come satelliti, fabbricazione di aerei, tecnologie delle comunicazioni. Con l’eccezione del Messico, questi paesi stanno crescendo più rapidamente degli attuali membri del G8. Non solo: oltre a Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, ci sono altri paesi che per la loro importanza meriterebbero di fare parte del club.È facile quindi capire perché il G20 sta progressivamente rimpiazzando in importanza il G8.

A L’Aquila i G8 prenderanno decisioni – se le dichiarazioni espresse alla fine del summit si potranno considerare “decisioni” – che poi cercheranno di “vendere” alle altre nazioni. Ma è facile anticipare la mancanza di entusiasmo da parte dei paesi che non fanno parte dei G8 verso queste decisioni, alla cui preparazione non hanno partecipato.

DIVISIONI TRA I G8

È allora interessante passare in rassegna i principali temi che saranno discussi a L’Aquila. La conferenza stampa, tenuta a Washington il 15 giugno dal presidente Obama e dal presidente del Consiglio Berlusconi, ci dà qualche informazione. Barack Obama ha menzionato quattro temi: (a) la creazione di una struttura legale permanente e internazionale per combattere il terrorismo; (b) la riduzione degli arsenali nucleari; (c) la sicurezza nella disponibilità di cibo nei paesi poveri; e (d) la discussione della situazione economica mondiale.

Silvio Berlusconi ha dichiarato che l’obiettivo del summit è quello di raggiungere “soluzioni concrete” su molte questioni “estremamente importanti”. E ne ha citate alcune. In primo luogo, sviluppare principi che impediscano il ripetersi della crisi economica e che possano essere accettati da tutti i paesi. Sembrerebbe una missione impossibile. Forse conscio delle difficoltà, il presidente del Consiglio ha aggiunto che questo lavoro probabilmente non sarà completato a L’Aquila, ma ha manifestato la speranza che possa essere ultimato nella prossima riunione dei G20 a Pittsburgh. Questo obiettivo non era stato menzionato da Obama. Sulla sicurezza alimentare nei paesi poveri, Berlusconi ha aggiunto che gli Stati Uniti metteranno a disposizione di vari paesi “una quantità enorme di moneta” per garantire il raggiungimento di quest’obiettivo. Stranamente, Obama non aveva fatto menzione alcuna di queste somme. E data la situazione dei conti pubblici negli Stati Uniti, è improbabile che voglia mettere “una quantità enorme di moneta” a disposizione di altri paesi. Berlusconi ha citato anche i cambiamenti climatici, la riduzione delle emissioni di CO2 e il rilancio del Doha Round. Anche questi sono temi che non erano stati citati da Obama.

Èchiaro che ci sono già divergenze all’interno dei G8 sugli obiettivi importanti da promuovere o raggiungere.
Berlusconi ha dichiarato anche che altri dodici paesi – India, Cina, Sud Africa, Messico, Brasile, Egitto, Corea del Sud, Indonesia, Australia, Olanda, Spagna e Danimarca – parteciperanno a vari incontri collaterali alla riunione dei G8. Due osservazioni. La prima è che è difficile credere che si potrà raggiungere qualcosa di concreto rispetto a temi così difficili in tre giorni. La seconda è che la partecipazione degli altri dodici paesi trasforma de facto il summit dei G8 in un summit dei G20. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo. Riunioni come quella dell’Aquila sono utili per creare rapporti tra i governanti dei paesi più importanti, non per risolvere questioni concrete.
(Beh, buona giornata).

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“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Dopo il G20 di Londra, il G8 in Italia serve a niente. Infatti, diventa uno spot elettorale per il governo italiano.

Il G8 si terrà all’Aquila. Il Consiglio dei ministri, riunito nel capoluogo abruzzese, ha deciso di spostare la sede della riunione degli otto Grandi della Terra, prevista per luglio, dall’isola della Maddalena, in Sardegna, all’Aquila.

“La decisione politica è stata presa – ha detto il ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli – ora naturalmente il presidente del Consiglio deve consultare tutti i capi di Stato” invitati. La proposta raccoglie già i consensi, anche se cauti, del Pd e dei sindacati.

Parere positivo da Londra e Washington. “La decisione spetta all’Italia e la Gran Bretagna assicura piena disponibilità”, fa sapere un portavoce di Downing Street, Lynn Eccles. Sulla stessa linea le reazioni da Washington, per l’alto valore simbolico e la commozione per la tragedia che ha colpito l’Abruzzo. Beh buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

Quello che non è riuscito a fare il G-20 di Londra.

A Londra , i difensori di Wall Street bianchi, alti, anglo-americani, hanno vinto: ma Lula aveva torto sul colore azzurro degli occhi e uno di loro era nero.
Nessun “giro di boa” (Obama) fra i 29 punti, ma:

* un trilione, il riscatto in denaro per l’economia finanziaria, nessuno stimolo per l’economia reale, protezione alle banche sbagliate anziché alle persone giuste, oltre ai 9 trilioni degli USA per gli USA;
* dollari, dollari ovunque, come se non fossero problematici: non c’è verso che quei dollari stampati con disinvoltura non cadano ancora più in basso;
* principalmente per il Fondo Monetario Internazionale, con le altre istituzioni di Bretton-Woods uno dei grandi pilastri del mal-sviluppo;
* senza puntare il dito, “una crisi globale esige una soluzione globale”, nulla di specifico su Wall Street, dove pure è saltata la diga che ha allagato molti, nessuna citazione delle peggiori banche, né dei peggiori fondi e dei loro padroni, neppure la natura precisa di quel che è andato storto (facendo espiare Madoff per tutti loro), neppure nominando i paradisi fiscali (su richiesta di Obama, ma l’ha fatto l’OECD);
* nessuna menzione dei meno colpiti: cioè le banche islamiche e l’economia reale cinese con crescita stimata al 5% quest’anno (10% sulla costa, 0% all’interno) – ma per altre ragioni; né di quanto possiamo imparare da loro;
* nessun piano regolatore dettagliato noto, per timore che le pecche del sistema diventino note e facilmente utilizzabili per identificare le istituzioni responsabili. Piazzare burocrati statali nei consigli d’amministrazione non servirà granché;
* identificato un solo colpevole: il protezionismo;
* e, in tutta onestà, un piccolo aiuto d’emergenza per alcune vittime dell’inondazione fra i poveri dei paesi poveri.

Ma nessuna riparazione alla diga. Il G20 combina il peggio del capitalismo e il peggio del socialismo USA, togliendo ai poveri per dare ai ricchi, accumulando denaro al di sopra di economie reali stagnanti, invitando la speculazione, non l’investimento, preparando la prossima, peggiore, crisi.

Partono dall’estremità sbagliata. L’economia reale soffre di sotto-produzione di beni indispensabili accessibili e sovra-produzione di articoli comuni per l’enorme ceto medio mondiale, il cui potere d’acquisto e credito sta calando, mentre le classi alte sono in buona forma. Un commercio privo di regolamentazione favorirà i beni di lusso.
Come ha stimato l’Oxfam, l’interesse di una settimana sul denaro del riscatto renderebbe sicuro il parto delle gestanti ovunque nel mondo, per un anno. Ma quel denaro non è disponibile. Impariamo dai cinesi, facendo cooperare il settore pubblico e privato per far sì che i più bisognosi producano da sé ciò di cui hanno maggiore necessità, cibo e abitazione, sanità e istruzione, infrastrutture che comprendono l’energia verde, e combinando il consumo dei beni necessari prodotti in proprio, in modo sostenibile, con un maggiore potere d’acquisto. Aggiungiamo a tutto ciò un keynesismo massiccio, sino ad arrivare agli strati più bassi del ceto medio, e si creerà una domanda che può far decollare l’economia reale. Le classi alte non potrebbero mai fare altrettanto da sole.

Questo costerebbe denaro che si potrebbe stornare dalle enormità dei riscatti e dagli stupidi bilanci militari. Alle persone colpite dalle banche che stanno affondando bisognerebbe offrire posti di lavoro e beni indispensabili da sovvenzionare con tasse sul lusso, contro un consenso di Washington morto da tempo. Più importante della regolamentazione è la (ri)costruzione di banche decenti, con un solido sostegno dell’economia reale per le loro transazioni finanziarie, separando le banche di risparmio da quelle d’investimento (leggi: speculazione), non assicurando le seconde, e lasciando fiorire valute regionali, non qualche formula cinese. Non siamo pronti, né mai lo siamo stati, per una valuta globale e particolarmente non per dare a un solo paese il privilegio di pagare i suoi debiti stampando altra moneta in proprio.

L’indice Dow Jones salirà in risposta al G20, contemporaneamente alla previsione del FMI di crescita mondiale solo al 2%, probabilmente già troppo alta. Il G20 riprodurrà la vecchia asincronia fra i tassi di crescita della finanza e dell’economia reale. Benvenuta quindi la prossima crisi economica, made in London.
E poi la NATO, disperatamente in cerca di reinventarsi; in colloqui segreti, probabilmente tali per nascondere il segreto di non avere segreti. Una scelta davvero scialba quel danese. Il punto non era la sua insistenza sulla libertà d’espressione, ma la sua mancanza di comprensione fra la libertà e l’umiliazione e il suo coerente rifiuto di dialogo con i musulmani danesi, gli ambasciatori arabi e il segretario generale dell’ Organizzazione della Conferenza Islamica. Averlo d’ora in poi a capo di quell’enorme macchina militare schierata contro l’Islam più che contro qualsiasi altra cosa, è un grave errore, a prescindere da quale merce di scambio sia stata data alla Turchia. Il valore simbolico di non eleggerlo sarebbe stato enorme, e positivo. La tavola è apparecchiata per la prossima crisi militare, made in Strasbourg.

Forse dovrebbero prestare più attenzione a un Obama pensoso in un’intervista in cui si esprimeva più liberamente, pensando ad alta voce sul non voler assumere alcun monopolio della verità ma impegnandosi nel dialogo, senza forzare gli altri ad alcuna posizione ma ascoltando, negoziando, per arrivare a compromessi. Con tale modalità il mandato divino e l’eccezionalismo sono finiti e l’impero USA sta declinando e cadendo man mano che il potere culturale e politico diventano più simmetrici.

Bene, bello, andiamo avanti. Ma c’è ancora il potere economico da ridisegnare per un beneficio mutuo e uguale, non solo fra i vari paesi, ma anche fra le élite e la gente. Il G20 è stato carente in questo. E c’è il potere militare da riprogettare, e non solo riducendo l’eccesso di capacità letale nucleare di un terzo, o tagliando le 761 basi in 158 paesi. Arriverà il momento in cui tutto ciò finirà nella pattumiera della storia, sostituito dalla capacità di risoluzione del conflitto. In nessun punto dei comunicati del G-20 e della NATO-28 c’è una qualche indicazione di come potrebbe configurarsi una soluzione accettabile da tutte le parti.
L’Occidente è ormai indietro. Non sorprendiamoci se il resto del mondo non aspetta, ma cerca una propria strada. (Beh, buona giornata).

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: G 20. AND NATO. AND THE WORLD
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=1084

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La crisi e la protesta. Naomi Klein: “A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.

Intervista a Naomi Klein di Antonio Carlucci, da L’epresso.

I giovani che sono scesi in piazza sono molto arrabbiati. E gridano ai loro leader politici di salvare il pianeta e non solo le banche e le assicurazioni… Naomi Klein, la scrittrice che ha dato forma al movimento con due libri, ‘No Global’ e ‘Shock Economy’, e che da anni scrive per ‘L’espresso’, giudica per la prima volta quanto è accaduto a Londra, in Francia, a Strasburgo. Paragona il movimento di oggi a quello che abbiamo visto nelle piazze prima dell’11 settembre 2001, giudica la nuova leadership americana di Barack Obama, dice la sua sulle decisioni del G20, sottolinea le differenze che ci sono in questo movimento in Europa e negli Stati Uniti. E dice che chi è sceso in piazza in questi giorni “dimostra di avere etica, morale e principi”.

Come giudica le manifestazioni di Londra in occasione del G20 e quelle di Strasburgo nei giorni del summit della Nato?
“Con un nuovo stato d’animo e in forme diverse stiamo assistendo al ritorno delle grandi proteste che ci sono state in tutto il mondo, compresa l’Italia con Genova, prima dell’11 settembre 2001 dove si fusero insieme il no alla globalizzazione, la protesta contro le ineguaglianze nel mondo del lavoro e la richiesta di maggiore attenzione verso l’ambiente”.

Quella fiammata si spense dopo l’11 settembre per riaccendersi di tanto in tanto e senza una strategia. Ora accadrà lo stesso?
“Il movimento arretrò perché i sindacati e i partiti politici non vollero essere associati direttamente con un movimento di azione diretta e radicale del quale avevano paura. Adesso mi pare che le cose siano diverse: se guardiamo alle strade di Londra vediamo che, fianco a fianco, sfilano giovani attivisti di matrice radicale e vecchi sindacalisti, precari alle prese con lavori che oggi ci sono e domani no e militanti ambientalisti e pacifisti. È una nuova scelta di militanza che ha alla sua base la crisi economica e i problemi di vita quotidiana, anzi di sopravvivenza quotidiana, che milioni di persone vivono a causa delle scelte delle leadership mondiali”.
Non vede anche un filo populista che lega insieme la protesta contro i banchieri, quella contro i politici, quella contro i ricchi e, assai spesso, quella contro gli immigrati accusati di sottrarre posti di lavoro nel paese dove arrivano?
“Mi pare che il dato unificante e prevalente dei partecipanti alle manifestazioni sia la rabbia. E non è un sentimento artificiale, costruito sulla ideologia: la gente è arrabbiata e ha il diritto di esserlo. Il problema è dove sarà diretta questa rabbia, se sulle persone responsabili delle diverse crisi che attraversano il nostro mondo e se invece rischia di essere deviata contro coloro che stanno peggio, per esempio gli immigrati. A Londra il movimento ha detto chiaro che i responsabili della situazione sono i banchieri e i politici”.

Come valuta proteste come quelle avvenute in Francia dove i lavoratori delle fabbriche o degli uffici a rischio di chiusura hanno sequestrato direttori e manager?
“In Francia c’è da sempre un movimento di lavoratori strutturato e questi episodi sembrano un ritorno alle tattiche utilizzate nel 1968. Io non sono d’accordo con chi dice che c’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati con i capi e che non bisogna fare azioni di quel tipo. Io ritengo che ci sia il diritto alla rabbia e alla lotta per i propri diritti a cominciare da quello del lavoro. Se non ci fosse un movimento organizzato, sapete che cosa accadrebbe? Che le uniche vittime della crisi economica sarebbero i lavoratori. Come sta accadendo negli Stati Uniti dove i lavoratori vengono licenziati e i manager che hanno portato al disastro le aziende ricevono bonus milionari”.

Visto che lei vede un movimento che ritorna in campo, non sembra proprio che negli Stati Uniti la rabbia si stia esprimendo nelle strade. Anzi, i luoghi più affollati sono le fair job, i raduni dove si incontrano disoccupati in cerca di un nuovo lavoro e imprenditori che hanno bisogno di lavoratori…
“Anche in America la rabbia c’è. Ma è stata deviata verso altri obiettivi. Provate a guardare la sera la Cnn, quando Lou Dobbs se la prende con gli immigrati messicani o sentite Rush Limbaugh su Fox Tv o sulla catena di radio che lo ospitano che dice agli americani che non è colpa dei banchieri e di Wall Street, ma del vostro vicino che vi porta via il lavoro”.
Ma da quasi tre mesi alla Casa Bianca non c’è più George W. Bush ma Barack Obama. E quelli che lei ha citato non amano Obama…
“Quella propaganda contiene elementi di cultura politica fascista ed è certamente diretta anche contro Obama. Essendo un afro-americano, il presidente è un buon bersaglio per questa reazione della destra populista. Anche se non ha ordinato il ritiro immediato dall’Iraq, vuole una escalation in Afghanistan e usa i soldi dei cittadini per salvare le banche private, siamo però al paradosso che la sinistra e i liberal difendono a spada tratta Obama per proteggerlo dalla destra populista e reazionaria. Tutto ciò impedisce al movimento di fare quanto è accaduto a Londra o in Italia, dove gli studenti hanno manifestato gridando al capo del governo Silvio Berlusconi che non vogliono essere loro a pagare una crisi che non hanno causato”.

Lei non vede grandi differenze tra l’era Bush e l’era Obama.
“Ce ne sono, eccome se ce ne sono. In Inghilterra, per esempio, tra il premier Gordon Brown e i suoi avversari conservatori. Ma negli Stati Uniti si pone troppa enfasi sul percorso elettorale che una volta concluso porta automaticamente alla nascita di un culto della personalità di cui oggi Obama è vittima e protagonista. Certo che Obama è meglio di John McCain ma non per questo la sinistra deve automaticamente esserne il difensore su tutta la linea”.

Il movimento della rabbia, come anche lei, critica il salvataggio delle banche. Ma Obama ha portato in Parlamento – e ne ha ottenuto l’approvazione – una legge in cui ci sono miliardi di dollari destinati a lavori pubblici o a creare posti di lavoro. Sbagliato anche questo?
“No. Ma, visto che spesso si paragona l’oggi con le scelte di politica economica di Franklin Delano Roosevelt dopo la Grande Depressione, molti dimenticano che Roosevelt arrivò alla Casa Bianca con un piano di rinascita decisamente vago e che le scelte giuste arrivarono grazie alla pressione politica della sinistra e dei sindacati. Oggi quella organizzazione non esiste, il sindacato dell’auto non sembra voglia dare battaglia. Oggi c’è l’Obamamania, l’attesa messianica intorno alla sua figua e l’interesse spasmodico di sapere perché la First Lady Michelel porta abiti senza maniche. Io noto invece che il principale dei suoi consiglieri economici è Lawrence Summers il quale è direttamente responsabile della terapia shock alla quale fu sottoposta la Russia dopo la caduta del Muro di Berlino. E abbiamo visto che cosa è diventato quel paese. È Summers che ispira gran parte delle scelte economiche del presidente Obama”.

La Casa Bianca ha anche lanciato il più grande piano di sviluppo delle energie alternative. Che cosa ne pensa?
“Penso che sia il risultato della esistenza di un forte movimento ambientalista in Nord America e delle loro iniziative ultra decennali. Io giudico positivamente queste scelte di Obama perché rispondono a richieste di cambiamento molto diffuse. Purtroppo nel piano di Obama mancano elementi importanti come una nuova politica per il trasporto pubblico, settore strategico per la costruzione di un Paese più verde”.

A Londra il movimento ha invaso le strade. Ora lei prevede che, finito il G20, i manifestanti se ne staranno tutti a casa in attesa del prossimo summit, magari il G8 di luglio in Italia, o la loro rabbia diventerà attività politica quotidiana?
“Dipende da molti fattori. Non bisogna comunque guardare solo a quanto avviene intorno ai summit mondiali dove i media riportano ogni più piccolo dettaglio. Nel mondo ci sono tanti episodi giornalieri di manifestazione di questa rabbia che non vengono pubblicizzati. Quello è il movimento che vive e cresce”.

E che spesso degenera in episodi di violenza. Sarà il problema con il quale si dovrà confrontare nell’immediato futuro?
“Non sono in grado di fare previsioni di questo tipo. Proprio stamattina ho letto un articolo su una ragazza finita in cella per aver rotto una vetrina della Royal Bank of Scotland a Londra. A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.
A Strasburgo non ci sono stati solo vetri rotti…
“Quando c’è la rabbia è inevitabile. Io ho paura che possa esserci una reazione esagerata a questi episodi e una criminalizzazione di qualsiasi forma di protesta. Meno male che in questo momento molti poliziotti solidarizzano con i manifestanti, visto che sono colpiti anche loro dagli effetti della crisi”.

Abbiamo cominciato questa conversazione dalla manifestazioni di Londra contro il G20. Qual è il suo giudizio sul risultato del summit?
“Delusione. La retorica ha coperto e nascosto la portata delle decisioni. Gordon Brown ha solennemente dichiarato che è finita l’era del Washington consensus. Invece, poi è stato deciso di stanziare un trilione di dollari alla Banca mondiale e al Fondo monetario che sono sempre stati lo strumento del Washington consensus”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Lavoro Popoli e politiche

A Londra contro il G20, a Strasburgo contro la Nato. Mentre si preannunciano quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga sale la protesta contro la crisi economica.

di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine», maggio 2009

Da Londra a Strasburgo, dal G20 dell’economia ai ventotto della NATO. In entrambe, la cornice di circa cinquantamila manifestanti. Pacifisti, ma non sempre pacifici. E poi botte e botti, vetri spaccati, arresti, feriti, e anche un morto. Sono oramai decenni che i vertici internazionali, oltre a radunare un’élite di paesi autoeletti, suscitano estese e vigorose adunate di piazza. Da qualche tempo però il termometro dei movimenti dava segnali di stanchezza. Quel tempo ora sembra finito, sulla scia di una recessione che tende a saldare le diverse istanze di protesta, sdoganando al contempo la possibilità di violenza.

A Londra i promotori della manifestazione si aspettavano diecimila persone al massimo, ne sono giunte almeno quattro volte tanto. Un livello di partecipazione inusuale per i britannici, con operai, contadini e famiglie intere giunti da ogni angolo del paese. A favorire il successo collettivo è stata del resto una coalizione senza precedenti tra le organizzazioni di base. La marcia di fine marzo, sotto il motto di Put People First (“mettete le persone al vertice all’agenda”), era stata mobilitata da un’“alleanza arcobaleno” senza precedenti, annoverando centocinquanta entità, tra sindacati, gruppi cristiani, associazioni ambientaliste, ong di cooperazione internazionale, movimenti pacifisti, sigle politiche e anarchiche.

Tutti a rivendicare la stessa cosa: “lavoro, giustizia e clima”. E tutti a intonare slogan esplicitamente anticapitalisti. Operatori umanitari di Save The Children che urlavano contro la logica del profitto, ecologisti di Friends of the Earth che se la prendevano con le agenzie di credito. Dopo vent’anni di assenza, la politica ha rifatto irruzione anche in ambienti per definizione a-politici. Ed è successo a partire dal riconoscimento del fatto che l’opposizione alla guerra non è un’istanza diversa dalla rivendicazione dei diritti sociali, né dalla lotta per un’economia a minor dispendio energetico. Sono enunciazioni alternative di una medesima problematica, che viene oramai riconosciuta nella richiesta condivisa di una svolta di sistema.

Altro che “usual stuff”, come hanno commentato la manifestazione parecchi politici ed editorialisti d’oltremanica. A Londra è andata in scena una ribellione collettiva quanto radicale. Di più, è tornata la violenza, raccogliendo sottilmente un esteso consenso. Quasi tutti i gruppi presenti invocavano ufficialmente un fermo no a ogni proposito di scontri o saccheggi, per non dividere il movimento e non offuscare i contenuti della protesta. Sta di fatto che perfino docenti universitari, come l’antropologo Chris Knight (poi prontamente sospeso dalla East London University), erano giunti nei giorni precedenti a ipotizzare il “linciaggio” e l’“impiccagione” dei banchieri.

E sta di fatto che i dimostranti hanno poi tenuto per ore sotto assedio le sedi delle banche, arrivando anche a irrompere e a innescare un rogo nella Royal Bank of Scotland, icona della crisi e dell’aiuto di Stato accompagnato da laute buonuscite per i dirigenti. La stessa Scotland Yard ha del resto giocato col fuoco, alimentando nei giorni precedenti l’allarme di una manifestazione “molto violenta”, per poi rivendicare il merito del suo successivo contenimento e giustificare i propri eccessi. D

alla polizia anche l’allerta, su cui aveva ironizzato Knight, per l’incolumità degli impiegati della City: su questo nulla di fatto, naturalmente, proprio in ragione della radicalità della protesta; a differenza dei governi, i manifestanti non ce l’avevano contro una “finanza cattiva” distinta da una “buona”: ce l’hanno col modello finanziario nel suo insieme, a partire dai meccanismi debitori di orientamento politico imposti dal Fondo Monetario Internazionale, al quale il summit londinese ha concesso una nuova linfa da mille miliardi di dollari.

I tafferugli, comunque, ci sono stati, con manganelli e lacrimogeni, e una trentina di arresti. E poi Ian Tomlinson, “morto per un malore”, anche se decine di testimoni raccontano di una situazione di “omicidio colposo”, ovvero del decesso avvenuto durante la fuga da un’immotivata carica della polizia contro un assembramento pacifico.

La morte di Tomlinson ha contribuito a scaldare gli animi nella successiva adunata qualche giorno più tardi a Strasburgo. Il rigetto della versione ufficiale dei fatti si è accompagnato al sentimento che con una manifestazione pacifica c’è poco da perdere in termini di rischi di incolumità personale e poco da guadagnare in termini di capacità di influenzare i vertici della più grande alleanza militare al mondo. Lo aveva avvertito la storica francese Sophie Wahnich dalle colonne di «Le Monde»: il contesto che precedette la violenza della rivoluzione francese è significativamente analogo a quello odierno. La Francia resta la patria degli individui, col più basso tasso di sindacalizzazione in Europa, e questo, ai fatti, non inibisce ma scatena il potenziale di irruenti ed estese manifestazioni di piazza. I sindacati, così come gli altri movimenti associativi, hanno poi un’essenziale capacità di “auto-trattenimento della violenza”, ma questa capacità viene meno quando è l’autorità a rendersene protagonista in modo indiscriminato, e quando il disagio sociale è tale da coinvolgere il ceto medio. Tutte condizioni che, almeno nella percezione dei dimostranti, sono ora riemerse in modo lampante, e Strasburgo ne è stata la conseguenza esemplare.

Le strade della riunione della NATO sono state un vero e proprio campo di battaglia. Ordigni artigianali, pallottole di gomma, sassaiole, idranti, offensive dei manifestanti verso i poliziotti e viceversa, autobus e tram bloccati, vetrine di banche e negozi sventrate, un albergo del centro messo a fuoco, assalti (vani) a un ponte e alle strade percorse dai capi di Stato e di governo allo scopo di bloccare il vertice stesso. Quel vertice che ha poi sancito l’allargamento dell’Alleanza Atlantica nei Balcani, con l’ingresso di Croazia e Albania, e il rafforzamento dell’offensiva lanciata oltre sette anni fa in Afganistan attraverso l’invio di altre migliaia di soldati.

«Da noi solo vetri rotti», giustificavano diversi manifestanti, che hanno del resto sofferto parecchie decine di feriti e centinaia di arresti, oltre al blocco di molti alla frontiera franco-tedesca prima ancora che il summit iniziasse. A ritenere lo scontro un’opzione ineluttabile, in ragione della sproporzione delle forze in campo e delle azioni belliche ordinate dalla Nato, non era solo qualche frangia “black-bloc”: spaccature e litigi tra dimostranti violenti e non-violenti ci sono state, ma il fronte dei primi andava ben oltre la cerchia abituale dei cosiddetti “anarco-insurrezionalisti”. Secondo «il manifesto» ha coinvolto addirittura la metà del corteo.

Ogni tentativo, giornalistico o poliziesco, di dividere il dissenso isolando i bellicosi è del tutto saltato a Strasburgo. Come a Londra, le categorie ideologiche e le appartenenze di gruppo si sono confuse le une con le altre. In manette sono finiti perfino quieti ecologisti, colpevoli di cercare di conquistare il citato ponte sul Meno tuffandosi nelle acque gelide del fiume. E mentre Obama raccoglieva ovazioni nel Palazzo dello Sport tra l’élite studentesca accuratamente selezionata dal governo francese assieme all’amministrazione regionale, la rabbia della strada raccoglieva il consenso dei “banlieusards” del posto.

Lontano dai riflettori dei summit e dalla quiete delle sedi europee, la periferia della capitale alsaziana è del resto terreno quotidiano di scontri, sassaiole e gomme tagliate. Segnali drammatici di un disagio crescente, che avvicina progressivamente le decine di centri sociali cittadini col proletariato locale. Ed è una saldatura che trova sempre più riscontro nella protesta dilagante in tutta Europa.

Le manifestazioni di piazza hanno fatto crollare nelle ultime settimane i governi in Islanda, in Lettonia e in Ungheria. Dublino è stata attraversata da cortei senza precedenti con centinaia di migliaia di operai e impiegati a protestare contro gli ennesimi tagli di bilancio che hanno frantumato il potere d’acquisto irlandese fino a portare il paese sull’orlo della bancarotta. A Vilnius i dimostranti hanno preso addirittura d’assalto il Parlamento dopo l’annuncio di un rialzo delle imposte per i lavoratori dipendenti.

E si muove ora anche la Confederazione dei Sindacati Europei, storicamente confinata a funzioni di rappresentanza presso le istituzioni dell’Unione. Per metà maggio sta mobilitando quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga. Segnali di una protesta che oramai varca i confini nazionali, oltre che quelli tematici e ideologici. Ed è un disagio che, armato di pietre e bastoni, non esita a definirsi «resistenza». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Nella lista dei paradisi fiscali manca l’Italia, inferno per il Fisco.

(Fonte: RaiNews24)

Il G20 di Londra ha preso la storica decisione di chiudere l’anomalia dei cosiddetti ‘paradisi fiscali’, prevedendo una lista di cattivi ed una serie di sanzioni a chi non collabora che saranno decise a breve dai ministri delle Finanze. Un provvedimento che e’ il segnale della fine di un’era, anche se tutti sono consapevoli che il percorso e’ tracciato ma non concluso.

Costa Rica, Malaysia, Filippine e Uruguay sono presenti nella lista nera dell’Ocse sui paradisi fiscali.

Nella lista, pubblicata dopo che i leader del G20 hanno deciso di portare avanti una lotta ai paesi non cooperativi, l’Ocse ha inoltre citato alcuni Paesi che non applicano completamente le regole internazionali: la lista numero due – la lista “grigia” – comprende 38 Paesi fra i quali Monaco, Liechtenstein, Antille olandesi, Belgio, Svizzera e Lussemburgo, e riguarda Stati che pur essendosi impegnati a rispettare le regole dell’Ocse non le hanno “in sostanza” applicate. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Il piccolo che non sa stare tra i grandi.

Immancabile la gaffe del Cavaliere, costante di molti suoi incontri internazionali. Dal gesto delle corna in poi. Oggi Berlusconi è stato bersaglio del ‘richiamo’ della regina Elisabetta. Al momento della foto di gruppo si sente la voce del Cavaliere che grida “Mister Obama…”, richiamando l’attenzione del presidente Usa che si gira verso di lui. Ma si sente anche quella di Elisabetta che si gira e riprende pubblicamente il tono del nostro premier: “Ma perché deve gridare così forte…?”. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia Lavoro

Di che cosa parliamo quando parliamo di crisi/2.

da ilmessaggero.it

Almeno 35 mila i partecipanti alla manifestazione anti-crisi e anti-globalizzazione in corso a Londra dalle 12 locali di oggi (le 13 in Italia), primo appuntamento in vista del G20 della settimana prossima. Il corteo si è svolto all’insegna dello slogan Lavoro, Giustizia, Clima. Proteste anche in Germania e in Belgio. Il G20 riunisce i 19 paesi più industrializzati (quelli del G8 in primis) con l’Unione europea. E un forum creato per favorire l’internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle nuove economie in sviluppo.

La protesta a Londra. Dal Victoria Embankement, lungo il Tamigi, il corteo è transitato dalla piazza del parlamento di Westminster, con alcuni gruppi che si sono staccati per fare una puntata davanti al numero 10 di Downing Street, la residenza del premier Gordon Brown attualmente in Sudamerica. Il raduno, battezzato ‘Put People First’ (La gente prima di tutto), è stato preparato da una coalizione di oltre 100 gruppi che vanno dalla Tuc, la confederazione dei sindacati britannici, agli ambientalisti, ai pacifisti e agli anarchici. Tra gli slogan più gettonati, quello coniato da Barack Obama durante la sua corsa verso la Casa Bianca: ‘Yes, we can’.

Germania. Proteste controil vertcie anche a Berlino e Francoforte. Secondo la polizia in piazza almeno 10 mila persone. Gli organizzatori parlano di 25 mila partecipanti nelle due città.

A Bruxelles una cinquantina di manifestanti hanno indossato maschere raffiguranti i venti leader mondiali del G20. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia

Il G20 necessita di ampie vedute, che attualmente sembrano mancare.

di Barry Eichengreen da lavoce.info

Una delle conseguenze più ovvie della crisi 2008 è senz’altro stato il colpo da maestro che ha permesso al G20 di sostituire, nella direzione dell’economia mondiale, il G7 o G8. Se non si vuol credere a questa affermazione, basta considerare la risonanza mondiale ottenuta dal gruppo dei 20 in novembre, paragonandola alla scarsa eco riscossa dal meeting romano dei ministri delle Finanze del G7.
Nessuno pensa che il ruolo possa ormai venire esercitato, e ancor meno diretto, dal G7. Così come nessuno pensa che sia il G7 a dover riformare l’Fmi e la Banca Mondiale, né che sia in grado di fornire una risposta globale, monetaria e fiscale alla più grave recessione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale. Che si tratti di trovare un accordo, o di sviluppare nuove idee e di procedere alla loro realizzazione, tutti concordano sul fatto che sia compito del G20. Ma ciò comporta parecchi problemi.

I PROBLEMI DEL G20

Innanzitutto, sono problemi pratici. È più complesso mettere in moto un G20 di un G7. E non è pensabile una teleconferenza a 20: non è certo una struttura adatta a spegnere un incendio. Un meccanismo così lento non riuscirebbe mai a trovare risposte idonee nell’arco di un week-end, in tempo per la riapertura dei mercati asiatici del lunedì mattina. Sarebbe quindi auspicabile strutturare uno strumento più agile, a piccoli gruppi, che non ricalchino però il G7.
In secondo luogo, esistono problemi di legittimità. Chi ha delegato il G20 a rappresentare i 190 paesi del mondo? Quale accordo, quale trattato internazionale descrive i meccanismi di selezione e rotazione? Che dire di quei paesi che non vi partecipano, come quelli dell’Asean (che non capiscono perché dovrebbero essere, per esempio, rappresentati dall’Indonesia la quale, a parte tutto, ha un Pil inferiore alla Thailandia)? E dov’è l’Iran, che ha un’economia ben più forte dell’Argentina?
In terzo luogo, esistono tensioni, per giunta esacerbate dalla riforma in corso del Fmi, con il Comitato monetario e finanziario internazionale (International Monetary and Financial Committee), che conta 24 membri non 20. La maggior parte dei 24, ma non tutti, fra l’altro, rappresentano gruppi di paesi. Gli statuti del Fmi attribuiscono al Comitato un potere costituzionale, per decidere sulle priorità strategiche e politiche del Fondo. Tali decisioni dovrebbero rientrare anche nei poteri del G20. Ma in caso di disaccordo tra le due istituzioni a chi dovrebbe dar retta la comunità internazionale?
E infine, il G20 ha organizzato il suo programma di lavoro in quattro gruppi di lavoro: il primo gruppo si occuperà di come rinforzare e regolamentare il controllo finanziario, il secondo di come incoraggiare la cooperazione internazionale, il terzo di riformare il Fmi e le banche di sviluppo multilaterali e il quarto di mantenere aperti i mercati. Ma questa organizzazione non è ottimale. I quattro settori sono interconnessi; le riforme politiche dipendono da quelle inerenti agli altri settori. E per giunta è più probabile che si pervenga a un buon accordo, se i problemi son tutti messi contemporaneamente sul tavolo. Si potrebbe in tal modo raggiungere compromessi tra paesi, disposti a rinunciare a qualche vantaggio in cambio di altri. Anzi, per dirla tutta, è improbabile che si arrivi a un accordo in qualsivoglia campo, senza una possibilità del genere.

CHI DOVREBBE FAR PARTE DEL G20?

In primo luogo, bisognerebbe rendere più coerente l’appartenenza dei membri al G20 e al Comitato. Il che implicherebbe la trasformazione del G20 in un G24. Si potrebbe per esempio ipotizzare una rotazione tra paesi, che rappresenti le diverse circoscrizioni del Fmi: non sarebbe un’idea malvagia. Certo, non tutti i membri troverebbero il loro tornaconto e alcuni dovrebbero condividere, in base a una prestabilita rotazione, il loro seggio nel G20 con altri rappresentanti della loro area. Ma il prezzo di transazioni e compromessi sarebbe compensato da una maggior legittimità e dall’eliminazione di potenziali conflitti tra G20 e Comitato. Quest’ultimo potrebbe essere trasformato in Consiglio di sorveglianza sul Fmi, il che del resto è previsto dagli statuti dell’ istituzione.
In alternativa, o forse in aggiunta, si potrebbe ipotizzare un cambiamento nella composizione dell’Imfc, che attualmente include tra i suoi 24 membri ben 7 paesi dell’Unione Europea. Non parliamo neanche, per carità, di rappresentante unico dell’Unione: è stato già proposto per il Fmi e la proposta ha suscitato un vespaio. Non si può, tuttavia, non sottolineare che l’Unione fa parte del G20 e che, se vuole seriamente farlo divenire il comitato guida dell’economia mondiale, deve necessariamente rivedere la posizione conflittuale, relativa alla sua rappresentanza in seno al Comitato. In tal modo si rafforzerebbe il ruolo dell’Imfc nel Fmi.
È inevitabile che il G20 si trasformi. D’altronde, deriva esso stesso dall’evoluzione del G33, trasformatosi in seguito in G22, dopo la crisi asiatica del 1997-98. Tale precedente aiuta a comprendere che sono unicamente gli interessi dei membri attuali che impediscono al G20 di evolvere naturalmente in un gruppo compatibile con l’Imfc.

RIUNIRE I GRUPPI DI LAVORO

Riunire i quattro gruppi di lavoro in un negoziato più ampio: ne profitterebbe il mondo intero, vale a dire paesi industrializzati e paesi emergenti. Il problema basilare per il G20, ma anche per tutta l’economia mondiale, è quello di riequilibrare la domanda, di sostenere la crescita globale e di prevenire situazioni di crisi, come quella attuale.
I paesi industrializzati ritengono che spetti ai paesi emergenti stimolare la domanda per sostenere la crescita globale e impedire che sopravvengano squilibri globali. Ma, dal canto loro, e non senza ragione, i paesi emergenti hanno capito, col verificarsi dell’attuale crisi, che necessitano di maggiore, e non minore, assicurazione contro la volatilità. In altri termini, per ammortizzare gli shock, necessitano di riserve di valuta estera più cospicue, che possono ottenere solo con forti surplus di parte corrente e svalutando la loro moneta nei confronti del dollaro.
Questa contraddizione può essere risolta offrendo accesso ad ampie linee di credito presso il Fmi a lungo termine e senza condizioni alle economie emergenti che aspirano a entrare nella logica dei paesi industrializzati. Ciò permetterebbe loro di attingere alle riserve del Fondo, e di conseguenza, di effettuare minori accantonamenti. I mercati di tali paesi, grazie alla capacità di stimolare la domanda, sarebbero invogliati in tal senso, anche se ciò comportasse minori avanzi di parte corrente, tassi di cambio meno favorevoli e meno accumulo di riserve.
Tale soluzione però presuppone ulteriori cambiamenti. In special modo occorre rivedere quella facilità con cui sono stati concessi crediti a breve termine: i paesi devono infatti poter considerare il credito come una reale garanzia, accedendovi senza che ci sia bisogno di crearlo espressamente. I crediti devono inoltre essere concessi con scadenza ben oltre i tre mesi: le esperienze recenti hanno insegnato che la volatilità e il bisogno urgente di finanziamenti possono eccedere tale durata. Inoltre i paesi devono poter contare su crediti più ampi, perché anche in questo caso l’esperienza insegna che i rovesci di flusso di capitali possono essere enormi.
Profondi cambiamenti devono avvenire anche nel sistema di governo del Fmi, per conferirgli quella legittimità che gli manca nei paesi emergenti. Ciò significa andare ben oltre i provvedimenti simbolici del 2006-08 su quote, diritti di voto nonché mezzi per dar voce ai paesi emergenti.

G20: UN PIANO D’AZIONE GLOBALE

In aprile, il G20 pubblicherà un rapporto in cui, tra l’altro, verranno indicati nuovi provvedimenti, atti a instaurare un inedito equilibrio globale e la riforma del Fmi. Se però quest’ultima non riuscisse a favorire gli interessi dei mercati emergenti, non verrebbero adottate neanche le misure volte a riequilibrare l’economia mondiale e a stabilizzare la domanda globale, anche se fortemente volute dai paesi industrializzati. Insomma, il G20 necessita di un progetto globale. Bisogna appurare quali siano i sacrifici da affrontare, se si vuol raggiungere risultati concreti negli altri settori. Ma necessita anche di ampie vedute, che attualmente sembrano mancare. Tutti questi problemi possono essere risolti. L’importante è che vengano identificati e quindi affrontati. (Beh, buona giornata).

(traduzione di Daniela Crocco)

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