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Quello che Papa Francesco non ha mai detto sull’Argentina.

16 metri quadri, romanzo. Dall’orlo di un cratere erotico al ventre del vulcano nell’inferno argentino

di Riccardo Tavani

Il protagonista maschile di questo ultimo sconvolgente romanzo di Gianni Perrelli si chiama SergioTarantini. Nato a Buenos Aires è stato allevato fin da bambino a Roma.
Senza madre – da solo con il padre Atilio –, dalle sponde del Rio de La
Plata si è ritrovato su quelle del Tevere.

Sul Tevere affacciano i 16metri quadri del titolo nei quali Sergio si è murato vivo per cercare di dare una forma comprensibile al magma interiore che lo devasta. Sergio, infatti, ha camminato sull’orlo di un cratere ed è precipitato poi dentro il magma ribollente nel suo ventre.

Il personaggio femminile si chiama Carlotta. Anche lei nata a Buenos Aires ma lì cresciuta, in una famiglia agiata e in una casa molto
confortevole. Anche lei allevata quasi soltanto dalla figura del
padre, poiché con quella della donna-madre-padrona è arrivata presto
a incarcerare ogni moto d’affetto. Viene a Roma perché ha il
progetto di realizzare un documentario. Qualcuno la indirizza verso
Sergio.

Eccolo, dunque, Sergio, già semi bendato, sull’orlo del cratere
inquieto. Carlotta è quell’orlo. L’orlo di un erotismo
vertiginoso. All’esterno, lo spettacolo di una bellezza femminile,
giovanile che Sergio non ricordava di aver mai visto in Italia, ma che
forse doveva portarsi sepolto dentro dai suoi pochi anni in Argentina.
All’interno, un buio caratteriale, psicologico, ma tutt’altro
che un vuoto, poiché si ode un movimento, un salire e scendere di un
magma buio ma denso di gas, potenza, temperatura proibitiva.

Carlotta è anche La fuggitiva, proprio nel senso che Proust
dà alla sua Albertine scomparsa. La gelosia immaginativa di Sergio
offre squarci improvvisi della gelosia febbrile di Marcel, ma nello
sfondo più lacerato, nel brusio insensato, nella lingua anch’essa
più fuggitiva delle capitali odierne.

A ogni nuova fuga di Carlotta e – soprattutto – a ogni sua nuova
riapparizione aumenta la condizione di accecamento sull’orlo del
cratere di Sergio, fino al buio totale. Carlotta fugge alla stazione
Termini. Lui la insegue, la raggiunge qualche minuto prima del
fischio del capostazione. “Me ne vado per sempre”, gli dice.
“Perché?”, domanda Sergio. “È così, sono una persona
libera, sono incinta”. Sergio rimane da solo sulla banchina.
Dentro il treno che parte c’è Carlotta. Ma il figlio dentro di lei
di chi è? È il buio più totale, è la caduta, il volo dall’orlo del
cratere verso il fondo del suo magma oscuro.

Il ventre nero, ribollente del vulcano è Buenos Aires. Sergio vi torna,
dopo tanti anni, consciamente alla ricerca della fuggitiva e di quel
figlio suo. “Suo” di chi? Solo di lei? O anche di lui? Ma sa
che inconsciamente sta cercando di svelare un altro mistero, ancora
più originario: il suo di passato, la sua di origine, le tracce della
sua di madre. Inghiottita un giorno nei gironi infernali del sistema
di sequestro, tortura ed eliminazione messo in piedi dalla dittatura
militare, di quella donna nessuno ha saputo più niente.
Di Alicia Domenech, architetta rinomata, grande donna di azione e di pensiero, da tutti ammirata e apprezzata per il suo alto lignaggio umano e morale, non resta più neanche la più vacua ombra di memoria. Solo tre vecchie foto, portate via dal marito Atilio nella fuga precipitosa verso l’Italia, per salvare il loro bambino, Sergio.

Qui Perrelli, attraverso il suo personaggio, entra davvero nel
ventre buio di un inferno e ricostruisce una grande agghiacciante pagina di storia,
restituendole, fin nei dettagli, tutta la dimensione d’immane
tragedia consumata, attraverso i crimini più spietati, dalla follia
del potere costituito contro l’umanità. Sequestro, sparizione e reclusione dentro i
tunnel di tortura della Escuela Mecanica de la Marina (ESMA) o dei
vari Garage Olimpo diffusi per il paese; trasbordo collettivo su aerei
Electra o Skyvan PA-51; apertura del portellone posteriore o ventrale;
rovesciamento istantaneo del carico umano, semi-tramortito e denudato, in
alto Oceano Atlantico. I famigerati “vuelos de la muerte”.

A tutto questo deve aggiungersi l’ultimo orrido tassello, il
picco di follia concepito è consumato da tale sistemico ingranaggio.
Lo strappare i neonati alle puerpere, prima di scaraventarle in
mare, per donarli come prede da adottare alle famiglie del vertice degli
aguzzini che gli avevano scannato le madri e anche i padri.

Perrelli ci guida passo passo dentro questo claustrofobico
strazio, facendocelo sentire come un micidiale pugno che ci arriva
direttamente “dentro” lo stomaco.

E la consistenza inconsistente di un fantasma incancellabile assume ora per Sergio la figura di sua madre Aicia Domenech. Piegata a strisciare sulla soglia tra l’umano e il subumano – come John in Non avrai altro dio – lei mantiene elevato il suo lignaggio umano nel precipizio di quel sotterraneo di segregazione e tortura.

16 metri quardri, di Gianni Perrelli.
16 metri quardri, di Gianni Perrelli.

Non gli sarà stato sufficiente, però, essere scivolato dall’orlo erotico del cratere al magma ribollente nel suo ventre. Un altro assordante, allucinato giro di vite – per dirla con Henry James – lo attende.

Proprio come Marcel Proust nelle ultime righe del Tempo Ritrovato, così anche Sergio Tarantini, alla fine di tutto, potrà affermare la sua capacità di scrivere quel romanzo folle che è stato la sua vita. Il romanzo scritto nella clausura forzata di 16 metri quadri: vero e proprio confessionale e camera di tortura.

E la fine è un salto dentro l’abisso racchiuso in un semplice click. (Beh, buona giornata.)

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Attualità Cultura Libri

Un attacco militare annunciato da Gianni Perrelli suo ultimo libro.

di RICCARDO TAVANI

L’attacco israeliano antisiriano (avvenuto ieri 30 gennaio, ndr) è anticipato e descritto in Il Tunnel l’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, che questo blog ha recensito solo qualche giorno fa.

Fresco di libreria, edito da Di Renzo, il libro fa proprio di quel tipo di attacco a un convoglio militare il centro di una complicata partita a scacchi di tipo politico, spionistico e militare.

Gianni Perrelli è un veterano degli inviati italiani nelle zone più calde e nevralgiche del pianeta, oltre a essere stato corrispondente da New York per l’Espresso. In particolare sono proprio le principali città nelle quali si avviluppa la ragnatela di questa political-spy-story, ovvero Teheran, Damasco, Beirut, e Bagdhad, che Perrelli ha frequentato per anni e conosce fin nelle più riservate ambientazioni.

Ci sono sulla mappa della realtà anche zone di confine e oscuri snodi territoriali di scambio, traffici, doppi giochi e felpati voltafaccia internazionali che Perrelli riproduce non solo nella topografia Buy Viagra ma soprattutto nelle insidie impalpabili che si nascondo nelle atmosfere del via vai quotidiano e che sfuggono a chi non sa leggerne i segni.

È proprio la dimestichezza sia con il quadro generale che con i dettagli che esso contiene che ha fatto intuire a Perrelli che sul quel confine oscillava, un fattore di crisi permanente, incombente e pronto a prendere la forma dell’attacco che proprio ora si è attuato.

Se ne è discusso, ieri, mercoledì 30 gennaio, al Palazzo Fandango Incontro, in via dei Prefetti a Roma, in occasione della presentazione di “Tunnel”. Forse, sempre in virtù di questa conoscenza e intuizione premonitoria, Andrea Purgatori che discuteva con Perrelli del libro, ha fatto riferimento a un bombardamento del passato a Teheran, attuato allora dagli americani, che somigliava molto all’altro obiettivo ieri colpito dagli israeliani, ovvero a un centro di ricerca militare vicino Damasco. Gianni Perrelli, Il Tunnel, Di Renzo Editore, pagine 257, 14 Euro. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cultura Guerra&Pace

“Il tunnel” di Gianni Perrelli: un romanzo in zona reportage.

La copertina di Tunnel
La copertina de Il Tunnel
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
Gianni Perrelli scrive reportages e interviste prevalentemente dall’estero per “L’Espresso”. Dopo una parentesi giovanile nel giornalismo sportivo (era inviato di calcio al “Corriere dello Sport”) è stato caporedattore, capo degli esteri e corrispondente da New York per “L’Europeo” e “L’Espresso”. Ha inoltre diretto il settimanale sportivo “Special”. È autore di saggi e romanzi.
di Riccardo Tavani

L’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, Il tunnel, per i tipi di Di Renzo Editore, è un intrigo di personaggi letterari prima che di città e traffici missilistici internazionali. Da veterano degli inviati e corrispondenti esteri per diversi giornali, l’autore, nel tessere le scene dell’intrigo tra una capitale e l’altra, mette soprattutto in scena la sua abilità nel padroneggiare il genere “reportage”. Anzi, l’intrigo internazionale di bruciante attualità che Perrelli sagacemente imbastisce, gli serve sì da carburante per mantenere alta l’attenzione del lettore, ma si tratta di un’attenzione finalizzata soprattutto al reportage.

Reportage da dove e su cosa, dunque? Da quelle capitali e sulle tensioni tra quei Paesi di cui parla il romanzo? Perrelli è troppo istruito sul suo mestiere per cadere in una trappola del genere. In questa ibrida zona narrativa lui non è inviato di nessun vero giornale; semmai lo è solo di quella coppia surreale formata da se stesso e da un indefinibile lettore di romanzi. Così gli bastano pochi sobri quanto efficaci riferimenti toponomastici e atmosferici per restituirci le pulsazioni e le pulsioni più intime di una città, di una sua zona, del suo traffico di superficie e sotterraneo. Gli è sufficiente il ricevimento nel salone di una ambasciata estera a Roma per far balenare l’intero poligono di tensioni in atto in questo momento tra Tel Aviv, Teheran, Roma, Damasco, Parigi e Washington. Gli è sufficiente questo per farci capire quanto lui conosca quelle città e situazioni e quanto potrebbe autorevolmente dilungarsi a riportarne.

Proprio per questo sarebbe, però, soprattutto per lui, operazione troppo banalmente scontata; e noiosa: da scrivere e da far leggere a quel fantomatico lettore della strana coppia. Assodato che il reportage giornalistico – proprio come l’intervista – è un genere letterario in sé che non ha bisogno di “romanzarsi”, rimane da stabilire come esso, senza imbastardirsi, trasli dentro un romanzo, senza, però, neanche ridurre quest’ultimo a reportage allungato a brodaglia.

Detto per altra via: considerato che il reportage è lo stile – di vita prima che letterario – di Gianni Perrelli, cosa diventa esso in quella particolare zona di tensione del mondo che è la sua creazione narrativa? Ovvero: di quale particolare zona del romanzo perrelliano ha bisogno il reportage per tradursi in narrazione senza tradirsi come genere?

Ecco, questa zona appare in tutta evidenza quella dei personaggi. Non si può davvero capire e apprezzare quest’ultimo romanzo di Perrelli senza tenere presente tale sua precipua caratteristica. Non le città, i loro quartieri, il gioco spionistico e le vicende di guerra e di politica internazionale in ballo sono il vero contenuto del reportage, ma i personaggi del romanzo, tanto nella loro originale singolarità quanto nelle loro tensioni e connessioni, altrettanto critiche e disperate. Non la città del personaggio è la scena della narrazione, ma il personaggio della città. Non c’è più una zona spaziale e temporale nella quale si iscrive un personaggio, ma un personaggio-zona tout court, che reca intrinseche le coordinate stilistiche, narrative, urbanistiche e cronologiche del reportage. Lo spazio della città o di una frontiera di guerra non fanno tanto da sfondo quanto sono uno sfondo che riverbera dal personaggio.

Già nel suo precedente romanzo Non avrai altro dio il vero nocciolo letterario del testo è il drammatico reportage sulla guerra che da esterna si fa interna al protagonista. Li, però, ci trovavamo in una situazione claustrofobica, concentrazionaria, conseguenza di una prigionia continuamente oscillante tra la vita e la morte. Il “fuori” della cella nella quale è rinchiuso non c’è proprio per il personaggio, oppure è ridotta soltanto al passato, ai suoi ricordi, a ciò che avvenne in lui e per il mondo quel fatidico 11 settembre 2001. Tutto in quella vicenda era già “dentro”.

Qui, invece, il “fuori” c’è e, anzi, abbonda. Nello spazio come nel tempo, c’è sempre un “fuori” che fa da sfondo. Mentre si legge il romanzo viene da domandarsi: “Perché l’autore fa tutte queste lunghe digressioni su fatti o su pensieri magari meramente accidentali, i quali non solo non hanno una stretta connessione con il nocciolo del plot ma, anzi, allontanano dalla sua buona sostanza?”. Si può rispondere in maniera pertinente a questa domanda solo se si tiene presente che ogni capitolo del romanzo ha come titolo il nome di una città nella quale si svolge una tappa dell’intrigo. La lunga digressione narrativa avviene dunque sempre all’interno di una città, la quale si intona a sfondo, con il suo paesaggio sobriamente mutante, al passage all’interno del personaggio.

L’autore sembra un flâneur baudelairiano, non di città ma di persone. Bruno e Gina, a Roma sono l’oggetto di un particolare reportage, tanto dettagliato quanto stilisticamente fluido, spigliato. Quando poi si spostano, per una breve vacanza sentimentale, a Parigi, i due personaggi diventano zona di un nuovo reportage, che fa emergere una toponomastica umana impossibile da rappresentare a Roma. Flâneur, abbiamo detto, perché quella del Perrelli non è un’altisonante introspezione psicologica o psicanalitica del personaggio, sebbene una deambulazione, una passeggiata, all’interno dei suoi viali, lungofiume o vicoli ciechi, senza una direzione, una meta precisa ma attraverso uno sguardo tanto rabdomante quanto perspicace.

Il motto dello stile reportage esistenziale di Perrelli è: “Vai, vedi, scrivi” ed è esattamente quello che lui fa di ogni suo personaggio. Non solo, come abbiamo detto, lo spazio fa da sfondo al reportage sul personaggio ma anche il tempo, il presente che fugge, il passato che torna, il futuro che si apre simile a una minacciosa chiusura. Assistiamo anche a uno sdoppiamento tra due io narranti: quello di Bruno e quello di Stefano, quasi a sottolineare che l’uno è una parte del paesaggio dell’altro, ovvero una diversa dislocazione bellica,geografica e urbanistica dell’altro.

Il reportage, pur nel suo andamento sempre spedito e anche ironico, alla fine si rivela però drammatico. I personaggi si disperdono nelle loro traiettorie e l’autore non può, non vuole attenuare il senso di tragedia e smarrimento. Solo dal passato di Bruno sembra aprirsi una nuova possibilità di reportage da una zona-personaggio sconosciuta: un passage non semplicemente temporale ma nel tunnel di una generazione smarrita che si infila dentro quello di un’altra dimenticata.

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