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“La grande bellezza” di Sorrentino, oppure “La migliore offerta” di Tornatore? La parola a Giuseppe Di Giacomo, il filosofo che giudica i film.

Alla luce delle polemiche per la vittoria dell’Oscar di Sorrentino
Giuseppe Di Giacomo rilegge il film di Tornatore, La migliore offerta
Alla ricerca dell’arte perduta
Il vecchio uomo e il nano nascosto sotto la sua scacchiera

di Riccardo Tavani

L’umana commedia del cinema italiano è stata recentemente attraversata da due opere che se ne distaccano, sia nello stile e nella forma che nei contenuti simbolici sedimentati al loro interno. Sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e La migliore offerta di Giuseppe Tornatore. Entrambi pongono le tre dimensioni della bellezza, dell’arte e della inevitabile riflessione umana su esse, all’incrocio con quella quarta dimensione universale che è il tempo.

Del primo film abbiamo già parlato e qui scritto con il professor Giuseppe Di Giacomo, che nel suo insegnamento filosofico dalla cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma non trascura mai un riferimento ai film recenti o passati che ha visto nel tempo e che torna a svolgere per i suoi studenti e uditori, perfettamente avvolti e conservati, nella bobina cinematografica della sua memoria.

Il film di Sorrentino ha suscitato, soprattutto in Italia e in particolare dopo l’assegnazione dell’Oscar, un vero e proprio sabba di polemiche, che ha imperversato e danzato dalle pagine dei grandi giornali agli angoli più nascosti del web. È proprio il carico ridondante di dialoghi e simboli proposti, a fronte di fragilità e inconcludenza narrativa, o vuotezza esistenziale, che sarebbe rimproverato dalla nostra patria a questa sua figlia in veste di pellicola.

Le cose, invece, per il professor Di Giacomo, non stanno così, perché è proprio delle vere opere d’arte il movimento che ci trae dai selciati caoticamente affollati del presente a una costellazione allegorica, figurativa, o – seguendo Kant – a “una rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto senza…. che nessun linguaggio possa completamente raggiungere totalmente e rendere intelligibile”. Che alcuni autori italiani – aldilà di circostanziate e specifiche critiche sempre legittime – cerchino di rompere la prevalente uniformità triviale del nostro attuale tessuto cinematografico, è da incoraggiare e sostenere, anche con occasioni di confronti e incontri, non da demolire preventivamente. Questo, indipendentemente da prestigiosi premi, riconoscimenti o meno che un film può ricevere: il suo valore estetico e critico è in altro.

Così, alla distanza ormai di un anno e mezzo dalla sua uscita, ci troviamo con Di Giacomo a riconsiderare anche l’ultimo film di Tornatore, La migliore offerta, che ha avuto appena sei stranazionali Nastri D’Argento, sei David di Donatello, a fronte di un solo riconoscimento europeo (l’Efa), andato, però, a Ennio Morione per la sua colonna sonora. Né il tempo trascorso, né i mancati riconoscimenti internazionali scalfiscono per Di Giacomo il valore di questo film, che sprigiona la sua forza d’immagine proprio in ciò che il suo maestro Emilio Garroni ha chiamato uno sguardo attraverso.

Uno sguardo sulla bellezza, sull’esistenza, sull’arte, attraverso quel mezzo massimamente trasparente, eppure ontologicamente denso, impenetrabile che è il tempo. Per il filosofo dell’arte non si può prescindere dalle grandi lezioni che hanno illuminato il Novecento e che ancora oggi ci raggiungono con i loro bagliori. Prima fra tutte quella di Marcel Proust che reca il tema del tempo nel titolo e in ogni riga della sua immane Recherche letteraria. Ricorda anzi Di Giacomo che le parole ultime, estreme, a chiusura dell’intera opera, sono proprio “ – nel Tempo”. Tutto il romanzo di Proust è un tentativo di riscattare il passato, le possibilità in esso insite che ci sono sfuggite, attraverso la capacità dell’arte di renderle visibili, rammemorabili sotto la luce improvvisa di un nuovo sguardo, per fissarle nell’eternità dell’opera letteraria, eppure – proprio nel fare e per fare questo – l’artista non può che restare nel tempo, avvinto in esso e perciò da esso vinto.

Nel film di Tornatore – e questo è sfuggito ai più –, già il nome del protagonista ha incapsulato in sé il tema del tempo: Old-man, l’uomo vecchio. Vecchio – spiega Di Giacomo – nel senso che il raffinatissimo e coltissimo battitore d’asta londinese Virgil Oldman, egli stesso, nella sua persona, nel suo stile, nella sua impermeabilità ai fatti della vita quotidiana, fino ad interporre tra sé e gli oggetti fisici del mondo sempre la pelle di un paio di inseparabili guanti neri, è una personificazione vivente dell’aspirazione all’eternità dell’arte. Uomo Vecchio, in quanto la modernità del Novecento nel suo insieme, non solo Proust, conduce al tramonto di tale aspirazione dell’arte.

La bellezza, soprattutto, per Virgil deve conservare questa purezza incontaminata, ab-soluta, ovvero completamente sciolta dal divenire temporale e accidentale del mondo. Virgil Oldman è il castello, la fortezza estrema, perfetta di questo ideale d’assolutezza. Non ha amori terreni, ma centinaia di quadri raffiguranti ogni aspetto e forma della suprema bellezza del volto femminile. Dipinti che ha accumulato e serrato in un’ampia camera blindata, un’abissale galleria segreta; quadri resi inaccessibili a ogni altro occhio umano che non sia il suo, sottratti, anche con la truffa, l’inganno a chi non li meritava, perché li avrebbe solo esposti alla sventatezza della finitezza umana. È in questa Cappella Sistina delle più vertiginose fattezze di volti, sguardi, capelli, spalle femminili nella storia della pittura che egli respira, vive autenticamente e ha eletto l’occulto scopo di tutta la sua vita. Oldman gioca abilmente, elegantemente ogni mossa della sua vita, della sua professione su una scacchiera a un angolo della quale ha eretto un arrocco perfetto e impenetrabile a ogni attacco.

Eppure anche Oldman vive nell’ingranaggio del tempo, non vi si può sottrarre, soprattutto ora che la sua mirabile e invidiata carriera pubblica ha toccato l’apice e si sta concludendo. L’arte dell’ingranaggio – dice Di Giacomo – reca insita in sé anche quella dell’illusione dell’inganno. Nel film Oldman si imbatte continuamente in pezzi, ruote dentate, molle di un automa, che con l’aiuto di Robert, un giovane di sua fiducia, cerca di rimettere insieme. Questo automa è realmente esistito ed è stato costruito nel ‘700 dal celebre inventore francese Jacques de Vaucanson, il quale incantava letteralmente la sua epoca con simili meccanismi e che ha anche una singolare somiglianza con l’attore Geoffrey Rush che nel film interpreta il personaggio di Oldman. Robert svela a Virgil che l’apparato meccanico mostra uno spazio vuoto in basso, il quale doveva celare un piedistallo cavo, sotto il quale si accucciava un nano che faceva rimbombare la sua voce dentro l’automa con un insuperabile effetto di meraviglia per chi lo vedeva muoversi.

Il richiamo alle prime righe delle Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin è per Di Giacomo naturale e immediato. “Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola [su cui poggia una scacchiera] fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili un burattino”. Anche nel film di Tornatore appare una nana, imbattibile nel ricordare ogni evento, con la massima precisione di calcolo numerico nel suo verificarsi e ripetersi nel tempo. Questo personaggio è il vero segreto custode della grande villa-scacchiera, apparentemente trasparente, nella quale Oldman viene trascinato a giocare la sua ultima ambiziosa partita prima del ritiro nel segreto museo d’arte che ha eretto nel corso del tempo. (Solo di sfuggita Di Giacomo richiama come anche ne La grande bellezza Sorrentino affidi al personaggio della nana direttrice del giornale il compito di dire sempre la verità a Jep Gambardella).

Su questa scacchiera truccata ora Oldman si trova a giocare con una bellezza nascosta, velata dalla porta di una stanza sempre chiusa, che è essa stessa un pregiato pezzo d’arte. La bellezza si manifesta sempre attraverso il velo; è inseparabile da questo – dice ancora Benjamin nel suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe. Il cinema anche, attraverso lo schermo, costituisce un velo della bellezza e insieme l’ingranaggio dell’illusione trasparente, l’attrazione erotica inesorabile del mistero per la desiderante mente umana. Dietro il velo, che è il segreto di una bellezza che si lascia solo intravedere, pulsa quello stupore filosofico, quell’aura baluginante della natura, dell’esistenza, che l’arte cerca di fissare su una pagina o sulla tela, come un bagliore dell’eternità che può riscattare la nostra caducità, ma che resta, invece, sempre irraggiungibile, ineffabile.

Una scena de "La migliore offerta" di Giuseppe Tornatore
Una scena de “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore
Su questa scacchiera il precedente inattaccabile arrocco di Oldman risulta scardinato e ogni sua altra ingenua difesa sbaragliata. Ne Il settimo sigillo di Bergman, la partita a scacchi di Block con la morte è a viso aperto ed è il nobile cavaliere ad usare un trucco per lasciarsi battere. Là sono in gioco il dubbio e la fede; qui il paradiso e gli inferi. Il paradiso di un riscatto che prima l’arte suprema sembrava garantire e gli inferi di un divenire senza scopo, né senso, irredimibile da un’arte, perché essa stessa esposta al fallimento, all’oblio dalla rapida mutevolezza delle mode e dei mercati.

Oldman, nota Di Giacomo, assurge al ruolo di Pigmalione nei confronti della giovane Claire, trasfigurata in Galatea, ma come nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, ricopre di talmente tanti strati erotici la sua opera da non distinguerne più la figura, il vero volto, il sentimento reale. Solo un dettaglio resta ormai visibile: un piede mirabilmente dipinto nel racconto di Balzac, un sospiro d’amore di Claire al culmine dell’eros e il suo ricordo di un caffè di Praga, dal nome, ancora una volta, esplicitamente evocativo del tempo, Night and Day.

Ora, però – come suggerisce la stessa etimologia greca di pygmalion –, è Oldman il nano nelle mani del grande automa che pezzo dopo pezzo ha contribuito a costruire contro lui stesso, e niente come la sparizione dell’intera sua sublime sacrestia pittorica è, per il professor Di Giacomo, la perdita stessa della bellezza, dell’illusione di eternità che le opere hanno preziosamente inseguito ma perduto contro il tempo, soprattutto quello del presente, nel quale è l’arte stessa ad essersi frantumata, dispersa in tanti pezzi di un ingranaggio museale e mercantile smembrato, che non ha e non vuole avere più alcun senso. Il vortice di follia nel quale Oldman, il vecchio uomo precipita è il dissolvimento stesso del principio di ragione, spirito e forma che prima orientava le opere artistiche e la loro percezione nel gusto del pubblico.

In quel ristorante di Praga, nel quale Virgil Oldman nel finale si reca, invece che da quattro vertiginose pareti di immortali volti femminili, è circondato da una volta di sferruzzanti orologi di ogni tipo appesi attorno a lui. È il tunnel del tempo che lo avvolge da ogni lato e celebra la sua vittoria. Le sfere sublimi del paradiso d’arte cui aspirava sono vinte da quelle meccaniche delle pendole; la gloria e la luce dell’eterno sono oscurate non dal fragoroso suono di campane, ma traforate dall’infinitesimale, incessante ticchettio della contingenza mondana, con l’invisibile roditore del tempo celato al suo interno. La sua resa è muta, attonita ma non disperata. Il tempo, infatti, non riesce a divorare tutto: le possibilità che non si sono realizzate rimangono intatte su un piano logico e ontologico. Proprio l’arte – attraverso quelle che per Joyce sono le epifanie improvvise e per Proust la memoria involontaria – è capace di mostrarcele come sospese fuori del tempo e dello spazio.

Quel ristorante esiste davvero: il ricordo confidatogli da Claire nell’alcova d’amore non faceva parte dell’inganno, del furto brutale, perché lei non aveva alcun bisogno di raccontarlo. Forse, allora, anche quel sospiro d’amore dal sen fuggito era autentico: “Qualsiasi cosa dovesse accaderci sappi che io ti amo”. Nell’ingranaggio illusionistico dell’arte, del cinema forse qualcosa di vero si deposita, resta e si ripresenta come una possibilità non ancora attuata, come una stella, una speranza nel cielo della notte. Alla domanda del cameriere che lo serve al tavolo e gli domanda se è solo il vecchio Virgil risponde: “No, aspetto una persona”.

Così a Oldman non resta immergersi nella corrente del tempo che lo trascina e attendere che il suo messaggio nella bottiglia sia trovato e letto da altri uomini, “ poiché essi – dicono le righe estreme de Il tempo ritrovato di Proust – toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane l’una dall’altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi, – nel Tempo”. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Società e costume

Il bello de “La grande bellezza”? Ce lo spiega il filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Paolo Sorrentino
La grande bellezza*

di Riccardo Tavani

Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella del momento esistenziale in atto.

Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione, desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo. (Beh, buona giornata.)

*Questo articolo risale ai giorni in cui il film uscì per la prima volta nelle sale e fu accolto piuttosto freddamente dalla critica. Oggi risulta di prepotente attualità, dopo l’Oscar come miglior film straniero.

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Cinema

Nebraska.

Giuseppe Di Giacomo, filosofo dell’arte, commenta il film di Alexander Payne “Nebraska”
L’improvvisa forza messianica di un road movie all’indietro

di Riccardo Tavani

“C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha diritto”. Questa chiave di lettura del film ce la offre, nella sua seconda Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin, uno dei più importanti filosofi del ‘900, da sempre al centro della ricerca e dell’insegnamento del professore Giuseppe Di Giacomo, titolare della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma. Vediamo con lui Nebraska al Tibur, lo storico cinema nel quartiere San Lorenzo. Usciti poi dalla sala risaliamo un isolato e ci troviamo da Sanlollo a mangiare una pizza e ottimi arancini siciliani al ragù, accompagnati da una caraffa di birra alla spina. Discutiamo del film.

È la storia di Woody Grant, un vecchio meccanico ubriacone, ora disperatamente zoppicante, come tutto il suo passato, con due figli, fatti con la moglie Kate, e perlopiù da lui trascurati. Sono David commesso insoddisfatto in un negozio di elettronica e Ross, giornalista in ascesa in una rete televisiva del Montana, Stato americano nel quale la famiglia vive. “Perché ci avete fatti?” domanda David a suo padre. “A me piaceva scopare, tua madre era una cattolica convinta… metti tu le due cose insieme!”. Non sembrerebbero due figli molto attesi, almeno dal padre.

Le pattuglie della polizia locale raccolgono, per riportarlo a casa, Woody che cammina da solo lungo le haigways che vanno verso sud-ovest. Ha in tasca la lettera di una lotteria che gli annuncia di aver vinto un milione di dollari, ma deve recarsi a Lincoln, capitale del confinante Nebraska, a ritirarli entro una data ormai molto ravvicinata. Tutti gli dicono che si tratta di una delle più classiche e conosciute bufale del mondo, ma lui resta attaccato a quel pezzo di carta e alla sua illusione. Woody vuole e deve andare a tutti i costi a Lincoln – Nebraska.

David decide di accompagnarlo con la sua auto, di dargli la possibilità di viversi quest’ultima illusione, o ragione estrema di vita prima di morire.

Nebraska è un film del 2013 diretto da Alexander Payne, con protagonista Bruce Dern. Presentato in concorso alla 66ª edizione del Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio per la Miglior interpretazione maschile, attribuito all'attore Bruce Dern.
Nebraska è un film del 2013 diretto da Alexander Payne, con protagonista Bruce Dern.
Presentato in concorso alla 66ª edizione del Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio per la Miglior interpretazione maschile, attribuito all’attore Bruce Dern.
Sembra così anche un tragitto all’indietro nel cinema americano, quello dei grandi panorami, con le magiche inquadrature in campo lungo del western originario. Padre e figlio tornano inquietamente a questo cuore, a questa visione sconfinata della natura che – ci dicono silenziosamente le inquadrature – solo il cinema, nessun altro odierno medium, ci può ancora dare. Un paesaggio, una natura – nota ancora Di Giacomo – che sono stati qui depurati dall’elemento della violenza, della spietatezza, tipico di tanti film ambientati in luoghi simili o della letteratura di Cormac McCarty, che ne conserva e prolunga le radici fino al presente.

Come in molte opere di questo scrittore, tra i più amati e studiati da Di Giacomo, c’è però l’elemento del romanzo di formazione. David non è uno dei sedicenni di McCarty che montano in sella e scavalcano i confini degli Stati o del Messico, per imbattersi nella crudeltà del mondo e forgiare sul sangue la propria personalità. David ha ormai sui trent’anni, fa una vita angusta ed è stato anche mollato per insipienza dalla sua fidanzata. I sedicenni mccartiani hanno un elemento vitale, biologico, selvaggio rappresentato bene dal connubio con il loro cavallo o con le lupe cui danno la caccia tra la solitudine dei monti. David è precocemente spento, la ragazza lo ha privato da tempo anche del rapporto sessuale e lui è incapace di cercarsene un altro. Quel vecchio beone di suo padre, carico di debiti economici ed esistenziali, al confine ultimo del suo strascicante tragitto, ha senz’altro ancora più vita addosso del figlio.

La colonna sonora che ci accompagna lungo tutto il percorso, fa risuonare ancestrali eco blues di quella terra quasi immobile nella decrepitezza dei volti, dei caratteri, delle vicende che la pellicola nel suo svolgersi ci svela. Della vecchia casa nei campi in Nebraska, dove Woody è nato, è rimasto solo uno scheletro cadente, ma qualcuno continua a “coltivarci intorno”. Il pezzo che fa da filo conduttore a tutta la colonna sonora (di Mark Orton) si intitola Their Pie, che letteralmente significa “Le loro torte”, ma che come espressione gergale sta per “Le loro false speranze”.

Il viaggio come ricerca del riscatto, che attraverso la riscossione di una così consistente vincita, Woody vorrebbe dare alla sua vita è solo un’illusione. L’esistenza non ha una meta da raggiungere per ricevere un senso; la storia umana non ha una filosofia, un fine, una teleologia che la guidi verso il riscatto. La terra ci guarda nella sua vasta immobilità e bellezza, ma gli dei e gli eroi con una stella al petto o un Winchester nella fondina del cavallo la hanno abbandonata da tempo. Questo tratto che è caratteristico, per Di Giacomo, dell’evoluzione del cinema western americano, la ritroviamo in un suo aspetto inedito e convincente, coinvolgente in questa pellicola.

Un incidente di percorso costringe Woody e David, a fare una deviazione verso Hawthorne, un centinaio di miglia prima di Lincoln, dove il vecchio è nato e vive ancora la famiglia di suo fratello, altri parenti e molti amici d’infanzia. Saranno poi raggiunti in autobus anche da Kate e Ross, e così tutta la numerosa famiglia Grant si troverà riunita dopo molti anni. Lì, però, antichi rancori, vecchi odi e anche amori riemergono senza che siano mai stati sanati e ci sia più qualche speranza di riscattarli. Si sono solo incartapecoriti, come la pelle dei vecchi che vi abitano, e le liti che scoppiano sono fatte a suon di ridicole smanacciate più che di sane scazzottate da saloon. Il contrasto tra decrepitezza e crudeltà, sebbene patetica, che la presunta prossima ricchezza di Woody fa scoppiare fra amici e parenti, costituisce l’elemento drammatico di fondo della vicenda: una vita che, nella propria angustia, si è consumata senza mai potersi esprimere, senza mai avere una possibilità di riscatto. L’insensatezza ha prosciugato quelle esistenze e le loro ossa, ha arrochito le loro voci, reso acri i loro rimorsi. È un paese di vecchi che non ha lasciato niente alla generazione che ha messo al mondo.

Woody, infatti, vuole quei soldi della fasulla vincita per lasciare qualcosa ai figli, prima di morire. Per sé si accontenta solo di un pick-up e di un compressore ad aria, dato che il suo gli è stato fregato proprio dal vecchio socio d’officina e amico di taverna Ed Pegram. Non la meta ma la ricerca nella memoria, nel passato, nelle vicende rimaste nascoste o in sospeso, alla quale il viaggio costringe offre non “il” senso ma “un” senso a questo road movie all’indietro, spiega Di Giacomo. Kate conduce Woody e David tra le lapidi conficcate nella polvere del vecchio cimitero del villaggio. Amore, sesso e morte si mescolano nel suo racconto di quei sepolti della sua storia di giovinezza. Si alza la gonna e mostra la vagina alla lapide di un suo giovane spasimante di allora: “Guarda che ti sei perso a stare come un fesso sempre dietro alle tue mucche!”

Da queste decrepite storie, da queste voci che salgono dalla terra e dalla cenere dei morti, David capisce che suo padre era sì un ubriacone indebitato, ma che il suo lavoro di meccanico lo sapeva fare e che non ha mai fregato nessuno, anzi, la sua incapacità di dire no a chiunque in quel villaggio-mondo di Hawthorne è ciò che lo ha ridotto alla sua strisciante condizione di zoppo senza più speranza se non uno sgualcito pezzo di carta privo d’alcun valore. La strada all’indietro lo ha portato in avanti, aldilà del sogno americano della ricchezza come possibilità per tutti, per la quale, in realtà, quei tutti sono certamente pronti solo a tradirsi e perdersi. Ha ritrovato il caos asfittico della sua origine e questo gli permette, quanto meno, di dargli “un” ordine, “una” forma, la possibilità di una voce e di un racconto. Che è proprio quello che fa questo film, questo tipo di cinema: ricercare – attraverso lo svolgersi della pellicola sulla strada delle sue immagini – un’occasione, per quanto flebile, di riscatto per i tanti ai quali è stata tolta o tarpata nella storia la possibilità di esprimersi, di affermare un proprio progetto di esistenza. Il vigoroso, sano cazzotto stile saloon western che David molla a Ed Pegram, davanti a tutti nella taverna di Hawthorne, segna il suo scuotersi dal torpore triste della sua precedente inconsapevolezza.

La debole forza messianica, su cui il passato ha diritto – di cui parla Walter Benjamin –, trova nella conclusione del film una via narrativa semplice ma inaspettata, simbolicamente conseguente e potente. Padre e figlio per la prima volta si vedono con uno sguardo nuovo, improvviso, che aspettava di essere dissepolto da quella memoria inespressa che – come possibilità da lungo attesa – lo negava a entrambi. (Beh, buona giornata.)

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The Counselor Il Procuratore, di Ridley Scott secondo Giuseppe Di Giacomo, filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film “The Counselor” di Ridley Scott
Nel deserto senza legge e frontiera del senso
La bionda bestia di Nietzsche, la lastra di ghiaccio di Wittgestein, l’inferno spietato di McCarthy

di Riccardo Tavani

Se un felino esotico, un biondo ghepardo flessuoso fuggisse da una villa alle porte della città e si aggirasse la notte sull’asfalto viscido di pioggia delle vie del centro… Se, uscendo poi da una sala cinematografica all’ultimo spettacolo, lo vedessimo abbeverarsi alla fontana della piazza antistante, in tutta la sua adamantina purezza di belva feroce, noi avremmo un fremito che scuoterebbe il nostro intero mondo interiore. Se il film appena visto fosse stato, però, “The Counselor – Il Procuratore”, di Ridley Scott, noi ci diremmo che quel felino famelico si nutre e abbevera proprio del nostro strano mondo, non solo interiore, da molto tempo e senza alcun trasalimento della civiltà.

È la riflessione che facciamo con il professor Giuseppe Di Giacomo, uscendo sul selciato umido e striato di luci notturne, alla fine del film.

The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
C’è stata però un’ottima interazione tra scrittore e regista; il testo letterario non travalica mai quello visivo. Non a caso, McCarthy è stato anche uno dei produttori esecutivi del film.

Le vie del centro sono attraversate a quell’ora da ombre di volti e corpi, come i nostri, possibile rancio della “trionfante bionda bestia che vaga alla ricerca della preda e della vittoria” della quale parla Nietzsche nel primo capitolo della sua “Genealogia della morale”. Una fiera che si aggira rinchiusa nel fondo occulto della civiltà, ma che, ogni tanto, ha bisogno di fuggire, riemergere, riapparire tra noi.

“Sono famelica” ripete nel film, sedendosi a tavola, la bionda Malkina, dal corpo flessuoso, percorso da una lunga striscia tatuata che richiama le macule della sua coppia di giaguari, Silvia e Raoul, che corrono eleganti, ghermendo selvaggina, al confine tra Messico e Usa, ribollente di traffici illeciti e umanità da preda.

Alla tavola del filosofo, attorno alla quale c’invita a sedere Di Giacomo, trovi invece riflessione artistica e critica, senza che manchi, però, un sapido piatto di pasta al tonno e vino bianco, per conversare meglio, aprirsi ai significati dell’opera anche attraverso la convivialità dei pensieri e lo scambio dell’amicizia. Filosofia e cinema non possono prescindere oggi l’una dall’altro, tanto più in un film come questo, improntato alla œuvre e alla visione di McCarthy. Un’alleanza fondata, appunto, sull’amicizia. (Amicizia e amore corrono lungo una medesima linea semantica, eppure un sottile confine li distingue criticamente).

L’avvocato, ovvero il procuratore del titolo, nutre un amore puro, profondo e nello stesso tempo vertiginosamente sensuale per Laura, dall’odore della pelle bruno sotto le lenzuola accecanti di biancore nella luce del mattino. Vuole donarle tutto, anche più di quello che ha. Vola ad Amsterdam a comprarle un prezioso diamante, quale pegno per la sua richiesta di matrimonio.

Il diamante, per Di Giacomo, è qui il simbolo stesso della bellezza inscalfibile, che può redimere dalla drammaticità dell’esistenza, come quella “promessa di felicità” del famoso aforisma di Stendhal. Dice, infatti, il mercante di pietre all’avvocato: “Partecipare del destino eterno della pietra… Esaltare la bellezza dell’amata è riconoscere tanto la fragilità di lei quanto la nobiltà di questa fragilità”. La logica anche ha, per Wittgestein, la durezza non scalfibile del diamante. Eppure, aggiunge il mercante, noi siamo cinici, cerchiamo una piuma di imperfezione, altrimenti la pietra sarebbe solo luce. O, come scrive Wittgestein nelle Ricerche Filosofiche (107): “Siamo giunti su una lastra di ghiaccio… Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.

E la pellicola di McCarthy-Scott, sia nella tessitura scritta che in quella visiva, non abbandona mai il terreno scabro, anzi, lo privilegia. L’avvocato si immette nell’ingranaggio d’affari del narco-traffico di confine, dominato dallo spietato Cartello centro-americano. “Una botta e via?” gli domanda Reiner, re dei locali e degli smerci notturni, presso la cui sfarzosa villa vivono e si nutrono Malkina e i suoi due felini. Sì, l’avvocato vorrebbe partecipare ad un singolo, lucroso quanto lurido affare, rimpinguare il conto in banca e poi ritirarsi nel rifugio d’amore dorato con la sua Laura.

Reiner ride per l’ingenuo, ipocrita moralismo, ma intanto anche lui ha il suo lato morale debole, ammalato: è davvero innamorato di quella sua bionda con macchie di ghepardo tatuate sulla pelle e ad elevato grado di calore erotico, anche se per lei la “verità non ha temperatura” e “le cose non tornano mai”. Secondo Di Giacomo, proprio il personaggio Malkina, con le sue lapidarie, ciniche battute di dialogo, rappresenta il vero senso del film. Non è tanto la violenza, il sesso, l’illegalità, la morte che pure spruzza nel film come sangue da una testa mozzata o da una carotide recisa. La mancanza di legge lungo quel confine va intesa come l’assenza di una Legge, ovvero di un senso, di una teleologia, di una direzione che guidino l’azione del singolo e la storia umana. L’aridità desertica è senza direzione; la casualità vi domina spietata nella sua imprevedibilità senza legge e frontiera.

Il protagonista ne rimane vittima, vedendo completamente terremotata, rasa al suolo la sua vita e la preziosa rarità del suo amore, senza neanche rendersene conto. La stessa cosa succede, però, a Reiner e ad un altro scaltro mediatore d’affari, Westray, che dovrebbe passare un carico di coca all’avvocato. Questo Westray, però, ha anche lui il suo lato morale fragile, dunque facilmente ghermibile per la fiera predatrice.

Come in “Alien”, Ridley Scott rappresenta l’imperscrutabilità in sé dell’ignoto quale male senza difesa e riparo sicuro. È tale condizione, nota Di Giacomo, ad essere originariamente aliena eppure insita all’esistenza umana, come un parassita che aggredisce e sbrana dall’interno, in una lotta che sempre si rinnova e non ha mai fine, perché non c’è un fine, una meta, l’approdo di un qualche destino salvifico nell’Universo.

Solo chi si iberna allo stesso grado di “verità senza temperatura” morale, può cinicamente tastare prima e sfruttare poi ogni minimo neo di debolezza altrui, per sopravvivere e proseguire un viaggio, anch’esso, però, privo di ogni senso. “Viandante, non c’è nessun cammino, il cammino si fa andando”, recitano alcuni versi di Antonio Machado, proferiti al telefono all’avvocato, come un de profundis.
Così anche “La morte qui non ha valore: tutta la mia famiglia è morta, ma è la mia vita che non ha significato”, dice all’avvocato il padrone di una bettola di Ciudad Juarez, capitale messicana del narco-traffico, dove ogni anno sono tremila le persone che si contano tra ammazzate e fatte sparire, su circa un milione e mezzo di abitanti. La gente si raduna nelle piazze, per piangere, pregare, reclamare insieme giustizia e salvezza, ma qui non c’è legge, frontiera etica pubblica, solo un’immane discarica del senso, nella quale sono rovesciati i cadaveri delle ragazze sequestrate, stuprate e anche squartate in quel genere di lucrose quanto infernali pellicole pornografiche dette snuff movies. Lo spiega Westray all’avvocato: “Per la produzione di un simile prodotto il consumatore è essenziale. Non puoi guardare un omicidio senza esserne complice”. Vedi: L’inferno di Ciudad Juarez.
Sopra questo strato di sangue e fango umano, oltre la polvere riarsa del deserto, si stagliano le ville scenografiche, con piscine e colonnati riparati dal calore del sole, ma non sufficientemente ombreggiati dalla micidiale ambizione all’eternità simbolica, alla promessa di riscatto esistenziale racchiusa nei diamanti. Nulla, però, avverte Di Giacomo, è garantito, perché, anzi, ogni cosa e persona sono costantemente minacciate dall’avanzare del disordine e dell’insensatezza che tutto sgretola e divora.

Mentre l’avvocato marcisce disperato in una sozza stanza d’albergo di Juarez, lo scontro si sposta altrove, tra le mura protette delle banche e le stanze felpate dei grandi alberghi internazionali nelle capitali della nostra civiltà. Più pulita, silenziosa ma anche più spietata, vorace e decisiva si fa la lotta, in questa savana di vetro-cemento super tecnologica e interconnessa.

Malkina non ha soltanto la pelle tatuata delle macchie dei suoi felini ma possiede anche le loro movenze rapide ed eleganti nel corpo, un’intelligenza istintuale certa e senza sbavature. Si abbevera di champagne e sbrana le più raffinate pietanze in un esclusivo ristorante parigino.

Potremmo, però, proprio ora, mentre usciamo dal cinema, vederla lentamente transitare, al guinzaglio il suo biondo ghepardo Raoul, dai finestrini posteriori di una limousine. Da dietro quel suo piccolo schermo blindato e trasparente, Malkina vedrebbe scorrere la pellicola insensata del nostro strano mondo, nel quale si ama, si crede, si nutre passione o paura per qualunque cosa. Lei, invece, aspira solo alla “purezza di cuore del cacciatore… Non puoi distinguere quello che è da quello che fa… uccidere… e non c’è niente di più crudele di un codardo”.

Conclusione in linea con l’iniziale bionda belva nietzscheana, soltanto che Malkina, dice Di Giacomo, è cosciente di non andare nella direzione di alcun oltreuomo, perché, anche se non torna mai nello stesso luogo, si trasferisce soltanto da un’altra parte, indifferentemente, sia essa la Cina o, domani, anche Marte. Non trasmuta alcun valore morale, ma solo i soldi in diamanti, per riavviare il processo di eterno ritorno dell’uguale, al confine di un deserto esistenziale brulicante di illusioni, stupefacenti e corpi riarsi, sepolti nei turbini caotici di pallottole e sabbia.(Beh, buona giornata.)

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Quella hippie venuta dal caldo.

di RICCARDO TAVANI

La domestica dei fratelli Karamazov dà il nome a questa città cui s’intitola il lavoro di Larry Clark. Qui passa il treno, al confine con il Messico.

Il treno, dice Giuseppe Di Giacomo, è in questo film uno di quei personaggi che non parlano ma sono lo sfondo stesso della narrazione. Il treno di Larry Clark passa soltanto e non si ferma mai a Marfa. Passando, scopre la linea dei binari. È una linea di confine, una frontiera, non tanto geografica, quella tra Texas e Mexico, quanto tra storia e mito, tra racconto e natura, tra tempo e atemporalità. Il treno è la Storia; Marfa è una natura desertica, abbandonata nella sua polvere secca, nei suoi spogli prefabbricati monofamiliari tra gli steccati e le recinzioni, nei suoi riti meticci, erotici, allucinogeni.

Adam a sedici anni si trova a camminare sulle traversine di questi binari, di questo confine nudo che sferragliando gli passa dentro, minacciando di schiacciarlo. Adam è anch’egli meticcio, figlio di una yankee bionda e di un messicano, del quale, però, non sappiamo niente. Adam, come gli altri personaggi del film che gli ruotano attorno, non ha passato, è davvero il primo Uomo di questo Eden dai tramonti rosso fuoco nell’immobilità e ripetitività del non tempo, del non racconto, dell’oblio della Storia. Senza passato e senza futuro. Le uniche storie che in modo struggente si raccontano sono quelle di gatti e volatili, di cani che sbranano uomini al pari di volpi nel deserto edenico di Marfa. Anche le cure del corpo e dello spirito sembrano affidate alla ritualità india che la giovane messicana Tina ha ricevuto in eredità dal padre e questi dagli avi, dalla tradizione.

Lo stesso stile cinematografico elaborato dal regista, nota Di Giacomo, è insolito e inizialmente disorientante, proprio perché non ha a che fare con una narrazione, con una trama classica. La macchina da presa scorre fluidamente, senza cadenze ritmiche ben scandite, da una situazione all’altra del ciclo ripetitivo di Marfa, tra sesso, musica, pittura di nudi, cannabis e peyote.

In streaming con il filosofo
Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Larry Clark “Marfa Girl”, vincitore del Festival Internazionale di Roma.
In streaming con il filosofo
Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Larry Clark “Marfa Girl”, vincitore del Festival Internazionale di Roma.
Questa volta al filosofo non abbiamo chiesto di en- trare in una sala cinematografica ma di collegarsi in streaming a un sito web: larryclark.com. Unico modo di vedere, a pagamento, il film vincitore del Festival di Roma. Per Giuseppe Di Giacomo, ordi- nario di Estetica a La Sapienza di Roma, entrare in contatto con i giovani significa incontrarli durante le sue affollate lezioni nell’Aula I di Filosofia a Villa Mirafiori, saggiarne l’attenzione, coglierne visivamente le reazioni durante i passaggi più problematici dei testi studiati. Connettersi al sito del regista di Marfa Girl significa, invece, mettersi virtualmente in streaming insieme a migliaia di giovani sconosciuti e dislocati in chissà quali angoli del pianeta. Nel 1881 il treno si fermava in questo posto desertico e ancora senza un nome solo per fare rifornimento d’acqua, eppure la moglie del cantoniere, a un solo anno di distanza dalla sua uscita in Russia, già leggeva il capolavoro di Do- stoevskij, altro scrittore citatissimo nelle lezioni di Di Giacomo. Ignatievna Marfa, la domestica dei Karamazov, finisce allora per dare un’identità a un luogo anonimo e remoto. Le ragazze e i ragazzi di oggi sono i protagonisti del film di Clark e, così come diversa è stata la forma cinematografica del film e i contenuti in essa sedimentati, Larry Clark ha voluto che fosse diverso anche il modo di ve- derlo. Girato con macchine da presa digitali, il film non ha ancora una distribuzione nelle sale, perché Larry ha deciso che i giovani se lo vedessero dove a loro piace di più, ovvero sullo schermo di un porta- tile o di un tablet. Al costo di 5.99 dollari, ovvero di circa 4 euro e mezzo, il film può essere visto e rivi- sto, sviscerato e memorizzato in scene e dialoghi per un’intera giornata. In uno spirito simile. L’arti- colo che qui pubblichiamo non è un semplice pezzo giornalistico ma una prosecuzione con altri mezzi del mestiere di maestro che Di Giacomo semina con la voce e il pensiero tra i ragazzi che si succe- dono da ogni nuovo angolo del tempo, al confine tra l’arte e la filosofia, il cinema e la letteratura, la musica e la pittura.
Questa volta al filosofo non abbiamo chiesto di en- trare in una sala cinematografica ma di collegarsi in streaming a un sito web: larryclark.com. Unico modo di vedere, a pagamento, il film vincitore del Festival di Roma. Per Giuseppe Di Giacomo, ordi- nario di Estetica a La Sapienza di Roma, entrare in contatto con i giovani significa incontrarli durante le sue affollate lezioni nell’Aula I di Filosofia a Villa Mirafiori, saggiarne l’attenzione, coglierne visivamente le reazioni durante i passaggi più problematici dei testi studiati. Connettersi al sito del regista di Marfa Girl significa, invece, mettersi virtualmente in streaming insieme a migliaia di giovani sconosciuti e dislocati in chissà quali angoli del pianeta. Nel 1881 il treno si fermava in questo posto desertico e ancora senza un nome solo per fare rifornimento d’acqua, eppure la moglie del cantoniere, a un solo anno di distanza dalla sua uscita in Russia, già leggeva il capolavoro di Do- stoevskij, altro scrittore citatissimo nelle lezioni di Di Giacomo. Ignatievna Marfa, la domestica dei Karamazov, finisce allora per dare un’identità a un luogo anonimo e remoto. Le ragazze e i ragazzi di oggi sono i protagonisti del film di Clark e, così come diversa è stata la forma cinematografica del film e i contenuti in essa sedimentati, Larry Clark ha voluto che fosse diverso anche il modo di ve- derlo. Girato con macchine da presa digitali, il film non ha ancora una distribuzione nelle sale, perché Larry ha deciso che i giovani se lo vedessero dove a loro piace di più, ovvero sullo schermo di un porta- tile o di un tablet. Al costo di 5.99 dollari, ovvero di circa 4 euro e mezzo, il film può essere visto e rivi- sto, sviscerato e memorizzato in scene e dialoghi per un’intera giornata. In uno spirito simile. L’arti- colo che qui pubblichiamo non è un semplice pezzo giornalistico ma una prosecuzione con altri mezzi del mestiere di maestro che Di Giacomo semina con la voce e il pensiero tra i ragazzi che si succe- dono da ogni nuovo angolo del tempo, al confine tra l’arte e la filosofia, il cinema e la letteratura, la musica e la pittura.

Essere al confine della Storia, avverte Di Giacomo, non significa esserne completamente fuori, ma subire da essa un attraversamento, il quale non lascia dietro di sé soltanto la linea dei binari vuota, bensì residua qualcosa che turba l’equilibrio ciclico naturale. Il sedimento, per il fatto stesso di apparire come un improvviso, un imprevisto nella staticità atemporale di Marfa, non può che accadere, irrompere in forma di violenza. Tom, il poliziotto di frontiera bianco, è per Di Giacomo, questo elemento. (Beh, buona giornata)

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“Il paradossale prodigio sulla pelle della realt

In sala con Giuseppe Di Giacomo*, di RICCARDO TAVANI

Un'immagine di "Miracolo a le Havre".
Giuseppe Di Giacomo.
Giuseppe di Giacomo ci propone un assunto che poi immediatamente rovescia. L’assunto è che il miracolo ha a che fare con la paradossalità e Kaurismaki prende talmente sul serio questo postulato da far diventare il paradosso normalità, e addirittura ovvietà, banalità quotidiana del suo racconto. Il rovesciamento, però, ci avverte il professore, dobbiamo coglierlo non solo nella struttura della narrazione ma sopratutto nella semplicità, nella povertà spoglia delle immagini e dei mezzi cinematografici di cui il regista volutamente si serve.

La superficie, la pelle delle immagini qui gioca un ruolo decisivo. L’autore vuole che proprio la semplicità, la banalità quotidiana ci sia messa davanti, perché è in essa che noi dobbiamo saper vedere il miracolo possibile, ovvero sapere cogliere un aspetto che non è immediatamente visibile, solo perché non sappiamo o non vogliamo vederlo.

Il miracolo ha a che fare con la paradossalità dello sguardo umano che non riesce a vedere proprio quello ha davanti a sé. Non a caso Wittgenstein, ricorda Di Giacomo, invoca che Dio sappia far cogliere ai filosofi proprio quello che hanno sotto gli occhi e non riescono a vedere. È il miracolo che ci guarisce dalla nostra stessa cecità.

Sotto l’aspetto della vicenda umana che qui si racconta, il miracolo assume la forma narrativa della favola. Un adolescente africano, Idrissa, fugge da un container scaricato su una banchina del porto di Le Havre, dentro il quale ha attraversato clandestinamente le acque territoriali francesi. La polizia, guidata dall’enigmatico commissario Monet, gli dà la caccia per tutta la città. Ad aiutarlo e dargli rifugio è il lustrascarpe Marcel Marx, proprio il giorno in cui sua moglie Arletty è ricoverata in ospedale per un grave tumore che i medici (tacendolo però al lustrascarpe) diagnosticano come inguaribile, senza alcuna speranza.

Il “C’era una volta” della fiaba rimanda a una dimensione di atemporalità, anche se, dovendo rendercela con delle immagini, il regista le mette qui le vesti di gente e di ambienti rimasti per lo più agli anni 50-60 del secolo scorso. La favola, però, tratta di un tema estremamente attuale: quello della immigrazione clandestina. Dunque, l’elemento senza tempo del “C’era una volta” è attraversato da un cruciale carattere di temporalità, attualità. E Kaurismaki, nota Di Giacomo, nella scena in cui due amiche di Arletty le leggono in ospedale il brano di un libro, sofferma volutamente l’inquadratura sulla copertina.

Si tratta dei Racconti di Franz Kafka. Ora in Kafka è proprio l’elemento della temporalità a precludere la possibilità di un significato unico, di una spiegazione definitiva, di un senso compiuto del racconto. Kafka ci mette sempre davanti a un finale, a un problema aperto che non si chiude da sé e su sé. L’autore del film alterna continuamente il registro narrativo della fiaba alle immagini della drammatica realtà attuale relativa alla immigrazione. Favola e realtà le avvertiamo entrambe, simultaneamente, sulla stessa epidermide sensibile, la nostra.

Kaurismaki, suggerisce Di Giacomo, vuole che noi ci poniamo davanti al problema, facendoci però scorgere che sotto quella pelle scorre una speranza, c’è la possibilità di scrivere veramente quella che noi ora chiamiamo “favola”, o l’avverarsi di quello che definiamo “miracolo”. La realtà non è mai buona o cattiva in senso assoluto ma in relazione alla nostra consapevolezza, alla nostra presa di posizione, al nostro impegno.

In un mondo reale come quello attuale c’è bisogno di un rapporto di solidarietà per risolvere il problema tragico della immigrazione. Il lustrascarpe Marcel compie la scelta di mettere in atto la solidarietà, perché anche lui si è trovato un giorno ai margini della società e Arletty gli ha dato aiuto e rifugio, non badando ai pregiudizi e agli inconvenienti sociali derivanti dal suo essere un clochard. Lui è già, in quanto lustrascarpe, un personaggio della favola scritta a suo tempo da Arletty, la quale insiste sempre che Marcel, proprio come Idrissa, è rimasto un bambino.

È questo l’aspetto spiccatamente etico del top direct lenders for payday loans film, sottolinea Di Giacomo. La decisione di Marcel di impegnarsi attivamente e di ritirare fuori tutto il proprio coraggio civile e la propria dignità umana è bene espressa dal suo ritirare fuori dall’armadio l’abito buono poco indossato, per aiutare meglio il ragazzo a oltrepassare la Manica e raggiungere la madre a Londra.

Il comportamento gretto, attaccato alla loro grigia realtà dei piccoli negozianti nei confronti dei quali il lustrascarpe ha maturato un debito lungo e mai rimesso, viene trasformato dal constatare che Marcel non si mette paura neanche di fronte alla pressione rude e incalzante della polizia. Il rovesciamento dal grigiore spento della realtà a quello luminoso della favola lo fa scattare Marcel con la sua scelta di entrare il quella che Hanna Arendt chiama la “vita activa”.

La solidarietà verso il ragazzo scatta anche negli altri. Il lustrascarpe si fa elemento attivo di azione e comunicazione. Il vecchio cantante rock Little Bob torna a sfoderare il meglio della sua musica e della sua mimica per esibirsi e tirare su i soldi necessari a far passare il canale a Idrissa. Di Giacomo coglie una sorprendente citazione cinematografica, un fulminante flashback che ci fa veramente ruzzolare alla metà del secolo scorso. Il rapporto tra il lustrascarpe e il commissario Monet è lo stesso che si instaura in “Casablanca” tra Rick Blaine e il Capitano Louis Renault. Anche in quel film è la decisione di Rick di uscire dal suo disincanto esistenziale e di rientrare nella “vita activa” a determinare la complice solidarietà dell’ufficiale francese.

Nel finale il regista torna a giocare pienamente l’assunto iniziale e il suo rovesciamento. Il miracolo ha a che fare con il paradossale e un ciliegio improvvisamente fiorito al primo e unico raggio di sole tra le costanti nebbie del porto non potrebbero mostrarcelo meglio. Ma il vero paradosso è lo scorrere del prodigio a fior di pelle della realtà e il nostro esiliarlo nella fiaba. (Beh, buona giornata).

*Chi è Giuseppe Di Giacomo ovvero la impossibilità del senso e il dovere etico della forma nell’arte del presente.

Giuseppe Di Giacomo si è formato agli studi estetici con Emilio Garroni, ha ereditato la sua cattedra a “La Sapienza” di Roma e come il suo maestro è diventato uno dei docenti più seguiti dagli studenti e dai cultori di ogni età nella Facoltà di Filosofia.

È uno dei maggiori studiosi contemporanei del pensiero di Benjamin e Adorno, ma fondamentali sono anche le sue ricerche e i suoi scritti su Nietzsche, Lukács, Warburg e Wittgenstein. Nel campo dell’arte i suoi studi investono sia la pittura che la letteratura, da Klee, a Mondrian, a Malevič; da Proust, Dostojewskij Kafka, Joyce e Beckett.

Occupandosi dello scrittore contemporaneo Cormac McCarthy, soprattutto della “trilogia della frontiera” e delle trasposizioni cinematografiche, Di Giacomo sta delineando nelle sue lezioni universitarie una visione del cinema western come forma di narrazione epica moderna.

A partire dalla filosofia critica di Kant, dal prospettivismo nietzscheano, dall’opera estetica di Adorno e dalla concezione dei giochi linguistici di Wittgestein, Di Giacomo proprio perché vede nell’arte del presente l’impossibilità paradossale di giungere o di tornare a un senso finale compiuto, pensa che il lavoro sugli aspetti formali dell’opera costituisca un vero e proprio dovere estetico ed etico dell’artista.

Solo il processo di composizione, di montaggio formale di linee e colori, di parole, versi, ritmo, successione di immagini in movimento può conferire all’arte quella autonomia che la metta in grado di guardare criticamente alla realtà del mondo amministrato, tentando di ridare voce al silenzio di chi non ha potuto esprimersi, a cui è stata tolta la parola e la speranza insieme.

Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, 1989; Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, 1999; Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, 1999; Introduzione a Paul Klee, 2003; Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, 2008; Beckett ultimo atto, 2009; L’oggetto nella pratica artistica, 2010. Sta dando alle stampe un libro sul grande pittore russo Malevič.

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